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sabato 21 aprile 2012

Israele, è meglio che emozioni gli scrittori

Si può prendere, è più giusto, la poesiola di G.Grass contro Israele come un segno di attenzione, e anzi di preoccupazione. Evocare l’antisemitismo, come è stato fatto da tanti, da Bernard-Henri Lévi al governo Nethaniau, è fuori luogo. Perché Grass non è antisemita, e pone un problema politico. E perché dice una cosa, non schiera armi né muove battaglioni. È del resto evidente, un buona fetta dell’opinione israeliana lo sa, che c’è un impasse dentro e attorno a Israele, che esso è determinato da Israele, e che può ritorcersi contro Israele. È giusto dunque preoccuparsi. Meglio ancora se lo fanno gli scrittori, se Israele tocca le corde di chi “immagina” e “vede”.
Un altro tedescofono intrattabile, Friedrich Dürrenmatt, aveva voluto trentacinque anni fa, come Grass non richiesto e senza una speciale occasione, schierarsi a favore di Israele. Al termine di un viaggio breve, una tre giorni a Haifa, Be’rsheba’ e Gerusalemme, invitato a tenere nelle tre città una conferenza. Era un momento difficile per Israele, dopo la grande paura della guerra del Kippur, cui era seguita una stagione ostile all’Onu, culminata nel 1975 con una mozione che diceva razzismo il sionismo – poi ripudiata nel 1991. Di più, in ognuno dei tre luoghi Dürrenmatt subì un’emozione intensa. Che al ritorno lo portò a riscrivere radicalmente la sua conferenza. Allargandone l’impianto politico a quello religioso e alla presenza, allora forte in Europa, del marxismo. Per dire sì, malgrado tutto, e al suo modo parafilosofico, tra l’esistenziale e il trascendentale (mitologico), all’esistenza di Israele: “La mia presa di posizione nei confronti di Israele si fonda su riflessioni … complesse, non tanto perché uno scrittore di per sé tende a riflessioni complesse quando gli si richiede un discorso, ma piuttosto perché la motivazione in sé è complessa”, etc. Ma alla fine senza se e senza ma: “La risposta è semplice: io, che non prendo posizione per nessuno stato in particolare , che in genere non penso molto bene degli stati, e del nazionalismo poi penso decisamente male, prendo posizione per Israele perché credo che questo stato sia necessario”.
Un libro in vario modo interessante, che bizzarramente più non si ripubblica dopo la prima traduzione nel 1978. Il titolo originale dice di più: “Zusammenhänge, Essay über Israel. Eine Konzeption”. Quattro anni dopo la pubblicazione del saggio, nel 1980, Dürrenmatt pubblicò un seguito, “Nachgedanken unter anderem über Freiheit, Gleichheit und Brüderlichkeit in Judentum, Christentum, Islam und Marxismus und über zwei alte Mythen”, sui concetti di libertà, uguaglianza e fraternità nell’ebraismo, il cristianesimo, l’islam e il marxismo, e su “due vecchi miti” – tradotto nel 1998 col titolo “Nel cuore del pianeta”
http://www.antiit.com/2011/10/marx-e-finito-israele-no.html
Friedrich Dürrenmatt, Rapporti. Saggio su Israele

Problemi di base - 98

spock

Dopo i monti i mari? Con le mutande, senza?

Se non c’è limite al peggio, perché c’è il limite?

Intellettuali schierati, militanti a riposo?

Professionisti dell’informazione, non sarà un insulto?

Il giornale è scomodo e antiecologico, l’online è scomodo e freddo: è questo il motivo per cui l’informazione è sempre agitata?

È l’informazione padrona del mondo, o ne è l’ancella? Schiava? Retribuita?

È Emma Marcegaglia al soldo della speculazione? Critica il governo gratis?

Se Fini fu strapazzato 6-4 da Rutelli, e Rutelli 6-4 da Alemanno, chi vincerà la partita nel Grande Centro della Nazione? (Casini, per questo non corre mai)

spock@antiit.eu

Letture - 94

letterautore

Anosognosia – I lettori del “Corriere della sera” che si interessano degli “Esteri” l’hanno trovato mercoledì 11 in un articolo di Lévy contro Grass: “Una sorta di anosognosia intellettuale fa cadere tutte le dighe che di solito trattengono lo scatenamento dell’ignominia”.

Biografia – Genera mostri: lo scrittore si rifà sul personaggio.
Con una differenza geoculturale: non nelle biografie inglesi, sì in quelle italiane, da Padellaro a Citati, e in quelle francesi, con l’eccezione di Troyat, che si vogliono narrative nel senso dell’autore e non del personaggio, quindi immaginarie: fantastiche, critiche, vendicative. Nonché in quelle americane, solitamente profilate, per dire una cosa. Come Citati “torce” Leopardi. Che è ben vivo, ma non era uomo (poeta) di eccessi. Mentre è misurato Pasolini di Siciliano, anche quello di Nico Naldini, che invece era eccessivo.

Dante – Per Carlo Fruttero e i suoi compagni di letture in campagna negli anni dello sfollamento era “molto divertente” – Hemingway “un po’ un salame”, Zola “una ciula completa”.

C’è un Dante islamico. Non poteva mancare, e potrebbe essere il Dante prevedibile del prossimo futuro, se non del settimo centenario. Non va perciò trascurato: è parte del “politicamente corretto” e sarà parte della nuova demografia.
Si volle Dante improvvisamente islamico per il sesto centenario, nel 1921, a ridosso del revival ispanoislamista del primo Novecento, sancito nel 1919 dal sacerdote, filologo e arabista spagnolo Miguel Asίn Palacios con l’“Escatologia islamica nella Divina Commedia”. Poi, nel secondo dopoguerra, lo si rivolle islamico per aver “copiato” il “Liber Scalae Machometi” detto “Libro della Scala”, un testo arabo del secolo ottavo di cui non si ha l’originale, solo l’adattamento castigliano, dal quale, nel 1264, è stato ricavato uno in latino. Alla Scuola di Toledo, del re di Spagna Alfonso X il Savio. Infine, a fine Novecento, Dante è tornato brevemente islamico con la traduzione di Asίn Palacios e con alcuni studi di Maria Corti improvvisata arabista. Che vuole Dante ispano-arabo sulla traccia avanzata nel 1949 da Enrico Cerulli, editore del “Libro della Scala”: che Dante può averne saputo da Brunetto, esiliato, fra i tanti altri posti, anche a Toledo. Nonché siculo-arabo, per i tanti influssi della corte palermitana di Federico II. E quindi, se due metà fanno uno, integralmente islamico. Cerulli era glottologo insuperato dell’altopiano etiopico, con migliaia di pagine sulla lingua e la storia di Harrar, del Sidama, dell’Omi, dei Giangerò e dei Caffi.
Alla pubblicazione del libro di Asίn Palacios gli islamisti maggiori (riflessivi, sereni, meno primatisti) se ne tennero lontani. Corbin tacendo. Massignon riconoscendo l’originalità dell’idea, le fonti islamiche di Dante, ma non trovandoci appigli. Bausani ha prodotto, non ironicamente?, un “Sanā’ī precursore di Dante” - Sanā’ī, morto nel 1130-31 è “il primo grande poeta del sufismo iranico” (Gianroberto Scarcia), autore di vasti poemi epico-religiosi: “il suo «Giardino della Verità», grande poema ora scolastico ora estatico, fu denominato «Corano persiano»”. Ma sull’essenziale, alla fine, anche Asίn Palacios concordava: “Dante, come ogni artista di talento, senza preoccuparsi dell’intenzione dei suoi modelli, senza lasciarsi opprimere dai vincoli dei suoi prototipi, poté trasformarli liberamente per adattarli alla propria intenzione personale e al proprio ideale”, alla propria poesia.
Maria Corti, invece, in “Percorsi del’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante”, del 1993, e nella raccolta postuma “Scritti su Dante e Cavalcanti”, tende a farne un punto certo. Profondendosi in un duplice impegno: ampliare i punti di contatto della “Commedia” col “Libro”, trovarci analogie strutturali, scoprire nel “Convivio” e nel “De Vulgari Eloquentita” tracce dell’aristotelica “Etica nicomachea” nella traduzione di Toledo. Corti vuole Dante maomettano in modo diretto, non solo per collegamenti “interdiscorsivi”, casuali, accidentali, né “intertestuali”, per narrazioni di terzi o letture di digesti, ma proprio come “fonte diretta”. Per aver letto e gustato il “Libro della Scala”. Per collegamenti formali estesi, non casuali e non tematici.
A differenza di quelli dello spagnolo Asín Palacios, i riferimenti di Maria Corti sono arabi piuttosto che islamici. Arabo è il divieto a Ulisse di varcare le colonne d’Ercole, che non c’è nella tradizione classica ed emerge appunto con i geografi arabi di Spagna. E araba può essere, in nessun caso islamica, una gigantesca statua di Maometto costruita sullo stretto di Gibilterra, “secondo alcuni geografi arabi”, e di cui la filologa favoleggia: il Profeta alto e barbuto in ottone, con un mantello dorato, su un lastrone di marmo bianco, il braccio sinistro proteso in un gesto per significare “di qua non si passa”, al dire dei geografi secondo Maria Corti. La riprova? È in un testo coevo di Dante, intitolato “Mare amoroso”, che Contini ha incluso nella raccolta “Poeti del Duecento”: “E mai non finirei d’andar per mare\ Infin ch’i’ mi vedrei oltre quel braccio\ Che fie chiamato il braccio di Saufi\ C’ha scritto in su la man «Nimo ci passi»”.
Come riduttivismo non è male. Ma è forse è un segno d’amore, di una filologa che voleva essere meridionale, mediterranea. Dapprima del Nord Mediterraneo, con “L’ora di tutti”, i racconti del 1962 che celebrano la resistenza di Otranto e del Salento ai turchi, premiati l’anno dopo in Calabria, a Crotone. Alla fine avrà voluto essere mediterranea del Sud? Araba più che islamica: “Il Libro della Scala di Maometto” è sospetto all’ortodossia islamica.

