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sabato 31 marzo 2018

A che gioco giochiamo

Si può ridere di Trump e dei suoi tweet. Delle sue squallide bagasce e dei suoi casinò. Ma intanto il più colossale riarmo americano è stato varato: un budget da 700 miliardi – era la metà quindici anni fa, con le guerre in Afghanistan e in Iraq in corso. Di cui non si parla. Anche se contempla missili “imprendibili” e l’abbandono del sistema di sicurezza nucleare.
Un riamo camuffato sotto un Russiagate che sembra, dopo tre anni di depistaggi, l’inchiesta di Piazza Fontana. Una trama interminabile di servizi segreti “deviati”, cioè in linea con politiche non dichiarate.
Gli Stati Uniti si direbbero in mano ad almeno tre servizi segreti, la Cia, la Nsa e la stessa polizia federale, di cui non si può non presumere l’inefficienza. Per l’incapacità esibita in tutto l’arco del Millennio, da Al Qaeda all’Is, dall’incredibile “11 Settembre” alla “primavere arabe”. Giocati con la mano sinistra da Putin in Siria, e dall’Iran in Iraq. Covi di carrieristi politici, quando non sono trafficanti – di informazioni, indiscrezioni, dossier. Mentre passa il più colossale riarmo americano dai tempi delle “guerre stellari”, sotto silenzio.
O forse gli Stati Uniti non sono preda della disinformazione, è tutto teatro. Ma il mondo sì, o almeno l’Europa, che viene chiamata a pagare. Suona sinistra la spensierata insolenza americana.

Come combattere l’alzheimer

Si cantava, è vero. Ma poche altre sono le sorprese di questo “amarcord”. E il sesso-ossessione, certo. Era un altro mondo: è il punto d’appoggio di questa narrazione degli anni che corrono – abbiamo cambiato mondo e non lo sappiamo.
Un racconto minuzioso, quindi lento, tra memoria personale e la vecchia storia francese della vita quotidiana. Di un’epoca probabilmente impareggiabile – magistrale il racconto del ’68, in poche pagine, specie al paragone con le prolisse trattazioni negazioniste di moda per i cinquant’anni. Fino al 1973. Alla guerra del petrolio che rigerarchizzò il mondo. Al terrorismo che riportò gli Stati alla polizia. E alla “società dei consumi” che da allora ci governa, sotto vari nomi, dal neo capitalismo alla globalizzazione. Nel “tempo delle cose”: della divisione, l’incertezza, l’insicurezza – “alla fierezza di ciò che si fa si sostituiva quella di ciò che si è, donna, gay, provincial, ebreo arabo, etc.”.  Si vive da sopravvissuti.
Una miniera delle cose, le parole, le azioni, le riflessioni quotidiane del tempo di una vita. Di linguaggio ricco. Di evocazione poetica – lirica. Stanca a volte, un’evocazione lunga trecento pagine, ma presto di nuovo vivace: un’antropologia si tesse, minuta e, per questo stesso fatto, grata.
La filigrana di una vita, classe 1941. Come una rivisitazione della memoria, che sconfigge l’oblio, la malattia del millennio – l’“alzheimer”. Un esercizio terapeutico. La storia minuta: il tempo è scandito dalle canzoni, da generali e presidenti di Francia, spiagge d’estate, anonime, libri, banchi e cortile di scuola, gesti per lo più inconsulti. Non un diario, una ricreazione. Di memorie immemoriali, che il lettore condividerà per il potere di evocazione. A meno che non sia stato – non sia, il successo perdura – un ritrovamento generazionale, dei settantenni, i nati in guerra e i baby-boomers subito dopo.
Il piccolo mondo antico aggiornato e depotenziato. In pillole, secondo una tradizione francese del frammento di sapore avanguardistico, da Sollers a Guignard - ma poi classica, da Baudelaire indietro ai moralisti. Col “si” impersonale alla  Arbasino, testimone del tempo e non protagonista, osservatore umile e tagliente, mentre è di sé che “si” parla. Ne viene fuori una storia vera, anche dettagliata, personale, familiare, della Francia, un po’ del mondo, dagli anni 1940 in qua: la narrazione della storia, non di una storia. 
Annie Ernaux, Gli anni, L’Orma, pp. 276 € 16

venerdì 30 marzo 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (358)

Giuseppe Leuzzi

Il Sud era il Reame già nel Cinquecento. Francesco Vettori ne scrive incidentalmente, viaggiando verso la Germania, a proposito di un abruzzese incontrato fuori Bologna: “Uomo da bene, io ho quaranta anni e sono da Pescara nel Reame”.

Lo stesso Vettori trova cosa strana da segnalare, nel suo “Viaggio in Germania”, un “castelletto sul Reno chiamato S. Pietro”, dove “era il dì, come interviene e’ paesi nostri, che certi scioperati stanno in su l’osterie a parlare con chi va a torno”.

Il razzismo è senza fondo
Toni Morrison, la grande dame della letteratura americana, nera, 87 anni, Nobel 1993, riceve  l’americanista Luca Briasco per “il Venerdì di Repubblica”, a casa sua – Birasco ne riferisce nel numero del 16 marzo. Una villa su due piani, di cui l’anziana scrittrice occupa il secondo. Impedita dalle scale, manda ad accogliere l’intervistatore la governante. Una signora italiana.
Fra i tanti ricordi Toni Morrison ne ha uno italiano. Un ricordo d’infanzia, benché l’abbia vissuta in  uno sperduto villaggio dell’Ohio, anzi proprio per questo. “Io sono nata nel 1931 a Lorain, Ohio”, racconta a un certo punto: “Un villaggio povero e proprio per questo misto. Alle elementari il mio compagno di banco era un italiano: Ario Jacobazzi. Non parlava una parola di inglese e lo misero vicino a me: dovevo aiutarlo. Una volta per insultarmi  mi chiamo «eritrea». E allora? mi chiesi. Non avevo idea di cosa significasse «eritrea» per un italiano”.
Erano gli anni 1930, certo, scusabile. Ma il figlio chiamato Ario? E quell’eritrea in bocca al bambino, certo di origine genitoriale - grossi “conflitti” si immaginano per il proprio bambino messo accanto a una nera. Non in virtù della desegregazione, lontana ancora anni luce.
Resta che negli anni 1930 gli Usa non distinguevano, non tra un italiano e un’afroamericana. Il razzismo e difficile. Si può dire anche egualitario, nella sua superiore albagia.

