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sabato 25 dicembre 2021

Secondi pensieri - 467

zeulig

Amore -Si moltiplicano, e non si spiegano, gli uxoricidi (ora femminicidi) per amore, nella forma della gelosia, del possesso, della vendetta. Non si spiegano perché s’intende amore quello delle corrispondenze private di scrittori e artisti, che lo prospettano come un eccitante, anche a rischio addiction. Di donne – questo non si dice, ma così è – e uomini senza differenza, gli artisti sono volubili, è nell’imprinting, è il loro cachet, non si può fargliene colpa, si prendono e si lasciano  senza traccia, se non di un verso o una pennellata, i partner, se non sono artisti anche loro, sono pazienti. Per il comune degli uomini - delle persone, come dice l’americano – l’amore va nel senso dell’impegno, se non dell’impulso, costante. Monogamo e non poligamo. Anche perché il più delle volte è l’avventura di una vita, con tutte le incertezze e gli impegni, i più gravosi. E rispettoso più che licenzioso, anche se l’opinione pretende il contrario.
Un sentimento pratico, più che teoretico. Sicuramente non da guerra di liberazione.
 
Complotto - Costruzione e decostruzione, struttura e sovrastruttura negano il reale e la storia - Deleuze e Derrida ci resteranno male quando scopriranno che non hanno decostruito nulla, solo scemenze. Mentre la proprietà pedagogica del meccano è nota, era nota a tutti i bambini, da tempo. La scienza non ha il senso del ridicolo, con tutte le sue scoperte, le profondità della psicologia, per esempio, o della biologia, così piatte. Potrebbe essere una buona tecnica, la scienza, e per tale va presa. Per esempio nella alchimia del potere, che si vuole arcano tanto è miserevole, si autodistrugge forse più di quanto distrugge. Rovesciare la realtà è prova d’ingegno, ma la prima diavoleria fu, nel paradiso terrestre, dire bene il male e male il bene. La logica, anche del giallo, è semplice. Sherlock Holmes sa la verità, non la deve dedurre, cioè dimostrare – se non per fare rigaggio. Non ci vuole molto per capire. Il complotto è la politica, organizzata nei dettagli, governata, con tiranti, redini, frusta, annunciata, spiegata perfino. Il totalitarismo è furbizia prima che forza, e disegno divino. La bugia è inafferrabile se il suo autore ne è pure regista: Epimenide cretese, Amleto - non nel caso del bugiardo semplice attore: Pinocchio. Per questo sono inestricabili gli intrighi degli sbirri. Però sono manifesti.
L’idea del complotto prospera quando non c’è vera paura. Quando negli Usa si scoprì che Oswald era stato a Mosca, ed era degli Amici di Cuba e in odore di mafia, il presidente Johnson ordinò a Earl Warren di smontare il complotto. La mafia avrebbe scardinato l’assetto politico. Mentre il complotto sovietico avrebbe reso la guerra necessaria, e al primo colpo mezza America sarebbe morta, Johnson si fece un rapido calcolo. Si dice complotto per dire.
Dei misteri non c’è un repertorio esaustivo, non può esserci. La scienza è alle elementari: dell’acqua solo sa che è idrogeno e ossigeno. O dell’amore che è una reazione chimica, direbbe Ninotchka. Si insiste a dire che il sole sorge e tramonta alcuni secoli dopo Copernico, il quale spiegò che a girare è la terra. L’uomo è inconciliabile con la realtà, la natura? In parte sì, per la percezione anteriore. Sarebbe diverso se potesse sapere tutto ciò che si dice a parte o si pensa, o vedere a 360 gradi, in orizzontale e verticale: sparirebbero forse allora alcuni tormenti non intelligibili, destra-sinistra, amico-nemico, elevato-basso. Non resta che Heidegger: “La curiosità per cui nulla è segreto, la chiacchiera per cui nulla è incompreso, danno a se stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura malleveria d’una vita veramente «vissuta»”.
La Congiura ha radici nobili: prima di Guénon e l’avversa secolarizzazione c’è Héraut de Séchelles con le quattro innovazioni: la patria in pericolo, la legge dei sospetti, il piede nei due blocchi, l’ateismo religioso – centauro oggi socialfascista, fasciocomunista, cattocomunista, repubblicocomunista. Un secolo di filosofia contro la tecnica e la democrazia livellatrici, a scapito dell’individuo e la sapienza, manovrate dal Maligno. Non grande filosofia, inclusi i nichilissimi, Heidegger, Jünger, Nietzsche stesso, benché calligrafi – ma l’anarchia finisce in reazione? In alternativa al tomismo s’è trovato il niente, o l’ateismo di Sartre e Malraux, che solo si vogliono falsari e ladri, specialmente di fighe, quelle che aprono la bocca allo stupore. Questa in sintesi la Storia: il rifiuto della tecnica, cioè del mondo, cioè di sé e dell’essere. Meglio ridetto: il rifiuto di sé, che si camuffa da rifiuto del mondo, cioè dell’incolpevole tecnica, e s’adagia nel complotto. E la vita intristisce. Con l’intellettuale ridotto a mosca indiscreta che pensa d’avere in mano il fulmine e scaglia punture. Agevolando il progresso, se promuove l’Autan.

