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sabato 13 maggio 2017

Letture - 303

letterautore

Autore – Flaubert, il letterato-letterato, lo vuole disimpegnato. È la cosa che più colpisce Edmund Wilson rileggendo di Flaubert “L’educazione sentimentale”(nella raccolta “Il cronista letterario”): “«Oggi», scriveva a Louise Colet nel 1853, «arrivo a credere che un pensatore (e che cosa è l’artista se non un triplice pensatore?) non dovrebbe avere né religione né patria né alcuna convinzione sociale. Mi sembra che il dubbio assoluto sia un’indicazione così inequivocabile che darsi la pena di formularlo equivarrebbe quasi ad un’assurdità». E «I cittadini che si scaldano pro o contro l’imperatore o la Repubblica», scriveva a George Sand nel 1869, «sembra non siano di maggiore utilità di quelli che usavano disquisire sulla grazia efficace e la grazia perficiente». Nulla lo esasperava maggiormente — e oggi possiamo simpatizzare con lui — dell’idea che l’anima si salva con la professione delle corrette opinioni politiche”.

Borges – È molto “stradale”, lui che diceva inopportuno dare nomi di personaggi alle vie. Avenidas, calles, plazas pullulano nel nome di Borges, in Argentina e in Spagna.

Conan Doyle – L’inventore dello “scienziato” Sherlock Holmes fu stolidamente spiritista nella seconda metà del sua vita. Credeva alle fate, e le vedeva. Ma aveva un modello: anche Dickens, seppure in modi meno pubblicizzati, lo era. Dilettandosi personalmente di mesmerismo.

Dante Viaggiando per “Il Sole 24 Ore” Carlo Ossola riscopre a Treviri Marx, e in Marx Dante, sempre in italiano: “Segui il tuo corso e lascia dir le genti” (chiusa della prefazione alla prima edizione), e san Pietro che la chiavi del Paradiso (XXIV, 82-85): “Assai bene è trascorsa\ D’esta moneta già la lega e il peso,\ Ma dimmi se tu l’hai nella tua borsa” (“Il Capitale”, I, 1: Merce e denaro). O Da Ponte, “Don Giovanni”, nelle lettere: “È aperto a tutti quanti,\ Viva la libertà”.
Però è vero che Treviri è la “vera Roma”, quella che il classicista vive – più che la Roma capitale d’Italia, che è anche grande città medievale, rinascimentale, ottocentesca. E più da molti secoli centro della cristianità, città vaticana: città comunque viva, non figée  nel passato imperiale.

Goethe – Viene fissato nella seriosità mentre non c’era portato, per formazione e temperamento. Si trascura la gioventù e la prima maturità, licenziose piuttosto e vagabonde. Gli “anni di vagabondaggio” si traducono e si presentano come “anni di pellegrinaggio”, come di un santino. Mentre era uno vorace. E si innamorava in tutti i posti dove andava, non solo a Roma – difficilmente una ragazza passabile gli passava indenne davanti. A 25 anni si mise con la dama di corte Charlotte von Stein, di dieci anni più grande e sposata, salvo mollarla senza un cenno quando decise di partire per l’Italia. E fino all’ultimo visse licenziosamente: fino a quasi sessant’anni ebbe amanti e non mogli. Né migliorò dopo il matrimonio con Christiane Vulpius, la madre dei suoi figli. L’“Elegia Marienbad”, 1823, a 74 anni, che giudicava la sua migliore, gli fu ispirata da una giovane Ulrike von Levetzoff, ventenne, sposata – è vero che Christiane era già morta. Al tempo della rivoluzione americana, da capo della Commissione di guerra del duca di Weimar negoziò attivamente e abilmente la vendita di attivisti politici, ladri, criminali e barboni agli eserciti assiano e inglese, da mandare a combattere contro gli indipendentisti – salvo poi elogiare i Padri Fondatori dell’America e la libertà. Se ne fa un santone saccentone mentre era un curiosone. Impegnato e insieme spregiudicato. Ma è vero che – libertinamente – gli piaceva la forma curiale: la personalità, la fama, i titoli, le riverenze. 

Lista – Anche F.S.Fitzgerald aveva la “vertigine della lista”, come Umberto Eco. È una delle prime cose che confessa nelle note autobiografiche  - autodemolitorie - “Il crollo”. Dopo i dieci anni 1920 dei successi, finiti con il crac a Wall Street e la follia della moglie Zelda, Fitzgerald si isola. Dorme, “a volte per venti ore al giorno”, e compila elenchi. Per non pensare: “Negli intervalli (fra un sonno e l’altro, n.d.c.) mi mettevo d’impegno a non pensare e compilavo elenchi, compilavo elenchi per poi strapparli, elenchi a centinaia, di comandanti di cavalleria, giocatori di football e città, motivetti popolari e lanciatori di baseball, momenti felici, passatempi, case dove avevo abitato e quanti vestiti avessi avuto dopo il congedo militare e quante paia di scarpe… Ed elenchi di donne che mi erano piaciute”. Un indizio forse, quest’ultimo, che semplifica la “vertigine della lista” dello scrittore americano, che fu devoto alla moglie ma voleva potere non esserlo.
Eco ne fa invece il sintomo di una cosa ben più vasta: il dominio del mondo. “Le mie liste” è la seconda parte delle non tradotte “Confessions of a young novelist”, pubblicate a Harvard nel 2011 (ma riprendono in buona parte la “Vertigine delal lista”, il libro illustrato che Eco aveva pubblicato nel 1009). Cominciando dal “catalogo delle navi” dell’“Iliade” e finendo con Calvino e Borges, Eco repertoria una lunga serie di elenchi di cose, più o meno ipotetiche. Che rispondono a un tentativo, dice, di fissare e padroneggiare il mondo. A ben guardare , anche in questa accezione le “vertigine” sarebbe meglio applicabile a Fitzgerald che a Eco. Che non si ubriacava.
Il mondo di Eco è però quello visibile, visivo (il tema delle sue “confessioni” è come uno studioso dei segni arriva a fare il romanziere) – un po’ allora come la raccolta dei francobolli un tempo, quando non c’era internet. Gli elenchi sono secchi, come se la parola non coinvolgesse chi di suo non è già coinvolto. Mentre coinvolgono le illustrazioni che a un certo punto della sua ricerca Eco ha ritenuto di dover allegare alle liste: quadrerie, reliquiari, battaglie, fabbriche, corti e cortigiani, macellerie, scatolette Campbell’s, arte povera, arte narrativa, del Tre-Quattro-Cinquecento. E la libreria naturalmente. Le “liste” illustrate sì, inducono, come dice lui, la vertigine da “elenchi infiniti”.

