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sabato 12 luglio 2014

Chiedere i danni ai giudici di Palermo

Forse per non restare indietro su Milano, ecco che Palermo la fa ancora più squallida. In Corte d’assise, al famoso processo Stato-Mafia. Ascoltare il presidente del Senato difendersi, da che non si sa, o l’inviato di Napolitano, Marra, fa un’impressione enorme. Per loro, per i loro giudici, per la nostra difesa.
Un teatrino di una volgarità talmente assurda che avrebbe scioccato Jarry, il padre del re Ubu. Prima tentarono  d’incastrare Berlusconi, muovendo tutto il Tribunale all’incontro col pentito di Dio Spatuzza. Poi Spatuzza fece ridere e ci tentarono con Ciancimino jr., piccolo criminale che si è divertito un sacco a loro spese, di giudici e procuratori. Infine con Napolitano e con Grasso.
Non grande teatro, roba da guitti. Con tanto di moralismo piccolo borghese. Però, stringe il cuore la viltà che si somma alla violenza. Di un presidente del Senato, un presidente della Repubblica, che si discolpano on voce flebile davanti agli inflessibili inquisitori – molti bionde, ossigenate. Che differenza, per dire, con Ciancimino jr., col debole Spatuzza perfino. Che gli stessi giudici, anche le bionde, si aggiogarono.
È una celebrazione della mafia, in un’aula in pompa magna, con giudici e procuratori della Repubblica in ermellino, che si esercita a Palermo. A periodicità teatrale, da un lustro, forse più. Inimmaginabile se non succedesse. Anche perché serve a evitare altre condanne, lo Stato-mafia monopolizza tutto. Negli anni di Messineo, potrà dire il futuro storico della mafia, la mafia era scomparsa a Palermo.
Forse la responsabilità personale dei giudici, la responsabilità patrimoniale, è avventata. Ma ai giudici di Palermo sarebbe impossibile: non c’è somma che risarcisca di tanto ludibrio. Della legge, dello Stato, di noi che li paghiamo, come contribuenti e come spettatori-lettori. Che li paghiamo perché ci difendano dalla mafia e non ci mettano in ridicolo.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (212)

Giuseppe Leuzzi

Francis Ford Coppola è figlio di musicista emerito, padre della regista Sofia e zio dell’attore Nicolas Cage. La “famiglia” a volte non è nociva, non è sempre nociva. Anche il familismo.

C’è qualcosa che non quadra nell’alluvione di Milano. Non c’è la ‘ndrangheta. Ora, siccome è la seconda in due settimane, la quattordicesima in quattro ani, la centonovesima dal 1976, e la tre o quattrocentesima dal 1951, dall’addizionale pro Milano, qualcosa non quadra. Boccassini, ancora uno sforzo.

Roberto Perrone: “(L’olandese) Louis Van Gaaal, on l’ultima furbata del portiere, nel suo percorso è apparso più latino, più pratico, più sistematico nel cercare la scorciatoia, l’escamotage”.
L’inglese ha miriadi di locuzioni - non latine, che c’entra il latino? - per dire l’olandese furbo e infido. E viceversa, è da supporre, la lingua olandese non sarà da meno con gli inglesi: gli imperialisti non sono teneri.

“Qn” (“Il Giorno”-“La Nazione”-“Il Resto del Carlino”) ha da alcuni anni una pagina quotidiana per i mesi estivi, sulle incompiute pubbliche. Tutte a Nord. Tutte opere da decine di milioni. “Striscia la notizia”, copre i restanti mesi dell’anno con altrettanto impudichi reportages di incompiute, ma tutte le localizza a Sud. Senza pregiudizio probabilmente: è che “Striscia” ha collaboratori prevalentemente del Sud, a Napoli, Bari e Palermo, che volentieri si prestano. Anzi, non hanno argomenti – o non trovano udienza a Milano, da “Striscia” – oltre alle incompiute.

La chiesa dei boss
Il papa li scomunica e subito non manca qualche vescovo che si congratula: è finita la collusione. S’inventano scioperi della messa che non sono mai avvenuti. Si aboliscono le processioni. E anche le confessioni dovrebbero desecretare, perché no. Ma è parte delle ansie di questo papa, che insegue l’attualità e il politicamente corretto – gli manca “Ballarò”, o “Porta a Porta” (c’è già andato?):
In realtà, è la chiesa che si fa parte avversa. Di se stessa. Non c‘è chiesa per i mafiosi, checché possano dire i carabinieri e i massoni. Non c’è mai un prete, in nessun posto, eccetto qualche filibustiere isolato, che abbia mai servito o serva il crimine. Né ci sono mafiosi, bisogna dirlo, che abusino di protezioni ecclesiastiche, vere o pretestuose. C’è l’anticlericalismo, che dice i mafiosi buoni fedeli.
I mafiosi cercano d’infiltrarsi nei comitati – civici e cioè popolari, non parrocchiali - per i festeggiamenti, di cui fa parte la processione. Ma non da ora. Perché è la sola cosa che gli interessa: le feste sono un giro d’affari dai 100 mila euro in su. La chiesa dei boss è il business.

La geografia mafiosa di Oppido Mamertina
Molto scandalo e nessuna colpa alla processione di Tresilico di Oppido Mamertina. Il maresciallo, che è anche bello su facebook, ha fatto registrare la processione professionalmente, ottime immagini, le tv di ogni mondo ringraziano. Poi, a metà percorso, se n’è andato sdegnato, in linea con la scomunica del papa. Perché buon cattolico, prima della scomunica non sapeva?
Ma non importa. Tutto perfetto per un talk show alla tv, peccato che siano in vacanza. Anche se la cosa si può sempre recuperare in  autunno. E poi ci sono i media. Tg 5 ci ha fatto cinque o sei aperture, i giornali un paio di pagine, per più giorni fino alla dèbâcle del Brasile. Ma non è questo il punto, anche i Carabinieri possono essere celebrities, perché no. La vita è dura per un giovane maresciallo a Oppido Mamertina, paese terragno di preti, ricoperto di ulivi, che sono grigi. 
Il punto è: c’è una scomunica diversa per gli ‘ndranghetisti rispetto ai mafiosi? Rinnovarla non può fare che bene, ma nessuno la ritiene necessaria, i mafiosi-ndranghetisti per primi. O vogliono farci credere che i mafiosi sono uomini d’onore? Devoti della Madonna della Montagna e della Madonna delle Grazie? Con baci all’anello, inchini, rosari, processioni. Ce lo vogliono far credere i Carabinieri e anche i preti?
Di Tresilico non possiamo dire. Ne veniva un prete sempre sporco, in una Balilla più sporca di lui, a cui aveva tolto i sedili di dietro, poi sostituita da una giardinetta, ancora più sporca, questa coi sedili laceri, che trasportava uomini a giornata e bidoni d’olio, ma aveva l’occhio sorridente, era simpatico a tutti, ed era divertente. L’arciprete Battista. 
Oppido Mamertina è un vasto e ricco Comune, forse il più ricco, al centro dell’olivicoltura della fertilissima Piana di Gioia Tauro, già sede di diocesi e di seminario, dove mezza classe dirigente dei sessanta-settantenni ha fatto le medie, prima della riforma Fanfani cinquant’anni fa.  Con vaste frazioni, i casali della diocesi prima delle leggi eversive. Una è Tresilico, a ridosso del paese centrale. Staccati sono in montagna Piminoro, un paesino che non è mai venuto alle cronache, a Nord nella ferace pianura Messignadi, paese da sempre pacifico e laborioso, e a Sud Castellace, di cui si può testimoniare in prima persona. Paese riottoso, come da nome: una colonia penale all’aperto, progetto settecentesco dei Borboni, a ridosso di un abitato civile in funzione di sorveglianza che in onore del re fu intitolato Ferrandina – da mezzo secolo fagocitato da Castellace, dopo essere stato abbandonato per qualche decennio a zingari calderari.
Si può testimoniare che le “famiglie” di Castellace, tutte note e con modi scoperti, intimazioni, dispetti, attentati, si sono appropriate a poco o nessun prezzo dei pianeggianti e fertilissimi uliveti del circondario, da Patera al Fego. E tuttora ne sono padroni, senza mai alcuni disturbo della legge. Con una sola eccezione, per la famiglia Mammoliti. Ma fu un errore di percorso, la commissione di un omicidio. O meglio fu un caso: che alcuni anni dopo l’omicidio un inatteso ministro dell’Interno, Maroni, abbia deciso di andare a fondo – il morto e la sua famiglia erano di destra, a volte la destra giova alla giustizia.  