Giallo – M.T.Conard, “Platone suona sempre due volte. La filosofia del noir”, lo riporta a Schopenhauer e Freud, e anche a Socrate, Platone, Aristotele, perché tutto è necessario per “spiegare il lato oscuro”. Eccitato forse dalla passione di Frank e Cora invincibile de “Il postino suona sempre due volte”. Anzi, il Marlowe di Bogart, il Quinlan di Orson Welles, e gli svitati di “Pulp Fiction” vede modellati sul “nichilismo di Nietzsche”, sull’“esistenzialismo di Sartre”. Non è il solo. Oreste Del Buono evocava Edipo, i tragici greci. E perché non Shakespeare, commedie comprese? O la Bibbia, Dio in persona. Mentre il giallo, anche con lo spessore del “noir”, si vuole semplice e diretto, complesso giusto nella trama. Per l’invincibile universale attrazione dell’indovinello, dell’escogitazione – anche tra gli animi semplici, senza filosofia. La stessa che ha fatto per millenni la fortuna di aruspici e sacerdoti. Che caratterizza l’essere umano più del riso, o del pianto.

Lingua – Leopardi, dice Citati nella biografia, “amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile”. Era?
Ma è vero che ogni lingua è molte e una. Tanto più che lo stole non è la lingua, ma un uso della lingua. Leopardi era gnomico, e “usava” a questo fine bene l’italiano – Citati è immaginifico, e “usa” a questo fine lo stesso italiano di Leopardi.

Proust – “La memoria è quasi imitatrice di se stessa”, G.Leopardi, “Zibaldone”, 1452. C’è il cultore della materia all’università, politicamente corretto, per non chiamarlo più assistente. Proust è cultore della memoria, per non dirlo onanista, formidabile.

letterautore@antiit.eu

venerdì 20 aprile 2012

Ombre - 127

Cronaca d’apertura della pagina mondana del “Messaggero”: “Alle pendici del Celio, tra le mura antiche di Santa Maria in Tempulo, il deputato dell’Udc Miche Rao e Michela Monti ieri pomeriggio hanno detto sì. Alla cerimonia civile, officiata dal collega deputato Gian Luca Galletti, hanno partecipato, oltre ai figli della coppia…”. Dunque, gli Udc, che sono i vecchi (demo)cristiani, si sposano dopo aver fatto i figli, lei in vestito bianco importante, e solo civilmente. O sono blasfemi? Santa Maria in Tempulo è una chiesa sconsacrata.

Si discute come passare alle banche i crediti delle imprese verso lo Stato, scontandoli. Cioè come passare i margini di utile delle imprese alle banche. Sembrerebbe impossibile ma è quello che Passera propone.
Si tratta di trenta miliardi, siamo nel paperoniano.

“Lo splendido isolamento tedesco” lamenta e celebra l’ambasciatore Puri Purini sul “Corriere della sera”. Chiedendo un occhio di favore per l’Italia di Monti, così virtuosa anch’essa, intende, come la Germania. Ma la Germania prospera grazie alla Ue. Jugulando la Ue. Basterebbe un po’ di politica, per non dire di diplomazia, per riequilibrare pesi e misure.

Non c’è un Adusbef, un Codacons, che sfidi la legalità del conto corrente obbligatorio, anzi la costituzionalità. Col corredo dell’impossibile Iban per tutti i vecchietti delle pensioni sociali, e i pagamenti attraverso bonifico, magari online, perché no, e il semplicissimo F 24. Gli avvocati Lannutti e Rienzi sono ammutoliti: quali utenti proteggono? Il potere delle banche è più imbattibile o suadente?

Calano le vendite dei giornali, per il quinto anno consecutivo. Ma la Federazione degli Editori non se ne cruccia, dichiarando aumentati i lettori, grazie ai siti online – da 4 a 6 milioni tra il 2009 e il 2011. Come se l’apertura di un sito, per un riscontro o un’ultima notizia, fosse la lettura del giornale.

“La Nazione” pubblica una corrispondenza da Siena sul dissidio, aspro, tra il Monte dei Paschi e il sindaco Ceccuzzi, democratico. Non è una novità, lo sanno tutti e lo hanno anche scritto. Ma l’editore della “Nazione” licenzia per questo il direttore, da poco nominato. Potenza di Siena? Della banca? Del Pd?

Prima gli araldi della banche, “Wall Street Journal”, “Financial Times”, “Economist”, poi le agenzie di rating, infine il Fondo Monetario: i dubbi fioccano sul governo Monti. Ma non smontano la fiducia dei nostri giornali. La fede si vuole cieca e assoluta?

A giorni alterni, Monti mette alla gogna la Spagna e la Grecia – che non si fa, nessun altro lo fa. Essendo Monti una persona beneducata, non lo fa per maleducazione. Lo fa da milanese, per provincialismo, gretto malgrado l’esibizione di buonsenso.

Roberto Bagnoli spiega che due italiani su cinque non sanno che pensione avranno. E calcola che il 27 per cento avrà pensioni basse, “inferiori ai bisogni”, il 16 per cento resterà senza. Nel supplemento “Risparmio” del “Corriere della sera”, formidabile testimonianza (involontaria?) del “mercato” che ci domina. Risparmio?
Ma non è una critica. Bagnoli sembra propendere per la fatalità.

Sullo stesso supplemento Marcello Messori celebra un “Addio Oscar dei risparmiatori”. Mesto: “Per l’Italia la perdita inesorabile di un primato. Una caduta ininterrotta da dieci anni. E non è finita”. La colpa è delle banche, spiega il professore, che si sono appropriati dei risparmi delle famiglie e li amministrano male. E conclude: “Risulta necessario rompere il quasi monopolio bancario” sul risparmio.
Ma non ha scritto una riga contro l’obbligo del conto corrente, e dell’inafferrabile Iban, imposto dal duo bancario Passera-Monti.

Giò Ponti dirigeva la Ginori a 23 anni. Giuseppe Terragni progettava edifici pubblici a 28. Il futuro è già passato?

A chi, come, quando, pagare le nuove tasse, e quanto, non si sa. Il ministero dell’Economia, che Monti regge, si è ridotto all’Agenzia delle Entrate. E l’Agenzia delle Entrate si è dedicata a creare un personaggio, o la carriera politica, al suo capo Befera. A costo di costose, benché improduttive, incursioni nei resort di lusso, nei week-end, con laute diarie, e straordinari notturni e festivi.

Il Professore fa scemenze, poi lamenta che i partiti lo “impaludano”: la logica dell’antipolitica è imbattibile. A patto di ritenere tutti sciocchi, anche quando si svenano per pagare tasse inutili.

“Crescita, il governo si muove”, titola in prima il “Corriere della sera” sabato: “Nuove tasse sulla benzina”. Senza ironia.