Proust – Amava il Ritz, che però lo ha tradito. Presto: già negli anni 1920 era una sorta di american bar, per ricchi bohémien americani che amavano sbronzarsi, artisti o con la voglia di diventarlo – parte di Hemingway, “Festa mobile”, e di molti racconti di Fitzgerald. E pochi anni dopo “non era più un american bar”, per Fitzgerald che deluso ci ritorna, nel racconto “Babilonia rivisitata”. E non era nient’altro.  Anche se aveva preso ad abitarlo Coco Chanel. Ma il peggio doveva venire. È stato in guerra sede di una Komandantur di occupazione. E poi oggetto di tanti passaggi di proprietà. Al termine dei quali è finito chiuso, per cinque anni, per essere praticamente ricostruito, mantenendo solo il nome – è stato riaperto un anno fa.
Il penultimo passaggio si proprietà lo raccontava Daniela Pasti su “la Repubblica” vent’anni fa, il 14 settembre 1995: “Al Ritz di Parigi esiste una suite Proust: lui non vi abitò mai, ma spesso cenava in una camera dell’albergo, dove il direttore Elles aveva disposto che gli venisse servito da mangiare anche a tarda notte. Il personale del Ritz, racconta Painter nella sua biografia di Proust, era orgoglioso della fama dello scrittore e leggeva gli articoli che parlavano di lui. Ma quando in questo viaggio abbiamo chiesto di visitare la suite ci è stato risposto di no. Il proprietario dell’albergo è arabo e arabi sono anche la maggior parte dei clienti, per i quali nei corridoi dell’hotel sono allestite vetrine «sontuose e atroci». La suite Proust non si può visitare, ma ci si può dormire per dodici milioni a notte”.
La memoria è traditrice – bisogna manipolarla ben bene.

Vitalità – È il segno dell’artista, la sua forza, secondo il F.S.Fitzgerald del “Crollo”. Ed è un dono: “Uno ce l’ha o non ce l’ha, come la salute o gli occhi castani o l’onore o una voce baritonale”. E non si attacca, non si spartisce, non si insegna.

letterautore@antiit.eu

La carta curda di Trump in Medio Oriente

Il sostegno americano ai curdi siriani sarà la chiave per il rientro americano in Medio Oriente? In Siria, e inevitabilmente poi in Iraq e in Iran, dopo il disimpegno di Obama. L’imprevedibile Trump è il presidente che potrebbe giocare questa carta.
La carta curda, dell’autonomia dei Curdi in una Siria stabilizzata, è peraltro la sola sostanziale in mano a Washington da far valere con Putin e Assad. Putin non ha interesse a contrastarla, e Assad non può opporsi – potrebbe al contrario farne offa per la sua permanenza al potere.
Il ministero degli Esteri segue con attenzione questo possibile sviluppo. Per i suoi possibili esiti stabilizzatori. O di destabilizzazione se non fosse perseguito con la necessaria d eterminazione.
Un’autonomia curda in Siria innescherebbe inevitabilmente una richiesta analoga in Iraq. E può servire a Washington come pietra d’inciampo in Iran, anche se qui i Curdi non sono regionalizzati e non hanno tradizione di ribellismo.
Il sostegno alle autonomie, seppure rispondente agli interessi delle due grandi potenze regionali, Usa e Russia, sarebbe in regola con gli orientamenti del diritto internazionale e dei popoli.
Si porrebbe in questa evenienza il problema Turchia. Che non vuole riconoscere ai suoi curdi nessuna autonomia, ed è alleato fedele degli Usa nella Nato. Lo è stato finora. Da alcuni anni, con Obama, non c’è più feeling tra Ankara e Washington. Che verso sceglierà Trump è la più grossa incognita che la diplomazia europea si pone. Un patronaggio dei diritti dei curdi potrebbe ridare a Washington un considerevole leverage nei confronti dell’incontenibile Erdogan.

Una ventata di anarchia in buon toscano

Un libro di divagazioni all’apparenza. Il reduce di tante guerre e tanto chiasso politico, il giornalista polemista, stanco degli orrori di “Kaputt” e “La pelle”, i racconti della guerra e del feroce dopoguerra, torna a casa e fa l’elogio del popolo natìo. Ma per modo dire: quel popolo è diviso sempre e comunque, da odi anche truculenti, di campanile e familiari. Divertendosi quindi a prenderlo – prendersi – anche in giro. Per essere sboccato, fazioso, cinico, presuntuoso, perfino  crudele. E il migliore è il più insolente di tutti: il pratese – Malaparte - che è anche becero, rissoso, riottoso.
Questo soprattutto. Alla Toscana Malaparte paga omaggio, per la tradizione di poesia e arte, di studi e di opere. Ma soprattutto crea, al modo toscano, o forse fiorentino (ma sarebbe ingiuria per un pratese), per antifrasi, un mondo e un modo di libertà. Attraverso l’irriducibilità. Che può essere dispersiva e inconcludente, ma è terreno di semina fertile – il mondo dovrebbe imparare dai suo toscani a “sputare in bocca ai potenti”.
Un libro semiserio, di umori. Persistenti malgrado l’assunto provincialista. Ma non tanto per l’allegria e le spiritosaggini: regge al tempo perché è “scritto bene”, e perché è di più che gli umori che esibisce. È uno scatto di orgoglio, di uno scrittore che andava a finire contestato e isolato, sebbene si apprestasse a essere seppellito con l’acqua santa e la bandiera rossa, come voleva (“Maledetti toscani” è del 1956, la morte sopraggiungerà l’anno dopo). Per dire una cosa che oggi appare ancora più giusta, un bisogno più urgente: la libertà di essere, e anche di sbagliare, la libertà come irriducibilità. Un sottile anarchismo, anche sotto la rispettabilità cui ambiva. Che è la via su cui sta riacquistando l’onorabilità dopo la lunga censura.
Notevole il recupero – forse il viatico della gradevole lettura – dei modi grammaticali e sintattici di scuola. Dell’italiano (toscano) del Quattro-Cinquecento. Adattato, scorrevole, senza le accentuazioni e tortuosità che gli infliggeva Gadda: per accentuarne la naturalezza e non la speciosità.
Curzio Malaparte, Maledetti toscani, Adelphi, pp. 220 € 13

venerdì 12 maggio 2017

Problemi di base intercettivi - 328

spock

“Le chiacchiere uccidono” (papa Francesco, 16 febbraio 2014). Chi?

O non ingrassano?

Si intercetta per la verità, o si fa la verità intercettando – sillabe, sospiri, anacoluti?

E chi decritta i decrittatori?

Le Procure non usano le atomiche, non le hanno, ma i gas?

Mi si nota di più se faccio il processo in tribunale, oppure sul giornale?

Perché ci sono giudici napoletani in tutta Italia e non ci sono giudici a Napoli?