La copia dell’antimafia
“È un mercato illegale che non conosce crisi, quello del falso. Per questo camorra e ‘ndrangheta stanno cercando di mettere le mani su questo settore che è in grado di generare guadagni da capogiro. Le indagini che abbiamo portato avanti in questi anni mostrano una crescita continua del settore”. Così il Procuratore Antimafia Ettore Squillace Greco scopre, nel 2014, l’industria della copia. Che vive e prospera con la Repubblica da settant’anni. A Napoli e dintorni, con o senza camorra. E da alcuni anni è peraltro in mano agli africani, senegalesi, ghanesi, nigeriani.
Se non è mafia, i giudici non ci sentono? Può darsi, l’antimafia paga di più.

Al Sud è peggio
Si passino alcuni giorni a Firenze e nella Toscana, la città e la regione meglio amministrate d’Italia. A caso, per esempio in questa metà di luglio. Santa Maria Novella è invasa dai rom. La stazione. La piazza storica dagli ambulanti e, di notte, i barboni, con qualche spacciatore. Nel Mugello c’è una cava di tre ettari  usata come discarica dei colorifici della Bassa. A Principina a Mare hanno tagliato tutti i pini, presi dalla cocciniglia – non prevenuta né curata. Il Magra ha portato nelle spiagge sopra Marina di  Carrara schiuma bianca alta mezzo metro, acque nere e rifiuti vari.
Oppure si esca a Roma fuori casa e fuori dell’ufficio. La spazzatura non si sa se viene raccolta e quando: dappertutto c’è immondizia. Si è appena chiusa una discarica che è stata in vari modo illegale per quarant’anni. Nei quartieri settentrionali, e nell’Alto Lazio, l’acqua torna a essere rugginosa, e forse velenosa.
Business as usual, l’Italia non riesce a essere migliore. A raccogliere i suoi rifiuti. A non avvelenarsi. Ma tutto questo non fa scandalo. Nessun Carabiniere fa rapporto all’Autorità giudiziaria. Nessuna Autorità giudiziaria si commuove e si muove. Perché non è il Sud.

leuzzi@antiit.eu

Il pubblico privato

Lo studio dell’ex ministro Manzella, esperto giuridico e politico della Pubblica Amministrazione, va integrato con l’evoluzione politica. La crescita del terzo settore o del volontariato, in atto ancora prima che fosse avviata la privatizzazione delle istituzioni. Rapidamente poi passando dalla sussidiarietà (il privato interviene dove il pubblico non sa o non può) alla titolarità del servizio. E quindi a soggetto sociale e politico di riferimento. Un assetto che è straripato nel giro del millennio.
La privatizzazione della funzione pubblica è cominciata col terzo settore. Con l’appalto di molti sevizi pubblici, spesso essenziali, dall’assistenza all’antimafia, a fondazioni e onlus. A carattere volontario e senza fini di lucro, ma politicamente e socialmente  privati. Quasi sempre legati alla chiesa. Direttamente, come associazioni confessionali.  Indirettamente, attraverso le fondazioni bancarie, a loro volta legate, attraverso le vecchie famiglie azioniste, e la rappresentanza delle comunità locali, alla chiesa.

Lo Stato appalta servizi che non sa gestire, non convenientemente, anzi con sprechi e ritardi. L’esito non sempre è soddisfacente. L’immigrazione ridotta a carità è uno. Non modificare la Bossi-Fini ma assistere nelle pratiche. Non regolare l’immigrazione, ma fornire la bara o un giaciglio. Un lassismo, quello delle onlus di parrocchia, che è il peggiore incentivo al mercato nero delle braccia, il piccolo grande schiavismo che appesta il Mediterraneo. La gestione dei beni mafiosi è un altro. Inetta. Carissima. La gestione del centri di recupero della droga, etc.. Ma non c’è remissione, la tendenza è ormai affermata. 

venerdì 11 luglio 2014

Fisco, appalti, abusi (54)

In tutti i paesi a ideologia di mercato, dagli Usa alla Gran Bretagna, associazioni di consumatori offrono patrocinio e assistenza legale contro gli abusi delle società di servizi (aerei, banche, telefoni, autostrade, gas, elettricità , assicurazioni, etc.), e delle stesse Autorità settoriali di controllo. In Italia no. Quelle che ci sono lavorano d’intesa con le aziende.

Italgas\Eni provvede ogni tre anni alla sostituzione del contatore del gas. Che vi dice gratuita. Ma se, per evitare future bollette truffaldine, che sono la norma (per Acea per esempio), volete la documentazione di quanto segnalava il vecchio contatore, dovete pagare. Per avere una scrittura di sei cifre.
Dovete pagare quanto prevede il vostro fornitore del gas, vi dice il numero verde. All’incirca quanto? Trenta-quaranta euro. Il costo del contatore.

Non è l’ultima truffa nel mercato dell’energia. Italgas non vi scrive le sei cifre del contatore che cambia per consentire future bollette truffaldine. Acea, per esempio, ne è specialista – la pagina “Scrivete a” del Corriere della sera-Roma” ne è monopolizzata.

Il “Corriere della sera-Roma” risolve ogni giorno un caso di bollette fasulle e atri abusi delle aziende di servizi. Le Autorità settoriali di controllo si rifiuteranno, in base ad argomentazioni normative, procedurali, etc.
Normalmente il rifiuto di prendere in considerazione un reclamo è argomentato dalle Autorità su due cartelle a spazio uno, anche su tre. Una giornata di lavoro di un addetto, per non lavorare.  

È l’uso a Roma, che la polizia municipale, per passare prima di voi, anche se non ha fretta, metta il lampeggiante.
Specie se guida lui e accanto c’è una lei. Non da ora, per la verità.

Horror giudiziario

Ciò che succede a Milano supera l’immaginazione. Per lo squallore. Dentro la Procura. E fuori, nella non detta ma ormai più che ventennale storia di dispetti fra Tribunale e Procura.
Tutti accusano tutti nella Procura. Di favoritismi nell’assegnazione delle inchieste e nelle carriere. Tutti allegramente ignoranti del principio costituzionale del giudice naturale. Un‘ignoranza che è un delitto, benché la copra il Quirinale d’autorità - nel presupposto che quei Procuratori siano del partito del Presidente, mentre non sono che maneggioni.
A fronte dei galli smaniosi in Procura al piano alto, ai piani bassi del palazzo di Giustizia friggono risentimenti ormai ventennali. I giudici non boicottano più la Procura, come per alcuni anni fecero per difendersi. Non si fa carriera contro l’impunita e impunibile cupola della Procura, e il Tribunale si adegua: i giudizi sono sempre in linea con le richieste della Procura. Ma il risentimento resta: chiunque ha da fare col Tribunale, anche di sfuggita, lo avverte, nei sarcasmi, le insofferenze, la mestizia.
I giudici giudicanti hanno risentito molto l’appropriazione degli spazi che la Procura fece al tempo di Borrelli, vent’anni fa. Con suite per i capi, bagni faraonici per tutti, spazi ampi con fioriere per i sostituti Procuratori, e corsie privilegiate, quasi salottini, per i cronisti giudiziari, confidenti dell’uno e dell’altro. Nonché le carriere fulminee, privilegiate, che la Procura garantiva. Col tempo, con la conferma dello strapotere della Procura, le critiche si sono attutite, ma non i rancori. Delle liti in Procura si ride, fra i giudici, anche al bar.

