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sabato 2 maggio 2009

Roma tra Israele e Iran

Si apre a Roma una tornata di rapporti indiretti tra Iran e Israele, col fine condiviso di svelenire la questione nucleare e quella Hamas. Non una mediazione, l'Italia non ha nulla da offrire alle parti in causa, né idee risolutive da suggerire, ma una iniziativa di buona volontà. Teheran ha dato la sua disponibilità e quella del nuovo governo israeliano verrà saggiata in settimana con l’arrivo a Roma del neo ministro degli Esteri Lieberman, apparentemente un irriducibile. I precedenti, se non risolutivi nel caso specifico, sono di buon auspicio per quello che la Farnesina definisce un approccio: la diplomazia italiana è già riuscita a riavvicinare la Libia agli Usa, e ha aperto la strada al riconoscimento reciproco tra la Libia e Israele.
Il tentativo sul fronte Iran-Israele si propone molto più modesto. Con l’intento di avviare rapporti forse non risolutivi, ma neanche formali. I due paesi del resto non sono mai stati realmente nemici, non al modo dell’Iran con l’Iraq di Saddam, per esempio, e anzi in qualche modo Teheran riconosce e protegge la sua minoranza ebraica. È un gioco di “chiama e rispondi” tra nemici disponibili, o cavie volontarie, che Franco Frattini ha deciso di favorire. La non-indisponiblità iniziale facendo presagire una buona intenzione di fondo reciproca di arrivare a un modus vivendi stabile.
È un’iniziativa “locale”, tra paesi vicini del Mediterraneo, tra i quali l’Iran si annovera. Con l’intento di promuovere un disgelo, tra i due soggetti chiave in questa fase della questione palestinese. È un’iniziativa che Frattini prende in autonomia rispetto a Bruxelles, anche se in linea con la politica genericamente negoziale dell’Unione europea. Il cui risultato potrebbe essere una carta da visita non di maniera, sostanziale, con la nuova presidenza americana.

Scudéry, bugiarda antenata di Proust

La menzogna è maschio in francese, ma ne trattano qui sensibili signore, con l’ausilio di La Fontaine, Pellisson, Sarrasin - il titolo d’esordio di Madeleine de Scudéry è peraltro “Lettres masculines”. Concludendo, come si deve, in favore della verità, “anima della probità”. L’anima della clarté, quale si vuole la Francia. “E tuttavia”, dice l’autora, “ci sono più mentitori di quanto credessi”. Ce n’è che si inventano: inventano titoli di nobiltà, relazioni importanti, influenze, ricchezze, e gli anni. Perché il paradosso del mentitore (tutti i cretesi sono bugiardi, dice Epimenide cretese) è anche quello della verità:
“- Se si stabilisse una volta la verità nel mondo, riprese Plotina (l’autora), non vi si direbbe quasi più nulla di quello che vi si dice.
- Ciò significa, ribatté Amilcare (Jean-François Sarrasin), che non bisogna fidarsi troppo delle vostre parole”.
Il tutto nel deserto delle passioni. Oggetto unicamente, allora e dopo, di dissezione, all’ombra della fatale raison cartesiana, “il più radicale misconoscimento della poesia che s’incontri nella storia del pensiero umano” (G. Gentile).
Mademoiselle de Scudéry si dedicò in vecchiaia (morì a 94 anni), quando i romanzi non andavano più, al genere gossip si direbbe oggi, delle varie moralità, pubblicando cinque serie di “Conversazioni” su argomenti disparati – in buona parte estratti dai suoi voluminosi romanzi di dodici e passa tomi. Animando un suo proprio salotto, in parte autonomo da quello di Rambouillet, che è il prototipo di tutti i salotti letterari, al quale La Fontaine e gli altri facevano capo.
Madeleine de Scudéry è il modello delle “preziose”, le donne intellettuali che Molière ridicolizzò. Che però furono centrali, si direbbe oggi, per l’instaurazione della letteratura francese, la scrittura e lo spirito Francia che conosciamo - la “preziosità”, notava Barthes, benché seppellita da Boileau, Molière e La Bruyère, fa la letteratura del Seicento, “se nel 1663 una raccolta di poesie galanti della contessa di Suze aveva avuto quindici ristampe di tomi multipli” (la contessa, nipote dell'ammiraglio Coligny, aveva anch'essa un suo proprio salotto, oltre a frequentare Rambouillet). La breve introduzione di Sylvie Robic ribalta un mondo, la proiezione della modernità centrando in Francia sul secondo Seicento, prima e più che sul Settecento. E introduce nello stesso spirito ottimi neologismi piani nel vocabolario di genere, quali autora e scrittora, auteure, écrivaine - il francese non ha scrittrice né autrice, a tre secoli dalle non ridicole “preziose”, del cui senso pratico c’è dunque sempre bisogno, per quanto anticonformista.
Degno di nota, benché Robic trascuri totalmente il fatto, è che il rinnovamento francese fu opera di una coscienza critica, nonché femminile, italiana di origine. Tre italiane fondarono infatti e presiedettero il famoso hotel di Rambouillet: il fatto era sottolineato a fine Ottocento da J.E.Spingarn, lo studioso americano che, in "A history of literary criticism in the Renaissance", illustrò nel 1899 il ruolo tutto italiano nella nascita della coscienza critica. Le tre dame erano Giulia Savelli, sposata al marchese Pisani de Vivonne, italiano di origine ma diplomatico francese, la loro figlia Caterina de Vivonne, nata a Roma, marchesa di Rambouillet per matrimonio, e Maria dei Medici, che volle nel palazzo del Lussemburgo lo stesso salotto (una sfilata di saloni) della marchesa di Rambouillet. L'hotel di Rambouillet era in realtà palazzo Pisani, vicino al Louvre, dove ora è il Palais Royal. Ancora Proust sarà deluso, essendo andato alla ricerca delle sorgenti della Vivonne ("una specie di lavatoio quadrato da cui montavano delle bolle"), ma in senso metaforico sbagliava - non ci sarebe stato Proust senza Scudéry.
Madeleine de Scudéry, Du mensonge, Rivages, pp. 95, €6,60