Secolo – Si entra nel secolo, nel millennio, con distacco, argomenta Annie Ernaux, “De l’autre coté du siècle”: come persone di “un altro secolo”. Contro ogni nozione del tempo, evidentemente, che non ha stacchi netti, ma per il concetto stesso di epoca, come facenti parte di un mondo, ancorché non nostro (rifiutato, contestato). Nel 1997, al limite cioè del nuovo secolo\millennio, la scrittrice de “Gli anni” si scopre incapsulata nel Novecento alla notizia della morte della donna più longeva del mondo, Jeanne Calment, ad agosto del 1997, di 122 anni: “Guerre mondiali, coloniali, ideologie, dovutamente repertoriate, da Proust a Nathalie Sarraute, da Gide a Modiano, ci hanno visto diventare, in qualche anno, storici, datati, dell’altro secolo”. Sensazione, aggiunge, che “la prossima sparizione dei franchi” accentua, il passaggio all’euro. Un po’ come l’Ottocento è stato distinto dal Novecento, nei libri di storia, nei manuali di letteratura (delle storie della letteratura). Come per l’Ottocento, “è successo, d’un colpo, ciò che l’Ottocento è nei libri di storia e nei manuali di letteratura, una durata compressa in cui il Secondo Impero sembra toccare il Primo, Chateaubriand essere il contemporaneo di Zola e Madame de Staël l’amica di George Sand”. D’improvviso, Ernaux si sente parte di un’epoca passata: “Tutti i nati prima del 1970 circa, insieme facciamo secolo” - “Ho sentito compiersi qualcosa che ci univa tutti, che fa di noi gente di questo secolo (la riflessione è pubblicata nella “Nouvelle Revue Française” del giugno 1999, n.d.r.) e non sarà trasmissibile al seguente, né con le parole né con le immagini”.
La cesura è evidente con i Millennial – un altro mondo.
 
Storia – “La storia, senza la quale il potere non è in ultima analisi pensabile, è strettamente solidale con la guerra, mentre la vita nella pace è per definizione senza storia”, G. Agamben, “A che punto siamo?”, 105-106). Per definizione, di che?
Il dominio si esercita con la convinzione. Quello americano per esempio, la parte più solida e duratura dell’imperialismo americano, senza vittime e senza costi, e anzi con guadagno di cassa -mentre è stato quasi ovunque fallimentare con i marines e le bombe. E col commercio, alla Constant - la parte più solida dell’imperialismo nascente cinese. La guerra fredda è stata vinta col commercio (“i consumi”) e con i principi - di libertà, e di voto se non di democrazia.
Il potere assoluto sarebbe senza storia. Fa storia, ne è materia, il potere contestato, o costituzionalizzato (restrained).

Stupidità - Non è tema di riflessione – se non di letterati. Di Pope in versi, di Jean Paul in prosa.  Flaubert ne era ossessionato, che tanto ne scrisse, Musil algido vivisettore. Jean Paul sotto la vena satirica, puntava alto: “Il vento teologico significa guerra e sangue, soleva polvere, e porta nuvole sinistre e terribili temporali. Quello giuridico, come un tornado, spazza via tutto al suo passaggio, scoperchia i tetti, strappa i vestiti dal corpo, e porta via tutti gli arredi, fino ai letti delle case distrutte”.

zeulig@antiit.eu

Gli adulti adolescenti di Woody Allen filosofo

Si celebra in morte una scrittrice che non aveva bisogno di fasciarsi di femminismo. Di capacità di analisi e chiarezza di esposizione talmente semplici e perspicaci da sembrare ovvie. Se ne ricordando anche l’ascendenza cattolica e irlandese, forse per essere presidente un cattolico irlandese, ma una cultura non è un’altra – non lo era in America finché non è precipitata nell’indistinto dei “diritti”, del rivendicazionismo, della guerra civile normale.
Fra i tanti contributi che la rivista rispolvera, questo su Woody Allen può essere esemplare. Didion analizza, all’uscita di “Manhattan”, la fase – l’avvio della fase – “self-absorption” del fin’allora comico riconosciuto dei tic di New York, la fase autocentrata, pensosa. “Manhattan” viene dopo “Interiors” e “Annie Hall”. Poteva essere diversamente? “La self-absorption è generale”, nota Didion in avvio”, “come il self-doubt. Questa estate nelle grandi città costiere degli Stati Uniti molte persone volevano vestirsi in «puro lino», tagliato da Calvin Klein per gualcirsi, che implica vera ricchezza”. E così via: “Nelle grandi città costiere degli Stati Uniti questa estate molte persone volevano essere servite la perfetta terrina vegetale…”. E molti hanno fatto la fila per vedere «Manhattan», “un film dove, verso la fine, il personaggio Woody Allen fa una lista dei motivi di vivere la vita. «Groucho Marx» è un motivo, e «Willie Mays» un altro”, e così via, Armstrong, il trombettista, Flaubert, Mozart – ma il Flaubert della “Educazione sentimentale”, non quello di “Madame Bovary”. È una stroncatura? È una messa in quadro, perspicace. “Quello che colpisce nei recenti film «seri» di Woody Allen, di Annie Hall e Interiors come di Manhattan, non è il modo in cui si svolgono come film ma come operano sugli spettatori”. È il fatto che gli spettatori non si distanziano ma si identificano.
Spettatori adulti, in carriera, consci dei loro titoli, ma di fatto adolescenti. “I personaggi di Manhattan e Annie Hall e Interios sono, con un’eccezione, presentati come adulti, come uomini e donne negli anni più produttivi delle loro vite, ma le loro azioni e conversazioni sono di ragazzi intelligenti”. E siamo solo all’inizio.
“L’eccezione è il personaggio Tracy, Mariel Hemingway, di Manhattan, un altro tipo di fantasia adolescente”. Ottima scuola, “pelle perfetta, perfetta saggezza, sesso perfetto, e niente famiglia visibile”, anche se danarosa. E “Tracy mi richiama un dirigente del cinema che una volta mi spiegò, a proposito dell’assenza di personaggi adulti nei film da spiaggia, che nessuno ha mai pagato 3 dollari per vedere un genitore”. Clever, il comico.
Joan Didion,
Letter from “Manhattan”, “The New York Review of Books”, 16 agosto 1979, free online