Secondi pensieri - 97

zeulig 

 Amore – Si vada per esclusioni. Certamente non è disprezzo, o insofferenza. Nemmeno indifferenza. Quello di Isidoro di Robles perdeva le vocali, ma non tutte insieme. Catone il Vecchio dice che l’anima di chi ama vive dentro quella di chi è amato. Bello, e risolve pure il problema dell’anima – dell’etimologia, che non è più ventosa ma di parentele labiali nasali. Ma è per questo che non c’è più l’anima, perché l’amore non c’è? O è l’amore incerto perché l’anima non c’è? La santità, ammonisce Eckhart che se ne intende, non si fonda sulle opere, la santità va fondata sull’essere. Esserci e non concedersi, insomma, è dell’amore il cuore. Se una donna piange, il detto vuole o che la sua vita sia una tragedia o la tua lo sarà. Ma potrebbero esserlo entrambe. Amore è intimità. Che è connotazione sororale - ci sia una sorella o un fratello in carne e ossa, oppure no. Inutile erigere tabù, l’amore si produce nell’incontro, quindi nella naturalezza, nell’abitudine anche. Nella disattenzione, poiché la presenza è costante. Senza punte, riserve, rivincite, prepotenze, sia pure sotto forma di one-upmanship, voglia infantile di primeggiare, che fanno il gioco della coppia caro agli psicologi e normatori. Può essere il massimo contenitore di cattiveria, in tutte le forme, furberia, egoismo, violenza, le passioni non facciano velo. “L’amore e la poesia oggi debbono giustificarsi”, Borges - mi ami? perché mi ami? È il secolo che si allinea a Freud. O Freud ha ragione. Ma già Aristofane giocondo poneva l’amore tra le cose turpi, in omaggio alla sapienza. Ma smitizzare bisogna: se la voluttà è l’arroganza del corpo, l’amore è il narcisismo dell’anima. È il tema dell’amore amato di Lullo - o il tema era l’amante amato…. E capita nei fatti come Wilde, la Gambara e D’Annunzio vogliono, che si uccide chi si ama. Che funziona piuttosto al passivo, ognuno è ucciso da chi ama - barbaro certo, e maschilista di fronte all’“Amor ch’a nullo amato amar perdona”. L’amore, “brutto figlio de pottana”, direbbe l’ortolano Ciccio di Alessandro Scarlatti, si cerca perché non c’è. È l’egoismo in porpora e zibellino, il pavone che fa atto di contrizione appaiandosi, senza smettere la ruota. È barocco, enfatico. Se l’aggressività è una retta in verticale l’amore è nel segmento basso, quello addomesticato, fino alle forme aride della etichetta e il dover essere, ma se l’amicizia manca è egoismo puro, fa presto a risalire il colonnino dell’aggressività. La coppia è garbo: educazione e buona disposizione. E, se c’è la follia, è passione. Filosoficamente resta ignoto, e anche materialmente, come avviene tra due persone, l’attrazione, la repulsione. È roba chimica, di reazioni gastriche? O fisica, di nervi, fibre ottiche? Pare che la realtà sia nella visione, secondo Heidegger, e il solito sant’Agostino. O non è tattile, l’amore? O un fatto di odori, o di ultrasuoni? Una volta si localizzava nel cuore, che è un muscolo, si poteva allora pensarlo riflesso pavloviano. Ma il cuore si disse e ripeté che arde, o piange, quello di Beaumont pianse fino ad affogare, a Orlando Gibbons prese a friggere, Thomas Morley dovette chiamare i pompieri, a opera di madrigalisti magari assassini e grassatori, e la cosa finì. Per cui le pene d’amore non hanno specialista, né accademico né praticone. Sono roba da maghi, buona per i romanzi. Questa è pure la loro misura: non si muore d’amore. Affermano di sapere tutto i poeti, ma è fantasia di timidi, o impotenti - è un classico che i poeti s’inventano gli amori, i Faoni, Agallidi e Ganimedi, le Cinzie, Delie, Lesbie, e le Cornelie, giustamente. 

Anima – In Lukáks, “L’anima e le forme”, e Hillman, “L’anima del mondo”, sta per Dio. Loro non lo sanno, o non lo dicono, ma è così. È parola di cui nessuna lingua conosce l’origine. Ne viene l’animale. 

Corpo – Ha una sua vita autonoma, sia o non separato dall’anima, come vogliono Cartesio e la mistica fascista. Le tette, anche quelle gonfie delle madri e quelle sbrendole dall’uso, le chiappe, le cosce, la nuca, le labbra, il modo di camminare, la voce hanno un loro linguaggio. Commuovono, ricordano, chiamano, promettono, respingono. In che chiave si esprimono le carni mantrugiate delle riviste per soli uomini, le bocche rossissime a o, gli occhi spenti, o scaltri, o avidi, ma di denaro, pagliericci di lussuria coi tempi e metodi di Taylor? Che cos’è il sesso, quante componenti combina, questo resta ignoto, soprattutto alla filosofia, la vita di relazione è terra incognita. Ma la condanna è recente, Delumeau la data all’anno Mille. Il rosario contiene tuttora una serie impressionante di simboli erotici, tra torri e vasi, con aggettivi. Ugo da San Vittore è ancora un estimatore: “Habent corpora omnia visibilia ad invisibilia bona similitudinem”, i corpi visibili rinviano ai beni invisibili. Le parti mute del corpo sono piene di suggestioni, anche le carcasse slombate. E si parla di foto, in assenza del calore dei corpi, o del loro algore. La testa non è tutto, e forse non è il meglio La bellezza oggi è urbana, e la bellezza urbana è il corpo. Urbano: ogni spogliarellista, ogni amante sa che il nudo integrale va recitato. Puškin si accorse dopo essersi sposato quanto sia spirituale la passione, che la novità di un corpo è più forte dell’amore o della bellezza, perché il corpo non può mentire. E che Otello non è geloso, anzi è un carattere pieno di fiducia – o può essere la fiducia letale? L’anima è copula mundi, spiega Marsilio Ficino, uomo dotto, fra le parti basse e quelle superiori. 

 Dialettica – Si vuole scienza della conoscenza, ma non più dei paralogismi. O dell’artificio epistemologico del dualismo: felicità1infelicità, amore\odio, vita\morte, amico\nemico.

Felicità – “La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza” è una delle tarde riflessioni ddel pessimista Leopardi nello “Zibaldone”, 3498. È lo specifico dell’animale uomo, questo “desiderio ardente di felicità” temporale, qui, ora. È il proprio dell’esistenza – della procreazione, della vita vissuta fino a un estremo trapasso – e anche dopo. È il motore del genere umano – del progresso, della storia. È la radice dell’infelicità, ovvio – in hegeliana dialettica. 

Noia – È passione contemporanea. È dell’Ottocento. Ne è primo poeta e censore Leopardi, che la dice anche “tedio” e “fastidio”: “La noia è la più sterile delle passioni umane, Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla”. Ma non è passione: è l’appassimento della passione, l’estinzione. Sotto la spinta della ragione. Di quella particolare ragione che è l’utilitarismo, nella sua più recente versione del disincanto, o desacralizzazione: la ragione della convenienza – anche dell’efficienza, se si vuole, ma di tipo economico, tra diverse soluzioni la meno dispendiosa. La convenienza come tornaconto. Il tornaconto di una vita ordinata, previdente. La ragione di cui Leopardi dice che tanto meno vede quanto più vede”. Si può dire la vendetta (rivalsa) del niente: l’atonia, la derelizione della speranza (felicità). Un disfacimento, ben più soffocante di qualsiasi forma di tragedia. Non c’è in natura, è un fatto dell’uomo, della storia. 

 zeulig@antiit.eu

Quando la Calabria era bizantina

Riedizione, ampliata al monachesimo bizantino della Calabria settentrionale, dei “Santi italo-greci” che lo stesso Ferrante, parroco di Chorìo, e poi di Santo Stefano d’Aspromonte, aveva inizialmente dedicato all’area grecanica, nell’arcidiocesi di Reggio Calabria. È una ricerca robusta che l’autodidatta Ferrante ha prodotto, stimolato dai parrocchiani che non sapevano più nulla dei loro santi, anche se a tutt’oggi unica: il risveglio della coscienza di un passato che intendeva stimolare è rimasto minimo - più che ad altro, legato ai sussidi auropei per le aree linguistiche minoritarie.
Allargando l’orizzonte, l’originario interesse pietistico e cultuale, soprattutto mariano, della ricerca si amplia alla funzione culturale e politica di questi “santi”, eminenti personalità. Attraverso biografie falsate dall’agiografismo, e tuttavia fonti significative dell’epoca. Nei rapporti con la madrepatria, in bilico tra le due chiese, d’Oriente e Latina, e nel contrasto della quotidiana afflizione saracena (islamica). La Calabria in particolare si popolò di circa quattrocento monasteri greci per la fuga imposta dalla conquista islamica della Palestina e del Levante. Il capitolo introduttivo è una ottima sinossi della ortodossia in Calabria. Il secondo capitolo è una concisa ma significativa storia dei difficili rapporti con gli arabi, specie tra l’VII e l’XImo secolo, fino all’arrivo dei Normanni.
“La Calabria”, premette in una nota il francescano F.Russo, il curatore dei dodici volumi del “Regesto vaticano per la Calabria”, negli ultimi due secoli della dominazione bizantina, in uno dei periodi più calamitosi della sua storia, caratterizzato dalle continue incursioni dei Saraceni, che hanno sconvolto la società nelle sue istituzioni civili, economiche e religiose, ha scritto pure una delle pagine più radiose del suo passato, di cui è stato protagonista il monachesimo calabro-greco”. Monaci facevano la spola tra la Grecia e la Calabria, è Oreste, patriarca di Gerusalemmen, a scrivere la vita dei santi Cristoforo, Saba e Mecurio, “Tra i protagonisti della famosa Eparchia del Mercurion”, e i contatti erano intensi anche col mondo occidentale.
Nicola Ferrante, Santi italogreci in Calabria