Il viaggiatore è meglio narratore che nomade

Doveva essere una summa dell’autore, ma meglio si rilegge fuori dei cliché (nomadismo, collezionismo). Il saggio su Stevenson – un doppio: come fustigarsi allo specchio. Quello sul razzismo biologico di Konrad Lorenz, l’etologo premio Nobel 1974: una scoperta d’archivio che esplicita molti sottintesi. Le case capresi d’autore, di Malaparte, Axel-Munthe, il barone Fersen. E lo storione familiare.
Sarà vero che “il reale è sempre più fantastico del fantasioso”, ma come saggista Chatwin è solo diligente, ripetitivo anche, insistito.  
Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza

giovedì 10 luglio 2014

Letture - 177

letterautore

Autore – Nell’opera è tridimensionale. Almeno a tre dimensioni, tante ne enuclea Wayne C. Booth, “The Company we keep: an Ethics of Fiction”:, 1988. Uno è l’ “autore implicito”, il senso della vita che la narrazione nel suo insieme si è data e dà. Il secondo è il “narratore” del testo, quando c’è, e l’insieme dei personaggi che si rappresentano. Il terzo è naturalmente l’“autore reale” – che non coincide con l’implicito: può essere di più o di meno, avere proprietà che l’altro non ha o avene di meno.

Cassola – O del sovietismo inossidabile? Della mafia, piuttosto.
Con lentezza, con stupore, addebitando tutto, non si sa mai, alla solerzia e all’impegno di Alba Andreini, la curatrice, lo scrittore forse più impegnato del dopoguerra viene segnalato per una rilettura. Senza peraltro entusiasmo, giusto perché Mondadori lo ripubblica dopo un’assenza di trent’anni. Dicendolo, perplessi, non la Liala con cui l’ha bollato il Gruppo 63, lui come Giorgio Bassani, grande letterato e narratore – due giganti, a confronto della prosopopea sterile del Gruppo (Umberto Eco compreso, che poi optò lui per il genere colportistico…).. Cassola fu socialista, radicale, candidato politico, e sempre apcifista, per l’obiezione di coscienza quando era un reato, eccetera. Ma non fu del Pci, nemmeno come “compagno di strada”, e questo gli costò la tranquillità e la reputazione. Gli costa tuttora.
Cassola è stato, scrive Massimo Raffaeli in un tristissimo ricordo sul “Corriere della sera”, bollato “di provincialismo, filisteismo o, insomma, di aperta collusione col mercato”. Ma non  “è stato” bollato, lo è tuttora. “Non gli venivano allora perdonate”, ricorda ancora Raffaeli, “l’indipendenza della ricerca, la perfetta estraneità alle poetiche à la page”, etc. Non delle colpe, semmai dei meriti, ma ciò che contava – che conta – è mettere nel mirino, isolare. Che si dice sovietismo impropriamente, è il metodo della mafia in letteratura.

Destra - Uno scambio si ripropone tra Roger Scruton e Martha Nussbaum - a proposito della riedizione del saggio di quest’ultima, “Persona oggetto”, 1995, originato da “Sexual desire”, il trattato del filosofo inglese, 1986, e a esso conformato. La recensione di M.Nussbaum sulla “New York Review of Books” provocò una lettere di protesta di Scruton. Il filosofo, benché in lite con l’editore americano, Free Press, che non l’aveva consultato per il risvolto, che lo qualificava di collaboratore del governo Thatcher, contestava la recensione, che, in quanto fondatore del Conservative Philosophy Group, gli attribuiva una consulenza al governo Thatcher. “Consulenza” che M.Nussbaum aggravava: “Ha servito entusiasticamente come consigliere del governo Thatcher”. Non è vero, scriveva Scruton, e voleva dire che, benché conservatore, non era thatcheriano. Comprensibile: di destra ma di un’altra destra. Tanto più, aggiungeva: “Perché lei lo ritenga rilevante per una disamina dei miei argomenti sull’intenzionalità del desiderio sessuale è ancora più misterioso”. Giusto. Più di tutto, però, Scruton teneva a ribadire che il “desiderio sessuale” può essere disgiunto dall’amore – il “rapporto duraturo e profondo” di M. Nussbaum “che coinvolge l’intero essere spirituale di entrambe le parti”. Anzi, la novità della sua riflessione, sottolineava, era “di caratterizzare un certo tipo di amore come l’esaudimento del desiderio nel modo in cui la vendetta e il trionfo sono l’esaudimento della collera”. 
Ma questo, è più o meno di destra che consigliare il governo Thatcher?
E non dare nessun credito a un autore a cui ci si conforma, Nussbaum in questo caso a Scruton, è di sinistra?  
Europa – C’è una “Europamüdigkeit”, una stanchezza dell’Europa, un senso di fastidio, già in Heine – che non la condivideva – in viaggio verso Genova, nel 1828. Il poeta la attribuiva alla “stanchezza di udito” in tema di libertà, di emancipazione dei popoli e delle classi, e anzi di nascente nazionalismo.

Ironia – Richard Lester ricorda come iniziò con i Beatles - su “QN” del 5 luglio: “Diversamente da qualsiasi altro artista, avevano la capacità di guardarsi da fuori con cinismo e ironia, e l’aggiunta surreale era necessaria per far capire la cosa”. L’ironia va dichiarata, altrimenti non si capisce.

Scrittore – “«Gli scrittori scrivono», sembra un fatto ovvio. Alla gente piace dirlo. Io non lo trovo quasi mai vero. Gli scrittori bevono. Gli scrittori sbraitano. Gli scrittori telefonano. Gli scrittori dormono. Ho conosciuto pochissimi scrittori che scrivono davvero” (Renata Adler, “Mai c eravamo annoiati”, 34).

Sinistra - A lungo ha dominato l’editoria. Non come idee, come schieramento. E tuttora la domina: pubblicazione, recensioni, critica, premi letterari. Perfino la distribuzione vi si conforma. Non c’è più la lista di proscrizione del 1969, quando Adelphi, Rusconi e un paio di altre case editrici furono messe all’indice, dalle librerie Feltrinelli, dai supplementi libri, dalle recensioni. Ma alcuni editori, alcuni libri non vanno in alcune librerie e nei giornali.

Sovietismo - È lenta la riemersione dal sovietismo. Dall’impossibilità per molti di pubblicare, o di farsi leggere. Comunque sempre screditati, da un tam-tam irresistibile, interminabile, benché si dichiari esso stesso sconfitto – ha corroso le coscienze. Non si risistema (rilegge) il Novecento. Di cui peraltro è perduta la vena alternativa, seppure in veste di “opposizione” politica: non si pubblica e non si apprezza che il vecchio filone neo realista, in salsa globale: nomi angloidi, luoghi esotici, foreste pluviali, deserti, tetti del mondo, oceani-squali, barbe senza volto, e vicende senza passione, per lo più turpi – la turpitudine ha sostituito il classismo, questa la sola novità. “L’uomo e il cane”, apologo di Cassola sul rifiuto della libertà concessa, un racconto breve di ottanta pagine, ri ripubblica con altrettante di excusatio da parte di Vincenzo Pardini – l’editore lo teme altrimenti inappetibile.