Ma il Corpo del capo è santo

L’ennesimo articolo, lungo, contro Berlusconi. Belpoliti vuole ridurre Berlusconi alla celebrità warholiana, “ognuno ha diritto al suo quarto d’ora d celebrità. In un testo che non è ghiribizzo d’autore, si vuole di scienza sociale. Al fine di scongiurare che ce lo teniamo fino al 2020, come capo dello Stato dopo la presidenza del consiglio. Ma col risultato di favorire il sortilegio – la scienza politica vuole impegno, intelligenza. L’assunto è solo doveroso, l’occasione sprecata: c’è un’occupazione quasi materiale, ingombrante, della politica, schiacciante. Da parte di corpi estranei. Un’occupazione che da un lato viene dalla mutazione genetica della politica stessa. Da corpo articolato, perfino puntiforme, e flessibile, in ammasso indistinto e massiccio, come vuole la moderna propaganda – le tecniche della comunicazione. Ma per altro verso viene dall’utilizzo abile, intelligente (appropriato?) di queste tecniche.
Belpoliti sa che la tecnica (la comunicazione) è neutra. Ma dissolve la politica, che è fatti, nella lettura dello storione che Berlusconi si è costruito per le elezioni del 2001, i suoi detti e le sue pose fotografiche. Perché “il creatore della neotelevisione ama così tanto le sue fotografie”? è l’assunto di Belpoliti. Perché è un cialtrone è la risposta ovvia, camuffata per 150 pagine. E non ce n’era bisogno. Belpoliti era riuscito a scrivere un saggio su due foto di Moro, e ci deve avere preso gusto. E questo è tutto, Berlusconi poi vende, più di Moro.
L’assunto vero è che il “corpo” c’è. Odora, del buon odore del corpo dei santi. Si fa toccare, nelle “passeggiate”. Fa miracoli, specie tra le donzelle. E unto, in qualche modo – a questo punto del Signore, poiché non ci spieghiamo altrimenti il suo successo, il tanto amore per quest’uomo, la fiducia che ingenera con le sue apparenti cialtronate. Kantorowicz non avrebbe difficoltà a riconoscerlo. Belpoliti no.
Il vero “corpo del capo” è l’occupazione della politica, fisica, materiale. La mutazione della politica, che era riflessiva e d’improvviso è assertiva. Il suo salto da critica a carisma, da saggezza a improntitudine, da intelligenza a glamour – il tema è forse la natura segreta del glamour. In questo senso il “corpo del capo” va berlusconizzato. Ma anche qui in gloria di Berlusconi, gli altri essendo comparse, imitatori tardivi. Il Capo che si proietta nei candidati: li sceglie uno per uno, secondo categorie immaginarie (merceologiche) definite, il giovane, il bello, il saggio, la mamma, in proporzioni prestabilite, tre di questo, quattro di quello, o anche individualità caratterizzate, Sgarbi a Locri, Zeffirelli a Catania, Jannuzzi a Milano Centro, e tutti poi annichilisce nella figura del Capo – nelle sue decisioni. Un fatto molto evidente (Sgarbi ne ha fatto la satira in tv: “Volete la bella fica? Eccola qua”, fuori dal cestino, “la volete rossa?, allora eccola”, cambio di parrucche…). E anche semplice, da capire, da analizzare. Ma è vero che Berluconi “si vende”.
Marco Belpoliti, La foto di Moro, Nottetempo, pp. 24, € 3
Marco Belpoliti, Il Corpo del capo, Guanda, pp. 153 € 12