Le palme dismesse
La festa si chiama ancora delle Palme, ma le palme sono state dismesse, soppiantate dal più pratico rametto di ulivo. Che si ritrova anche al Nord, mentre la palma è proprio meridionale, un uso anzi greco, della cristianità ortodossa. A Betlemme e Gerusalemme la giornata si celebre ancora con le palme. A Roma hanno perpetuato l’uso per anni i rumeni, ortodossi, provvisoriamente, da clandestini e poi irregolari, in anditi riposti attorno al colonnato di San Pietro, l’unico luogo dove reperire la palma, volendo conservare la tradizione - le tradizioni si perdono, si abbandonano anche, in cambio di nulla. In pura perdita.
Quest’anno i rumeni non ci sono, forse hanno fatto fortuna, non hanno più interesse al piccolo commercio domenicale. Sulla via della Conciliazione non s’incontra anzi nessuno che abbia in mano la palma da benedire. Né tra i borghi adiacenti. In piazza della Città Leonina giusto un cardinale s’avanza eretto lento, trascinando i piedi, verso la foresteria-residenza, con un bellissimo monumentale intreccio di palme scintillante sul braccio. Non scoraggia la domanda, ma risponde ironico: “L’ho avuta in San Pietro. La danno ai vescovi e ai cardinali”. Finché, ripercorrendo lenti la via della Conciliazione un giovane s’incontra, fermo accanto a un trolley, da cui il ciuffo di una palmetta spunta. Richiesto dove se l’è procurata, apre il trolley: le vende.
È contento. Non sa che prezzo chiedere. Una moglie ragazza emerge accanto a lui, cui il giovane chiede in dialetto. “Sardi?” “Di Cagliari”, il giovane risponde orgoglioso accentuando il sorriso. “Due euro”, dice incerta la ragazza. Molto meno di quanto chiedevano i rumeni gli anni passati. Per un rametto poco lavorato, solo sbucciato. Mentre questi della giovane copia sarda sono intrecciati in variati complicati motivi, a rete, a ruota, a fiore. Fa male che ci sia gente, giovane, che viva di così poco. Che consideri un prezzo due euro.
È una bella giornata di sole. Papa Francesco finisce di dire i suoi scherzi ai giovani dopo l’Angelus, nel piccolo bagno di folla selezionata per i selfie da postare, incoraggiando i giovani a ribellarsi, e le donne pure. E si ritira. Non fa il previsto giro della piazza, prolungato quest’anno su via della Conciliazione. Le transenne vengono allora smontate, i militari di guardia al percorso si ritirano, la sicurezza si allenta. Ci disperdiamo con i fedeli di vario eloquio convenuti per la benedizione. Il giovane non s’incontra più. La ragazza è affiancata da una matrona, madre o suocera. Un bambino offre le palme ben dispiegate su una cesta. Il nostro acquisto li avrà liberati. Oppure non hanno più motivo di temere le guardie. È la tipica famigliola rom. Di Cagliari, orgogliosa. Operosa. Certo, con cautela: il cesto delle palmette in mano al bambino è al sicuro, le guardie non potranno fargli nulla. Saranno stati rom anche i rumeni degli altri anni? I custodi della tradizione.

La lingua del Nord
Colm Tóibín, il romanziere irlandese, ha scoperto “la verità del Nord” (“The hard-won Truth of the North”, in “The New York Review of Books”, 9 luglio 2015): uno “stile nordico”, che “non è né ornamento né esaltazione: è fiero e quasi desolato nel suo scopo”. Non imperialista, anzi ritroso: la verità del Nord parte dalla  constatazione che “il nostro tempo sulla terra non fornisce ragione o necessità di dire altro che quanto è necessario; il linguaggio è quindi un forma di calma, di modesta conoscenza o forse anche di evasione”. Saranno stati quindi Seneca, Plinio, Dante, anche Galileo, nordici?
Ma più che la concisione, fa il Nord la tristezza. “È come se certi paesaggi, inclusa la Svezia dello scrittore Stig Dagerman (che morì nel 1954 quando aveva trentun’anni), avessero un loro proprio suono. Paesaggi nordico me il suo ci arrivano senza elaborata descrizione o abbellimento, o una qualsiasi mostra di compiacimento. La luce è scarsa, e così anche l’emozione è razionata, o tenuta dentro e mai compiaciuta”. Il saggio prosegue con lo “spirito diffidente”, il tempo avverso (“nebbia, vento, nuvole, giorni brevi”), e “la prossimità del mare, il clima mutevole, la povertà o la memoria della povertà”, un concorso di cause che fanno del Nord “un mondo in cui poco si può ritenere garantito”. E dei suoi scrittori e poeti una sorta di minatori, che “hanno scavato questo senso di scarsità e trovato una poesia austera, una verità a caro prezzo”. Se non che leggendo Dagerman questo non emerge, o Thomas Tranströmer, che Tóibín porta a esempio – o Hamsun, nemmeno in Ibsen.
Lo stesso nelle immagini, pitture o film, di “certi artisti visuali nordici”: “Ombre grigie, luce soffusa, un senso di colore slavato, spettralità e sofferenza, con un’aura di assenza e occultamento di chiare informazioni, e la presenza di forti e austeri drammi, appaiono anche nel loro lavoro”. Forse Tóibín non visto Antonioni, o il Pasolini dei drammi, o anche solo Carrà. Ma certo c’è una specificità nordica, la volontà di essere.

leuzzi@antiit.eu

La fede non è rispettosa

A trent’anni il fluviale Chesterston (un centinaio di libri in cinquant’anni di vita, altri duecento a sua iniziativa e col suo contributo, centinaia di poesie, con un poema epico, cinque drammi, cinque romanzi, almeno duecento racconti, con padre Brown e senza), benché non ancora cattolico, è già nonconformista. Perfino brutale, seppure con grazia – il finto burbero. Assiomatico. “Infinitamente più assurdo e molto meno pratico che bruciare un uomo per la sua filosofia è l’abitudine di dire che la sua filosofia non ha importanza”. Il XXmo secolo segna la decadenza del periodo rivoluzionario.. Chi ha cercato la libertà la voleva come veicolo di conoscenza, cosmica, filosofica, religiosa, e non di indifferenza. Inquisizione e processo Wilde, il modello è uguale ma questo è ridicolo. La religione è “la cosa realista per eccellenza”. E siamo alla p. 10. La fede non è rispettosa: “Non ci può essere e non c’è mai stato un cristianesimo senza coribanti” – “holiday”, la vacanza inglese, è il “giorno santo”.
Più che mai Chesterston si vuole qui un dandy, Oscar Wilde non trasgressivo. O sì, ma non aggressivo – giusto per il “vantaggio di essere incompresi”, che lascia liberi. Problematico. I realisti moderni sono terroristi, anche se per una ragione: “Realisti e dinamitardi sono persone egualmente bene intenzionate che si consacrano al compito manifestamente disperato di utilizzare la scienza per incoraggiare la morale”. Nella storia trovando a sorpresa verità più strane che nella finzione: “Dev’essere così perché abbiamo creato la finzione a nostro comodo”. E non problematico, anzi più sesso “wildiano” in senso proprio – aforistico. Il gentleman è uno stoico perchè è una specie di selvaggio. O l’“inesistente Irlanda” che conquista tutti. “I giovani leggono le cronache, i vecchi il giornale”. L’America non è “né nuova né intatta”.
A trent’anni Chesterston aveva abbastanza collaborato col “Daily News”, giornale liberale, da poterne estrarre un libro di trecento pagine, di successo, rielaborando gli scritti d’occasione tematicamente. Su temi di letteratura, e di avria umanità. I saggi su H.G.Wells e Kipling, più che quello su Shaw, sono ancora nuovi, come intonsi. Quello sulla “stampa gialla” fa stato pure oggi, un secolo dopo – anzi a maggio ragione oggi, con la cronaca giudiziaria sui rostri. O l’ecologismo: “I sandali e la semplicità”, a metà raccolta, andrebbe riletto per fare giustizia di tanti falsi assunti, da cottuttela, e per risparmiare.
Gilbert K. Chesterston, Eretici, Lindau, pp.264 € 22

giovedì 29 marzo 2018

Secondi pensieri - 340

zeulig


Dio - Sua è l’ontologia che si cerca e il pensiero del niente: non il nichilismo ma la religione. Il Filosofo è il Creatore, che crea dal Nulla, si sa, magari ritirandosi un po’ e mettendoci del suo, lo zimzum d’Isacco Luria. Sua, di Dio, è nella metafisica la coincidenza di essentia e existentia, pensiero e atto.
Può essere che, alzandosi tardi, non si vedano che tramonti. Cercando Dio. Il fatto è che, da Platone a Heidegger, è tutto un girare attorno a Dio, a ciò che non sappiamo e non possiamo dire - il tormento del diavolo. E che Dio ha fatto zimzum a favore del diavolo, e poi l’ha lasciato invidioso.