venerdì 24 dicembre 2021

L'Europa dei banchieri

Due banchieri assurti al vertice politico, Macron in Francia e Draghi in Italia, scrivono che “le regole del patto europeo di stabilità sono troppo opache ed eccessivamente complesse”. Queste regole “hanno limitato il campo d’azione dei governi durante le crisi e sovraccaricato di responsabilità la politica monetaria”. Della Banca centrale europea, presieduta in quegli anni da Draghi. Lo scrivono sul “Financial Times”, il giornale dei banchieri.
Sono accuse terrificanti. Tanto più perché arrivano in ritardo: si sapeva già nel 2009-2010 che non erano regole giuste. Ma nessuno lo ha detto. L’Europa è stata governata con queste regole, ed è stata fino al 2019, fino al pre-covid, l’unica delle tre grandi aree macroeconomiche mondiali a non essersi ancora ripresa dallo shock bancario del 2007-2008 – con l’eccezione della Germania, il paese europeo che aveva il sistema bancario più infetto, ma questo è un altro discorso. Dieci anni fa Bruxelles con il Patto di stabilità e la Bce con una lettera semisegreta, cofirmatario il presidente entrante Mario Draghi, imponevano all’Italia il rientro ogni anno in bilancio pubblico di 50 miliardi del debito in essere. Una cura del salasso, un po’ troglodita, ma da balanzoni avvertiti. Che ha scatenato la speculazione contro il debito italiano.
Un gioco facile che gonfiò le fortune dei banchieri in quel 2011. Lo spread, il differenziale tra il Btp e il Bund tedesco, arrivò a 574 punti. Un abisso. Una follia anche, ma pagata dall’Italia: il Btp si collocava al 7,4 per cento. Fino a che il governo eletto, Berlusconi, non lasciò il campo, il giorno dei 574 punti base, al banchiere Monti. Che raddoppiò le tasse alla piccola e media borghesia, tra i bolli, le bollette, e le seconde case, quelle dei tanti meridionali emigrati. Finché Draghi, dopo aver salvato le banche germanocentriche, dovette infine fare muro, quando la speculazione puntò contro l’euro, al coperto dell’offensiva con l’Italia e i latino-mediterranei, i Pigs, “porci”, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna.
Ora, cioè dieci anni dopo, quelle “regole” si dicono infette. C’è da avere fiducia o da avere paura? L’Italia ha rischiato il fallimento, con la letterina di Trichet e Draghi, patrocinati dai Grandi Architetti Europei Sarkozy e Merkel. Verrebbe da dire che è meglio l’Europa che si preannuncia dei banchieri, dando per scontato che Draghi andrà al Quirinale e Macron sarà riconfermato presidente, migliore dell’Europa merkeliana, del troppo poco troppo tardi. È possibile, è probabile – peggio è impensabile, l’Europa si è già troppo ristretta. Ma bisogna sapere con chi abbiamo a che fare. I socialisti Sanchez e Scholz non hanno firmato.  

Quanto è tragico il comico

Un trattato sul comico. Non quello che manca alla “Poetica” di Aristotele, che si fermò alla tragedia e all’epica - o, se trattò la commedia, questa parte è andata persa. Non un trattato filosofico, ma le tante forme che il comico prende. E però una commedia-sul-comico ben più solida e vivace delle tante trattazioni che sul comico si sono susseguite tra Otto e Novecento, da Baudelaire a Bergson, Pirandello e tanti altri. Una commedia (molto) colta di Trevor Griffiths (molto scorretta per il canone oggi, radicalmente mutato, invertito, in pochi anni), che Salvatores ha portato in teatro e, per la seconda volta, prova al cinema – la prima fu, nel 1998, agli inizi del Salvatores regista di cinema, sotto il titolo “Kamikazen. Ultima notte a Milano”.
Non è un ascolto facile, né lieve. Si tratta il comico, con battute a raffica e situazioni paradossali, strambe, rovesciabili, clownesche, drammatiche, in una scuola serale per comici. Mentre si preparano all’esibizione-esame di fine corso, giudice il Grande Agente, un Christian De Sica insolitamente sobrio, che ha in mano la tv, agognata meta. Le gag e le battute si consumano a programma, nei tempi contati per ogni genere nell’ora di lezione, a raffica, quasi con rabbia, come a dire: che miseria! Un dessous del comico, più che uno spettacolo da ridere. Malinconico più che buffo, recitato da tutti con maestria – una galleria di comici patentati.   
Gabriele Salvatores,
Comedians, Sky Cinema

giovedì 23 dicembre 2021

Problemi di base orientali - 676

spock


Biden a Kiev come Krusciov a Cuba - con le bombe, a salve?

I russi sono tanto buoni che ce li mangiamo?
 
Conviene sfidare sempre i russi e i serbi?
 
Troppo ortodossi?
 
Gasarsi contro la Russia ci allevia la bolletta?


L’Ucraina come la Bosnia-Erzegovina ?
 
Con Putin invece dell’arciduca?
 