Viaggio – È una letteratura non italiana? Dacia Maraini presenta il suo libro di viaggi, “La seduzione dell’altrove”, con una  premessa impegnativa: “Incontrare un’altra cultura e altre persone mette in crisi quello che sei stata fino a quel momento. Non tutti lo sopportano”. Ma non è il contrario per l’ultimo viaggiatore d’eccellenza, Chatwin? Un personaggio a Londra: gay, snob, con un occhio esperto d’arte, che gli apriva le porte della stessa Londra, e di Parigi, della Toscana, del mondo che conta. Ma curioso e per questo divertente – creativo: amava viaggiare, e far rivivere, raccontandoli, altri  mondi.
Non un caso isolato: ci sono moltissimi bei libri di viaggio in inglese, che volentieri si leggono, a partire dall’Etiopia di.Burton. Insegnano anche molto, decontratti e insieme comparativi al giusto.
In italiano si leggono eterni viaggi intorno a se stessi. Viaggi “in una stanza”, “attorno all’ombelico”, quella solfa là che è il contrario della letteratura di viaggio. Viaggi spesso - molto più spesso che altrove, in Germania per esempio o in Francia - attorno all’essere italiano, anche, che è la stessa cosa.
Si deve dire forse l’italiano malgrado tutto sedentario. Malgrado l’esterofilia. Anche quando, come spesso fa, emigra, per studio, per lavoro, per allontanarsi dalla famiglia. Ha nostalgia? Anche se non  ce l’ha, non cambia - succede per i tanti meridionali che si rifiutano, assimilati già alla prima generazione: non si scuotono la polvere originaria di dosso.

letterautore@antiit.eu

L’assassino è lui, Sherlock Holmes

L’esordio come giallista di Dibdin, future creatore di Aurelio Zen, lo sgamato investigatore veneziano, avviene nel 1976 con un assassino a sorpresa: Sherlock Holmes. È lui il dr. Moriarty. E anche Jack lo Squartatore. Il dr. Watson lo scopre per caso all’opera in un delitto atroce, con raccapriccio ma non può negarsi l’evidenza: era “l’uomo migliore e più saggio”, ma “era pazzo”. È la verità, forse non del solo Dibdin. Di cui la Oxford University Press può fare un’edizione per giovanissimi, semplificata nel vocabolario.
Perché la verità viene a galla nel 1976? Perché il dr. Watson la racconta prima di morire nel 1926, con la clausola che non sia resa pubblica se non dopo cinquant’anni, in tempo per il debutto di Dibdin. Un caso d’inverosimilianza apodittica. Il padre del commissario Zen sfida U. Eco e la semiologia, dell’induzione deduttiva, o della deduzione induttiva: “Niente sembra reale”, ma un fatto è un fatto, anche quando è finita la cocaina, per il narratore oltre che per l’assassino.
Michael Dibdin, The last Sherlock Holmes Story, Oxford University Press, pp. 68 € 2
L’ultima avventura di Sherlock Holmes, Passigli, pp. 55 € 11,90

Non è successo niente, è il Brasile

Straordinario non evento dopo la straordinaria partita Brasile-Germania. Un partita epocale, si è potuto leggere, ma niente di più. Mentre è drammatica, grottesca, tragica, comica, l’Evento per eccellenza della storia del calcio. Nel paese che più di tutti al calcio si lega, e l’evento stesso ha organizzato, pagandolo a caro prezzo.
Il giorno dopo si poteva pensare che la sorpresa fosse stata eccessiva per poterla registrare, tanto più per l’ora tarda. Oggi è solo insipienza. Sulla partita, sui protagonisti, sul Brasile, sui tifosi brasiliani, sui politici brasiliani niente che sia qualcosa più di niente. Le solite facce per il terzo giorno, fornite dalla Rai - come quelle della processione di Tresilico fornite dai Carabinieri. Su cui fiumi di parole inutili si ricamano. E spiegazioni in forma d’interrogativo: come è potuto accadere?
Riflessi lenti, per una sorpresa eccessiva? No, è la straordinaria ignoranza del mondo esterno che l’Italia sperimenta. Che si potrebbe pensare mancanza di curiosità dell’Italia stessa, degli italiani, dei lettori. I giornalisti non sono italiani anche loro? Se non che si capisce che nessuno legga più i giornali, giusto quelli, sempre meno, che ne hanno il vizio. Se non ci trovano che pigrizia, sciatteria, inutilità.

Non che l’Italia abbia mai saputo molto del mondo. A fronte, per dire, della Francia, o della Germania, o della Gran Bretagna. Ma ora l’ignoranza è specialmente acuta. Acuita dal declassamento della specialità più nobile del giornalismo, quella dell’inviato speciale. Che doveva sapere un paio di lingue, avere letto un paio di libri di storia, e sapersi procurare buone entrature nei paesi di cui andava a scrivere. 

mercoledì 9 luglio 2014

Problemi di base - 189

spock

Niente fiamme né fulmini, una Götterdammerung a suon di gol, è un altro Wagner?

Cinque gol in venti minuti, quattro in sei minuti, tutti nello stesso posto e allo stesso modo, è un miracolo? una sorpresa? un regalo?

Sette gol presi in una partita, contro quattro in cinque: è stato un momento di distrazione?

O era un allenamento, col Brasile sparring partner, volenteroso?

Ci sono più allenatori, almeno una decina, che giocatori italiani all’estero, e pure ben pagati: l’Italia è un paese di allenatori?

Perché vogliono farci credere i mafiosi uomini d’onore?

E anche coglioni, tra baciamani, inchini, rosari, salmodie?

Berlusconi ha pubblicato la sua satira e il santino di Berlinguer, e le ha condotte al premio Strega, Berlinguer avrebbe pubblicato la sua satira e il santino di Berlusconi?

spock@antiit.eu

La P.A. in via di privatizzazione

Di fatto, la Pubblica Amministrazione è in via di privatizzazione. Mazzella lo sostiene nel capitolo centrale di questa ennesima esercitazione sull’incerto futuro (in forma d’intervista con Sandro Greos-Pietro), ma con precisi argomenti. È del resto la persona più indicata per saperlo: già capo dell’Avvocatura di Stato, vice-presidente della corte Costituzionale, già ministro della Funzione Pubblica, vice-presidente della corte Costituzionale. Lo svuotamento della P.A. si fa attraverso le Autorità di settore. Organismi misti pubblici-privati, molto snelli, molto orientati a favore del mercato, cioè degli interessi privati e privatistici. “Apparati d’incerta natura giuridica e di ambigua collocazione istituzionale” li dice. Ma, dice anche, veicoli della trasformazione delle istituzioni in “società di servizi, sul modello anglosassone”.
Luigi Mazzella, Euro crash. Cinquanta ipotesi di incerto futuro, Curcio, pp. 367 ril. € 18

Recessione – 22

Tutto quello che dovremmo sapere ma non si dice:
I prezzi scendono, i consumi pure.
Due famiglie su tre hanno ridotto anche i consumi alimentari, rileva l’Istat.

Anche la produzione industriale, malgrado gli ottimismi esibiti, è in calo.


Le sofferenze bancarie in Italia sono il doppio della media europea.

L’incidenza degli investimenti fissi lordi sul valore aggiunto lordo della aziende industriali è a metà 2014 ai livelli di vent’anni prima.

In quasi tutte le città del Sud i panifici tengono una scorta per chi non può pagare. A proprie spese o di una onlus.
A Milano l’industriale della ristorazione Pellegrini apre una mensa per i bisognosi, 500 coperti a un euro a pasto.

Le tasse sulla case si sono triplicate in tre anni. Gli investimenti nell’edilizia si sono contratti di 40 miliardi, diecimila imprese sono fallite, 500 mila posti di lavoro sono andati persi..

Muoiono 16 imprese artigiane al giorno in Toscana. Dal 2007 si sono perdute nella Toscana 16 mila imprese artigiane (saldo tra imprese nate e morte), 22 mila addetti e un terzo del fatturato, circa 3,5 miliardi.