giovedì 19 aprile 2012

C’è Milano sotto il terremoto di Milano

Si dissolve Comunione e Liberazione dopo la Lega, e dopo Berlusconi. Con le stesse storie di appropriazioni, truffe, tangenti, fondi neri, amanti, amiche, escort. Si dissolve l’orrida Milano, il potere incontestato che ci governa da vent’anni, a Roma, nelle banche, nei giornali, nei tribunali? Sembrerebbe ovvio, ma tutto avviene secondo le strategie e tattiche di Milano.
La dissoluzione, nell’un caso e nell’altro, come già con Berlusconi, si fa attraverso dossier precostituiti, testimoni volontari, vendette tra “amici” e “reduci” della prima ora, donne sempre puttane, e molte intercettazioni naturalmente, con cui riempire ogni giorni molte pagine di giornale, anche se perfino i giudici ora ne diffidano. L’unica novità è un ruolo defilato della Procura milanese: aizza i cani e li lascia ad azzannarsi tra di loro. Ma è sempre il “rito ambrosiano”, lo stesso che ci ha dominato per vent’anni con Berlusconi, Cl, la Lega e il palazzo di Giustizia, e quindi che pensarne?
Tutto ciò, ricordiamo, avviene con un governo che più milanese non si può – sembra una caricatura di Milano: si può dire, non è stato ancora detto?, che Milano ha commissariato la Repubblica, Milano cioè Bazoli. In ogni novità, dall’affondamento dell’Olimpiade a Roma al conto corrente obbligatorio e a questo scuotimento dei propri alberi in vista, sotto c’è sempre Milano trionfante. Che non lo nasconde, vuole che si sappia. E contemporaneamente tiene sotto tiro Roma, senza fare mai autocritica. Milano sta solo rinnovando il uo sistema di potere, come fanno i regimi intelligenti. La Cina per esempio, o il Vaticano: ogni vent’anni in media danno una scrollata.

Si dice Monti ma è Bazoli

È Monti la foglia di fico di Giovanni Bazoli? Roma non se lo chiede più, ma ci ride sopra: il Professore è sempre più nasale, nel ruolo di rappresentanza che gli riesce meglio poiché parla l’inglese. Incapace di prevenire o di correggere i tanti fatti compiuti – o incompiuti - a lui dannosi, all’immagine e al futuro del governo, a opera dei ministri bancari. I quali sono i soli esistenti, il resto del governo non c’è: Severino, Profumo, Gnudi, e i prefetti e direttori generali. O in altre parole: è da Bazoli che Monti deve guardarsi, più che dall’ABC, il banchiere bresciano che è il dominus di Milano – morto Cuccia, liquidato Geronzi, conquistato senza spendere il “Corriere della sera”.
Sul fronte del non fare si distingue Piero Giarda. La revisione della spesa pubblica di cui si è preso la competenza, pomposamente chiamandola spending review, la vera riforma in grado di allentare la morsa del debito, è ancora da avviare. Giarda, il banchiere senza banca, è da tempo famoso per l’inerzia su cui sa affaccendarsi. Mentre sul fronte del fare ci sono solo loro, i due messi di Banca Intesa, Passera e Fornero - nonché Vittorio Grilli, milanese integrale, bravissimo a tassare il resto d’Italia.
Le “ideone” di Passera che mancano faranno storia come i “bamboccioni” di Padoa Schioppa? È possibile, non sono una gaffe: Passera mostra di sapere che verrà rimproverato soprattutto a lui di non avere né ideone né ideuzze sulla ripresa dell’economia. Ma è alla ricerca di visibilità, e anche gli spropositi gli fanno gioco. Dichiaratamente. Ha imposto l’obbligo del conto corrente a tutti gli italiani, e del passaggio in banca di ogni transazione. E punta a distruggere Berlusconi via frequenze televisive, escludendolo dalle nuove.
Fornero sembra avere il compito di mettere Monti in imbarazzo continuamente e senza motivo. Prima della “riforma” del lavoro, durante, e dopo, ora che è al Parlamento.
A Monti il compito del quaresimalista, quello che ci agita l’inferno davanti. Sempre più stancamente. Non ha nessun potere sui ministri di Bazoli.

Lettura retributiva di Fruttero

Un titolo malizioso per un’antologia di ricordi, vincendo in vecchiaia il “disdegno” per “il soffice accomodante sentimento della nostalgia” – apparentato all’ “accattonaggio molesto”. Non senza ritrosia. Il titolo rimanda a un oscuro, triste padrone di casa, afflitto da una moglie “olandese o tedesca”, dal quale Fruttero ragazzo veniva mandato qualche volta a pagare l’affitto, che un giorno la mamma incidentalmente gli svela essere il “Bel Ami” autore di canzonette, tra esse la maliziosa “Mutandine di chiffon”. Un ricordo infondato, Fruttero spiega infine beffardo, poiché Laura Cerutti, la sua editrice in Mondadori, sa per certo che la canzone è del farmacista Marco Bonanate, in arte Marf (non sarà il solo ricordo infedele, Fruttero si diverte a canzonare la letteratura della memoria). Ma è una bella storiella. E un ricordo veridico comunque, e onesto.
Uno dei pochi nella letteratura dopoguerra. Questo di Fruttero è agli atti l’unico “com’eravamo” degli anni 1950-1960 che fa le parti dei comunisti e dei non comunisti, separati e reietti anche fuori da Einaudi, seppure in campo di concentramento mentale e attitudinale. La cellula del Partito in casa editrice partecipava ogni anno alla sfilata del Primo maggio con un proprio carro allegorico, con i redattori e gli scrittori in pedana. Fino al Primo Maggio del 1956. Inedito, aristofanesco, l’episodio del telegramma di Giulio Einaudi all’Onu – a chi? all’Unità Indistinta – la notte dell’invasione sovietica dell’Ungheria, nella lingua di piombo del Pci intraducibile in inglese per il pur valente traduttore Fruttero, tanto lungo che alla posta non bastarono i soldi di Fruttero e Bollati insieme, per mettersi l’animo in pace con la repressione in Ungheria.
Ironico anche il giusto, come ci si aspetta da lui, procedendo per lampi invece che per prolisse spieghe. Con lo scettico Calvino catecumeno comunista – col quale Fruttero condivideva la stanza: due mutangoli, accomunati dall’insofferenza per la letteratura del ricordo. Bocca il ruvido in camicia setosa rosso aragosta, o accoccolato per terra a una “cerimonia” dello stilista Armani. Bobbio figurato critico di moda, alla Mallarmé. Ma bonario: la società letteraria fa amichevole e perfino interessante. Affettuoso con “Chichita”, la vedova di Calvino, di cui schizza un brillantissimo ritratto. O Lodovico Terzi, maestro della sprezzatura – della famiglia Terzi “assai bene inserita nel regime fascista: ambasciatori, ammiragli, alti funzionari”, e un segretario del duce. O Luciano Foà, il creatore di Adelphi, in veste di Anchise. Soldati in azione per sconfiggere l’invidia, la sua. E un Citati decisionista inedito: re dei bambini, instancabile. Memorie “retribuite” le chiama Fruttero, perché scritte su richiesta di giornali e editori, e quindi pagate. Ma il lettore pure, ne è retribuito. E chi si attende che si parli di Einaudi vi trova invece i Mondadori. Una sezione è dedicata a Lucentin.
Carlo Fruttero, Mutandine di chiffon, Oscar, pp.244 € 9,50