Perché le intercettazioni nascono e finiscono a Napoli?

spock@antiit.eu

44 articoli contro Marchionne – per Volkswagen

“Un giorno io e Mucchetti andammo a pranzo con Marchionne a Torino, al Lingotto”, racconta Ferruccio de Bortoli in “Poteri forti (o quasi)”, il suo libro in uscita, in questa anticipazione di formiche.net: “Ci accompagnò il capo ufficio stampa della FIAT, una persona dai modi squisiti e di grande professionalità come Simone Migliarino. Marchionne disse a Mucchetti: «Ho contato i pezzi che ha scritto contro di me sul ‘Corriere’, sono quarantaquattro». Imbarazzo generale, rotto dalla risata di Marchionne che poi accettò anche di farsi intervistare. La difesa delle opinioni di Mucchetti, che è stato un analista corretto e spietato, mi è costata molto nel rapporto con l’azionista torinese. Forse, persino la rottura definitiva”.
Dice molto de Bortoli per la sottintesa libertà di stampa, di cui il giornale milanese si vuole portabandiera. Anche contro gli interessi degli editori del suo giornale. Ma non dice tutto. Non dell’epoca “bazoliana”, invece che “torinese”, della sua direzione. Con un Rotelli tipico imprenditore “privato del pubblico” assurto a azionista di riferimento. Con i soldi di banca Intesa. Il tempo di prendersi per niente il San Raffaele, azienda miliardaria. Dopo la tragicomica incolpazione del titolare del San Raffaele, don Verzé. Tutto made in Corriere della sera, col patrocinio della compiacente Procura milanese.
E poi, quarantaquattro articoli contro un unico soggetto, sia pure proprietario? Di un unico giornalista? “Corretto e spietato”? A favore della Volkswagen? Poiché di questo si trattava, una campagna di discredito.
L’affare è già stato messo in chiaro (G.Leuzzi, “Gentile Germania”, pp. 83-4): “Per tutto il tragico 2012 giornalisti e giornali illustri promossero in Italia una campagna anti Fiat, colpevole di non cedere l’Alfa Romeo alla Volkswagen, su indicazioni e indiscrezioni Volkswagen. La Fiat diceva di no, che non vendeva, e quelli insistevano che sì, l’Alfa andava venduta a Vw, e dicevano anche come”. Uno dei “giornalisti illustri” era Mucchetti, uno dei giornali il “Corriere della sera”.
Le buone intenzioni non bastano – non ne è lastricato l’inferno? È giusto – corretto – attaccare una ditta a favore di un’altra? Surrettiziamente, e per finalità non note? Sotto quale deontologia?

La storiaccia di Zelda e Scottie

“Zelda accusò il marito di essere omosessuale, una tante: Hemingway era il suo amante. Allora, per rivelare a sé stesso la propria virilità, Fitzgerald decise di dimostrarla con una prostituta, e comprò dei preservativi. Zelda li scoprì e i due si accusarono furiosamente”. Ma di che? Una storiaccia.
Così si penserebbe ma non è. È un inno alla gioia, dei perfetti innamorati, che Citati è partito in quarta a comporre, quali Zelda e Scott Fitzgerald sono stati per le generazione postbellica. Il mito si vuole rigenerare, e Citati porta il suo contributo. Dei belli e dannati, giusto il titolo del secondo romanzo del grande successo. La “farfalla” è Zelda, è la scrittura di Scottie, è l’amore spensierato. Ma poi non tutto quadra.
È una sorta di coppia felice alla Peynet che Citati monta, anche se non può smettere l’artiglio del critico. Bellezza, gioventù, genio, ricchezza, spensieratezza, prodigalità. E un genio che si consuma alla sua stessa fiamma. Col metodo citatiano del superlativissimo, come deve un biografo – a che pro, sennò, sacrificarsi alla vita degli altri? Ma le riserve sono incancellabili. Zelda è “ragazza del Sud” dai molti flirt, capricciosa, piena di sé, anche se non sa di che cosa, e frivola. Già da ragazza libera e bella costringe Scottie più volte alll’ubriachezza, per smaltire i rifiuti di lei inspiegati. Incostante anche nel matrimonio: in Costa Azzurra importuna un ufficiale della Marina francese, che se ne libera col trasferimento. Sempre insoddisfatta, vuole perfino diventare ballerina a 27 anni. Citati la dice schizofrenica, sarebbe quello il disturbo che si manifestò ai trent’anni. Ed  è il lato più romantico della storia, poiché Scottie se ne occupò amorevolmente per anni. Ma non è così semplice. La “malattia” certa era la ripulsa del marito. Che però poté per anni portarla in giro per l’Europa e gli Stati Uniti tra neurologi, psichiatri, cliniche e ospedali, cosa che un posseduto non tollererebbe.
E poi che limiti sotto il brillio, che pesantezze. Scottie beveva, anche a vent’anni. Scottie sente Zelda più forte di sé. È “geloso di Zelda come scrittrice: con una violenza, un furore e una crudeltà, che non conservano nemmeno un’ombra del suo affetto e della sua onestà mentale”. Ne copiava le lettere e i diari, “inserendoli di nascosto” nei romanzi. Però, “le sottoponeva ogni pagina”.
La lode forse più sentita è a doppio taglio: “La vita di Fitzgerald non è misteriosa”, se ne sa tutto, “il vero mistero è come nacque la sua arte”. “Di qua dal paradiso”, che lo rese celebre e ora si ripubblica, “è un libro rozzo”. “Belli e dannati” è “un libro informe”. “Mi è difficile giudicare «The Last Tycooon»… Dubito che sarebbe venuto un buon libro”. Il titolo, e l’idea?, viene forse da “un battito così selvaggio di ali”, che Ottavio Fatica espungeva qualche anno fa nella nota a “Il crollo” – “Quel modo desultorio di passare da una metafora all’altra per il puro piacere di correre del cavallo di razza”.
Una storia tirata via, Citati va veloce e umorale. Hemingway è, a inizio racconto, un amico “abietto”. Una storia d’amore infernale ne residua, anche poco dignitosa, non fosse per l’interrogativo: giovò all’arte di Fitzgerald o la insterilì? Stando nell’ottica di Edmund Wilson, l’amico di gioventù, che pregiava molto Fitzgerald – e di Hemingway l’abietto, che lo impose. Citati ne fa una tragedia e un mito. Buoni al racconto ma non alla cosa: la vicenda si svolge come in apnea, o in una bolla. Avulsa dai contesti: i luoghi, le persone, le epoche, che pure sono i più pregni della storia, New York, Parigi, la Costa Azzurra, i Murphy, dedicatari di “Tenera è la notte”, coppia per ogni aspetto riguardevole, Wilson, gli editori, il boom (gli Anni Ruggenti, o Folli, l’Età del Jazz: il respiro di sollievo dopo la guerra interminabile), il crac. E Hemingway, da cui vengono il titolo e l’idea, Citati riconosce alla fine a malincuore - “Il vecchio nemico” così ne scrive in morte: “Scott… aveva ancora la tecnica e lo spirito romantico per fare qualsiasi cosa, ma da molto tempo tutta la polvere era sparita dall’ala della farfalla, anche se l’ala ha continuato a battere fino alla morte della farfalla”.
Pietro Citati, La morte della farfalla, Adelphi, pp.88 € 10

giovedì 11 maggio 2017

Secondi pensieri - 306

zeulig

Dialettica – “La dialettica è la dittatura dell’ovvio”, Heidegger, “Segni”: “Nella sua rete soffoca ogni domanda”.

Digitale – È morto a New York giovedì 27 l’artista americano Vito Acconci. Quello della Performance (fece scandalo esibendosi nella masturbazione) e nella Video Art, poi diffusissima. Senza menzione nei media. Non onorevole e nemmeno rituale. Perché era di genitori meridionali? Ma si può pensare superato dalla tecnologia: basta poca applicazione col digitale per mixare e remixare videate e immagini.
In un certo senso il digitale è la vera arte contemporanea: la cancellazione dell’“artista” e dell’“opera”. Ma allora con una grossa dose di plagio.