Morire per Putin?

spock@antiit.eu

Vita di donna avventurosa - o l'amore con lo stalliere

Il primo caso di nobildonna che si mette col guardacaccia - qui è stalliere. A una certa età, sopra i quaranta, ma poi per sempre, venticinque anni di felicità con un uomo abbrutito, ubriacone e manesco, dapprima da girovaghi, poi gestori della locanda e del traghetto per l’isola di Møn nel Sud-Est della Danimarca.
Una storia realista ma non un caso esemplare: un caso storico. Soggetto di molte scritture in Danimarca, prima (Andersen compreso) e dopo Jacobsen. Marie Grubbe è esistita, si chiamava così, e ha fatto tutto quello che viene raccontato, nel secondo Seicento-primo Settecento, in Danimarca, con lunghi soggiorni in Norvegia, col primo marito, e a Parigi e Norimberga col cognato amante. Vera la prima infatuazione da adolescente, per il principe Ulrik Christian, figlio bastardo e amato del re di Danimarca Cristiano IV. Vero il matrimonio con Ulrik Frederik, altro bastardo, favorito del re Federico III. Vero anche il cognato, uno dei due cognati, di una lunga relazione da divorziata. Vero il secondo matrimonio, nella residenza paterna, in campagna lontano dalla corte, con un borghese di piccola nobiltà del luogo. Vero anche il secondo divorzio, benché il marito non obiettasse, vicino ai cinquant’anni, per la vita insieme col giovane stalliere.
L’opera famosa di uno scrittore che si voleva poeta: “Se potessi trasportare nel mondo della poesia le leggi eterne, gli enigmi e i prodigi della natura, allora sento che la mia opera diventerebbe qualcosa di più del normale”. Jacobsen ha scritto poco in prosa. Un altro romanzo, “Niels Lyhne” (1880, quattro anni dopo “Marie Grubbe”), su un personaggio maschile non più dal vero ma inventato, un esteta che fantastica una vita che non vive – anticipatore del Des Esseintes di Huysmans e del Dorian Gray di Oscar Wilde. E alcuni racconti (“La peste a Bergamo” e altri). Ma senza entrare nel cerchio chiuso del decadentismo.
“Marie Grubbe” ha un andamento variato, prolisso e rapido, diffuso e tagliente, romantico e brutale. Il racconto, benché improbabile, o probabile solo nel Seicento, tempo barocco anche nella vita, in certi ambienti, è favolistico ma convincente. Marie non è pazza né stupida, vive l’amore in una sua visione, in tante sue visioni. Non convincente del tutto, ma poiché la storia è vera, il lettore ne trae il miglior partito. Di una cocciutaggine spinta all’autolesionismo. Imprevedibile, ma indipendente: Marie Grubbe è una donna indipendente nel Seicento, contro la corte, quando è necessario, contro i sovrani paterni, contro il genitore, contro il principe suo marito.
Essendo Jacobsen già noto come traduttore di Darwin, il romanzo fu classificato come verista. La morale della storia, tratteggia da Marie nelle sue ultime parole con un giovane dottorando rifugiato nella locanda per fuggire la peste, né è un piccolo manifesto: niente resurrezione (in quale veste?), niente giudizio-giustizia, siamo quello che siamo. Ma il racconto non ha nulla della ricetta verista: niente questione sociale, sfruttamento, miseria, eccetera, niente destino avverso, non c’è cattiveria (gli uomini si ubriacano e sono maneschi, ma non fanno scandalo), Marie è donna libera che vive da donna libera, imprevedibile cioè. Anche a costo di perdere ripetutamente il tanto che ha – in dote, o come appannaggio, e in eredità. Jacobsen influenzerà Strindberg, e sarà recepito con entusiasmo in Germania, dove si ebbe una Jacobsen Mode, tra i poeti, George, Gottfried Benn, Rilke, e tra i narratori, Zweig e lo stesso Thomas Mann – una delle residenze di Marie Grubbe è a Lubecca, e qui abbiamo la la casa “modello Lubecca”, una geometria semplice, che non c’è nei “Buddenbrook”. Di scrittura variabile, in più punti asintattica – almeno in quesdta traduzione - che oggi si direbbe cinematografica.
Un’edizione un po’ affrettata. Una nuova traduzione dello specialista Dario Berni, già traduttore di Andersen, ma senza le necessarie note di riferimento. Con le citazioni di testi tedeschi e francesi non tradotti – una è anche italiana, del Guarini.I
Jens Peter Jacobsen, Marie Grubbe, Carbonio, pp. 229 € 16

mercoledì 22 dicembre 2021

Ombre - 593

Le “classifiche del Pianeta”, il supplemento del “Corriere della sera”, danno la Svezia al terzo posto per furti d’auto. Prima la Grecia, 246 furti per 100 mila abitanti, poi l’Italia, 231, terza la Svezia, 217. Saranno gli immigrati? Che poi le vendono agli immigrati? O il mondo è diverso da come ce lo dicono.

La Asl di Salerno esime la Salernitana di calcio dalla disputa del match a Udine con l’Udinese. Lampi e tuoni della Federazione del Calcio, che sconfigge la Salernitana a tavolino 0-3. Tanto poi ci penserà la giustizia sportiva, di giurisperiti campani, a ridare l’onore e i punti alla Salernitana? Nel caso analogo di un anno fa, sempre di una squadra a strisce bianche e nere, la Juventus, con una squadra campana, dichiarata perdente a tavolino per il solito inghippo con la Asl, il giudice sportivo d’appello Sandulli sbagliò la motivazione della condanna per farsela bocciare dalla corte di Garanzia del Coni?

In fondo, il calcio è un divertimento, perché prenderlo sul serio?

Si fa un’intervista allo scrittore Murakami – in attesa del nuovo titolo? – di tre pagine sulle tee-shirt che non butta mai. Sì, il nuovo libro è sulle sudate magliette. “Quelle veramente lacere”, confida, “le uso quando devo lucidare la macchina”. Beh, lo scrittore non solo lava la macchina, la lucida anche.