La filosofia è come la chiesa: c’è più fede nella chimica, la fisica, la biologia, l’astronomia. Perfino nella storia, anche se incerta. E non è bene, non per la chimica, la fisica, la biologia, l’astronomia.

Ecologismo – È un business, l’industria dell’anti-inquinamento (della protezione ambientale, del riciclo, dei consumi alternativi), e questo ne spiega i limiti. Mentre dovrebbe essere semplicità e umiltà,  i cardini dei suoi fondamenti, che sono tolstojani. Ed è una retorica. Non è semplicità e necessità, è il “discorso su” semplicità e necessità. Con l’esito di indebolirne i presupposti: il fatto di parlare continuamente della sua valenza unica e obbligatoria lo rende meno unico e obbligatorio. Tanto più per accompagnarsi a un presupposto di razionalità, dell’obbligo come un dato imperativo, di una coscienza o spirito secchi, “naturali”. Contro tutti i presupposti della teoria morale ecologista: le teorie morali sono dure e complicate, illusorie anche, specie quelle tolstojane della vita semplice e pensieri elevati.
È un ramo d’industria nato con la presidenza Nixon nel 1968, e questo ne spiega l’impianto. È un a nuova industria. Il partito dell’Ecologia è nato con la crisi, l’appello ai limiti dello sviluppo fondendosi con la critica all’abuso della natura. È nato a Roma con la crisi petrolifera del 1973. Il Club di Roma datava peraltro dal 1968. E lo studio che lo lanciava, “I limiti allo sviluppo”, commissionato nel ’68 al Massachusetts Institute of Technology,, era del ‘72. Subito dopo l’elezione, già nel ‘68, Nixon aveva sollevato il problema dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua, affidandone la soluzione alle industrie. Le compagnie petrolifere, chimiche e automobilistiche si sono subito contesi gli spazi pubblicitari in America per celebrare ogni anno l’Earth Day, la festa della terra - in politica i discorsi sono presto fatti, anche se si tratta in realtà di affari (se c’è una politica che non sia affari). Il più consistente interesse pubblico, l’ambiente, era e resta in  America privato – come la sanità: è  un mercato.

Natura – Viene, storicamente, dopo. Dopo il linguaggio e la riflessione. L’artificioso è più antico del naturale – come la ritualità precede la religione. L’amore è altrettanto antico, o forse di più, della fame. E quando del naturale non è artificioso, opera del linguaggio?

Spionaggio – È un attacco alla personalità dell’avversario, più che il trafugamento dei suoi segreti. Come una penetrazione della sua intimità più segreta, più personale, e non dei suoi segreti professionali  istituzionali. È anche essere superiori, nel senso di più esperti, abili, manovrieri. E il suo segreto – la sua arma - è rendere noto questo segreto, questa capacità di manovra. “Mi sorprende che voi e l’MI5”, dice a un certo punto un poliziotto al capo dei servizi segreti nel voluminoso “Un gusto per la morte” di P.D.James, ex funzionaria del ministero dell’Interno britannico, “non incoraggiate regolari scambi d’informazione col Kgb. Avete più cose in comune con loro che con chiunque altro”.
Si vede oggi che lo spionaggio si è trasferito sulla rete e sulla nuvola, senza più la retorica delle carte o documenti da trafugare, o le conversazioni da carpire, con le registrazioni o con il personale di servizio. Già nel vecchio spionaggio, stando al suo narratore e teorico Le Carrè, la spia provvedeva “informazioni di second’ordine, la cui attrattiva  sta nella segretezza gotica della sua acquisizione, più che nell’oggetto dell’informazione”. Del Russiagate il fulcro è la paura della frontiera digitale perforata, agevolmente – anche se non è una grande impresa: i dati erano, e sono, pubblici. E quindi di manipolarli – anche se non è possibile, o comunque è senza effetto. Non si vede come Putin abbia potuto contribuire via internet all’elezione di Trump, ma la percezione che lo poteva fare,  e quindi lo ha fatto – la paranoia – è una prospettiva più attendibile dello spionaggio (che Putin l’abbia praticata o no). L’azione di spionaggio è dare la percezione all’avversario di una sua debolezza o faglia.
Le stesse storie dello spionaggio rivalutano ora il suo aspetto intimidatorio, alla Le Carrè, mentre sminuiscono o ridicolizzano la fuga di notizie e documenti. Dei documenti trafugati a Mosca dalle  spie inglesi celebri degli anni 1960, Burgess, Philby, si è saputo che molti non erano nemmeno stati tradotti in russo. Anche perché Philby, che pure visse onorato a Mosca, schiaffo vivente alla sicurezza britannica, era considerato dal Kgb, il servizio segreto russo, un infiltrato, una pedina di Londra. E viceversa, emerge dagli archivi moscoviti una segnalazione precisa sulla decisione di Hitler di attaccare la sua alleata Unione Sovietica a metà 1941. La inviò Richard Sorge, agente sovietico a Tokyo, specificando anche il giorno dell’attacco, il 20-22 giugno – Hitler attaccò il 22. Ma il Kgb e Stalin consideravano Sorge un “insabbiato” nella dolce vita di Tokyo, e le sue informazioni inventate.

Umiltà – È la virtù cristiana per eccellenza,e  l’arma della conquista, dello spirito di progresso che anima l’Occidente, il cristiano. È la tesi di G.K.Chesterston, nel saggio “G.H.Wells e i giganti”, incluso nella r accolta “Eretici”: “Tutto il segreto del successo pratico del cristianesimo risiede nell’umiltà cristiana,per quanto imperfettamente essa sia stata realizzata. Perché le questioni di merito e di ricompensa escluse, l’anima si trova così liberata per i più meravigliosi viaggi. Se chiediamo a un uomo sano di spirito ciò che merita, si ripiega su se sesso istintivamente e istantaneamente. Dubita se merita anche solo sei piedi di terra. Ma se gli domandate ciò che può conquistare, può conquistare le stelle”.


zeulig@antiit.eu

L’Italia torna magica, in francese

Racconti surreali di Palazzeschi, Baldini, Lisi, Zavattini, Morovich, Moravia, Landolfi, Bontempelli, che  Gianfranco Contini, allora professore a Friburgo, ebbe l’idea di presentare tradotti in francese nel 1946, con l’intento non recondito di riambientare la cultura italiana nell’ambito europeo. Una scelta, diceva Contini nella breve presentazione, col tono a lui estraneo dell’imbonitore, che “taglia nella incredibile ricchezza della letteratura italiana una prospettiva interessantissima anche se non molto divulgata”.
Gli scrittori antologizzati non hanno del resto nulla o pochissimo in comune. Se non quel “realismo magico” che l’Europa accoppia alla migliore letteratura italiana dopo Pirandello. Una scelta allora anche controcorrente, poiché la narrativa italiana del dopoguerra già si adagiava nel neo realismo
Racconti bizzarramente contemporanei, in questa ripresa dell’edizione del 1946, come se il Millennio non fosse andato lontano dagli anni 1930. E più gradevoli che misteriosi o minacciosi.
(sono parole di Contini):
L’antologia è stata rieditata da Einaudni trent’anni fa, con i testi originali italiani.
Gianfranco Contini, (a cura di), Italia magica, Libretto, pp. 272 € 9.70

mercoledì 28 marzo 2018

Problemi di base turchi - 408

spock

Che fine hanno fatto i tre miliardi che Merkel ha voluto dessimo a Erdogan?