Ombre - 18

“Repubblica” apre mercoledì e giovedì drammaticamente su Berlusconi:
“Veronica attacca Berlusconi”, martedì, “veline candidate: “è ciarpame””.
“Berlusconi cede: via le veline”, il giorno dopo.
Martedì “Repubblica” aveva avviato le ostilità facendo la spia sulla visita di Berlusconi a una ragazza a Napoli che festeggiava i diciott’anni.
Erano i giorni in cui la peste suina contagiava gli Usa, e la Fiat comprava la Chrsyler. Anche il terremoto non era finito in Abruzzo.
Mai Berlusconi avrebbe potuto immaginare più interesse per le sue candidate belle e giovani. Grazie anche al grido di dolore di “Medea” sua moglie, con i figli al seno.
È “Repubblica”, faro delle sinistre, che crea la storia, l’avviluppa, e poi la scioglie, coartando i suoi lettori? O sono i lettori di “Repubblica”, compresa la moglie di Berlusconi, che vogliono queste storie?

Si può anche pensare “Repubblica”, nonché non più “Le Monde”, un giornale scandalistico. Giovedì completava la spiata con le foto della diciottenne, e di sua madre. Che Berlusconi, dice, chiamano “papino”. D’obbligo le ipotesi: è la ragazza figlia adulterina? è l’amante (lei o a madre)? o non c'entra la camorra (il padre)? Nessuna delle tre vera, direbbe Guzzanti figlio.

Ma se è così sia siamo solo all’inizio dell’ennesima storiaccia berlusconiana – si tratta di sbarrare a Berlusconi il Quirinale, per il quale ci vogliono ancora quattro anni. La Medea di Arcore potrà scrivere, o raccontare confidenzialmente, a “Repubblica” i suoi strazi di moglie tradita, le perversioni del marito, sadico, pedofilo, violentatore dei figli, gli assassinii perpetrati o ordinati, i conti segreti. Mentre “l’Espresso” avrà foto a profusione per l’ennesimo “corpo del capo”, il fotoromanzo berlusconiano, genere a grande richiesta.
La cosa non è senza lati positivi, se sovverrà alla crisi dei giornali. Inoltre, dà una cornice infine adeguata al grand-guignol che è la cifra della buonissima Milano, e forse ce ne libera.
Ma il rischio è forte che, il cappone Berlusconi ridiventando così gallo, la Medea-Veronica non ce lo imponga a vita. Scatenando il feroce antifemminismo degli italiani, e di metà delle italiane.

L’infanta di Spagna in visita a Parigi è celebrata su tutte le prime pagine di dietro, con la signora Sarkozy, mentre salgono le scale all’Eliseo – una foto lusinghiera, bisogna dire, anche se in diverso modo, per entrambe.
Ponderati articoli delle giornaliste più impegnate commentano la foto, sui diversi colori, tessuti, tagli, sarti, e i modelli delle scarpe delle signore.

Milano ha vinto l’Expo 2015 col programma “nutrire il pianeta, energia per la vita”. Dopo un anno e mezzo non ha fatto nulla, ma questo non importa. Diana Bracco, industriale farmaceutica, presidente dell’Assolombarda e della società di Milano Expo 2015 (Soge) spiega anzi al “Corriere” che è stato fatto moltissimo: riunioni in serie, “al limite dell’esaurimento per chi come me ragiona con la logica d’impresa”. Che tutto quindi va bene. E che saranno creati “settantamila nuovi posti di lavoro”. Nel 2150?
In genere non si parla dell’Expo, che Milano ha voluto a scapito del resto d’Italia, e per la quale non fa nulla, eccetto che litigare. Milano tratta molto soprattutto i problemi degli altri.

Dice il Procuratore Capo dell’Aquila in tv dopo il terremoto: “A parte che, se ci saranno illegalità, chi le ha commesse non sarà indagato ma subito arrestato”.
A parte che?