Un’app contro il consumismo, buy nothing, è stata creata da due miliardarie americane, Rebecca Rockefeller e Liesl Clark. Non è di scambio o di beneficenza, è un mercatino online. “A New York c’è chi ha postato un’offerta di «acqua sporca dell’acquario», che è andata inaspettatamente a ruba perché utile come fertilizzante”. Poi dice che la Cina è vicina.

Poche righe dell’“Economist”, una dozzina, che salottiere tributano gli onori dell’anno all’Italia  - dopo Samoa, Moldova, Zambia e Lituania - sono erette dai media a monumento aere perennius. La Grande Italia è così provinciale?

Lo stesso settimanale, analizzando la campagna elettorale di Macron in Francia, centrata sui suoi successi in Europa, trova la cintura industriale di Parigi perplessa. Anche se Macron vi ha fatto installare molte attività, con i fondi europei, da ultimo la megafabbrica nippo-cinese di microchip: per i lavoratori della grande area l’’Europa è solo “un male necessario”.

In due mesi non ha fatto nulla di quanto promesso, le emergenze sono le stesse. Spazzatura, trasporto pubblico, scuolabus. Però ha aumentato gli stipendi ai dirigenti, ha bandito concorsi per assumerne un centinaio, paga un premio ai netturbini che non si danno malati…  È il professor Gualtieri, neo sindaco di Roma. Forse è per questo che le persone non vanno più a votare. Specialmente odiose le immondizie che si accumulano per strada: è come se i netturbini avessero anticipato a prima di Natale il riposo in conto malattia, dovendo dopo concorrere al premio.

La gestazione della giunta Gualtieri è stata laboriosa, perché il suo partito, il Pd romano, ha molte correnti, e molte donne da accontentare per la parità di genere. Le quali subito, appena nominate, si sono distinte per progettare o proporre aumenti, di tasse e tariffe. L’economia domestica è ora maschile?

Al rientro dalla Finlandia, una giovane coppia che vi era andata in viaggio di nozze, con Finn Air, ha pagato il tampone “99 euro a testa”, racconta la sposina, “di cui 79 per il test e 20 per la ricevuta”. Mentre una studentessa di Medicina in volo dalla Romania ha pagato 12 euro. Non per nulla la Finlandia si classifica Paese più felice al mondo. 

La Danimarca, il secondo Paese più felice al mondo (dopo la Finlandia…), non sa più cosa fare per bloccare gli immigrati. Ammazzarli non si può, ma per il resto è molto impegnata a “convincere” chi è riuscito a entrare ad andarsene. La felicità genera grattacapi.

“Repubblica” fa raccontare la vaccinazione dei bambini come una favola, a una bambina di dieci anni, Carlotta. Che scrive(rebbe): “Ho vinto la paura e come premio la visita ai nonni”. Una favola doppia.

Una casa troppo affollata - mal di regista

Tutto perfetto: autore di nome, titolo famoso, cast affollato, sigla di Jovanotti, molta cucina come si vuole ora in tv, e la famosa famiglia allargata a cui non riusciamo ad abituarci – ai rapporti non rapporti, specie con i figli, che di nulla hanno colpa. Ma un po’ troppo affollata nei primi due episodi della serie. Adesso qualcuno è morto, il padre, con colpo di scena che ribalta tutte le precedenze, e forse, precisandosi il plot, nelle prossime puntate la storia si farà seguire.
Succede con i registi di nome prestati alle serie tv? Con Muccino come già con Guadagnino sulla stessa Sky (“We are Who We are”), che l’ideatore-produttore-regista si perde, o non sa prendere il ritmo dell’“episodio”, 45 minuti sul pioccolo schermo? Di queste serie italiane solo Sorrentino, con i due “Pope”, si è salvato, e si capisce come, la chiave è chiara: giocando sui personaggi, tre-quattro per serie, le vicende contano poco, il tempo è ridotto e lo schermo comunque piccolo. come ora con Muccino.
Gabriele Muccino, A casa tutti bene, Sky Cinema

martedì 21 dicembre 2021

Il virus del debito

Con la crescita annunciata dei tassi d’interesse, come argine all’inflazione incombente, si pone nuovamente il problema dell’eccessivo indebitamento, pubblico e privato.
Il “debito globale”, pubblico e privato, in tutti i paesi del mondo, è arrivato a 226 trilioni di dollari – trilione da intendersi come in uso negli Usa, come mille miliardi. È il calco lo che il Fondo Monetario Internazionale pubblica, a firma Vitor Gaspar, Paulo Medas e Roberto Perrella. Il 2020 ha registrato il più grande aumento annuale del debito dalla fine della guerra. Con un balzo di 26 punti in rapporto al pil mondiale, al 256 per cento.
“Più della metà” dell’aumento è dovuto al debito pubblico. Che è ora al 99 per cento del pil mondiale. Di poco inferiore, il 98 per cento, è il debito privato societario. Quello familiare è il 58 per cento.
Più in particolare, l’aumento del debito pubblico è quasi tutto delle economie avanzate. Il rapporto del debito pubblico di queste economie (le economie Ocse) col pil è passato dal 70 per cento del 2007 al 124 per cento nel 2020. Quello privato invece è rimasto sostanzialmente stabile, passando nello stesso arco di tempo dal 164 al 178 per cento del pil.
Il debito pubblico ammonta ora a quasi il 40 per cento del debito globale totale.
La dinamica è profondamente diversa tra paesi ricchi e paesi “meno avanzati”. Le economie Ocse e la Cina contano per più del 90 per cento dell’aumento totale del debito nel 2020, 28 trilioni di dollari.
Nei paesi avanzati il debito pubblico è aumentato di 19 punti del pil nel 2002 – un aumento in linea con quello degli anni della crisi globale finanziaria, 2008-2009. Il debito privato, aumentato nel 2020 di 14 punti del pil, è invece il doppio di quello registrato nel 2008-2009.
Il debito pubblico americano è passato al 135 per cento del pil nel 2020 - era di 10 trilioni nel 2008, è salito a 28 trilioni nel 2020. Quello cinese al 70 per cento.