O erano sei?

Sono bastati per i 900 km. di muro con la Siria, contro i profughi?

Ma è un muro double-face, se Erdogan può entrare in Siria anche con i cannoni?

E dopo: gli abbiamo mandato carri armati e mitra, gli abbiamo mandato anche abbastanza gas?

“Nella lotta millenaria fra cristianità e islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa” (C. Schmitt)?

spock@antiit.eu

I tedeschi non hanno colpa

“Naturalmente  gli elenchi sono sempre squallidi, soprattutto se squallide sono le cose da elencare, ma in casi speciali può essere necessario compilarli”. L’occhio di Dagerman non impassionato, ma eloquente. Non di proposito, ma di fatto: nella ripetizione, nella assoluta mancanza di respiro, di luce, e di colpa. La guerra brutta della Germania è il dopoguerra: fame e sporcizia, e prostituzione per fame. “Non siamo stati puniti abbastanza” è lamento onesto. “La sofferenza tedesca è collettiva mentre le crudeltà tedesche, nonostante tutto, non lo furono”.
Un reportage problematico dalla Germania a un anno e mezzo dalla sconfitta. È il secondo autunno dell’occupazione, e Dagerman dà voce a una Germania già revanscista. Tenuta alla fame e al freddo dagli occupanti occidentali. Che la umiliano anche con una denazificazione ipocrita, lasciando al loro posto e anzi promuovendoli i veri nazisti – quando non li processano e li impiccano per loro leggi ipocrite. Assediata dai comunisti a Est, russi e polacchi, che la invadono con sette milioni di rifugiati, gli espulsi dalla vecchia Germania della Galizia e della Slesia. Tradita dai partiti politici, specie dai socialisti, ma anche dai cattolici, manutengoli degli occupanti, che vogliono farla votare per il Parlamento. Per non parlare dei bombardamenti.
Siamo al secondo autunno della sconfitta – alla vigilia del piano Marshall, e del boom. E qualche colpa gli altri l’avranno pure. Ma è uno strano nonconformismo, questo del giovane anarchico Dagerman, inviato dal quotidiano di Stoccolma “Expressen” a raccontare la sconfitta, non da gionalista, per evitare i cliché , ma da fresco sposo di giovane anarchica tedesca. Come strana è la riproposizione di questa sua opera, fra le tante che pur morendo di trentun’anni (suicida) ha lasciato: tre volte in Italia dalla caduta del Muro. A Torino con Il Quadrante, e a Milano con Lindau, prima che con Iperborea - sempre con la traduzione di Massimo Ciaravolo e la cura di Fulvio Ferrari, “L’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possible” (qui con l’aggiunta di uno scritto simpatetico di Giorgio Fontana).
Un libro si direbbe vecchio, della miseria che inevitabile segue le guerre perdute. Ma dall’intento revisionista, seppure anarcoide, dichiarato. La mancanza di memoria è assordante, da sincope. A partire dagli sfollati, un fenomeno avviato da Hitler, come “rimpatrio”, e poi moltiplicato negli accordi con Stalin, per uno scambio di popolazioni, nell’ottica della purezza etnica. Non mancano i cliché. “L’unica forma di educazione democratica finora intrapresa dagli alleati “ è di “insegnare il baseball ai ragazzi”. La denazificazione è una ridicola procedura imposta dagli Americani, che porta a processare tutti gli iscritti al partito Nazista – come dire: tutti processati nessuno processato. I processi a catena nei tribunali sono ridotti a una pacchia per i testimoni a discarico, che sempre si trovano, per 200 euro. Il terz’ultimo capitolo, l’ultimo delle cose viste, “Nel bosco degli impiccati”, termina così: “Un giurista nazista raccoglie la legna in un bosco dove appena due anni fa i nazisti hanno impiccato dei bambini”, mentre più in là “gli americani sparano al cinghiale con le munizioni della vittoria”.
Dagerman, che nella foto del 1946, poco più che ventenne, si vede brevilineo e paffuto, il tipo del bonaccione, è amareggiato dalla vittoria. Non lo nasconde. Dal malgoverno della vittoria, ma con una distinta rimessa in gioco delle responsabilità nella guerra. Parte da lui il revanscismo sui bombardamenti, che poi sarà agitato da Vonnegut, Sebald e molti altri.
La guerra aerea non è onorevole. E gli Usa, che ne hanno il dominio, ne abusano. Con la tendenza a privilegiarla, anche se non risolutiva – non tanto quanto è distruttiva. Ancora recentemente, hanno “vinto” in Afghanistan e in Iraq in pochi giorni con i bombardieri, salvo ritrovarsi impantanati in guerre endemiche sul terreno da decenni  – per l’incapacità anche di ricostruire: l’Europa e il piano Marshall sono felici eccezioni. Ma gli Alleati non possono avere la colpa dell’infelicità dei tedeschi se quindici mesi dopo la fine della guerra non ci sono abitazioni civili e non c’è il riscaldamento – di fame non si moriva.
In filigrana peraltro, contro l’impianto, questa raccolta delle tredici corrispondenze di Dagerman (scritte non a caldo, ma dopo il ritorno a Stoccolma, e riviste per la ripubblicazione in volume) ha notazioni anche “rivelatrici”. Nessuno in Germania ha denunciato nessuno, tutti ascoltavano in segreto radio Londra, e aiutavano un ebreo, o avevano un parente o buoni conoscenti ebrei. Un reduce di Stalingrado, “diventato un filo-russo fanatico perché non è stato fucilato alla cattura”,  racconta “ininterttamente di come una volta i suoi commilitoni rivestirono il parapetto di un ponte di cadaveri russi nudi, per il divertimento di scattare una fotografia davvero unica”. Un autore tedesco che Dagerman apprezza dice suoi anni più felici quelli della guerra, per aver contribuito con le sue conferenze nella Francia occupata “all’avvicinamento tra cultura tedesca e cultura francese”. Di più: “Dice, nonostante tutto, di avere apprezzato la Resistenza francese e di altri Paesi ma non quella tedesca, ingiustificata dal punto di vista nazionale”. Perché, spiega convinto, “solo chi non sapeva tenere il becco chiuso finiva in campo di concentramento.  Perché non hanno taciuto cercando di sopravvivere per questi dodici anni?”. O della viltà come virtù – non è per caso che non c’è ancora una storia della Resistenza tedesca, che fu la maggiore per ampiezza e continuità in tutta Europa.

Dagerman non può negare la colpa collettiva, che i tedeschi sapessero. Ma solo incidentalmente, riferendo di un processo di denazificazione, le Spruchkammern, cui ha assistito, con un resoconto a doppio taglio. “Uno dei testimoni ebrei” spiega al giudice: “Nello stabile del signor Sinne”, il portiere (capofabbricato) sotto giudizio, “abitava un alto funzionario del partito, ma, com’era tipico, non avevamo mai paura di lui. Del signor Sinne invece avevamo paura tutti. Il Signor Sinne non apparteneva ai vertici nazisti, era una di quelle ruote dell’ingranaggio così silenziose, fedeli e spaventosamente efficienti senza le quali  la macchina nazista non avrebbe funzionato un solo giorno”. Una testimonianza molto “scritta”, compreso l’ebreo inquilino dello stabile del signor Sinne, che nel 1946 poteva raccontarla. Ma sa molto di vita quotidiana. Mentre i “vertici nazisti”, come si sa, non si occupavano di ebrei.
Stig Dagermann, Autunno Tedesco, Iperborea, pp. 159 € 16

martedì 27 marzo 2018

Letture - 339

letterautore

Bandello – Di “sontuosa cattiva coscienza” lo trova Manganelli. E Shakespeare, che ne drammatizzò le storie? .