Un’edicola su tre ha chiuso a Roma.

martedì 8 luglio 2014

Il mondo com'è (180)

astolfo

Arabi – Nella teoria diffusionista della cultura, a cavaliere del Novecento, una sorta di evoluzionismo delle forme mentali, la civiltà cala sugli arabi, in quanto nomadi, con effetti depressivi. G.W.Murray, lo studioso e politico afroamericano, sintetizzava nel 1926 in “The sons of Ishmael”, a proposito dee beduini in Egitto, un denso filone di studi: “Legge e ordine sono calati come il carbonchio  sul Sinai e la Palestina”.  È calata dagli inizi della civiltà stessa, a partire dall’occasionale congiuntura favorevole nell’Iraq meridionale, la vecchia Mesopotamia, che portò alla costruzione della prima città – la civiltà è cittadina, urbana.
Il fatto è scontato. Nella sintesi di Wilfred Thesiger, il viaggiatore inglese che esplorò il Quarto Vuoto in Arabia Saudita, il deserto deserto, e ci visse anche, con le tribù dei rashid, “tutto ciò che c’è d meglio tra gli arabi è venuto dal deserto”. Ma questo era prima della moltiplicazione dei prezzi del petrolio, quarant’anni fa.
I primi effetti della rendita petrolifera furono destabilizzanti psicologicamente tra i potentati della penisola arabica, che ne erano anche i padroni – lo sono tuttora, regni e emirati sono sempre patrimoniali. I loro nipoti sono ora disinvolti uomini d’affari, a loro agio nelle più ricche e sofisticate piazze finanziarie del mondo. Ma i principi ereditari sauditi, i figli di Ibn Saud che si sarebbero succeduti alla guida del Paese fino all’attuale reggenza, si segnalarono come disadattati. Come tali analizzati dalla “Harvard Business Review” nel 1975. Dopo che nel 1974 alcuni di essi, tra i quali il futuro re Fahd, si erano installati a Montecarlo decisi a sbancare il casinò.  

Destra-Sinistra - La legge e l’ordine è ora di sinistra. Multe, tasse, divieti, carabinieri, spionaggio, giustizia, sono di destra. E l’odio. Si ripubblica Bobbio come se nulla fosse, ma questi venticinque anni hanno cambiato l’atlante. Non c’è nemmeno l’uguaglianza nella sinistra, se non nelle forme opportunistiche del merito e della competenze.
Resta di destra la corruzione. Ma non esclusiva, anzi – contando anche la corruzione dove non si persegue, in Umbria, in Toscana, nelle Marche, destra e sinistra probabilmente si equivalgono..

Donne – Una volta c’era sempre uno zio che aveva perso tutto, “a Parigi”, al gioco o alle donne. Ora non più. Ora si dice, si suppone, che i vizi siano il gioco e la droga.
Ma più spesso non ci sono più nemmeno gli zii, siamo al figlio unico di seconda generazione.

Europa – Il suo destino è nei numeri. Declino demografico. Declino economico. Irrilevanza militare e strategica.

Germania-Italia Andarono all’unisono nella prima metà dell’Ottocento, “liberate” mentalmente e culturalmente dalla rivoluzione francese e da Napoleone. In questo alveo maturarono il nazionalismo, entrambe come risorgimento, un passato glorioso che avrebbe concimato un futuro altrettanto robusto, e umano, progressivo, libero. In questo senso Marx e Engels si esprimevano ancora nel 1859, “Po e Reno”. Anche il nemico era lo stesso, l’impero asburgico. E invece tutto era cambiato, o stava per. La “rivoluzione italiana” fu popolare e europea, l’unica rivoluzione incontestata e popolare dell’Europa. La Germania fu unificata dalla Prussia, con una guerra regolare, di eserciti in campo.
Erano i due mondi diversi? Forse, ma l’unità tedesca “dall’alto” intervenne quando anche il Risorgimento, morto Cavour, la sua anima liberale, era stato tradito. Da tutti i punti i vista: gramsciano-gobettiano o della democrazia, costituzionale o della legalità, delle pari condizioni tra i plebiscitati, e perfino dal punto di vista della religione e della laicità. Furono due rivoluzioni alla fine incompiute. Fino a ottant’anni dopo, al 1945, alla “liberazione” di entrambi i paesi, in larga misura imposta – allora come ancora oggi, ancora cioè dopo settant’anni. Protagoniste in Europa, ma come dame-papere, impacciate, e sempre bisognose di robusti chaperon, sotto forma di richiami all’ordine.

Giornalismo – “In Dante c’è un passo in cui lui e Virgilio, mentre attraversano l’Inferno, si fermano accanto a un uomo immerso fino al collo nel fango bollente. All’uomo non va di parlare con loro. Ha i suoi problemi. Non vuole un’intervista. Dante lo prende letteralmente per i capelli e si fa raccontare la sua storia. Una specie di parabola del giornalismo, credo. Anzi, lo so” (Renata Adler, “Mai ci eravamo annoiati”, 28).

Nomadismo – C’è il bisogno della casa, ma c’è anche il bisogno, benché non altrettanto celebrato, di non avene una.  A qualche millennio dall’inizio della civiltà, cioè dalla creazione della città, dalla sedentarizzazione, è come dice Pascal: “La nostra natura è nel movimento”.
La stanzialità è recente. Ha pochi anni – poche migliaia di anni nel lungo calendario della storia, sia pure presunto.

C’era nell’emigrazione una forte componente di evasione. In quella dei girovaghi in forma esaustiva. In quella dell’Otto-Novecento, delle masse e del bisogno, in forma integrativa ma non marginale. E con ogni evidenza anche in questo torno di millennio, dell’emigrazione tragica attraverso il Mediterraneo – non determinata dalla fame, poiché si pagano cifre iperboliche per i trasferimenti, e spesso nemmeno dalla politica (“rifugiato politico”, concetto dei tempi del sovietismo, l’Unione Europea diffonde per sgravarsi la coscienza).
C’è bisogno comunque di andare via. Forse non definitivamente, ma senza progetti di ritorno. Un bisogno di vedere, di vedersi, di misurarsi col mondo. Più spesso che non in condizioni più difficili di quelle che si lasciano. Anche senza l’odio-di-sé, o il rifiuto dei luoghi, gli ambienti, le condizioni di partenza, senza invettive e senza interdizioni: un bisogno di andarsene.
È una componente del nomadismo. Minore. Il nomadismo propriamente detto è costante, è distruttivo, e non si misura, non intendendo costruire: è un istinto, vagare come non darsi coscienza. Ma ne rispecchia la voglia di cambiare, anche se per una o due volte nella vita - non periodicamente o costantemente, che sarebbe disadattamento, altra cosa.

Chatwin ci trova sotto una base biologica (“Questo nomade nomade  mondo”, il suo primo testo in materia, 1970, ora in “Anatomia dell’irrequietezza”): “Neurologi americani hanno fatto l’encefalografia a non pochi viaggiatori. È risultato che cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni nel corso dell’anno stimola i ritmi cerebrali e contribuisce a un  senso di benessere, di iniziativa e di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgusto di sé e reazioni violente”.     

Sesso – Oggi è prevalentemente un catalogo: una specializzazione come per un mercato. Facebook ne cataloga 58 ufficiali – status riconosciuti e protetti.

Umanitarismo – Sempre più si rivela come uno sgravio delle buone coscienze. Del tutto o quasi inefficace come aiuto contro la fame e le malattie, o come prodromo allo sviluppo. È anzi in troppi casi, quando è trasferimento di fondi pubblici attraverso soggetti privati, siano pure del terzo settore più volontaristico, una forma di occupazione e reddito a beneficio dei donatori.

astolfo@antiit.eu


L’Italia è padre per Colette

Copertina verde reseda, come le divise degli ufficiali italiani nella grande guerra, nell’italiano fluido, “colettiano”, di Angelo Molica Franco, la grande guerra raccontata da Colette. Un recupero di prose dimenticate, sparse per vari giornali, che merita l’impegno. Colette si aggira per le retrovie, di Francia e d’Italia, ma non svagata sotto lo scontato manto patriottico: di ogni scena o evento lascia tracce in vario modo memorabili. I mutilati, giovani, i corpi disintegrati al fronte, il cibo, sempre ottimo e abbondante al fronte, senza ironia, e la fame, nelle campagne, il patriottismo vestimentario delle donne. Sempre gatti e cani migliori delle donne, fedeli. E l’Italia
In Italia Colette non vede la guerra, a Roma, a villa Borghese, o a villa Medici, a Venezia, al lago di Como. Ma sa cose dell’Italia che l’odio-di-sé ancora non ha cancellato. La pedagogia, sconosciuta in Francia, ai borghesi come ai contadini: la maternità soprattutto (anche la paternità). L’istruzione estetica nelle piazze. L’opulenza lombarda, di fascino, personalità, ricchezza propriamente detta, saggezza. E il ricordo del padre.
Altrove assente, anche se Colette ha scritto moltissimo, il “capitano” qui domina. Mutilato lui stesso di una gamba da giovane a Melegnano nel 1859, e tuttavia sempre poi, per quasi mezzo secolo, nostalgico. “In piedi e ancora così vivo a settant’anni sulla sua unica gamba, cantava delle canzoni italiane e quasi ringiovaniva a dipingerci con le parole,  fiori, il sole, le donne dell’Italia”. Grande lettore di Balzac, autore di una quindicina di volumi, che la figlia ritrovò alla morte ordinati sullo scaffale. Rilegati, titolati, con una dedica alla moglie, che sarà la “Sido” di tanta Colette, vuoti: le pagine, di ottima carta, erano bianche. Uno che voleva scrivere e non potè. 
Con una chicca per gli storici. “Il Messia? Ma in Austria è Giolitti. In Austria si parla del ritorno di Giolitti, con la erre maiuscola”. Giolitti o la neutralità dell’Italia. Colette se lo fa spiegare, ancora nel 1916, a Lugano,”che trabocca di tedeschi e austriaci”, dal principe Hohenlohe, austriaco di Venezia.
Colette, Le ore lunghe, 1914-1917, Del Vecchio, pp. 231 € 14