Ecobusiness

Le fonti di energia fossili rappresentano ancora l’85 per cento dei consumi mondiali, e la quasi totalità nei trasporti.
Solo l’Unione Europea è al di sotto di questa quota, grazie soprattutto al nucleare: utilizza i combustibili fossili per il 71 per cento dei suoi consumi totali – contro l’82 per cento degli Stati Uniti e l’87 per cento del Giappone (gli altri grandi paesi asiatici, Cina, India, Indonesia, Malesia etc., sono quasi completamente dipendenti dal carbone e dagli idrocarburi).
Per arrivare all’emissione zero di CO2 nel 2050, come sarebbe negli accordi internazionali, la Bank of America calcola che bisognerà investire 5 mila miliardi di dollari l’anno, in progressione crescente. Da qui al 2030, secondo l’“Economist”, serviranno 4 mila miliardi di investimenti ogni anno, il triplo degli investimenti attuali in fonti alternative.
Nell’ottica del passaggio alle fonti rinnovabili non si fanno più da anni investimenti nelle fonti di energia fossili, carbone e idrocarburi. L’effetto è già visibile nelle quotazioni iperboliche del petrolio e del gas. Con danno per i consumatori e per la produzione, in termini di costo e di difficoltà di approvvigionamento.

Come fare spettacolo col papa

Tre milioni di spettatori, con il 12,6 di share, per il Tg 5 che s’intrattiene per un’oretta col papa. Tra le nove e le dieci di sera, che è prime time  tutti gli effetti, anche se auditel non lo considera tale (l’evento è stato abbondantemente venduto). Non male, per un’oretta, malgrado tutto, edificante, senza sorprese: un successone.
Un’idea semplice e geniale, un’ora col papa – e sarebbe anche andata meglio con interlocutori meno modesti.
Clemente J. Mimun, Francesco e gli Invisibili: il Papa incontra gli Ultimi, Tg 5

lunedì 20 dicembre 2021

Problemi di base di fede - 675

spock

Si comincia a credere al paradiso perché c’è l’inferno?
 
Credere è paradiso, o inferno?
 
E non credere?
 
Perché si crede in qualcosa che non c’è, che verbo è?
 
Non sarà riflessivo, una forma dell’essere?
 
Chi non crede non è – non sa, non vuole?
 
Credere è allora appendersi a un gancio, al sé-del sé?