Viene spesso in tv il Procuratore Capo dell’Aquila e assicura che vigilerà contro le infiltrazioni mafiose nella ricostruzione. In una zona fra le più civili d’Italia, meno violente.
Bisogna “vigilare” contro la mafia per andare in tv? Anche i giornali, se “vigilano”, è contro la mafia. O per non dire che era meglio vigilare sulla costruzione interminabile dell’ospedale, su quella affrettata della casa dello studente, sulla ristrutturazione della prefettura?

Salvatore Settis passa la Settimana Santa sul “Tirreno” a vituperare, in quanto residente di quella cittadina, il sindaco di San Vincenzo per le villette a schiera. È stanco delle beghe ministeriali, a favore di ministeriali neghittosi, quando non impegnati a occupare graziosamente palazzi demaniali. Il sindaco, anch’egli democratico, risponde che l’ambiente è protetto, come no, ma lo sviluppo ci vuole.
Per chi San Vincenzo è un toponimo, in quarant’anni di transumanza su e giù per l’Aurelia, il luogo era verde e ora è ocra, del colore delle villette, come tutta l’Aurelia prima e dopo Grosseto e la sua provincia: Santa Marinella o Tarquinia, Populonia e San Vincenzo. È cioè la prova di un mistero: che un’istituzione, per giunta labile, la provincia, “faccia” il paesaggio, con le attitudini e la mentalità. Una differenza non c’era, poniamo un secolo fa, tra il grossetano o il viterbese, a Sud, e il livornese a Nord, ora è robusta.

Si moltiplicano nell’alto Lazio e in Toscana, nelle province di Siena e di Livorno, le colline coperte di villette a schiera, per lo “sviluppo popolare”, come abitazioni o investimento modico. Ma sono complessi sigillati, sempre intatti e muti: sono stati costruiti fuori tempo? Da trent’anni la seconda casa ha perso richiamo, per la scoperta delle vacanze in pillole dapprima, tutto compreso, invece della villeggiatura, e dall’infausto 1992 per le tasse.
È qui la tristezza che le colline occupate inducono. Non le villette al posto delle pinete, ogni paesaggio acquista personalità col tempo, e il bosco si ricostituisce. Ma lo spreco di risorse, compreso a questo punto anche il verde originario. L’incapacità di coniugare il sesto senso dell’iniziativa libera col bisogno di prevedere e programmare il futuro.

mercoledì 29 aprile 2009

Le milanesi preferiscono l'islam

Il burqa no, si privilegia l’eleganza griffata. Come le mogli degli sceicchi e degli emiri, peraltro. Per il resto le mogli milanesi privilegiano in tutto l’islam. Le mogli dei politici. Fatto il figlio, dimenticano il marito. La serie è ormai lunga, la moglie di Berlusconi che si dice “vittima” del marito si inscrive in una lunga lista, tanto lunga da costituire un caso sociologico ben distinto. Da Craxi a Bossi e ai tanti padani che si sono dovuti trasferire a Roma, per eccesso di successo, le mogli li lasciano soli: si ha successo in politica a una certa età, e a quell’età le signore milanesi preferiscono starsene tra donne, ben provviste naturalmente.
C’è questo tipo di matriarcato sotto il maschilismo della sharia, delle api regine che cancellano il maschio. È comunque certo che l’islam è amato dalla donne islamiche. Il sostegno delle donne al khomeinismo, a ogni forma di radicalismo, è stato ed è massiccio. Quando lo scià impose la parità dei sessi, nel lavoro e in società, quello fu il suo più grande passo verso la destituzione: le donne non gli perdonarono di doversi mescolare in pubblico con gli uomini, dare la mano, andare a lavorare in ministeri e commissariati di polizia. La casa e i figli, con opportuna dotazione, anche di cosmetici, abiti e ogni altra civetteria (il chirurgo estetico, la prima alla Scala, il guru, etc.), fanno un orizzonte sempre riposante in Oriente.
Insomma bisogna distinguere, ha ragione la signora Berlusconi che, pur padrona di tante televisioni, critica le veline ("tutte troie") e le verità televisive. C’è un islam televisivo, e c’è l’Oriente. Quello vero, da cui viene l’Occidente. Mentre qui, malgrado la frenesia, nulla è cambiato da duemilacinquecento anni, da quando c’è la storia, con Aristofane e “Medea”. Un esempio, questa, di donna islamica ante litteram, che mette in campo i figli per farsi scudo del padre (e per altri fini meno nobili: vendetta, investimento, e perfino castrazione, poveri figli).