Rottamare i giudici

Non si trovano che giudici in lite, oggi come ieri o un qualsiasi altro giorno. In lite a Milano, nella Procura e fuori. In lite a Roma, oscena, per consorterie, camarille, promesse, buggerature, attorno ai”posti” di consigliere del Csm. Che pure è un organo della Costituzione.  In lite sulla Costituzione, che vogliono intoccabile mentre giornalmente  la scardinano. In lite a Palermo, dove un paio di giudici vogliono tutti gli altri mafiosi, più o meno. O altrimenti impegnati, questa volta tutti insieme senza un’eccezione, a difendere i privilegi. Di emolumenti, Di pensione. Di carriera, a cieli aperti, senza mai dover dare prova, nepure mi nim a, di applicazione al lavoro, se non di efficienza.
Non si finisce di stupirsi del basso livello di moralità, nonché di efficienza, dei giudici. Senza vergogna, e anzi con jattanza. Con quel loro linguaggio astruso che rende impossibile ogni distinzione del bene dai reati. Con quelle loro procedure da giocatore delle tre carte, che sempre scoraggiano gli onesti. Non si può dire la giustizia il perno della corruzione incontrollabile e del disfattismo dello Stato, ma così è: quella civile, quella amministrativa, e anche quella penale. Al coperto di un formalismo che i giudici stessi si tessono, contro ogni forma, anche remota, di giustizia.
Dire “i giudici” nel senso di tutti i giudici è un’esagerazione. Ma l’incapacità è devastante. Sembrano tirati fuori dalle grida manzoniane. E la neghittosità: su novemila giudici lavoreranno in duemila? ecco, ma non più di tanti. 

lunedì 7 luglio 2014

Commissione © Merkel

Il primo ministro finlandese Katainen si è dimesso per fare il commissario europeo agli Affari Economici, al posto di Olli Rehn. Non per cinque anni ma per cinque mesi, anzi meno, forse due o tre, il tempo che manca per completare il mandato di Olli Rehn, eletto al Parlamento e quindi dimissionario, fino alla nomina in autunno della nuova Commissione quinquennale. Katainen, insomma, ci mette il cappello, come se l’incarico fosse nazionale e non alla persona.
Meglio Bruxelles che Helsinki? L’ironia è facile, al raffronto con gli italiani. Che sogliono – solevano, ora nessuno li chiama più a Bruxelles – lasciare la Commissione per una poltrona, anche minima, a Roma. Ma c’è qualcosa che non quadra. Katainen, come Rehn, sono mandatari di Berlino. Hanno per questo, non per essere finlandesi, il posto assicurato alla gestione dell’Economia.

La ridicola staffetta Katainen-Rehn non è isolata. È il caso anche di Juncker. Che è candidato alla presidenza della Commissione dal partito Popolare. Che è il partito di maggioranza relativa all’Europarlamento. Ma è stato per otto anni, fino al 2012, alla presidenza dell’Eurogruppo, il portavoce di Berlino. E per i precedenti venticinque anni, da ministro delle Finanze e poi premier del granducato del Lussemburgo, ne ha fatto un paradiso fiscale, il più rigido e “garantista”, più della Svizzera o l’Austria.

La ricetta Ackermann

Recensendo W.Streeck, “Tempo guadagnato”, in uno dei saggi della raccolta “Nella spirale tecnocratica”, J. Habermas è affascinato dalla critica che il sociologo muove al “metodo Ackermann”. Ackermann è l’ex presidente della Deutsche Bank dal 2002 al 2012, “noto”, dice il traduttore in nota, “per aver fissato obiettivi di rendimento del capitale del tutto spropositati”. Ma non solo per questo, come “Gentile Germana” documenta al cap. “La colpa è dell’Italia”, di cui diamo un estratto:
“Sul debito bisogna intendersi: la colpa qui, per la Germania, è senza dubbio dei latini. Prendiamo il caso dell’Italia, dell’offensiva contro i Btp della primavera 2011, i buoni del Tesoro italiano. La Deutsche Bank, subito imitata dalle banche tedesche minori, vendette tutti i suoi Btp, che allora quotavano a valori superiori al nominale. Vendette cioè non per ricoprirsi da perdite ma per guadagnarci. E a luglio ne informò il Financial Times, dopo aver ricomprato Btp a termine, a prezzo prevedibilmente più basso. E aver fatto incetta di credit default swap collegati ai Btp, titoli di cotroassicurazione sul rischio insolvenza dell’Italia, sui quali intanto lucrava un rendimento elevato. Con una mano. Con l’altra diffuse a fine luglio un rapporto favorevole ai Btp.
“Un modello di speculazione. Fu l’inizio della crisi dell’Italia. Innescata a freddo, non per caso. Era a capo di Deutsche Bank Josef Ackermann, “il più potente banchiere del mondo” per il New York Times. Potente coi politici, in Germania e fuori – in Italia aveva Giuliano Amato a “maggior consulente”. Per Simon Johnson, capo economista al Fondo Monetario, “uno dei banchieri più pericolosi del mondo”. Amministratore delegato dal 2002, aveva impegnato Deutsche Bank nei mutui senza garanzie, la bolla scoppiata nel 2007. Per queste e altre attività arrischiate della sua gestione - la vendita di derivati agli enti locali in Italia e la manipolazione dei tassi interbancari – la banca tedesca è tuttora la più coinvolta in azioni risarcitorie, per fronteggiare le quali accantona in bilancio tre miliardi.
“Ackermann era stato a capo del Credit Suisse dal 1992 al 1996. Nel 1996 fu cooptato nel consiglio della Deutsche Bank e in quello della Mannesmann, la banca e la fiduciaria più potenti della Germania. Nel 2002, subito dopo l’ascesa al vertice della Deutsche, era stato accusato a Düsseldorf di corruzione nell’acquisizione di Mannesmann da parte di Vodafone, nel 1999. Assolto rapidamente, ebbe la sentenza cassata dalla Corte Costituzionale. In appello, quattro anni dopo, aveva patteggiato un indennizzo di 3,2 milioni, col diritto di dichiararsi non colpevole.
“Nella prima parte dell’affare, la cessione da parte di Olivetti di Omnitel Pronto Italia, nota coi marchi Wind e Infostrada, a Mannesmann, la Oliman, finanziaria di diritto olandese del gruppo italiano, allora di Carlo De Benedetti, realizzò una plusvalenza di 14.200 miliardi di lire. Düsseldorf contestava inizialmente – la traccia fu presto trascurata – il trasferimento di tali ingenti somme, a carico e a beneficio di Mannesmann, in paradisi fiscali. Olivetti si rissparmiò nella vendita Omnitel 3.800 miliardi d’imposta al fisco italiano, il 27 per cento della plusvalenza. Nello stesso 1999 Mannesmann aveva ceduto Wind e Infostrada all’Enel, allora gestito da Franco Tatò, per 11 mila miliardi.
“A settembre del 2008 Ackermann aveva salvato la Hypo Real Estate, il gruppo tedesco specialista dei mutui, vicino al fallimento per la crisi. Un piano pubblico di salvataggio da 35 miliardi era stato autorizzato dall’Ue a condizione che i soci ne sottoscrivessero un quarto, 8,5 miliardi. I soci si rifiutarono. Seguì una fase concitata, con Hypo falliva la Germania modello. Angela Merkel si rivolse allora ad Ackermann, che in poche ore trovò la somma. L’anno dopo Merkel contraccambierà, ricapitalizzando Deutsche Bank con la cessione a condizioni di favore della banca di Deutsche Post – senza obiezioni di Bruxelles. A metà ottobre 2013 la Süddeutsche Zeitung calcolava in 290 miliardi gli interventi del governo tedesco dal 2008 a favore delle banche. Una cifra record. Ma molti interventi sono del tipo propiziato da Ackermann, e poi a lui ricambiato.
“Un metodo, insomma, che è una dittatura, il criterio gestionale dello spregiudicato svizzero, del mordi e fuggi. Del breve e brevissimo termine, del guadagno immediato, dello “strozzo”. Nel quale ha inciampato nell’ultimo incarico, la presidenza di Zurich Insurance, avendo vessato il direttore finanziario della compagnia al suicidio, agosto 2013. Una sorta di Shylock, il mercante di Venezia di Shakespeare, meno loquace ma, se possibile, più spietato, quello che chiedeva la libbra di carne viva a chi non pagava il prestito.  