Il mondo com'è - 91

astolfo

Attentati – Usavano a fine Ottocento, tra gli anarchici che facevano tutto da sé, in senso proprio. Presto divennero falsi, cioè opera del potere, a fini d’intimidazione (piazza fontana, Brescia), di disinformazione, di sovversione totalitaria. Anche doppiamente falsi, come quello finto al giudice Falcone all’Addaura, in modo da poterlo accusare (sospettare: il sospetto è tecnica intimidatoria, una bomba inesplosa) di esserselo organizzato da sé, per carrierismo.
Il più famoso dei falsi attentati è l’incendio del Reichstag, con la successiva eliminazione dell’incendiario. Attentati falsi furono quelli contro Mussolini, gestiti da una polizia politica “previdente”, che anticipava eventuali minacce Il caso più famoso è quello di Anteo Zamboni, che a Bologna nel ’26 sparò a Mussolini - forse, non si sa, perché fu pugnalato all’istante dai balilla del federale Arpinati, che conosceva bene Zamboni. L’attentato era nella storia parte della liturgia del capo, della sacralizzazione. E si voleva meglio a opera d’innocenti. Anteo Zamboni aveva sedici anni. I re di Francia si rilanciarono dopo l’assassinio di Enrico IV facendo giustiziare un attentatore di dodici.
Il modello del dopoguerra, tentato ultimamente da un giornalista a Milano, fu, ricorda Carlo Fruttero in “Mutandine di chiffon”, p. 63, a Parigi quello “al giovane deputato François Mitterrand, vicino al Luxembourg negli anni Cinquanta”, che si ebbe “titoloni sui giornali” ma “fu forse un falso attentato, organizzato dalla scampata vittima per motivi oscuri”.

Giustiziere – È la figura dominante dell’opinione pubblica, dell’immaginario e del quotidiano – ne è un riflesso anche la diffusione della letteratura del genere “giallo”, fino a non molti anni fa per cultori in Italia, e praticamente senza autori. Per effetto del predominio nei media della cronaca giudiziaria, con il suo seguito, da circa venticinque anni, di notizie sempre clamorose, seppure più o meno fondate. E dell’abitudine all’assoluzione, che deriva agevolmente all’autoassoluzione – la Lega non è il primo caso, molti dei cavalieri della giustizia sono stati o sono in Italia corrotti, corruttori, concussori, ladri, eccetera. Una terza causa è il vezzo ora incontestato delle generalizzazioni: per cui “siamo tutti” corrotti, tutti mafiosi, o grassatori, o ladri, specie di pubblico denaro, tutti stupratori o pedofili. Nel senso dell’indignazione, che tanti lo siano ci indigna.

Riforma – È la parola più abusata del gergo politico e dell’informazione, e più destrutturata. Sinonimo oggi, al meglio di legge: la riforma scolastica, la riforma elettorale, la riforma del finanziamento pubblico dei partiti. Ma buttata lì non innocentemente, in senso contrario al suo significato, lessicale e storico: si riforma per il meglio, la riforma è sinonimo di rivoluzione riuscita, solida cioè, nell’interesse dei molti e acquisitiva, non distruttiva, sulle orma della Riforma protestante, la prima grande rivoluzione dell’Europa – nel gergo sovietizzante recente il messianismo vi si collegava nella dizione “riforme di struttura”. Ossi la parola si usa a copertura di incapacità, in senso autoassolutorio, o di interessi di parte e subdoli. La riforma delle pensioni che butta nell’incertezza sei italiani su dieci è una forma suicidaria, poiché fa della previdenza una incertezza. O la riforma del lavoro che scoraggia l’assunzione al lavoro.

Il suo giornale Crispi lo intitolò “Riforma”, col quale perorare l’egemonia italiana nel Mediterraneo. Lo diresse un Primo Levi, di tre generazioni prima dello scrittore, “milanese di Ferrara”, amico di Carlo Dossi, che si firmava Italicus o L’Italiano.

Il necrologio che Hamsun, l’anarchico premio Nobel, dedicò a Hitler il giorno della capitolazione, lo fece un riformatore: “Un guerriero, un pioniere dell’umanità, un apostolo del vangelo del diritto di tutte le nazioni. Era un riformatore di altissimo rango, ma il suo destino storico fu di operare in un’epoca di barbarie senza precedenti, una barbarie che ha finito per abbatterlo”. Hitler avrebbe obiettato, si voleva rivoluzionario e non riformatore, ma il ritratto per il resto avrebbe gradito: la barbarie che con Hamsun combatteva era la democrazia, non altro.

Spia 3 - Sarà stato Gor’kij l’agente provocatore più temibile, straordinariamente remunerato. Forse non involontario, e per questo minaccioso. Almeno in un caso: il Comitato panrusso di soccorso ai contadini affamati, da lui creato nel 1920, servì unicamente a mettere nel mirino i non bolscevichi che vi aderirono, tutti a un certo punto incarcerati eccetto lui. Anche se questi criticoni Lenin si contentò di deportarli. La vicenda dei contadini affamati sarà risolta coi massacri. I contadini di cui Gor’kij, con la sola parentesi del 1920, non si stancò per tutta la vita di denunciare l’ignoranza, l’avidità, il servilismo, la bestialità: “I bolscevichi sono un pugno di uomini”, tenace ammoniva i suoi ospiti e scriveva, “i contadini sono milioni e milioni, un giorno li spazzeranno come un uragano”. Di Lenin il merito principale, disse, è aver salvato “la Russia dal contadiname”. Stalin lo compiacque sterminandoli.
Il comitato speciale da destinare all’epurazione fu uno schema presto classico. Nel ‘48, insorta Israele, Polina Molotov, amica dell’ambasciatrice Golda Meir, creò un comitato di sostegno. Col favore di Stalin, che spinse Polina a farvi aderire gli ebrei illustri dell’Urss. Dopodiché, dopo pochi mesi, mandò in Siberia tutti i membri del Comitato, Polina inclusa - suo marito, il ministro degli Esteri di Stalin, si limitò a seguire distaccato la vicenda. Quando Gor’kij morì il Piccolo Padre ne portò a spalla le ceneri con Voroshilov, Orgionikidze e Kaganovich. Gor’kij aveva elogiato Stalin anche dopo l’esecuzione dei suoi compagni rivoluzionari, anche dopo l’assassinio di Kirov e i processi che lo seguirono.
A Capri Gor’kij c’era andato una prima volta a spese sue, dopo la rivoluzione del 1905, e un tentativo abortito di stabilirsi in America: per sette anni, fino alla fine del 1913, già allora i soldi non gli mancavano. Era uno avventuroso, che per primo andò a Reggio e Messina per il terremoto, e ne scrisse. A Capri tornò mandato da Lenin, a spese della rivoluzione. La rivoluzione non gli era piaciuta: Vita Nuova, il suo giornale, fu antibolscevico. Lenin Gor’kij chiamava “il nobilotto”, figlio di un preside di paese – e Marx “Carluccio”, di cui non ha letto un solo libro. “Vogliono conciliare il boia e il martire”, aveva concluso nelle Note sullo spirito piccolo borghese. È la tentazione di ogni società in realtà, e quindi della sua suprema espressione, l’intellettuale, Gor’kij incluso: se questo è l’ingrediente principale del “borghese che vorrebbe ma non può”, allora l’intellettuale lo è per primo. Ma Lenin fu attrazione fatale.
Lenin stava da Gor’kij volentieri, per leggere, è stato il lettore più onnivoro che si conosca. Fu lui, calmo, sicuro, disponibile, a inventare Gor’kij ambasciatore culturale. Per curarne la tubercolosi. Lo trapiantò dapprima in Germania, da fine 1921 per due anni, dove c’era la più folta e ostile comunità d’intellettuali espatriati, nella Foresta Nera, a Berlino, a Heringsdorf, spiaggia alla moda sul Baltico, e a Marienbad. L’Italia sarà una terza scelta, dopo il rifiuto francese del visto per la Costa Azzurra. Mussolini si limitò a proporre Sorrento, più controllabile di Capri. Gor’ kij ci passò dieci anni, ma non in esilio, ci stava in albergo: nei diciassette anni complessivi che trascorse tra Capri e Sorrento non imparò nulla, né dei luoghi né della lingua o la cultura, neanche della cucina, uno che volesse scrivere Gor’kij a Napoli faticherebbe a girare pagina.
A Sorrento Gor’kij era accudito da donne: l’enigmatica Moura, due bolsceviche fanatiche, la moglie Caterina e l’ex amante Maria Andreieva, e Sibilla Aleramo - la temibile Sibilla ci provò anche con lui. Maria Andreieva, ex attrice, era membro del Politburò e commissaria del popolo al Commercio estero, dove curava la liquidazione all’estero, per procurare valuta, dei “beni artistici superflui”. Moura seppe sempre legare Gor’kij, con argomenti talvolta da monarchica, alla difesa della patria russa e dell’avvenire. Fino quasi alla fine, quando, combinandosi l’esigenza di sottrarre le carte di Gor’kij con quella di vegliare sugli intellettuali inglesi, fu più utile a Londra. A Mosca Gor’kij sarà lasciato alle cure personali di Yagoda, il capo delle Ghepeù, uomo rozzo che divenne il suo più intimo amico, e al posto delle donne amorose gli mise alle costole due agenti spicci, il segretario Kriuchkov e il medico Levin.