Evoluzione – Singolarmente assente per il fenomeno propriamente umano - se non per la sua animalità. In ragione della brevità della storia. Della storia storica, documentabile, parlante. Ma anche per una sorta di atemporalità dell’uomo in quanto ragione e passione.
Non è senza argomenti l’outsider Colin Wilson cha proponeva uno “sviluppo” dell’immaginazione. E conseguentemente una cronologia - stadi di sviluppo - della stessa nel tempo conosciuto o rilevabile. Per dare sostanza al suo proprio progetto di “significanza (purposefulness) evolutiva”.
Una prospettiva non fallace – oltre che utile - in tempo di crisi, o di cultura della crisi, il secondo Novecento di Wilson. Che Wilson chiama dell’esistenzialismo nichilista, ma questo non incide: l’uomo può e deve accrescere le sue facoltà conoscitive, i “modi attuali della sua coscienza”. Come, è da vedere. Certamente non col riduttivismo: rassegnarsi alla piccolezza, al piccolo mondo antico-nuovo, è rinunciare. In primo luogo all’esigenza della conoscenza. Più complesso è il grado superiore della purposefulness wilsoniana: accantonare gli Heidegger, Sartre e altri campioni del nichilismo esistenziale, per un “esistenzialismo positivo”.
Questo Wilson basa su un circolo di energie che porta fuori campo. La possibilità di attingere al potenziale umano o evolutivo dipende da energie positive e non negative. Mentre l’abitudine, la ripetitività, la noia, la routine, i riflessi condizionati, il modo d’essere dell’umanità restringe le percezioni generando un circolo vizioso di energie negative: l’uomo è portato a scegliere di non sapere. Ma è vero che l’altro modo di approfondire il reale, distruggendolo, non porta se non a un vicolo cieco – “crocevia” nella terminologia di Heidegger, “cammino interrotto”. 
È questo un allargamento o un restringimento del potenziale di percezione? Ridurre al nulla è un potenziamento epocale o una rinuncia alla facoltà conoscitiva? Alla potenzialità del linguaggio, di inventare inventandosi?
Singolare che, nel Wilson che poi cede all’occultismo, la critica all’esistente la abbia in comune col filosofo anti-filosofo Heidegger, questi puntando il dito contro la “tecnica”, piuttosto che contro la routine, sociale come conoscitiva.

Freud – O della malizia, perché no. Che il suo compito di terapeuta intendeva come spiazzamento, anzi esattamente come “depistamento”. È questo il suo metodo, si sa, ma non nella forma spavalda come la teorizza in una delle prime riedizioni della “Psicopatologia”, al caso 39 dei lapsus dell’edizione poi definitiva: “Nel processo psicoterapeutico di cui mi servo per risolvere ed eliminare i sintomi nevrotici, il lavoro da compiere consiste molto frequentemente nel depistare, partendo da parole e idee improvvise emesse come fortuitamente dal paziente, un contenuto di pensiero che, certo, si sforza di nascondersi, ma che non può tuttavia evitare di tradirsi involontariamente”. 
Il sottotitolo della “Psicopatologia” è “Dimenticanze, lapsus, sbadataggini, superstizioni ed errori”. Ma niente errori in Freud. Né equivoci, stanchezze, insonnie, giochi di parole, vuoti di memoria, magari per l’età – o per la lettura della “Psicopatologia”. Il lapsus era il lapsus linguae. Poi è divenuto freudiano. Ma giusto per il divertimento? La distrazione non è ammessa. Nemmeno l’errore, o l’ignoranza.
Gli accostamenti Freud fa peraltro capziosi, molto personalizzati. Scientificamente – terapeuticamente – cosa valida lo scostamento-spostamento che viene in mente a Freud, o alle sue fonti, piuttosto che non un altro? Il metodo dello spiazzamento che Freud teorizza è interminabile.

Hegel – Heidegger lo trova monco, senza “la sua metafisica teologico-cristiana”. Scrivendone nel 1969 (“Segni”), a proposito dell’“attuale revival hegeliano”: “Il pensiero dominante (di Hegel) è difficile cavarlo fuori dalla macina della dialettica. Questa non è che un mulino che macina a vuoto, dato che la posizione di fondo di Hegel, la sua metafisica teologico-cristiana, è stata sacrificata. Soltanto in essa, infatti, la dialettica di Hegel trova il proprio elemento e il proprio sostegno”.

Lingua – È autarchica? Commentando l’ennesimo Hebel, “il poeta di casa”, nella conferenza “Linguaggio e terra natìa”, 1960, Heidegger introduce surrettiziamente questo assioma: “Laddove questa conferenza sottolinea talvolta le insufficienze di una traduzione, l’intento non è di criticare ma di far presente l’autarchia e quindi l’intraducibilità non solo di ogni parlata, ma anche di ogni lingua autentica”.
Una “autentica” sciocchezza, all’apparenza, ogni lingua vivendo anzi e prosperando di prestiti e adattamenti. E non sottile, non una che comunque sfugga a un Heidegger. E dunque? La lingua è tendenzialmente autarchica: separatrice prima che comunicatrice.

Museo – Nasconde più che mostrare? E tanto più quanto più è pieno e “ricco” – l’esperienza si vuole singolare, anche quella estetica. Nell’equanimità anche dell’esposizione, nell’indifferenza agli oggetti, se non per la loro fisicità – ingombri, illuminazione, ambientazione. E nei criteri dell’ordinamento. È un garage o una soffitta, più che il salotto, un luogo di fruizione.
L’opera d’arte deve avere un suo proprio luogo? Si vuole comunque protagonista.

Punto di vista – Modifica l’oggetto, eccome, specie, nella comunicazione, anche solo sonora o visiva, non linguistica. In quella linguistica pesa perfino sulla matematica. È l’anticorpo più forte del realismo. Cambia col lettore – è il lettore (ascoltatore, spettatore), di fatto. Un vero punto di vista sarà in grado di leggere un giorno “M’illumino d’immenso” come uno slogan pubblicitario, uno slogan politico, uno sberleffo.

Solitudine – La solitudine Heidegger distingue dall’isolamento – in “Paesaggio creativo: perché restiamo in provincia?”, il testo inviato alla radio di Berlino nel 1933 per spiegare il suo rifiuto della cattedra nella capitale alla quale era stato promosso. L’isolamento è piuttosto nella moltitudine: “Nelle grandi città è facile essere davvero isolati come  in nessun altro luogo. Ma non si potrà mai esservi in solitudine”. Che è invece un prodromo di energia: “La solitudine possiede una forza primigenia: quella di non isolare bensì di scatenare l’intera esistenza avvicinando all’essenza delle cose”. I dialoghi più spesso fatti di silenzi.

Storia - È rinata nell’Ottocento. Per questo ancora – irriducibilmente? - romantica e nazionale. E genialistica, cabalistica, imperiale.