“A maggio 2012 Ackermann sarà in pratica licenziato, dai piccoli azionisti Deutsche, e dai grandi. Ma dodici mesi prima proiettava “una lunga ombra sull’Europa”, notò il New York Times. In precedenza, il 18 ottobre 2010, sul lungomare di Deauville, Angela Merkel aveva imposto a Sarkozy, quindi all’Ue, il principio che “gli Stati possono fallire” - la Grecia, ma non solo. Era la ricetta Ackermann: non ristrutturare il debito (allungare le scadenze, tagliare gli interessi) ma farlo pagare con l’austerità, anche cruenta. A questo fine limitando gli aiuti Ue”.

L’incostanza costante della redattrice del nulla

“«Ortega ci dice che il compito della filosofia», spiegava il professore alle matricole indifferenti, «è scardinare metafore morte»”. Mentre “il cammello  sta passando”, già negli anni 1960, seppure “con grande difficoltà, per la cruna dell’ago”. Con le bombe e contro le bombe. Cronache vecchie, di prima del Sessantotto, redatte e pubblicate subito dopo, e ancora nuove, in questa che vuole essere una “riscoperta”. Una scorribanda cosmopolita sul niente. Sulle abitudini, i linguaggi, gli amori e le amicizie, il lavoro, le conoscenze, i detti, memorabili e no, e “l’ha da passa’ ‘a nuttata”. Un libro delle inquietudini. Senza risparmiarsi.
Cosmopolita obbligata, via da Milano appena nata perché quel genio di Mussolini non ci voleva gli ebrei, nemmeno a metà, Adler si ritrova incostante ovunque, benché col sorriso. A scuola, da studente e da discente, al giornale, a casa, in città, in campagna, a scuola di volo, di cucina, di tennis, di equitazione, di vita e quant’altro, le persone sole fanno sempre corsi, in vacanza nelle isole, anche in Sardegna, e perfino da tiratrice - scelta: centra col fucile “scatole di fiammiferi e lattine”. Un libo di malinconie, aggraziate. Molti eventi sparsi, in mezzo a tante figure di donne che saranno il modello del nostro femminismo, sperdute, tutte, senza spessore. In stile “New Yorker”, d cui Adler è stata redattrice e columnist: paradossale e di superficie, insomma snob. Ma bisogna farsi perdonare quando non si sta bene dove si sta.
Dopo quasi mezzo secolo, del resto, la raccolta scorre come un freccia, diretta e rapida. Da giornalista, si schermisce l’autrice, non sa fare le interviste: non sa chiedere. Ma sa rispondersi. Non disinvolta né superficiale: in un paio di centinaia di reportages brevi e brevissimi fa una condizione umana. Di una vita giovane (giovanile, curiosa) nella metropoli, isole lontane incluse e paesi di provincia, in incostanza costante, di condizione, di desideri, e anche di giudizio. Di un’epoca in cui nulla cambia, sotto un baluginio vertiginoso di novità. Di propositi. Di impegni. “Io so” si dice già nelle riunioni di gruppo degli anni 1960, dei morti alla Kent State University, di altre magagne. Negli stessi anni il college femminile aveva “docenti prestigiosi in tutte le materie, con alloggi a Nuoro e Micene” – perché costavano poco? Prendendosi, lasciandosi, senza ragione, nemmeno per caso – per ubriachezza, per stanchezza, anche controvoglia - “Quando mi chiedo cosa stiamo facendo – in questo palazzo, in questo isolato, con questo giornale – la verità è che probabilmente stiamo lottando per sopravvivere”. Con alcune pagine da antologia. L’innominata Sardegna, benché con cattiveria, la donna sola con l’amante immaginario, la “vanità morale” del giudice.  
Una testimonianza del tempo vuoto – forse svuotato dall’ironia, che è inattaccabilmente corrosiva. “Al di fuori dell’umorismo c’è solo l’imbarazzo puro”, sarà la conclusione, “Ahimé”. La noia. Lo stereotipo. La stupidità. Renata Adler non si annoia e non si imbarazza.
Renata Adler, Mai ci eravamo annoiati, Mondadori, pp. 191 € 17,50

La Costituzione ai sindacati gialli dei giudici

Si fa scandalo sulla raccomandazione di due giudici candidati al Csm da parte di un sottosegretario, anch’egli giudice, e sindacalista dei giudici. Per non dire il vero scandalo? Che il Csm, organo costituzionale, è in mano ai sindacati, e alle correnti dei sindacati, le cordate, le posizioni personali. Sindacati, cioè, che non hanno altra attività che controllare e promuovere le carriere – su questo litigiosissimi. Quelli che una volta di dicevano sindacati gialli, di gruppi d’interesse.
Poi si dice la corruzione, che i giudici dovrebbero reprimere.

E la Costituzione? Dove sono i difensori estremi della Costituzione, i suoi templari e martiri? Non c’è scandalo più grande del Csm, e non c’è silenzio più profondo che sul Csm. I difensori della Costituzione hanno paura dei giudici, questo è. Per essere onesti o per essere corrotti. I costituzionalisti sono come i giudici, possono ambire al Csm, o alla Corte Costituzionale – sempre giudici di se stessi.

domenica 6 luglio 2014

Ombre - 227

Senza Neymar né Thiago Silva il Brasile potrebbe perdere con la Germania. Ma si dà già in finale. C’è un motivo?
La finale si dà tra Brasile e Argentina, come se l’Argentina avesse già battuto l’Olanda. 

Martin Schulz non dà la parola a Alssandra Mussolni all’Europarlamento. Antifascista inflessibile. Ma dopo settant’anni?

Lectio magistralis di Achille Bonito Oliva” sul marmo. “Lectio magistralis di Carlo Conti sul sogno”, all’ospedale di Careggi. Ma non avevamo abbandonato il latino(rum)?

“Follow the money” di Loretta Napoleoni sul “Venerdì” di questa settimana dice che l’Isis e Al Qaeda si finanziano col pizzo e la cocaina: “L’Isis rivende al governo di Damasco l’elettricità delle centrali conquistate” e impone “una sorta di pizzo islamico”. Al Qaeda in  Nord Afrca traffica la coca che importa dal Sud America,  La fa sbarcare in Africa Orientale e poi la esporta in Europa. Denaro virtuale, cioè senza la geografia?
Senza anche l’Arabia Saudita e i prodi Emirati, che mantengono sia l’Isis che Al Qaeda.