astolfo@antiit.eu

mercoledì 18 aprile 2012

È irritato pure Napolitano

L’invito a lavorare alla ripresa è venuto da Napolitano a Monti nei toni della cortesia istituzionale ma al culmine di uno stato crescente d’agitazione al Quirinale. Dove ora si fa strada il timore di un Monti apprendista stregone. Con critiche anche pesanti: “È stato un cattivo ministro delle Finanze, è un pessimo ministro dell’Economia”.
C’è il timore di una caduta grave della produzione. Che a marzo ha scontato il fermo della Fiat, ma di più s’indebolirà per il fermo dell’edilizia: non si costruisce più. Con gli effetti pervasivi noti su tutta l’economia. E col rischio di una crisi finanziaria aggiuntiva se crolla l’immobiliare.
I primi dubbi sulle capacità risolutive di Monti erano affiorati al Quirinale dopo l’inconcludente offensiva europea. Il governo avrebbe sprecato il sostegno alle politiche germanocentriche di Angela Merkel senza ottenerne una qualche presa di coscienza della prospettiva europea, del mercato unito. La visita a Roma di Angela Merkel avrebbe lasciato Napolitano incredulo sugli interessi limitati della cancelliera. Monti imperturbabile non si è difeso, opponendo il pilatesco “il precedente governo aveva scelto, o aveva dovuto accettare, il pareggio di bilancio al 2013”, che ora va ripetendo ai microfoni.

Meno redditi, più disoccupati, nuove tasse, edilizia ferma

Non sono novità, erano nello stato delle cose, ma l’informazione le registra per tali e il fatto – questo fatto, dell’informazione tarda – va registrato. La Banca d’Italia certifica i redditi delle famiglie in calo del 5 per cento negli ultimi quattro anni. A fronte, bisogna aggiungere, di un’inflazione del 2-3 per cento annuo. E di un aumento del prelievo fiscale negli ultimi cinque mesi di ben tre punti, dal 42 al 45 per cento, record mondiale. Il legame è diretto fra questi dati e la contrazione della domanda e del risparmio.
La disoccupazione è in costante aumento anch’essa da un quadriennio. Alleviata a lungo attraverso i contratti atipici della “legge Biagi”, ha avuto un’impennata dell’1 per cento negli ultimi quattro mesi, per la recessione e i nuovi vincoli al lavoro. Il blocco dell’edilizia, sempre più pronunciato a mano a mano che i vecchi cantieri completano i lavori, per effetto della fiscalità sulla casa, rischia di bloccare tutta l’economia.
Le nuove tasse saranno necessarie per arrivare entro il 2013 al pareggio di bilancio. È l’effetto delle “manovre”, o correzioni di bilancio, quando, come nel caso della manovra Monti, non rivedono o correggono le spese ma aumentano le tasse: ogni manovra ne attira un’altra. Tanto più, d’ora in avanti, sulla base del “fiscal compact”, il patto di stabilizzazione dei bilanci sottoscritto da Monti a Bruxelles, da ieri vincolo costituzionale.

Roma può essere sorprendente

Grande maestria, in questa opera prima (dopo una prima prova a diciannove anni, “Les Jeux de l'amour et de la mort ”) di “Fred Vargas”, Frédérique Audoin-Rouzeau , allora ventisettenne come i tre “imperatori” della Scuola Francese di Roma che movimentano la sua trama. In un’estate romana già allora tropicale, senza ponentino. Dove “Fred” ha seguito, si può aggiungere, la sorella “Jo Vargas”, pittrice borsista della Scuola – le due sorelle hanno preso il nome della “Contessa scalza” di Ava Gardner. Il miglior giallo “italiano” – senza ammiccamenti , cioè, né nostalgie regionali – dopo quelli di Scerbanenco. Che si traduce bizzarramente dopo vent’anni, e in coda a tutto il resto.
Già allora i tardi ragazzi si fanno depilare. Quanto all’inevitabile Vaticano, basti dire che non è di maniera. Il titolo originale gioca sul “morituri”, una formula che è anche un concetto, su cui la medievista-giallista ha buon gioco. Irrispettosa con misura (credibilità), inventiva, in ogni piega sorprendente.
Fred Vargas, Prima di morire addio, Einaudi, pp.196 € 13

Il Sud dev’essere stinto

È un libro d’immagini, oleograficamente seppiate: il “Sud” dev’essere grigio, tristanzuolo, un po’ povero e sporco, un po’ folklorico, con gli asini, le baracche, le Madonne, gli incappucciati. Qui, poi, sta eretto solo nelle foto del fascismo: ospedali ordinati, scuole lucidate, linde colonie marine, elettricità, macchine agricole, e Mussolini specchiato. Con le solite approssimazioni storiche. “Sudista” è il consociativismo (Depretis?). La reazione agraria. Il latifondo – che in due terzi del Sud non c’era. E la criminalità, naturalmente.
Nel testo introduttivo Barbagallo sfiora, tra i tanti stereotipi, il tema centrale dell’economia e della società postunitarie: l’appropriazione della manomorta. Per dirla un “nuovo feudalesimo”. Mentre è l’origine della borghesia infetta che ammorba l’Italia. Il vero dualismo italiano è tra chi lavora, con costanza e sagacia, gli operai, gli artigiani, gli industriali, e chi ritiene che tutto gli tocchi in virtù appunto dell’atto di nascita, l’appropriazione gratuita dei beni ecclesiastici. E sono la maggioranza: i famelici ceti professionali (i medici soprattutto, i giurisperiti), i burocrati, e la sterminata classe politica, che tra eletti e contendenti, dal ministro al consigliere circoscrizionale, annovererà un milione di persone, quattro-cinque con le “famiglie”.
Francesco Barbagallo, Il Sud, storia fotografica della società italiana, Remainders, pp.271 € 7,23

martedì 17 aprile 2012

L’Organizzazione del Sistema Mafia

“Come la criminalità organizzata è diventata il sistema Italia” è il sottotiolo di questo libro. “Mafia S.P.A. Come Funziona L’Economia Reale Dell’Italia”, il titolo (secentesco) di lavorazione. “La mafia domina il processo di globalizzazione” il tema. Da non credere: “organizzata”, “sistema”, “economia reale” non dovrebbero essere parole facili. Per un redattore forse sì, se l’effetto è di “montare” la cosa, ma non per due magistrati, nell’ordine, un imprenditore, un vescovo, e l’ex direttore di “Foreign Policy” – un po’ tirato per i capelli. Quattro articoli (non buoni) di giornale e un’intervistina. Per attribuire alla “criminalità organizzata” un “fatturato” di 140 miliardi (“stima per difetto”), che è un decimo del prodotto lordo italiano. Accreditandole anche i 230 miliardi (“stima per difetto”), un altro quindici per cento, dell’economia in nero. Per dire che la mafia è onnipotente? È da troppo tempo che la mafia viene gonfiata da questa pubblicistica leggera (irresponsabile), invece che arrestata e condannata.
Una buona, cioè grande, parte del “sistema mafia” è il “discorso” sulla mafia.
Pietro Grasso, Nicola Gratteri, Ivan Lo Bello, Domenico Mogavero, Moisès Naím, a cura di Serena Danna, Prodotto Interno Mafia, Einaudi, pp. 165 € 16