Imperialismo – Viene con il romanzo. Nel Medio Evo. È tesi ardita ma spiegata di Chesterston in “Eretici”, nel saggio dedicato a Wells. Con l’imperialismo del secondo millennio, si direbbe oggi,  cristiano, occidentale. Si sviluppa in effetti, nel Mediterraneo, con le Crociate, in contemporanea con i cicli narrativi cavallereschi e cortesi.

Kipling – Il suo militarismo non come bellicismo ma come organizzazione, e senso del dovere. Di uno che per formazione e propositi, non era nazionalista ma cosmopolita. In grado di apprezzare la diversità, e anzi di magnificarla. Dai meccanismi psicologici contorti perché derivati da una esperienza complessa: inglese in India, indiano a Londra.

Machiavelli – È “l’amaro messer Niccolò” di Gadda. “Historico comico et tragico” a suo dire, scrivendone a Guicciardini).

#metoo – Ha un precedente, tra il 2004 e il 2015, che fece scalpore, ma a parti rovesciate: la denunciatrice fu supposta molestatrice, il denunciato vittima. La presunta vittima di molestie sessuali era Naomi Wolf, il presunto molestatore Harold Bloom. L’autrice di “The Beauty myth”, nel 2004, il 23 febbraio, in crisi di astinenza dopo il successo del suo trattatello quindici anni prima,  pubblicò un voluminoso articolo, che diventò la storia di copertina, sul settimanale “New York”, in cui minutamente scrisse di essere stata molestata da Bloom quando aveva vent’anni, e studiava a Yale. La molestia concentra inizialmente in poche righe, solenni, per catturare l’attenzione: “Nel tardo autunno del 1983, il professor Harold Bloom fece qualcosa di banale, umano, e distruttivo. Mise la mano sull’interno della coscia di una studentessa. Una studentessa cui lui aveva il compito di insegnare. La studentessa ero io, una ventenne senior a Yale”.  
Il seguito dell’articolo, quindici pagine A 4, è su una lunga pretesa querelle con Yale, con la dirigenza della università, chiamata sempre “alma mater”, sulla necessità di intervenire contro il professor Bloom, anche se a distanza di anni, e anzi di intervenire su una pratica di molestie che lei afferma diffusa, nel campus e fuori. Presunta perché Yale non rispose mai né prese posizione.
La denuncia che Wolf fa di Bloom è dettagliata - ben scritta, boccaccesca più che drammatica. Bloom aveva raccomandato Wolf per la borsa di studio, che lei aveva ottenuto. Poi non l’aveva più incontrata. Lei gli aveva mandato le sue poesie, e lui niente. Allora lei l’aveva invitato a cena, nella casa che condivideva con un assistente di Bloom e la sua compagna. E lui venne. Cena a quattro, a lume di candela, si bevve, “una cosa da grandi”, racconta Wolf sul “New York”: “Poi gli altri se ne andarono e – finalmente! – pensai potessimo discutere il manoscritto delle mie poesie. Lo poggiai tra di noi. Lui non lo aprì. Non lo guardò nemmeno. Si piegò verso di me e avanzò la sua faccia a pochi centimetri dalla mia: ‘Hai un’aura di elezione su di te', sospirò… Sperai che parlasse della mia poesia. Mi ritrassi, presi il manoscritto e lo girai perché potesse leggerlo. La cosa successiva di cui mi accorsi, la sua pesante manomorta era calda sulla mia coscia. Balzai via… Il pavimento girava. Ora stavo con la schiena contro il lavello. Mi si avvicinò. Mi girai verso il lavello e mi trovai a vomitare per lo shock. Bloom sparì”.
Bloom allepoca lavorava al Canone occidentale, che uscirà nel 1994. L’articolo suscitò molti commenti. Molti negativi. Camille Paglia parlò di “caccia alle streghe” al contrario. Yale non intervenne, neanche allora. Bloom rispose dieci anno dopo, sul settimanale “Time”, brevemente nel corso di una lunga intervista con Daniel D’Addario: “Mi rifiuto perfino di nominare questa persona. La chiamo la figlia di Dracula, perché suo padre era uno studioso di Dracula. Non sono mai stato nella mia vita in un interno con la figlia di Dracula. Quando venne a casa mia non richiesta, il mio figlio più giovane la mandò via. Una volta, stavo andando al campus, mi incontrai con lei che disse: “Posso accompagnarla, professor Bloom?” Io non dissi nulla”.

Neo realismo –Sembra ad esso indirizzato, una critica radicale con mezzo secolo d’anticipo, il limite che Chesterston rileva in “Eretici”, la raccolta di saggi del 1905:. I poveri degli scrittori suonano male perché gli scrittori sono realisti mentre i poveri hanno molti altri vizi, ma non sono «realisti. Il melodramma ne riflette meglio il senso della vita – meglio rispetto al racconto realista che è più artistico (artefatto) che veritiero: ”Per tutto ciò che è leggero, brillante e decorativo, il racconto realista è meglio del melodramma. Ma il melodramma ha sul romanzo realista il vantaggio di somigliare molto di più alla vita”.  

Razzismo. Toni Morrison racconta a Luca Briasco sul “Venerdì di Repubblica” il 16 ottobre: “Io sono nata nel 1931 a Lorain, Ohio: un villaggio povero e proprio per questo misto. Alle elementari il mio compagno di banco era un italiano: Ario Jacobazzi. Non parlava una parola di inglese e lo misero vicino a me: dovevo aiutarlo. Una volta per insultarmi  mi chiamo eritrea". E allora? , mi chiesi. Non avevo idea di cosa significasse «eritrea» per un italiano”. Erano gli anni 1930, certo, scusabile. Ma il figlio chiamato Ario? E quell’eritrea in bocca al bambino, certo di origine genitoriale - grossi “conflitti” si immaginano per il proprio bambino messo accanto a una nera. Ma l’italiano accanto alla nera? Negli anni 1930 gli Usa non distinguevano. Il razzismo è difficile.