Venti minuti a Bruxelles, e poi subito scappa a Roma, meglio Vespa che i giornalisti europei. Questo è Renzi, non Malfatti, o un Buttiglione qualsiasi. Se c’erano dubbi non ci sono più: è il solito veni, vidi, vici democristiano, Roma meglio di Bruxelles etc.. Solo che da qualche decennio le leggi le fa Bruxelles. Non c’è rimedio?

Schulz,sedicente socialista, incassa rielezione alla presidenza dell’Europarlamento, dopodiché dice che Juncker, democristiano vero, alla presidenza dell’esecutivo non si tocca. Renzi ha imparato subito come funzione l’Europa.

Ma bisogna anche dire che Rnzi è stato anche snobbato. Ha parlato del prossimo semestre a coordinamento italiano davanti a molti esponenti del suo governo e pochi europarlamentari, quasi tutti italiani. Eccetto Manfred Weber, il tedesco, che gli doveva fare la predica.

L’Italia è “un’espressione geografica” non l’ha detto purtroppo un politico austriaco ma uno tedesco. Metternich era tedesco, di nascita e di elezione.

Il, neo sindaco 5 Stelle di Livorno nomina un’assessore supertitolato. Ma l’architetta Corradini, l neo assessore, non piace alla “sezione livornese” del partito e il sindaco la licenzia subito, in 24 ore. Con 5 Stelle ritorna dunque il Partito? Con una sezione livornese.

Il Pd, che è il Pd, a centralismo democratico, non è riuscito a ottenere nulla dal suo sindaco di Roma, Marino, specialista di primarie.  Sono le primarie il veicolo della nuova politica, o non dell’antipolitica?

“C’erano una volta le piazze militanti. Ora ai padroni non si sa più cosa chiedere”. Dice bene Peppino Turani su “QN”. C’è la crisi, certo. Ma soprattutto non c’è più il sindacato – quello che fanno vedere in tv non è nemmeno una burocrazia seduta, è una sorta d’interfono, ventriloquo.

“I registi italiani? Tutti comunisti con case ovunque”, nota Depardieu. Semplice: non gli bastano.

La Versilia, la spiaggia più cara d’Italia, ha l’acqua più inquinata. Legambiente, o Goletta Verde che sia, le assicura lo stesso la bandiera blu. C’è un nesso?

Peter Steinmeier, ministro degli Esteri, è andato di sua iniziativa a Civitella – la prima volta di un ministro tedesco, per dirsi addolorato e vergognoso della strage. Nessun cancelliere tedesco ha mai detto una cosa del genere – Steinmeier è socialista e anticonformista. Sì, Brandt in ginocchio a Varsavia, ma i tedeschi l’hanno silurato. Quelli dell’Est, certo.

La Germania “signora dei trattati”

In “questo spirito dell’epoca normativamente in disarmo, totalmente succube degli imperativi del mercato e dell’autosfruttamento”, che futuro abbiamo, l’Europa ha? Questa scelta degli ultimi saggi di Habermas, dal vol. XII degli scritti politici d’occasione (discorsi, articoli, recensioni, polemiche), centrata sulla crisi dell’Europa, lo vede sempre combattivo. Ma solo perché “indietro non si può tornare”, non proprio fiducioso. Le sue proposte rispecchiano altrettante mancanze, di cui non hanno la cogenza, né la forza di persuasione.
Nella raccolta Leonardo Ceppa, che l’ha curata, ha voluto inserire uno scritto fuori tema, un saggio su Heine. Che però potrebbe esserne il cuore. Il filosofo vuole recuperare Heine alla Germania, dirlo finalmente accettato. Dire cioè che la Germania è il “paese normale”, che pensa democratico, da Heine vagheggiato. Che per un secolo e oltre per questo l’ha però osteggiato. E la cosa fa senso: un poeta, uno scrittore che ha innovato la lingua e a cui la lingua si conforma, che è rifiutato per un secolo e oltre perché sinceramente, tranquillamente, democratico.
Ci vuole più Europa, più politica, è l’appello del primo intervento con cui Ceppa fa esordire Habermas. L’euro ne ha bisogno, poiché non si può più dissolvere, e quindi ogni paese europeo. Sottintesa la Germania.
“Tre ragioni per «più Europa»” dà il filosofo in questo primo intervento: 1) la Germania in Europa e non la Germania per sé; 2) il ritorno alla politica – “non era ancora mai successo che governi eletti dal popolo venissero sostituti senza esitazione da persone direttamente portavoce dei mercati: si pensi a Mario Monti o a Loukas Papademos”; 3) il salto indifferibile dell’euro a una politica monetaria (sovranità) comune. Contrariamente all’opinione dominante in Italia sullo stato attuale della Germania, dei governi Merkel e dell’opinione che esso conforma, Habermas non si fa illusioni. La sentenza della Corte Costituzionale del 12 settembre 2012 sull’Esm lo lascia sconcertato: essa oppone il “principio democratico”, art. 20, 2 dello Statuto costituzionale, al vincolo europeo, art.23, 1, e lo rafforza con i concetti di “sovranità” e “identità nazionale”, su cui però lo Statuto “non spende una parola”. “Una politica delle cose” che si è data “rango di Costituzione”, preciserà Habermas recensendo Streeck, “Tempo guadagnato” - di cui non condivide l’assunto che siamo fuori della democrazia ma dandogli ragione nella critica.
Il presupposto dell’impasse è semplice e evidente: l’euro non ha neutralizzato, come voleva il progetto “ordoliberale” alla sua origine, “le differenze di competitività esistenti nelle varie economie nazionali”. Anzi, le ha aggravate: “Le diseguaglianze strutturali delle varie economie hanno finito per aggravarsi; e continueranno ancora ad aggravarsi, finché la politica europea non la farà finita con il principio per cui ogni Stato nazionale deve decidere sovranamente da solo – senza guardare agli altri Stati associati – nelle questioni di politica fiscale, di bilancio ed economica”. L’ottica è  rimasta sempre quella, che gli Stati nazionali sono i “signori dei trattati”. Tra essi, “è il governo tedesco ad avere in mano le chiavi del destino europeo”, Habermas conclude, non ottimista.
Ceppa dà in ultimo un’utile sintesi dell’utopia europea di Habermas, nei termini della filosofia del diritto invece che della passione politica che sottende a prima lettura la raccolta. Habermas intende – e in un intervento successivo a questa raccolta, ancora in via di pubblicazione, lo espliciterebbe - che “il processo dell’unificazione europea rappresenti, nella storia della teoria democratica, un nuovo modello di progetto costituzionale. La sua caratteristica è di non sfociare più in uno Stato centrale unitario (come la Rivoluzione francese), né in uno Stato federale (come la federazione Usa dei «Federalist Papers»), bensì in una forma transnazionale, eterarchica e post-statale  di democrazia”. Ma deve dirlo “un idealistico polemista contro il disfattismo della ragione”.
Habermas si occupa ormai solo dell’Europa, da un quarto di secolo, a partire dalla caduta del Muro con “Dopo l’utopia”, 1991 – sottotitolo “La vecchia Germania nella nuova Europa?” Sempre con lucidità. Sul nuovo ciclo del debito, per esempio, oltre che sulla recessione indotta dall’euro, o sul nazionalismo risorgente: “Nel controllo politico che si volle dare alla globalizzazione economica finì per prevalere la dottrina della Scuola di Chicago, già messa in atto da Reagan e Thatcher. La politica dell’inflazione controllata fu sostituita da un forzato indebitamento pubblico, in quanto non si voleva lasciar travolgere lo stato sociale a causa dei mercati scatenati… L’onda lunga del crescente indebitamento statale può essere letta come l’altra faccia delle restrizioni che il neoliberismo ha imposto alla libertà d’azione degli Stati nazionali”. Ma con sempre minore convinzione, il suo idealismo copre una mancanza. Forse ingestibile. Non con le idee – la solidarietà è fuori luogo, la guerra invece sì. Non cruenta ma sempre rapace.
Jǔrgen Habermas, Nella spirale tecnocratica, Laterza, pp. 113 € 15