Giustizia al Sud

Chiesa Matrice gremita, a Cinquefrondi, un paesino della Piana di Gioia Tauro, questa mattina alle 7 per la messa in suffragio di Luigi Napoli, il diciannovenne che ha ucciso un commerciante la vigilia di Pasqua a Delianuova, un paese remoto dell’Aspromonte, durante una rapina, e ne è rimasto ucciso. Così dicono le cronache. Chiesa sempre piena, e molti giovani in lacrime una settimana fa per il funerale, con lanci di rose in chiesa e applausi, e all’uscita dalla chiesa un nugolo di palloncini bianchi. Così dissero le cronache, non menzognere, eccetto che per la folla, che non c’era
A Delianuova la folla era invece vera per i funerali del commerciante ucciso: riempiva la chiesa, che è la più grande del Sud, e la piazza antistante. Lo stesso per il trigesimo ieri. E per giovedì si organizza una fiaccolata, a iniziativa del Comune con le associazioni civili del paese. Di questi eventi però non ci sono le cronache. La differenza di trattamento deriva dal fatto che le messe di Cinquefrondi sono sponsorizzate da don Pino De Masi, forte sacerdote che rappresenta nella Piana di Gioia Tauro Libera, l’iniziativa antimafia di don Ciotti.
Don De Masi, che ha procurato i palloncini e le colombe, intende evidentemente la sua missione nel senso della pacificazione, delle pecore tutte grigie. Ma si deve dire per questo che la chiesa è piena se invece è vuota? In polemica con don De Masi il parroco di Delianuova, don Bruno Cocolo, altro forte sacerdote della stessa diocesi, ha tenuto a precisare che si tratta “non di angeli ma di balordi”. Ci sono dunque due chiese anti-violenza, una cedevole l’altra intransigente.
C’è invece una sola giustizia laica. Intransigente. Che per la morte di Napoli indaga per omicidio colposo Michele Strano, il fratello del commerciante assassinato. Napoli ha sparato al commerciante dopo che il suo complice, Antonino Festa, lo aveva alleggerito del bottino. Alla rapina e alla sparatoria ha assistito la figlia del commerciante assassinato. L’ipotesi della Procura di Palmi è che il fratello, Michele, sia intervenuto dopo l'assassinio del fratello, abbia sottratto la pistola al Napoli, e gli abbia poi sparato. Per questo lo hanno "lungamente interrogato, per ventiquattro ore", riferiscono i giornali locali, spassionati.
Luigi Napoli e Antonino Festa, ventenne, figlio di carabiniere, in servizio a Palmi, erano stati arrestati pochi giorni prima della rapina per il furto di un’automobile. Rinchiusi a Palmi per poche ore, erano stati presto rilasciati. Ne rubarono un’altra subito dopo, per effettuare il colpo.

lunedì 16 aprile 2012

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (124)

Giuseppe Leuzzi

Pasolini si dice spesso “settentrionale”: “Sono settentrionale…”. Da ultimo nel testo che aveva licenziato per la pubblicazione subito prima dell’assassinio, e per la cui uscita aveva già fatto le prime interviste: “Sono settentrionale…”.

L’“odio verso la città di Roma, in cui, giuravo, non avrei ma messo piede in vita mia” era già di Calvino a sedici anni. Roma come l’altro mondo, l’unica città italiana, meticcia, impersonale, imperiosa.

“Panorama” scandaglia 32 località di vacanza, e nell’80 per cento di casi trova che gli affitti estivi sono in nero. Sono quasi tutti al Sud. Ma anche le 32 località sono quasi tutte al Sud. Non si fanno vacanze, com’è noto, nel Veneto, in Romagna, nelle Marche. E in Toscana e Liguria se ne fanno poche.

Milano
Scopre ora la corruzione, la sua corruzione.
O è quella di Varese?

Il puttanesimo padano che sfila in tiro, al Tribunale di Milano, per dire quanto è signore Berlusconi, almeno un film Milano lo sa fare.
Alcune vantano la laurea, tutte stringono le bocche voraci. Come una volta alla messa, ma senza la veletta.

Dieci consiglieri indagati per corruzione, e quattro assessori dimessi per lo stesso motivo in un anno, ma la Regione Lombardia resta al di sopra del sospetto – “quelle” cose sono da Regione Campania, Regione Sicilia.

Il “Corriere della sera” è costernato. Il giorno del giudizio di Bossi lo liquida con un due pagine di Cazzullo che ne spiega così le colpe: “Da subito la Lega è stato il partito più «sudista» di tutti: familista e clientelare, costruito sui legami personali meglio se di sangue) e la fedeltà al capo”.
Con i figli che dovevano ancora nascere, diavolo d’un Bossi.
Ma siamo sicuri che siano figli suoi?

Il Sud, come è ben noto, pratica una politica infetta. Non i Savoia e il Rattazzi del connubio. Non Depretis e il trasformismo. Né Giolitti. Salvemini ebbe a dirlo “ministro della malavita”, ma Salvemini, essendo di Molfetta, non era magari uno più corrotto di Giolitti? O Nitti, Orlando, Sturzo, Moro. Per non dire di Berlinguer..

Gianfranco Miglio, che si voleva ideologo della Lega, l’aveva pur detto: “La Lombardia non genera uomini di Stato”, solo affaristi,

Il suo Inferno, ne “La Divina Mimesis”, Pasolini lo vuole nella pianura padana, colpevole di Volgarità, un peccato il cui “primo carattere… consiste nel suo essere invadente, nel suo voler rendere Volgare anche chi non lo è, chi è estraneo al suo mondo (l’Italia del Nord e le sue industrie)”. Maestri d’ipocrisia: “I Volgari sono morali”.

La signora Dal Lago, del triumvirato che deve smacchiare la Lega, ha verdi pure gli occhiali, la montatura e i riflessi delle lenti.

Possibile che l’unica cosa pulita di questa Lega del Nord sia una di Brindisi?

Mafia
L’ha creata l’Italia. In Calabria l’ha creata la Repubblica, negli anni a cavallo del 1960. In Puglia negli anni 1980. In quanto organizzazioni o ramificazioni di interessi illegali o illeciti. Ci furono retate di pugliesi a Roma nel 1986 di cui gli inquirenti non riuscivano a capire le connessioni: nel 1986 la mafia in Puglia era una novità.
L’Italia ha aperto gli spazi e creato i presupposti per cui la mafia è mafia, cioè organizzata, violenta, impunita.

Il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri si reca a Racalmuto, dopo aver sciolto il consiglio comunale per mafia. Invitata dai ragazzi di “Malgrado tutto”, la locale rivista antimafia. Ad accoglierla ci sono una trentina di persone: i funzionari del Comune, non tutti, e i ragazzi di “Malgrado tutto”, non tutti – Racalmuto conta novemila abitanti. Certa antimafia fa paura, come la mafia.

La mafia è un crimine e anche un “discorso”. Pervasivo. Nel quale si consuma tutta la realtà meridionale. Che ovviamente è sfaccettata. La maggior parte dei meridionali lavorano, come tutti, con qualche fatica in più. Ma in tutte le loro attività, al Comune per le pratiche e le licenze, in banca, con i fornitori, con i clienti, con i committenti o appaltatori che siano, sono imbozzolati nel “discorso” mafia, di cui anzitutto devono liberarsi, e non possono – il dubbio sempre rimane. Il discorso pervasivo della mafia non permette tra l’altra nemmeno una corretta lotta anticrimine: alle piccole bande che assaltano banche, assicurazioni, negozi, più spesso di giovani e giovanissimi, ai corrotti e corruttori, alle truffe, così diffuse, specie nel campo del risparmio. Tutto sempre appeso al “discorso” mafioso, una sorta di biblismo da caserma.