Romanzo – Nasce nel Medio Evo, “prodotto puramente cristiano”. In una con lo spirito di conquista. Nasce dall’umiltà cristiana, è ipotesi di Chesterston in “Wells e i giganti”, uno dei saggi della raccolta “Eretici”. Uno dei tanti argomenti sorprendenti di questa raccolta, non avventato: “Non c’è cosa per la quale gli uomini facciano sforzi prodigiosi come le cose di cui si sanno indegni”.
Nell’umiltà, insiste Chesterston, “l’anima si trova d’improvviso liberata per i i più meravigliosi viaggi”. L’uomo più umile, che esercita al massimo l’autocritica, si libera ai voli più sfrenati della fantasia quando si tratta non più di sé ma del possibile: “Può conquistare le stelle. Così nasce il romanzo, prodotto puramente cristiano. Un uomo non saprebbe meritare le avventure: non può vincere dragoni e ippogrifi. L’Europa medievale che professava l’umiltà s’inventò il romanzo, e la civiltà che inventò il romanzo conquistò il globo intero”. 


letterautore@antiit.eu

La coppia scoppia a Roma

Un inedito dell’autore di “Coppie” ambientato a Roma. Un racconto breve-lungo, sull’eterno lasciarsi-prendersi di coppia. Qui senza adulteri, che è la cifra dello scrittore. Ma con notevoli pietre d’inciampo.
Un racconto su una città che non è, per una volta, un fondale: è con Roma che Updike fa dialogare la sua coppia, insieme e disgiuntamente. Con i sassi, le prospettive, i saliscendi, il caldarrostaio, e le mance, purtroppo – il racconto sa di anni 1960. Sbarcano a Roma, la città dei morti, come se fosse viva e reale, anche se vi sono soltanto turisti. Un evento notevole per dei viaggiatori e un racconto americani: è anche ritrovarsi lontano come vicino, in un mondo sempre proprio - l’americano, se non viene dal New England, è un po’ straniero ovunque, a Sud del Rio Grande e a Nord del Niagara. A Roma perché anch’essi vivi e morti come la città.
Un  racconto vivace, ma anche paradigmatico. Per contrasto, la narrativa americana del secondo Novecento (di Updike come di Cheever, Bellow, Philip Roth, Singer, Mailer in parte) il racconto ha l’effetto straniante di ipostatizzare in forma di “chiacchiera” attorno alla coppia – l’inedito del “Robinson” esce con la riedizione di “Coppie”, il romanzo più celebrato di Updike. Attorno al prendersi-lasciarsi, per nessun’altra ragione e argomento che filosofemi di bassa psicologia o psicoanalisi. Effettuali – qui danno a lui quasi un’ulcera – ma senza ragione. Se non, si sarebbe detto un tempo, da borghesia insoddisfatta e incapace – insoddisfatta perché incapace e viceversa (altro filosofema?).   
John Updike, Letti gemelli a Roma, “Robinson”

lunedì 26 marzo 2018

Ombre - 409


Che succede in questo Parlamento, a metà di Di Maio e Salvini? Che “la senatrice grillina Lezzi dice: «Ho votato turandomi il naso»”. Anche lei come Montanelli. Montanelli ha proprio modellato il giornalismo: lo ha rovinato.

Il più desolante del dopoelezioni sono la miriade di commentatori, giornalisti la gran parte, e politici, para o pseudo democratici occupanti stabili di ogni posto visibile, su Rai 3, Sky e i maggiori quotidiani. Per i quali il nemico è ancora Berlusconi. Non hanno capito Berlusconi e naturalmente non capiscono il 4 marzo. Ma per benpensantismo. Che dunque è una trappola ferrea.  

Napoli lamenta anch’essa i dazi in Cina. Importa passata di pomodoro dalla Cina senza dazi, ma vede le sue esportazioni in Cina di polpa e pelati tassate all’arrivo. I dazi non li ha inventati Trump.  


Non è tutto. Napoli importa la passata dalla Cina ma non per il mercato italiano. No. La importa per i mercati africani, spiegano i suoi industriali al “Sole 24 Ore”, dove la riesporta. Come made in Italy. Il libero scambio effettivamente conviene. 

“Il popolo contro la democrazia”: sotto questo titolo il “Financial Times” recensisce alcuni libri sul populismo elettorale. Dando per buona la rilevazione che “meno di un terzo dei millennial ritengono che sia estremamente importante vivere in una democrazia”. Ma non sono i millennial che hanno votato Di Maio e S alvini: è un italiano su due.

Procede con difficoltà il post-elezioni di Zingaretti a Roma. Non ha la maggioranza in consiglio regionale e deve negoziarla con i 5 Stelle. E per varare la giunta ha dovuto attendere tre settimane l’assessore in quota agli ex Pd, gli irriducibili Leu. Che litigano molto fra i candidati al posto.  L’ex Pci non smette di fare danni, per di più volendosi moralista e garante della buona politica.
Zingaretti è stato rieletto da solo, con 200 mila preferenze in più della coalizione Pd-Leu, grazie al voto disgiunto.

Con la produzione Opec al massimo (l’Iraq è tornato stabilmente leader fra i dodici, secondo nell’export solo all’Arabia Saudita),  la quotazione base del petrolio è risalita in pochi mesi a 70 dollari\barile – valutazione di per sé immaginifica. Effetto delle decisioni di Trump: incentivare la produzione di petrolio da scisti bituminosi, benché molto inquinante, e mettere sotto pressione l’Iran. Le petromonarchie, impantanate in piani miliardari quando il greggio era a 100 (cento!) dollari\barile, respirano. C’è del metodo nella follia.

Enel si autocelebra, fatturato e utili in ascesa. Grazie all’energia verde. Ogni italiano paga all’Enel – e agli altri profittatori del verde – quattro volte il costo della sua bolletta elettrica, sotto la voce “oneri di sistema”. Glieli paga anche se, per malattia o assenza, non accende la luce. Potenza del malgoverno.

Si paga la truffa delle fonti alternative di energia senza che nessun giudice ci metta becco. Benché sia con tutta evidenza un furto, per quanto legalizzato. Peculato è solo se la figlia dell’onorevole ha usato il cellulare istituzionale paterno, magari per imperizia o pigrizia, anche una sola volta – la vigilanza è occhiuta.

Scioperano i mezzi pubblici a Roma nell’indifferenza, mentre si insedia il nuovo Parlamento. Uno sciopero dei trasporti è, era, una iattura da evitare. Ora se ne fa uno a settimana – uno ogni cinque giorni lavorativi. Senza danni per la produttività. Questo è il pregio di tenerla bassa.

Le cronache romane scrivono di “cittadini indignati” per lo sciopero dei mezzi pubblici, uno alla settimana - uno ogni cinque giorni lavorativi. Giustamente, per la soppressione della metropolitana, dei pendolari, dei tram. No. Roma è sempre in adorazione della sua sindaca eletta. Virginia non è una usurpatrice, è “tutta noi”.

In clima di femminicidi, uno al giorno, si giudica a Roma quello otto mesi fa di Michela Di Pompeo, la professoressa di Bolzano che insegnava alla Deutsche Schule di Roma. All’assassino, il suo compagno, che ha agito con efferatezza e determinazione, per un sms travisato, si concedono il rito abbreviato, e tutte le attenuanti.

“Investe otto pedoni con la Smart, patteggia quattro anni”. Li ha investiti passando col semaforo rosso. Piena di cocaina. Con un’amica anch’essa drogata. Senza patente, per essere cocainomane recidiva e senza volontà di recupero. Gli otto non sono morti, cinque degli otto sono stati feriti gravemente ma non sono morti. Rito abbreviato e attenuanti, compresa la “dipendenza”.

Entrambi i casi sono allo stesso tribunale, quello di Roma. Ma non sono un caso o un’eccezione: sono la forma della giustizia. È la legge, dicono i giudici. Che non sono qui per “applicare” la legge, non ci pensano nemmeno, troppa fatica.
  
Raggi propone di fare dei Fori un Central Park romano. Senza alberi, senza viali, tutto di monumenti e reperti, preziosi, protetti? Una stupidaggine. Ma le cronache romane ne riferiscono con meraviglia. Con soggezione. Interrogano esperti e soprintendenti. E gli esperti e soprintendenti dicono che, beh, insomma, bisognerà vedere. Il potere ha brutti servitori.