Verità – Aleggia più che essere, come il suono delle campane, intimo e distante. Come dice Goethe (“Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meisters”, ed. 1829, libro 2, cap. 11): “Non è sempre necessario che il vero prenda corpo, è sufficiente che aleggi spiritualmente intorno come spirito e provochi una sorta di accordo, come quando il suono delle campane si effonde serioso e amichevole nell’aria”.

zeulig@antiit.eu

Per un’evoluzione creativa

È difficile far emergere Wilson come un pensatore originale e un ottimo scrittore dal magma incontrollato delle sue diverse scritture, di saggista, narratore, guru, occultista, nonché psicologo e archeologo. Il suo apologeta non insiste sulla qualità del narratore, anche se fa “una pietra miliare” l’uscita nel 1976 dei “Vampiri dello spazio” - e, si suppone, la deriva successiva di Wilson verso gli “strani poteri”. L’esordio folgorate ventenne con “L’outsider” si conferma tuttavia consistente. E l’approccio, su cui la brochure si attarda, per una “evolutionary purposefulness”. Collegata agli stati fisici ma non per adattamento passivo, come azione creativa.
Dare un senso all’evoluzione è alimentare e liberare, con la cultura, l’approfondimento, la libertà, energie positive per l’uomo. Allargando i poteri dell’immaginazione, invece di comprimerli nella routine e la produttività tecnica.
Clifford P. Bendau, Colin Wilson, “The Outsider” and Beyond, Paupers’ Press, pp. 68 € 16.84

mercoledì 10 maggio 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (325)

Giuseppe Leuzzi

Non si ha più memoria di Enrico Leo, geografo e politologo (“Studi e abbozzi per servire alla fisica dello Stato”), lo ignora pure wikipedia ed è tutto dire. Era peraltro già per Carlo Cattaneo un “ingegnoso istorico”. Si sa che fu un discepolo di Herder e di Karl Ritter, il geografo considerato all’origine, con Alexander von Humboldt, della moderna geografia. E nulla più. Ma si deve a lui tutto il dibattito meridionalista e antimeridionalista in Italia, alla sua “Storia degli Stati Italiani dalla caduta dell’Impero Romano fino all’anno 1840”, pubblicata a Firenze nel 1842. L’Italia è divisa in due, argomentava Leo, perché è due distinte Italie geograficamente. A Nord dell’Appennino ha pianure, collegamenti facili, corsi d’acqua utili al’irrigazione e ai trasporti, mercati naturalmente aperti. A Sud è frastagliata e chiusa dai monti, in valli strette, tra corsi d’acqua ribelli: una natura (geografia) che fa insocievoli anche le popolazioni.

Guido Morselli, che si dilettava dei dialetti, e ne fa largo uso nei romanzi, fa chiamare Francesco Mélito duca di Portosalvo familiarmente, dal suo amico il re Umberto I, “don Cicce” – “non lo dovete chiamare eccellenza, no, don Cicce”, il re raccomanda ai commensali del “Divertimento 1889”. Errore grave, tanto più per una pronuncia calabrese, che Morselli si piccava di conoscere meglio essendo stato militare di leva su è giù per la regione: in nessun dialetto calabrese si sfumano le terminazioni, la-le sillaba-e finale-i. Questo è uso napoletano, di parlare cantando. Più che sillabe emettendo suoni, distinti ma inarticolati.
Il napoletano semmai risolve il problema dei cantanti d’opera, di limitare la sillabazione ai suoni. 

Il radicamento non è un limite
“Paesaggio creativo” Heidegger trova quello di casa, nel messaggio alla radio di Berlino nel 1933, per spiegare il rifiuto della cattedra nella capitale - “Paesaggio creativo: perché restiamo in provincia?” Il filosofo era uno svevo alemanno, e voleva restare in Svevia.
Voleva anzi restare nell’ambiente chiuso nel quale solitamente si recava per “lavorare”, la sua baita di montagna. Un luogo che si direbbe inospitale, “di sei metri per sette”, diviso in “tre locali: una cucina abitabile, la camera da letto e uno studiolo”. Tra “la gravità dei monti e la durezza delle loro rocce primitive”. Ma anche tra “il fasto luminoso e schietto dei prati in fiore, lo scrosciare del ruscello montano nella vasta notte autunnale,  la semplicità austera delle distese innevate”. Più a suo agio nella riflessione “quando, nel profondo della notte invernale,una violenta tempesta di neve abbatte i suoi colpi sulla baita”. Isolato ma non solitario. Anche se più spesso in compagnia del silenzio. “Il cittadino crede di «calarsi nel volgo» quando si concede una conversazione con uno di campagna”. Non è così: “Quando alla sera, al tempo della pausa dal lavoro, siedo con i contadini sulla panca della stufa o al tavolo sotto il Crocifisso, per lo più non parliamo affatto. Fumiamo in silenzio le nostre pipe. Capita che venga detta una parola…”.
Una realtà vissuta più che cercata, o costruita, che si esprime attraverso il dialetto. Con accorgimenti: il dialetto è significativo se mediato. Heidegger molto ne ha trattato, per le abitudini montanare e per la riflessione critica persistente sul poeta e narratore alemanno Peter Johann Hebel, studi di cui questo sito ha dato conto,
ci torna su in “La lingua di Peter Johann Hebel. “In che cosa consiste il segreto della lingua di Hebel? Non in una volontà stilistica artificiosa, e nemmeno nell’intenzione di scrivere nel modo più folkloristico possibile”. Il segreto è l’innesto del dialetto alemanno “nella lingua scritta”: la capacità “di far sì che questa – la lingua scritta – risuonasse come pura eco di quello, del dialetto. E in “Linguaggio e terra natia”,
“Nel dialetto è radicata l’essenza del linguaggio”. È il “proprio” luogo, la “patria”: “In esso si radica pure, se la parlata è la lingua della madre, l’intimità del sentirsi a casa propria, la terra patria. La parlata non è solo la lingua della madre, ma al contempo e anzitutto la madre del linguaggio”.
Una reductio, una concentrazioni di forze e umori, che non è però esclusione o isolamento, ma la strada per partecipare, da compagni di strada e non da clientes, con un proprio bagaglio.