leuzzi@ntiit.eu

Cambiare mondo con la provincia

L’Italia è il paese dei campanili. Ma con limiti, si penserebbe. Ora siamo al punto che il caffè, lo stesso caffè Kimbo o Autogrill, che chiamano “Racconto”, si vende in Toscana, nella provincia di Grosseto, al bar della stazione di servizio lungo l’Aurelia, a 1,20 euro, mentre passata la frontiera, nel Lazio, sotto Tarquinia, sulla stessa Aurelia, si vende a 1 euro. Sono diversi anche i limiti di velocità. Nel grossetano, sempre sull’Aurelia, il limite è a 90 km, con variazioni continue a 70, o a 60, o a 50, e sensori nascosti dietro le paline per fare le carissime multe, mentre passata la frontiera, si va, sulla stessa strada, a 110 – e senza trappole. Da Roma fino a Tarquinia i vertiginosi mutamenti di velocità massima sull’Aurelia sono lasciati alla libera interpretazione dell’automobilista, da Montalto di Castro in su sono trappole. Dei Comuni per rimpinguare le casse. Con telemetri e vigili nascosti dietro le siepi, protetti dal giudice di pace di Orbetello. Le stesse popolazioni probabilmente, ma una diversa tradizione. In Toscana predatoria, per il vecchio costume dei signori di passo, scesi dall’Amiata alla Maremma – l’Amiata era passaggio obbligato allora, essendo la Maremma infetta. O, sempre in tema di caffè e panini, la pizzetta romana con prosciutto costa 2 euro e mezzo, in montagna d’inverno a Monte Livata, nella remota provincia di Roma, e cinque, la stessa pizzetta con lo stesso quantitativo di prosciutto, a Campo Felice in Abruzzo, stazione invernale non più nobile.
Il fatto non è solo italiano. La differenza più radicale si presenta forse tra Francia e Spagna al confine catalano. La stessa lingua e la stessa tradizione, catalana, sono vissute in modo diametralmente opposto di qua e di là della frontiera. Inerte (economicamente, commercialmente) e rognosa (razzista, sciovinista) a Perpignan, febbrile e aperta a Figueras. Ma il localismo è in Italia più radicato e diffuso.
Ci sono novità nel federalismo italiano rispetto a quanto si poteva scrivere meno di due anni fa, nel saggio “La Lega fa trent’anni”, pubblicato sul sito il 30 agosto 2010. Dove si faceva l’esempio di Grado, cittadina molto bene amministrata, seppure in sentito leghista. Per concludere che ci sono delle persistenze, forti memorie storiche. Che agiscono però anche come paratie stagne, forme di separazione. Non hanno effetto diffusivo. A Grado come a Vicenza, a Padova, a Treviso, nel veronese, i comuni si amministravano bene anche prima di essere leghisti, quando in massima parte erano democristiani e anzi vescovili. Così pure gran parte delle città in Emilia, Romagna, Toscana, Marche: Bologna si amministrava bene anche sotto il papa, o Siena, o Ancona, o Rimini. Però è vero che Grado non è Jesolo, con la quale pure compartisce la laguna: le due cittadine sono due mondi totalmente diversi. Perché Grado è friulana, o giuliana, e Jesolo è veneta.
Ogni città, ogni paese, finisce per avere una sua “configurazione” (Norbert Elias), un sistema di interrelazioni specifico o “chiuso”, che cristallizza nel tempo in comportamenti e mentalità, pur attraverso frizioni, e anche conflitti, che la stessa interdipendenza accentua. Questi nuclei, “configurati”, si identificano nella rete di cui sono parte, etnica, storica, linguistica. E tuttavia le differenze ci sono pure. O, se si vuole, uno dei fili o delle gabbie di questa rete è il sistema di relazioni amministrative, istituzionali: a volte basta un semplice tratto sulla cata per segnare differenze vistose. Si segua la statale 116 Ionica e a un certo punto, prima dei segnali, si avverte un cambiamento: la stessa strada non ha più buche, ha l’asfalto liscio e la barra continua bianca ai bordi e al centro, perché si è lasciata la Calabria e si è entrati in Basilicata. Le stesse popolazioni, le stesse famiglie probabilmente, hanno una diversa sensibilità da un lato e dall’altri della provincia, tra Cosenza, che pure in Calabria è bene amministrata, e Potenza.
La differenza talvolta la fa la natura. Si può capire che Faenza abbia una cucina totalmente diversa dal Mugello, con cui pure condivide la strada e molta storia: di mezzo c’è l’Appennino. Non c’è invece soluzione di continuità tra Siena, o Grosseto, e Viterbo, scendendo lungo la Cassia o l’Aurelia. Ma sono due mondi incomparabilmente diversi, non solo per il costo della tazzina di caffè e per le multe, ma per colori, dimensioni e cura delle case, per atteggiamento e perfino abbigliamento, per la parlata, anche il linguaggio può essere segnato dal limite burocratico. Con “parti” addirittura invertite quanto a esperienza storica. La Maremma, l’Amiata e la val d’Orcia erano governate dal granduca di Toscana, Viterbo dal papa, ma le prime sono state zone depresse fino a recente, la Maremma fino agli anni 1960, la val d’Orcia fino agli anni 1980, l’Amiata, in declino economico, si spopola, mentre Viterbo e il viterbese sono stati ben accuditi dal papa.
La divisione amministrativa consolida una diversa lingua, e un diverso linguaggio. Mentalità. Costumi. Giudizio. Fedi, religiose, politiche. Consumi, stili di vita: un pasto a Marta costa la metà che a Montefiascone, sullo stesso lago di Bolsena. Tra Massa e Lucca, due province finitime della stessa Regione, e ugualmente “bianche”, la differenza giunge all’estraneità. Macroscopica tra Ronchi di Massa e Vittoria Apuania di Forte dei Marmi, che pure sono località balneari senza soluzione di continuità. Per storie diverse, certo: spesso le divisioni amministrative ricalcano storie diverse. Ma più spesso tagliano territori contigui, uguali, simili, complementari. Ma, poi, non è semplice nemmeno questo: Forte e Viareggio sono da sempre di sinistra e fanno turismo di lusso, come non si fa nel resto della bianca Lucchesia.
Una città in Italia può fare un mondo a parte. Lucca non ha nulla in comune con Massa, a parte, un po’, la lingua – ma non il linguaggio. Massa che invece, malgrado gli Appennini e le Apuane, è in tutto e per tutto legata alla sovrastante Emilia, di Parma e fino a Modena: le parentele sono transappenniniche, e l’alimentazione, i macellai a Massa esibiscono le carni emiliane doc, piuttosto che quella chianine. La Toscana tutta peraltro, che con i Medici si proiettava via Umbria fino agli Abruzzi, non ha mai spartito nulla con le confinanti Marche, presidiate da altre signorie – giusto Piero della Francesca. Ancora oggi Arezzo non sa nulla dalla sovrastante Massa Trabaria.
Michael Dibdin, il giallista inglese italianato, a un certo punto, in “… e poi muori”, ambientato in Versilia e a Lucca, nota nella piazza Napoleone una rivista che insulta i pisani: “Una scoperta medica rivela perché i pisani nascono – il rimedio non c’è”. E se la spiega come il un riflesso dispettoso della città “industriosa, mercantile” verso “la città di mare, con la sua inaffidabile ciurma di briganti e avventurieri”. Mentre la rivista è chiaramente “il Vernacoliere”, pensato, scritto e pubblicato a Livorno. Che quindi opera al contrario: è la ciurma di briganti e avventurieri che insulta la paciosa, torpida, città di terra che Pisa nel frattempo è diventata.
Diverso il caso di una trasformazione invece voluta. Talamone che in cinque anni si trasforma da borgo sonnolento, con la sua storia garibaldina, in marina: un pied-à-terre rifatto, acciottolato e arredato d’architetto, per barche enormi tirate sempre a lucido. Questa è l’opera della politica, che dunque può fare nell’arco di pochi anni. Si vede dall’autostrada: stessi luoghi, stesse popolazioni, divisi amministrativamente: dopo qualche decennio, la diversa gestione politica cambia anche i connotati. La forza della politica, dell’azione, dell’attività. Per politica intendendosi non il partito, non tanto il partito, quanto la tradizione dentro il partito. Perché Livorno e Grosseto, province confinanti, hanno da sessant’anni un’amministrazione dello stesso colore politico, ma interpretata diversamente: sotto la stessa politica la diversa tradizione, o la persistenza dei caratteri, fa la differenza.
Bisognerà rifare la storia dei caratteri originali. Si è più spesso contigui e diversi per non si sa bene che. Per immigrazioni. Per lunghi domini-principati che hanno lasciato un imprinting. Per la natura dei luoghi. La differenza abissale tra Forte dei Marmi e Marina di Massa, malgrado la contiguità fisica, è perché l’una fu nel duecento a.C. colonia latina, mentre Massa è rimasta agli Apuani ribelli? E quando questi furono deportati nel Sannio, ai sanniti ribelli che li sostituirono nelle montagne? Gli stupefacenti Campi Flegrei alla periferia Nord di Napoli hanno il vizio d’incutere paura, forse senza colpa degli abitanti. Sono essi gli eredi della flotta romana, delle galere? Si spiegherebbero i “diavoli nel paradiso”, che in questi dintorni classici di Napoli spopolano. Al castello di Baia restaurato e adibito a museo il barista in giacca verde e fiocchetto si abbraccia con la ragazza. Richiesto di un caffè risponde che la macchina è rotta. Richiesto di un po’ d’urbanità, ribatte torvo che lui è un lavoratore socialmente utile e non deve fare il caffè. La Piscina Mirabile è guardata da un grappolo di uomini di campagna intenti a fumare e giocare a carte, che non guardano nemmeno il visitatore. A Miseno, dove avevano sede le galere, non si può scendere dalla macchina, i camerieri divelgono letteralmente i pochi visitatori al loro ristorante. A Santa Maria Capua Vetere, che pure ha un anfiteatro romano molto visitato, ogni sguardo trasuda violenza, verso il forestiero che vi si avventura in macchina, che non si può non predare. Insomma, le specificità ci sono.