La sindaca di Roma Raggi non parla, se non per proposte balzane. Dalla teleferica a Primavalle al Central Park ai Fori. È una tecnica – serve per occupare lo spazio: mi si nota di più se la dico più grossa? Ma piace ai romani, che il 4 marzo l’hanno rivotata, hanno votato il suo partito, un romano su tre. Si dice che l’Italia non ha classe dirigente. E il popolo?

La Germania è com’era


In poche paginette la Germania, anche quella di oggi. In poche righe del celebre incipit: “Della potentia della Magna alchuno non debbe dubitare, perché di huomini, di richeze et d’arme”.  Con la teoria della doppia libertà, - la “libera libertà”. Nei confronti dei signori (l’imperatore, i principi) e anche dei “gentili huomini”, i primati, I notabili.
La dieta di Costanza, alla quale è legato nella primavera del 1508, dà in poche righe, nell’essenziale: i principi obbediscono di malavoglia all’imperatore, gli negano le truppe richieste, gliene danno poche, e le poche assottigliano con vari accorgimenti. Con l’argomentare tipico, che trarrà in inganno i commentatori del “Principe”, della cosa particolare riferita in generale. Così della ricchezza diffusa in Germania: “Perché li populi in privato sieno richi, la ragione è questa: che vivono come poveri, non edificono, non vestono et non hanno masseritie in casa; et basta loro abundare di pane, di carne, et havere una stufa dove refugire il fredo; et chi non ha dell’altre cose, fa sanza esse et non le cerca”. Parsimoniosi, praticano l’austerità, il risparmio: lavorano assidui, non spendono più di quello che hanno, si contentano di poco. La bilancia dei pagamenti, si direbbe oggi, tengono così sempre in attivo: “Et per questi loro costumi ne resulta che non esce danari del paese loro… Nel loro paese sempre entra et è portato danari da chi vuole dele loro robe, lavorate manualmente”. Per questo, dice anche, non amano la guerra.
Niccolo Machiavelli, Ritratto delle cose della Magna, free online

domenica 25 marzo 2018

I paleodem inchiodati (d)a Berlusconi

Non c’è mondo fuori di Berlusconi, non c’è mondo dopo Berlusconi. Fervono i dibattiti in attesa
delle consultazioni e le trattative per il governo, ma l’unico chiodo è quello. Per una larga porzione
dei commentatori. Quella che ci affligge da Rai Tre, La 7 e “la Repubblica” in special mondo. Ma
poi da tutte le tribune televisive e dei grandi giornali. Tuttora occupate dai reduci del Pci, specie da
quelli che non erano comunisti e anzi furono anticomunisti, che si chiamino per comodità
paleodem. 
Poiché molti di questi belli-e-buoni hanno fatto soldi e fortuna con le case editrici, i giornali, le tv, e
le case di produzione di Berlusconi, non dev’essere per astio personale. Anzi, si indovinano pronti
necrologi appassionati, se solo l’“ex Cavaliere” si decidesse a sparire – simbolicamente, si capisce.
Dev’essere condanna, un contrappasso alla Dante – o altrimenti una malia berlusconiana?
Ma non c’è altro argomento. Un italiano su tre, quindi compresi molti interlocutori nelle tribune di
questi paleodem, non ha votato Di Maio? Un italiano su due non ha votato Di Maio e Salvini? No,
chissà, non importa, importa Berlusconi, solo e comunque.
E cosa dicono di Berlusconi questi paleodem afflitti? Niente, quello che dicevano - che si diceva dicessero - una volta le nonne. Nostalgici di un mondo che fu, anche se non è mai stato.

Il mondo com'è (337)

astolfo

Argentina – Era la regione di Innsbruck, il nome allora in uso per il Tirolo, per le miniere di argento che vi si sfruttavano. Si ritrova il nome in molta letteratura ancora del Cinquecento, quando cominciò a prendere piede la denominazione che i conquistadores  diedero al Rio de la Plata.
Argentiera e Argentina erano in evo moderno i nomi di molti siti sulle Alpi, e anche sul Reno (p.es. Strasburgo) , per dire di luoghi dove c’erano – o c’erano state – miniere d’argento. La parola era in uso presso i galli anche nel senso che fu poi dato al Rio de la Plata, di corsi d’acqua.

Guerra – Non è più popolare. Non presso gli intellettuali, o i poeti, gli artisti, i filosofi. Per la prima volta nella storia. Perché i rischi sono elevatissimi, del tipo catastrofe. O perché lo sviluppo, l’economia, il calcolo, ha preso il sopravento – il commercio nemico della guerra è vecchia teorizzazione, da ultimo in Constant. E perché l’Europa, anche, che sempre è stata in guerra, da settanta e più anni la evita. Ma si fanno guerre più numerose che in passato. E sanguinose. Gli Stati Uniti in particolare, si può dire siano sempre stati in guerra nel dopoguerra. A Berlino, col ponte aereo, nel 1948-9. In corea dal 1950. A Suez nel 1956. Contro Cuba e in Vietnam a partire dal 1961. E poi in Afghanistan, Somalia, Libano, Iran, via Iraq, nel Golfo, contro l’Iraq, e un po’ in tutto il Medio Oriente dopo l’11 settembre 2001: Afghanistan, Iraq, Libia, Siria.