Non c’è posto per Vallone
Si celebra di tutto ma non una parola per i cento anni qualche mese fa della nascita di Raf Vallone, che pure è stato protagonista eminente dello spettacolo. Nonché figura per ogni spetto stimabile,un simbolo e un esempio in altra cultura, di qualche dignità cioè, non afflitta dall’effimero e il coatto. È stato protagonista di film che fanno la storia del cinema. E di teatro con altrettanta caratura. Il primo e privilegiato interprete di Arthur Miller, “Uno sguardo dal ponte”, dapprima a Parigi nel 1958, regista Peter Brook, poi al cinema nel 1962 con Sidney Lumet, e in Italia nel 1967. Dopo aver portato in scena a Torino il “Woyzeck” di George Büchner.
Al cinema esordì nel 1942 con una parte di rilievo in un parterre altisonante, nel film “Noi vivi”: romanzo di Ayn Rand, sceneggiatori Corrado Alvaro, Anton Giulio Majano, Orio Vergani, musiche di Renzo Rossellini, regia di Goffredo Alessandrini, coprotagonista Alida Valli. Sarà uno degli interpreti del neo realismo, di De Santis, “Riso amaro”, con Silvana Mangano, e “Non c’è pace tra gli ulivi”, di Germi, “Il camino della speranza”. Nonché poi di film di ogni genere, Camerini, Malaparte, “Cristo proibito”, ancora De Santis, “Roma ore 11”, e Alessandrini, “Camicie rosse” (è Garibaldi). Nonché in Francia, con Simone Signoret in “Teresa Raquin” di Marcel Carné. Parteciperà anche a numerose produzioni di spicco, in Italia, “La  ciociara”, “Un voglia da morire”, e fuori, “Retour à Marseille”, “Lion of the Desert”, “A time to die”, “Il Padrino- parte III”.
Una persona semplice malgrado i successi fino alla fine. Senza pettegolezzi, malgrado un flirt con Brigitte Bardot. Solido, asciutto. Calciatore del Torino da ragazzo (titolo italiano Ragazzi 1930-31, quando aveva quindici anni), e poi in prima squadra, con 25 presenze e quattro gol dal 1936 al 1941 (più sette presenze in prestito al Novara nel 1939-940), Mezzala, evidentemente di non grandi risorse. Ma contemporaneamente si laureava, due volte: in filosofia e in legge, passando esami con Luigi Einaudi e Leone Ginzburg tra i tanti. Conclusa con gli studi l’esperienza calcistica parallela, fu giornalista. Critico di cinema alla “Stampa”. E dopo la resistenza attiva, partigiano combattente durante l’occupazione, redattore capo della cultura all’“Unità” di Torino. Posto in cui fu succeduto, quando lasciò per fare il cinema, da Italo Calvino.
Fu capo redattore all’ “Unità” ma rifiutando l’iscrizione al Pci, che del giornale era l’editore  - “l’Unità” era l’organo dl partito Comunista. Non ne apprezzava, eresia all’epoca, lo stalinismo. Ma non è per questo che è dimenticato – il Pci e i suoi esecutori possono essere compatti e feroci nelle censure. La sua colpa è essere stato calabrese. In qualche modo.
Nato a Tropea, torinese di fatto, poiché a Torino, dove i suoi si erano presto trasferiti, aveva fatto le scuole e ogni esperienza di vita, senza mai più tornare in Calabria, tuttavia era censito, e si censiva, come calabrese. All’epoca era virtuoso rivendicare le origini, quali che fossero, non si facevano pesi e misure. Ma per lo stesso motivo un personaggio così era destinato all’oblio, nell’Italia leghista. E in una Calabria che rifiuta se stessa.
Perfino Tropea, cui Vallone diede lustro e che molto contribuì a lanciare come stazione turistica marina, se lo è dimenticato. Se non per l’iniziativa delle figlie Eleonora e Arabella (una breve intervista con Peter Brook), e del figlio Saverio (foto di scena, per una mostra che avrebbe dovuto essere, ma non è, permanente).

leuzzi@antiit.eu

Brexit è una cosa seria

Il 9 giugno 1865 a Staplehurst nel Kent il Folkestone Express, il “treno della marea”, il treno dalla Francia, deragliò. I binari erano stati rimossi per manutenzione, senza avvisare i convogli in arrivo. Dieci morti, quaranta feriti - tra gli scampati c’era Dickens, nel vagone rimasto in bilico sul vuoto. Brexit è come la manutenzione di Staplehurst: una manovra tanto semplice quanto stolida.
Si continua a scrivere che il voto inglese per l’uscita dalla Ue è stato casuale, e che se si rivotasse vincerebbero i no. Invece la scelta non è stata casuale, ed è duratura. L’outsider Farage era arrivato su di essa da niente a secondo partito. Che i politici dell’establishment la cavalchino, l’ex sindaco di Londra e l’attuale premier, che su di essa è certa di stravincere le elezioni, questo ne è la conferma.
Né Brexit è un salto nel vuoto: 1) gli inglesi sono convinti di poter mantenere i vantaggi del mercato comune senza gli svantaggi: la libera circolazione delle persone, l’euro, la politica estera; 2) il governo inglese si ritiene una realtà, e più dopo le elezioni, mentre Bruxelles ritiene una finzione – un comitato d’affari, litigioso.

La fine del socialismo

All’ex primo ministro socialista Valls, capo del governo di cui Macron era un ministro tecnico, candidato fallito alle presidenziali per il partito Socialista, che il giorno dopo la vittoria corre da lui, Macron risponde altero: “Si metta in fila”. Mentre il socialista presidente uscente Hollande, quello della caduta storica di credibilità, gli scodinzola attorno come a dire: “Le elezioni le ho vinte io”. È indolore ma vergognosa la caduta del socialismo in Francia, l’unico paese dove ancora governava, fino a ieri.  
Era già morto in realtà il socialismo, in Francia come in Europa. Ben prima delle batoste elettorali subite in Grecia e Spagna, e ora in Francia, e di quelle che si annunciano in Gran Bretagna, in Germania e – al coperto dell’equivoco, democristianissimo, Pd – in Italia. Un movimento e un partito ruote di scorta del “mercato”. Cioè, nelle condizioni attuali, degli speculatori - inutile ripercorrere i governi di sinistra della Seconda Repubblica, parlano da soli.
C’è anche un che di comico in questa disfatta: che la speculazione si sia impadronita del socialismo accaparrandosene il linguaggio – le riforme, la crescita, il futuro, un mondo più giusto.

Dickens superstar

Un omaggio a Dickens, a Dickens in America, e a Boston capitale dell’editoria americana – dopo quello a Dante, a Dante in America, e a Boston capitale degli studi. Dickens “Boz”, “il grande incantatore”, “l’inimitabile”, “il Capo”. Tra folle plaudenti, isterismi, bagarini, incidenti con la polizia. Groupies, magari in età, tra essi una scrittrice che s’introduce nella stanza di Dickens - un personaggio che corrisponde al vero, una Bigelow come la regista premio Oscar. Anche swooners, le ragazze che si fanno prendere dagli svenimenti. Il mondo al rovescio un secolo prima, col femminismo compreso. E i bookaneers, i plagiari: ladri di manoscritti, borsaioli delle bozze in arrivo da Londra al porto di Boston, stenografi delle letture di Dickens, da riprodurre liberamente in assenza negli Usa del copyright. È anche la storia di “un’epoca spietata dell’editoria” – come del resto di tutto il capitale negli Usa nel secondo Ottocento: tutto è in tono con la storia che ne ha fatto Bertrand Russell.
Il titolo originale è “L’ultimo Dickens”. È la vicenda dell’“Edwin Drood”, rimasto a metà per la morte di Dickens, e quindi di un possibile sviluppo. Ma anche della caccia alle bozze arrivate a Boston degli ultimi capitoli scritti. Un modo per “completare il romanzo incompiuto”, esercizo comune a molti, anche a Fruttero & Lucentini, che Pearl conduce con la stessa eleganza della coppia italiana. Il giallo su Dickens e le bozze del suo romanzo incompiuto è un “completamento” dello stesso, tra sparizioni, parusie, agnizioni – Pearl fa sei “puntate”, quante restavano a Dickens da scrivere del fogliettone promesso. E una serie interminabile di trucchi editoriali.
Un esercizio in giallo sempre raffinato, e un divertimento d’autore: sono queste le cifre di Pearl. Con una sottile satira della dickensomania: delle letture di Dickens in giro tra Boston, New York e Washington, invitato dagli editori per promuovere le vendite e capitalizzare sul credito, come un concerto di Vasco Rossi – con lo stesso contorno di guardioni, pubblicitari, promotori, e il delirio dei fan. Alla cultura pop americana un’altra garbata presa in giro viene contrapposta, dell’alterigia inglese, lo snobismo petty bourgeois degli inglesi in India nei confronti di Dickens padre – un cockney…. - e figlio, quello che si era arruolato nella polizia coloniale.  