spock@antiit.eu

L’epidemia come strategia

Il tema è il sottotitolo: “L’epidemia come politica”. Già prima delle chiusure, e molto prima dei vaccini anti-covid. Il filosofo raccoglie qui le riflessioni che è venuto via via pubblicando sui giornali e sul sito dell’editrice Quodlibet. Il primo, sul “Manifesto” del 26 febbraio 2020, è intitolato “L’invenzione di un’epidemia”.  Il post “Chiarimenti”, venti giorni dopo, ne fa un punto di svolta: “Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato d’emergenza come quello attuale”. Peggio, avrebbe potuto aggiungere: e in passato non c’erano i vaccini. O forse no: non c’era nemmeno la prevenzione, l’idea di organizzare la società contro un evento.
È la prevenzione un’arma: la biopolitica? Se così è, però, non si tratta di un braccio di ferro coi poteri politici, della piazza contro il guicciardiniano Palazzo, da destra o da sinistra, si tratta d’individuare come si arriva a uno stato d’emergenza universale su una falsa notizia. E a questo Agamben, bizzarramente, non è interessato – al contrario di Foucault, che cita per la biopolitica, il quale molto lavorava su come l’opinione si costruisce. Su “Le Monde”, agli inizi della sua contestazione, è stato preciso, sulla “falsa logica” già imposta col terrorismo: “La falsa logica è sempre la stessa: come di fronte al terrorismo si affermava che bisogna sopprimere la libertà per difenderla, così ora si dice che bisogna sospendere la vita per proteggerla”.
Biopolitica
Foucault è riferimento necessario, che ha individuato negli apparati terapeutici forme di potere incontestabile, se non assoluto. La biopolitica di Foucault è una scoperta radicale. Che nell’analisi a lungo in corso nel Novecento sulla natura del potere introdusse, in chiave contestativa (poi “Sessantotto”), un approccio originale, da lui stesso in più campi approfondito, del “discorso” su e attorno al potere come suo atto fondativo e rigenerativo: il potenziale comunicativo – un approccio orwelliano più che hobbesiano (certamente non heideggeriano, come invece è di Agamben). Nell’epidemia di Aids di cui Foucault è rimasto vittima non ci sono state misure restrittive (chiusure, proibizioni, isolamento), non trattandosi di malattia infettiva e anzi da contatto intimo, per atto volontario e non subìto. Ma qualora ci fosse stato un vaccino anti-Aids, come per una qualsiasi pandemia, e uno Stato lo avesse adottato o in qualche misura imposto, è dubbio che Foucault non avrebbe accettato di avvantaggiarsene, anche soltanto per evitare di farsi veicolo di diffusione dell’infezione letale.
E perché difendersi sarebbe una colpa? Un soldato in guerra evita con cura di esporsi al fuoco nemico. È un suo diritto, e un dovere – verso la “patria”, verso il comando militare di cui è parte, verso i commilitoni. Agamben non nega il virus e il contagio – anche se ne avrebbe tutti i motivi: la sua riflessione parte da uno studio del Cnr che il virus dice di tipo influenzale, non più pericoloso di un’influenza, a fine febbraio del 2020 – povero Cnr, e povera Italia che finanzia il Cnr. Agamben critica la difesa. Come un immondo (immorale?) relegamento dell’umanità alla “nuda vita”, alla sopravvivenza – che, come si sa, è quella che fa l’hobbesiano “homo homini lupus” (allo stato animale, si sarebbe detto una volta, ma gli animali hanno istinti, abitudini, e sentimenti).
La cosa è contestabile. C’è più partecipazione, empatia come usa dire, sociale, familiare, personale, e perfino universale, quindi più vita di relazione sociopolitica, sia pure a distanza, in questi due anni di quanta ce ne fosse prima, tra un fine Duemila e un primo Millennio desertificanti. Ma perché l’attaccamento alla vita sarebbe una rinunzia, e una colpa – un’autocensura, una castrazione?
Poi Agamben è andato più in là. Ad agosto di quest’anno, presentando la raccolta, scrive: la “Grande Trasformazione” in atto ricalca “quanto avvenne in Germania nel 1933, quando il neo cancelliere Adolf Hitler, senza abolire formalmente la costituzione di Weimar, dichiarò uno stato d’eccezione che durò per dodici anni”. Allo stato d’eccezione, l’aristotelica “stasis”, Agamben dedica da tempo buona parte della sua riflessione. Da ultimo individuandolo nello scontro di tutti contro tutti che – all’apparenza – è la vita politica nelle democrazie, una sorta di guerra civile come unico paradigma politico. In due seminari di dieci anni fa, poi riuniti sotto il titolo “Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, II, 2”, concludeva: “Non è un caso se il «terrore» ha coinciso col momento in cui la vita come tale – la nazione, cioè la nascita – diveniva il principio della sovranità”. Aggiungendo, con anticipazione quasi profetica: “La sola forma in cui la vita come tale può essere politicizzata è l’esposizione incondizionale alla morte, cioè la vita nuda”. Ma Hitler? Hitler è un’eccezione, non uno stato d’eccezione.
Polemista
Il lockdown è una novità, criticabile, fermare tutto: stare chiusi in casa, non lavorare, non camminare, non parlare con nessuno, se non al telefono, non andare al mercato, che peraltro è chiuso, né al supermercato, se  non con lunga e lunghissima fila, e nemmeno in chiesa, anche se non è chiusa, non vedere i familiari, se non conviventi, “vedere il medico” solo al telefono, non seguire i congiunti, anche strettissimi, in ospedale, se non da lontano, nemmeno se morti, e morire senza un funerale, una sepoltura.
Il filosofo tourné polemista scrive piano, chiaro, elegante. Di lettura agevole. Mai banale, certo. Il “capitalismo comunista” è per esempio una pagina pregna – mezza pagina basta. O la terra Ctonia e la terra Gaia . Ma apocalittico. Ci sono epoche nella storia, del mondo e dell’uomo.
L’idea dell’apocalissi è ben storica – più forse che biblica e religiosa. Anche nella forma guénoniana del complotto universale, la desacralizzazione della storia. La laicizzazione ci ha lasciati un po’ più nudi, la crisi continua o emergenza ci costringe alla “nuda vita”? Senza sentimenti, tradizioni, abitudini, politica, arti, pensiero?
Ma la “tecnologia digitale che, com’è ormai evidente, fa sistema con il «distanziamento sociale» che definisce la nuova struttura delle relazioni fra gli uomini” era in atto prima, e lo sarà purtroppo anche dopo, indipendentemente dal virus. È la comunicazione di massa, inevitabile, vecchio problema che deve ancora trovare un suo punto di equilibrio prospettivo – e deve trovarlo, pena la sua dissoluzione, ben prima dell’“effetto serra”. È anche una forma di dissoluzione di cui gli Stati, semmai, sono vittime, conglomerati ingovernabili (incontrollabili) nel mondo comunicante o globale – altro che svolta autoritaria, all’insegna della governabilità.   
L'eccezione 
La conclusione, nell’avvertenza premessa alla ripubblicazione degli interventi in volume ad agosto, fa sorridere: “Lo stato d’eccezione, che è stato prolungato fino al 31 dicembre 2021, sarà ricordato come la più lunga sospensione della legalità nella storia del Paese”. E: “Dopo l’esempio cinese”, del comunismo onnipotente, “proprio l’Italia è stata per l’Occidente il laboratorio in cui la nuova tecnica di governo è stata sperimentata nella sua forma più estrema”. Non è da tutti (“naturale”) fare il polemista: è un genere letterario, da Malaparte a Montanelli, e richiede mestiere.
Un sermone, purtroppo, da vecchio familiare. “Il progetto planetario che i governi cercano di imporre è, dunque, radicalmente impolitico. Esso si propone anzi di eliminare dall’esistenza umana ogni elemento genuinamente politico, per sostituirlo con una governamentalità fondata soltanto su un controllo algoritmico”: un progetto fantasmatico. Non sembra irragionevole, Agamben si difende, ma è una sciocchezza. Succede – Platone vecchio non andò a fare la repubblica con un tiranno?
C’è qualcosa di sbagliato nella reazione al virus cinese. Effetto della paura? Di disorganizzazione? Di un complotto politico? Questo sicuramente no, impossibile - Agamben si affretta a disimpegnarsi dalla teoria del complotto. È la politica della crisi, perpetua – ora dell’epidemia. È in effetti una forma di governo, di basso profilo, governare attraverso la crisi. “Andreottiana” si direbbe in Italia, ma diffusa. Attuale, nell’epoca in cui gli uomini never had it so good – come il premier MacMillan disse della Gran Bretagna irriconoscente, che lo castigò al voto.
Foucault si sarebbe disinteressato della comunicazione dell’evento? Sicuramente no. Ma essa non è tra gli interessi di Agamben. E questo purtroppo è un male. Non è nell’interesse di nessuno, l’opinione pubblica, la comunicazione. Come si formano – si impongono – le idee, e i loro succedanei, la paura inclusa. Il filosofo ne ha avuto l’opportunità in più occasioni - lui stesso stesso vi accenna nella considerazione centrale, della “Medicina come religione” - ma non l’afferra. “A che punto siamo?”, un testo del 20 marzo 2020, è stato richiesto e poi rifiutato dal “Corriere della sera”. Perché? Gli interventi più distesi Agamben può farli solo con i media stranieri: subito “Le Monde”, poi la radio pubblica svedese, la “Neue Zürcher Zeitung” un paio di volte, la rivista greca “Babylonia”. Ma, poi, è censurato dallo “Spiegel”, che lo aveva intervistato – si chiede un’intervista proprio per avere un altro parere. È il filo rosso di questa pandemia, la povertà dell’opinione pubblica.
Per irridere alla vaccinazione di massa, Agamben così conclude: “È perfettamente possibile - anche se non è in alcun modo certo - che fra qualche anno il comportamento degli uomini risulterà simile a quello dei lemmings”, i roditori della tundra che usano suicidarsi in massa a periodi buttandosi nel mare, “e che la specie umana si stia in questo modo avviando alla sua estinzione”. Con i vaccini – “il terrore sanitario”? O non finisce prima, con l’apocalisse della Commissione DuPre (Dubbio e Prevenzione), che già si conta come un partitino del 5 per cento, senza ridere. Nella stessa impolitica, o politica del Celoduro e del Vaffa, che attanaglia l’Italia da quarant’anni. A opera dei corrotti spazzacorruzione, da Bossi a Di Pietro. E dei comici, Moretti prima di Grillo con i “Girotondi” – anche lui con una triade, Occhetto-Di Pietro-Moretti.
Giorgio Agamben, A che punto siamo?, Quodlibet, 120 € 12