Nigeriane – L’illegalità dell’immigrazione è italiana? Le nigeriane in Italia, si potrebbero dirle un mistero, o farne un mistery, ma risaputo. Anche semplice: chi le porta in Italia, legalmente, chi le sfrutta? Col corollario che le colpe, o i reati, dell’immigrazione illegale sono dell’Italia. Prevalentemente, di organizzazioni e controlli compiacenti italiani.
“La Lettura” indaga con Teresa Ciabatti a Castelvolturno nel casertano, “25 mila italiani e 25 mila immigrati”, l’ampio mondo delle nigeriane in Italia. Delle prostitute nigeriane. Del traffico nigeriano di prostitute, “qualcuna di dodici anni”. È una scoperta, non è mai troppo tardi. Ma c’è di più: le nigeriane sono la chiave, ancora irrisolta, dell’immigrazione illegale i’n Italia. Da un paese cioè non confinante e anzi remoto. Da un’epoca anche remota, quando non cera il traffico degli esseri umani a basso costo e profitti stratosferici attraverso il Mediterraneo, e dalla Nigeria bisognava arrivare in aereo o nave, e con un visto, impossibile sottrarsi alle polizie di frontiera.  
C’era il treno delle nigeriane (“delle puttane”)  sulla Roma-Genova già negli ani 1970. Un vagone riservato, più o meno, che a Livorno si riempiva di prostitute alle sette di sera, destinazione la Versilia, da Viareggio al Lido di Pietrasanta,  Forte dei Marmi (un noto bistrot canagliesco del lungomare ha conservato il soprannome “Mangia e fotti”: una banca) e Massa Centro. E alle tre di notte prendevano il terno inverso, sempre in gruppo, in vagone praticamente riservato. Niente di clandestino. Una logistica complessa, e nei decenni imperturbata. C’erano le “nigeriane” negli anni 1980 disseminate per la pineta di Castelporziano contigue alla tenuta del Presidente della Repubblica, con rigida suddivisione territoriale, stabilita dalla “madama” che ce le portava la mattina, e a ora prestabilite le riuniva per conciliaboli evidentemente di indirizzo, o per collettare le entrate. Quando Pertini aprì al pubblico buona parte della spiaggia, i sette km. dei “cancelli”, diventarono una parte del panorama.
Le virgolette sono d’obbligo per le nigeriane, perché intanto il business si era esteso dalla Nigeria ai paesi confinanti. A opera delle “madam”, che in Nigeria sta per imprenditrici: donne di grande energia e disinvoltura: appena fuori dal poto di Lagos e dagli aeroporti internazionali, nessun affare, piccolo e grande, sfugge alle “madam” nigeriane. In età e anche giovani. In “La gioia del giorno”, così Astolfo ricorda la figura della “madam” già negli anni 1970, uscendo dall’aeroporto di Lagos: “Nella fila lenta di macchine che vanno in città, lunga dieci chilometri, o venti, solo incedono i camioncini delle madam. Cigolando, fumigando, i cassoni pieni, di uomini e donne seduti stretti con le mani sulle ginocchia, scivolano sul bordo, fanno un pezzo fuori strada, poi risalgono sull’asfalto, sorpassando imperiose le macchine senza balestre che restano a sudare ferme nell’afa equatoriale sotto lo smog, e suonare il clackson.
“Altre donne domatrici si trovano in Africa, non quelle voluttuose dei romanzi dell’Ottocento, ma donne d’affari, la regina Vittoria non è riuscita a ingabbiarle nell’antropologia della schiava tribale. Il corpo delle matrone reso più massiccio dai paludamenti, la voce rauca che emette unicamente un suono, una cifra, lo stecco mobile tra i denti mentre sogguarda il cliente con le palpebre scese, per calcolarne la tariffa. Che non è quanto il cliente può dare, per censo, abiti, lingua, ma quanto è disposto a dare. La madam dirà una cifra che per lei è alta ma fa sentire il cliente contento, oltre che protetto. Il denaro deve avere proprietà terapeutiche nella magia yoruba, una causa da aggiungere alle origini del capitalismo”. Il privilegiato in taxi, o in auto aziendale”, continua Astolfo, “non ha questo piacere, è preso e riportato da mezzi che beneficiano dell’extraterritorialità, avendo pagato in anticipo, in abbonamento, il fee o bakhshish dovuto ai vari gradi di autorità. Ma ogni madam con cui incrocia lo sguardo dietro il finestrino gli fa il calcolo mentalmente di ogni altro affare possibile, compravendite, cambi, affitti, le ambitissime licenze commerciali, o solo marchette.
“Sporco e ingorgato, il mercato inizia a Lagos all’aeroporto, arrivando dal Ghana ex socialista, ma con offerte e proposte di convenienza, quindi di efficienza. Si danno in albergo molti ricevimenti, per uomini grassi, l’aria sudata o affannata sotto le cravatte sgargianti, che passano da un ricevimento all’altro, per il potere, che è chiacchiera. Le donne, anche le mogli, sono invece padrone severe del mercato, per i soldi”.
Le madam avevano e hanno molti commerci a Lagos e altrove Nigeria. Nigeriani erano i primi pusher di droghe sui marciapiedi. Tutta gente quindi con passaporto e visto di ingresso. Nella distrazione continuata e totale.
Solo un anno fa, e solo sul “New Yorker”, il fenomeno delle nigeriane in Italia è stato investigato, da un giornalista americano. Che ha trovato agenzie di reclutamento in più città della Nigeria. Un’attività dichiarata. Con tariffe scaglionate per vari tipi di “ingresso in Italia”. Compreso quello a basso costo, la rotta del Sahara e della Libia, senza visto.
Fenomeno analogo, se non criminale come la prostituzione, è stato ed è – oggi un po’ ridotto – quello dei “vu cumprà”. Torme di piccoli ambulanti del Nord Africa e del Bangladesh arruolati , con l’offa del banco al mercatino. Organizzati, suddivisi, collocati ognuno in una sua area. Oppure, da alcuni anni, quello dei giovani africani del Ghana e del Senegal, della diffusa e potente setta religiosa dei murinid, postati ogni giorno a migliaia come mendicanti attorno ai bar, le edicole, sui marciapiedi, portati e ripresi a turno, con cellulare.

Spionaggio - Non è più trafugamento di documenti e segreti ma guerra psicologica. Quella che si chiamava guerra psicologica nella guerra fredda, oggi attacco informatico. Una intrusione nel campo avverso, seppure solo a parole. Per minarne l’unità e la confidenza in se stessi. Simon Kuper, un giornalista del “Financial Times” che, dice, ha “appena licenziato un libro che mi ha introdotto nel mondo degli agenti doppi russo-britannici nella guerra fredda”, trova che segreti e documenti erano irrilevanti anche allora. E cita gli agenti doppi britannici più famosi, Kim Philby e Guy Burgess: “Per due paesi che non avevano molto in comune, prima che i ricchi russi colonizzassero, in questo secolo, il centro di Londra, la Russia e  il Regno Unito si sono impegnati in un vasto reciproco spionaggio. Ma per lo più inutile. Doppi agenti britannici della levatura di Kim Philby e Guy Burgess si lamentarono spesso che i sovietici ignoravano le loro segnalazioni. Molti dei documenti britannici che Burgess diede al Kgb non furono nemmeno tradotti in russo”. In parte per “paranoia”: “Si può reclutare un traditore, ma mai avere fiducia in lui. Il Kgb sospettò sempre il doppio agente d’oro Kim Philby di essere una talpa britannica”. IN parte, o soprattutto, perché il doppio agente eminente è una sorta di testimonial, importante per il suo nome e la funzione, e non per quello che sa o confida.

Svizzeri – “Godonsi… una libera libertà”. Machiavelli, brevemente legato della Repubblica fiorentina presso l’imperatore nel 1508, nella succinta classica informativa che invia alla Repubblica (“Ritracto delle cose della Magna”) si dilunga (quattro pagine su dieci) sull’argomento che più gli sta a cuore, la libertà. Surrettiziamente introducendo il tema a proposito degli Svizzeri, tra le “genti de la Magna”. Gli Svizzeri difendono una doppia libertà, dall’imperatore e dai principi in lotta con l’imperatore, “ma eziandio sono inimici alli gentili huomini”, quelli che vogliono farsene signori – sottinteso: come i Medici: “Perché nel apese loro non è dell’una spetie né dell’altra, et godonsi, senza distinctione alchuna di huomini, fuora di quelli che seguono nelli magistrati, una libera libertà”.

astolfo@antiit.eu

E il fotografo ebbe nome, d'autore

I settant’anni dell’agenzia fotografica franco-americana Magnum come una storia del dopoguerra. Un percorso per autori e tematico di grande rilievo: aspetti e eventi, anche inattesi, si manifestano o prendono consistenza.
L’agenzia, fondata a New York da Robert Capa, Cartier-Bresson e altri nomi già allora di rilievo proprio con questo scopo, ha affrancato il reportage fotografico dall’ancillarità, anonima. Ora è un lavoro professionale e autonomo, d’arte e informativo. La mostra sottolinea questo percorso. E insieme evidenzia alcuni “racconti” fotografici che hanno acquisito rilievo e un luogo nella storia. Come il fotodramma di Budapest nel 1956.
Ma, poi, tutti sono fotoracconti compiuti, nella scelta che Clément Chéroux ha operato spulciando negli archivi dell’agenzia. dGli immigrati negli Usa, Eve Arnold anni 1950. Le “famiglie” di Elliott Erwitt. L’Oriente e l’Europa dopo la guerra, di Capa e altri. Il viaggio nel 1968 della salma di Robert Kennedy da Los Angeles al cimitero di Arltingon, di Paul Fusco. Gli zingari, del fotografo ceco Josef Koudelka. Il Mediterraneo cupo dei migranti, di Paolo Pellegrin.
Magnum Manifesto, Museo Ara Pacis