Il tutto documentato e dunque vero. Compresa la sottile caricatura dell’autore, uno che non la finirebbe mai di scrivere. Mentre “tutti i libri migliori sono incompiuti, devono simulare la completezza per soddisfare il pubblico”. Ecco perché c’è bisogno degli editori: “Se non fosse per gli editori, gli autori non arriverebbero mai alla fine. Avremmo solo scrittori e niente lettori”. 
Matthew Pearl, Il ladro di libri incompiuti, Super Pocket, remainders, pp. 497 €3,45

martedì 9 maggio 2017

Problemi di base populisti - 327

spock

“L’elezione di Macron un esempio per l’Italia”: perché, l’Italia ha un presidente da eleggere?

“Trump ha aperto la strada a Macron”- e dunque viva Trump?

Macron è un rimedio al populismo o all’antipopulismo – chic, certo?

E Obama – “la politica si fa fuori dai partiti”?

Prodi sa tutto dell’ignoto Macron – stessa banca?

O sono i gesuiti che mettono insieme, gli allievi, le mogli, i professori e le banche?

E col papa come la mettiamo, che non ama le banche?

Si può essere francescani e bancocentrici – cioè gesuiti?


O non bisognerebbe correggere il politicamente corretto?

spock@antiit.eu 

Lo spirito della conversazione, a Buenos Aires

Una – alcune – della infinita serie di conversazioni di Borges con altri autori e con giornalisti, che si si editano perché tutte in qualche misura ancora golose. Queste furono organizzate, anche per riavicinare i due letterati, da Orlando Barone nel 1975. Barone ne ha poi gatto una raccolta che non si edita più, ma molte parti sono disponibili online.
Di che parlano i due nemici amici? Di tutto e di niente – niente di memorabile. Dei sogni. Molto. Della poesia e della follia. Della Francia senza lusioni, “dove il razionalismo è diventato una piaga” (Sabato). Del parco Lezama. Dell’“afroidisìaco” di Sabato, l’adattamento di afrodisiaco a Freud. E dei problemi del traduttore di Proust in inglese: “Alla ricerca del tempo perduto non corrisponde all’originale, è una citazione di Shakespeare” (Borges).
Sono conversazioni su argomenti rilevanti e irrilevanti. Più spesso sostenendo una cosa e il contrario: costruire palazzi simili oppure diversi, dare alle strade il nome di personaggi oppure no. Ma con grazia e la necessaria superficialità – approssimazione – da parte di entramb gli interlocutori. Necessaria per consentire alla conversazione di svolgersi, senza punte ultimative, o conclusioni. Sarà la conversazione l’arte saviniana per eccellenza, della leggerezza, contro il “profondismo”.
Nella traduzone italiana, di Giorgio Linguaglossa, impaginata con foto succulente dei due scrittori e di Buenos Aires.
Jorge Luis Borges-Ernesto Sàbato, In conversazione  
free online

lunedì 8 maggio 2017

Le ombre del presidente senza ombra

Il plebiscito che si celebra per Macron ha molte faglie: ha avuto due voti su tre al ballottaggio, ma ha avuto solo 20 milioni di elettori sui 48 aventi diritto. Un francese su quattro non ha votato al ballotaggio – che in Francia registra partecipazioni elevate, è vissuto come un “mano a mano”. E uno su otto dei votanti ha messo nell’urna scheda bianca. Il concorrente di Macron non fosse stata Marine Le Pen avrebbe avuto un dodici per cento di voti in più – per un risultato di parità. .
La vittoria di Macron non è del resto un voto indicativo. La metà degli elettori ha votato contro l’Europa quale è - Le Pen, Mélenchon e altri sparsi. E Macron è per l’Europa tal quale, per gli assetti socio politici tal quali, e per un ricambio generazionale, dei politici e dei comunicatori. Non una grande novità.
A parte i suoi 39 anni, Macron non rappresenta una scelta definita. Non è un voto  per un curriculum o un pedigree di qualche sostanza – se si escludono i quattro anni con la banca Rothschild, una sort a di fucina di protagonisti politici (da Pompidou, che ne fu direttore generale, in poi): è come dire “proviamo”, da parte di chi non vuole avventure.
Macron entra all’Eliseo come l’uomo senza ombra. Senza carichi pendenti probabilmente, ma senza una personalità individuabile.

La tripla dell’attacco all’euro

Tutto è pronto per l’attacco all’euro. L’ennesimo, ma i precedenti non esimono. Era pronto per le elezioni olandesi. Poi per quelle francesi. Con la scelta di un banchiere alla presidenza della Repubblica, la Francia lo rende improponibile. Ma i motori non sono spenti: rullano in attesa delle elezioni tedesche, al minimo. Pronti a scattare poi per le elezioni italiane, infine inevitabili. Il fantasma Grillo si dissolverà alle elezioni, è previsione scontata, ma questo non basterà. Si può starne sicuri: l’euro deve cedere, troppe posizioni sono scoperte.
Chi lo dice? Le agenzie di rating, figlie dei fondi hegde e altre coperture degli interessi speculativi.   
Il debito italiano e la metà di quello giapponese in rapporto al pil, ma le agenzie di rating lo mettono con la tripla B al livello del debito della Romania - o del Marocco (o del Kazakistan). Il debito ungherese è molto più sicuro di quello italiano.
La ratio è una sola: ha da morì. È un attacco e non un’analisi macroeconomica. Perfino scoperto, a una comparazione che ognuno può fare.
Nessun dubbio sulla sostenibilità del debito italiano, l’Italia è un paese solido, e anche ricco - lo dicono i tedeschi, gli istituti economici. Il declassamento serve solo a spillare qualche diecina di miliardi agli italiani: gli investitori sono famelici. Tra false argomentazioni, spudorate.
L’Italia, si dice, è dentro l’euro, e la sostenibilità del suo debito si valuta in rapporto alla Germania. Allora meglio stare fuori dall’euro e indebitarsi? Come il Giappone, come gli Usa?
È un problema di produttività, si dice, che in Italia è bassa. In Giappone invece, dove ristagna da un quarto di secolo, no problem.