domenica 19 dicembre 2021

Cronache dell’altro mondo – antinatalizie (160)

L’“Economist” esce normalmente con una copertina doppia: una per Europa e Stati Uniti e una per l’Asia. Per il numero doppio di fine anno (come tutti i settimanali l’“Economist” esce in 51 numeri annuali) quest’anno fa tre copertine: una, “Christmas Double Issue”, per l’Europa, una con lo stesso titolo, “Christmas Double Issue”, per la distribuzione in Asia e una, “Holiday Double Issue”, per gli Stati Uniti. Che la direttrice Zanny Minton Beddoes così spiega: “In Europa abbiamo sempre pubblicato una “Christmas Issue”. Analogamente in Asia, “dove per molti Natale è ovviamente un’importazione, come il Black Friday, che è giusto un buon divertimento. Ma l’America”, continua Minton Beddoes, “purtroppo, è in guerra contro il Natale, e per la scorsa decade più o meno non abbiamo voluto prendere parte agli scontri. La nostra edizione là s’intitola «Holiday Double Issue». Continuare o cambiare? Continuiamo. Lo spiritello natalizio non richiede coerenza”.

Ombre cinesi

Il modem Wind fibra, 260 euro, di fabbricazione cinese, lavora sei giorni sì e uno no – in genere sabato. Il telefono da tavolo Brondi, 60 euro, made in China, il quarto o quinto sostituito in due anni di garanzia, alcune volte legge le chiamate, altre no, e alcune chiamate non le registra. Il nuovissimo decoder Sky, anch’esso made in China, solo 29 euro, ha quattro o cinque modalità di apertura – basta memorizzare, e poi con pazienza, senza fretta, passare dall’una all’altra. Le cuffie senza fili made in China, regalo questo di Prink, si rompono appena si aprono, la plastica è debole. L’Inter della famiglia Zhang invece funziona – ma non sarà merito di Marotta?

Il console cinese a Milano, Kun Liu, ha pagato una pubblicità sul “Corriere della sera” per spiegare “che tipo di democrazia è quella che è stata definita democrazia popolare durante il recente sesto Plenum del partito Comunista Cinese”. Che ha deciso che il presidente Xi ha sempre ragione. Dopo che ha messo la museruola ai gruppi social, la forma più diffusa dell’informazione, Alibaba, Tencent, TikTok – Google e Facebook si sono da tempo censurate da sé.

Il politicamente corretto come censura, di sinistra

Il politicamente corretto come un attacco al dissenso, il “cuore della democrazia”. Una forma di censura.
C’è una svolta autoritaria in America, e chi la provoca? I media dicono Trump. Shapiro argomenta che è l’elitismo Democratico. Della sinistra liberal: “How the Left weaponized american institutions against dissent” è il sottotitolo, come la sinistra ha armato le istituzioni contro il dissenso.
Di un columnist e broadcaster del sito repubblicano pro-trumpiano “The Daily Wire”. Che analizza precetti e leggi soprattutto attraverso i media, come i media li recepiscono. In fondo, suo malgrado, una delle poche, residue, analisi dell’opinione pubblica.

Ben Shapiro, The Authoritarian Moment, Broadside Books, pp. 272 € 28,99