La felicità si paga con la depressione

Un esercizio in autocoscienza. Evitato.
Invitato dalla direzione di “Esquire” a “scrivere qualcosa” dopo quattro o cinque anni di silenzio, qualcosa che giustificasse un borderò, Fitzgerald scrisse nel 1936 tre pezzulli sulla propria eclisse, come scrittore e come personaggio. Ma in forma di petizione di buona volontà. Con un grazie nominativo a Edmund Wilson, quello che negli ultimi vent’anni ha pensato per lui, e a due letterati non nominati che lo hanno guidato e sostenuto - uno probabilmente Hemingway. Ma soprattutto commiserandosi. Con orgoglio: “In passato la mia felciità personale ha sfiorato punte d’estasi tali da non poterla condividere neppure con la persona più cara”.
Brutto indizio questo. Ma è Fitzgerald: bello e fortunato, buon scrittore anche, di poche cose, ma stordito e svanito in tutto, anche nell’amore famoso per la bellissima e altrettanto svanita Zelda. Anche nei ricordi: le sue follie negli Anni Folli dice ora di aver vissuto con “una diffidenza di fondo, un’animosità” da contadino – per “l’odio covato dal contadino” – quale lui non era. Sempre poco serio: il buono di Fitzgerad sarà stata la leggerezza.
La piccola raccolta si segnala per la cura di Ottavio Fatica. Per la nota al testo e la postfazione, dove si affissa Fitzgerald alla scrittura artistica - di “talento poetico”. A partite dalla frase famosa, che ricorre nel primo frammento, quello del titolo: “Scrivere bene è nuotare sott’acqua trattenendo il respiro”. Uno scrittore perfetto, “di porcellana” come si voleva, Fatica non rispamia le iperboli: “cavallo di razza”, “tecnica linguistica sopraffina”, “qualunque cosa scriva Fitzgerald non sarà mai davvero brutta”, e “se scrittori come lui oggi sembrano darc le spalle, è perché sono ancora avanti a noi”.
“All’orizzonte di ogni boom che si rispetti si profila un crack”, annota Fatica, e questo avviene con Fitzgerald per ogni rispetto.  Alla decade dei successi travolgenti e le paghe stratosferiche succede quella della sterilità e della quasi poverta, degli amori con Zelda quella della schizofrenia e l’alcol, delle amicizie gratificanti quella dell’isolamento. Come all’Età del Jazz o degli Anni Foli segue la Grande Depressione.
Francis Scott Fitzgerald, Il crollo, Adelphi, pp. 64 € 6

domenica 7 maggio 2017

Ombre - 365

Maratone tv sulle presidenziali francesi. La Rai schiera giornalisti di politica italiana e i soliti rappresentanti dei partiti, Sky specialisti francesi di politica ed economia che parlano italiano. Servizio pubblico? Informazione?

Kelly Martinez, una panettiera del Dakota, è una pioniera dei figli surrogati a pagamento. Una dita fertile la sua, in società col marito: a 32 anni ha fatto otto figli, di cui cinque per conto altrui. Di questa nuova professionista del corpo Monica Ricci Sargentini fa una eroina strappalacrime sul “Corriere della sera” perché gli ultimi genitori surrogati, una coppia spagnola, la evitano – come d’altronde vuole il regolamento surrettizio di questo business.  Ma non è una questione di soldi?

“Un folto gruppo di senegalesi e altri migranti” manifesta a Roma in una foto del “Corriere della sera” con questa didascalia, “per ricordare Nian Maguette, il giovane senegalese di 54 anni morto…”. All’Africa non si riconosce nemmeno l’anagrafe.

Lo striscione degli ambulanti senegalesi che protestano a Roma è: “Fermiamo la guerra ai poveri. Casa e reddito per tutti”.  Fornito probabilmente da qualche sindacato. Ma per aiutare gli africani oppure la Lega?

Anbang è un colosso cinese - uno dei tanti, la Cina ne ha lo stampo - da 275 miliardi di dollari, che si compra mezza America. Un colosso creato in pochi anni da un Wu Xiaohui, venditore di auto usate. Se non che Wu è sposo di Zhuo Rong, la nipote di Deng Xiaoping, figlia della figlia Deng Rong, il presidente delle Quattro Modernizzazioni, il turbocapitalismo comunista. C’è il capitalismo familiare anche in Cina, bisogna rivalutare la categoria.

“Depressione, guerra, povertà, così si sbriciola il maschio arabo”, su “la Repubblica” Anna Lombardi così sintetizza lo studio “Understanding Masculinities”, di una “UN Women”. Cadono gli ultimi baluardi, è la fine. Lo cominciano a capire le donne?

Il Presidente della Germania Steinmeier visita le Fosse Ardeatine. Grande celebrazione: “È la prima  volta di un presidente tedesco”. In 73 anni.
Prima non trovavano il tempo? Ma le Fosse sono a Roma.

“La Repubblica” intervista Sea Watch, una Ong tedesca creata nel 2015 proprio per il business immigranti. “Dopo il vuoto”, anticipa l’intervistatrice, “lasciato nel Mediterraneo dalla frettolosa archiviazione di «Mare Nostrum»”. E chi volle, anzi impose, l’archiviazione? Silenzio – la Germania.

“Nella conferenza stampa aerea retour d’Egypte, il papa escludo la Germania dai lager per gli immigrati: “Qualcuno c’è forse in Italia, e in altri paesi, in Germania no”. Lo esclude, spiega, per un motivo: “Quando io studiavo lì, c’erano tanti turchi integrati a Francoforte che facevano una vita normale”. In Italia il papa non ha mai studiato?

Il “cospirazionista perfetto” è giovane, coatto, e 5 Stelle o meloniano. Lo vuole una ricerca demoscopica dell’università di Torino, coordinata da un ricercatore della stessa università, Moreno Mancosu, e da due studiosi di Bologna e di Trento, Salvatore Vassallo e Cristiano Vezzoni. Quello che gli studiosi non dicono è che si tratta di milioni di elettori, forse la maggioranza. Né come ci si arriva: per effetto dei media, e della scuola.

È sinceramente ostile l’arbitro Minelli che ammonisce Muntari quando protesta per gli insulti razzisti: il cartellino giallo ostenta ben teso, in alto, sembra un pugno. E ripete il gesto con la stessa forza col rosso, quando il calciatore del Pescara abbandona il campo.
Si chiama arbitro, ma in Italia si vuole giudice e boia – è sempre scuola Lo Bello padre-Lo Bello figlio-Collina. 

La storia della commedia in un Plauto

Geniale rivisitazione del soldato spaccone – il “vantone” nell’adattamento di Pasolini - in forma di commedia dell’arte, che ne fece largo uso, e infine di commedia all’italiana. Un adattamento di Nicola Zingaro, il regista e capocomico di Castalia, la compagnia romana specializzata nel recupero del teatro classico, fondata venticinque anni fa da Zingaro e Rocco Militano. I tre generi riuniti in un filo conduttore scenico che è anche una piccola storia del teatro.
Da Pirgopolinice, l’archetipo di Plauto, sono germinati vari personaggi esagerati, sulla scena e sulla pagina, più spesso in forma di “capitan”: Fracassa, Spaventa, Matamoros,  Giangurgolo, Rodomonte, Corazza, Spezzaferro, Spaccamonti, Rodomonte,Terremoto… Specie dopo che l’Italia diventò spagnola, ma con distinti caratteri etnici, napoletani, siculi, romaneschi. Il cachet non si è poi perduto, col tramonto della commedia dell’arte, e ne fa uso perfino Pirandello.

Una prova dura per gli attori, ormai disabituati dal teatro tv, ma forse anche un divertimento: riacquistare i tempi, le pause, l’undestartement di un teatro “fatto col nulla”, che si potrebbe anche tornare a definire farsa, ed è il miracolo del teatro.  Con pochi additivi: le musiche popolari di Nando Citarella, costumi esagerati, fondali per finta. Due ore di divertimento puro. Per dire: si può fare teatro classico, si può fare teatro.
Plauto, Il soldato spaccone, Teatro Arcobaleno, Roma