Norman Douglas Casanova omofilo

Douglas lo considerava il suo libro più importante, anche se ha scritto di meglio. È pieno di luoghi, Siena gelata, Firenze antipatica, Levanto felice “zona di guerra”. Di situazioni – come imboscarsi a Londra per evitare la guerra. E di personaggi. Anche importanti: Ouida, Malwida von Meysenburg, il vecchio Ramage. Di Craufurd Tait Ramage, il primo viaggiatore inglese, in realtà scozzese, come scozzese è Douglas, e il più perspicace anche se affrettato, dell’Italia meridionale, negli anni 1820, quello che più ha lasciato traccia nei futuri viaggiatori, Douglas fa il suo interlocutore. Non senza i soliti sorprendenti punti di vista. L’usignuolo meridionale, importuno alle ore antelucane, non ha nulla del melodioso usignolo inglese. Ponendo l’interrogativo se la letteratura non è tutto – e niente.
Ma più che altro la felicità del ricordo viene dagli incontri. Molti giovani allietano il bighellonaggio di Douglas in Italia, troppo vecchio per andare al fronte, durante la Grande Guerra. Senza altra traccia se non, dice Douglas, le “ore liete” - un filone erotico sempre e solo sessuale, che arriverà fino a Pasolini. Non ancora “caprese”, Douglas se ne compiace come un piccolo Casanova omofilo Norman Douglas, Alone. In viaggio per l’Italia

Le due dimensioni di Fruttero

Carlo Fruttero è la voce garbata del celebre duo. Lontano dallo zolfo mentale, sociale, fisico, che appestava i racconti a quattro mani con Lucentini, seppure ingentiliti dal torinese Fruttero. Da “A che punto è la notte”, per dire, macbethiano già nel titolo. Fruttero si diverte a rifare i linguaggi della testimone, la figlia, la migliore amica, la barista, la giornalista, la bidella, la carabiniera, la vecchia contessa. E a estrarre l’impensabile dalla normalità. Da linguaggi cioè che sono la televisione, in copia. Senza nervi, e senza neppure spessore. Il Fruttero letterato ambizioso della gioventù potrebbe pretendere di avere scritto il vero romanzo a due dimensioni, la flatlandia di Abbott.
Carlo Fruttero, Donne informate sui fatti, Mondadori, pp. 198, € 12

martedì 28 aprile 2009

La modernità di Simone Weil

La modernità è la tradizione. Non c’è futuro senza radicamento.
Due terzi del libro, che forse per questo non ha avuto fortuna e ora si riedita, sono presi dalla sradicamento, della città, della campagna, della patria. Nell’ottica della sconfitta e della difficile resistenza a Hitler, da New York dove la filosofa si era rifugiata e poi da Londra, dov’è morta di tubercolosi, cioè di debolezza, nello stesso 1943 in cui febbrilmente scriveva. Questa parte contingente ha forse segnato il destino di un libro che invece si rilegge come una colossale costruzione etica. Le pagine ancora più vive della filosofia del Novecento sul modo di essere dell’uomo nella natura e nella storia.
Numerose ne sono le tracce, storiche e di pensiero. Più vive perché inesplorate. L’eredità arida della romanità, dell’imperialismo feroce, rilevata nei danni persistenti alla religione, la scienza, l’assetto sociale (legge, giustizia, potere, o sovranità). In filigrana, attraverso gli accenni degli storici greci schiavi dei romani. E con tagli vigorosi al conformismo: la sterilità della forza che tradisce la forza, a causa della schiavitù (possesso) come ragione di vita, annientando la religione e la vera cultura – la ricerca.
Il genio puro. La storia impura. La virtù che s’insegna ma non si pratica, non in un solo episodio della storia, eccettuati tre o quattro.
L’argomento centrale della fede che è scienza. La scienza greca, la nostra scienza – “l’investigazione scientifica non è che una forma della contemplazione religiosa”.
La religione della domenica, svuotata dallo scientismo. Che pure è piccola cosa.
La natura del miracolo.
La Provvidenza generale, impersonale, sui buoni e sui cattivi (Matteo, Marco) e la miserabile Provvidenza speciale, degli ex voto, dei calciatori quando entrano in campo, dei calciatori quando segnano un goal, e di Manzoni - “ogni interpretazione provvidenziale della storia è di un grado eccezionale di stupidità”.
Il mondo determinato dalla perfetta obbedienza: è questo il senso della fede, e la via della scienza.
Qua e là la rilettura dell’hitlerismo, che troppo ritarda.
La vera psicologia, la vera sociologia, che introiettano la necessità del lavoro e della morte: “Le forze di quaggiù sono sovranamente determinate dalla necessità; la necessità è costituita da relazioni che sono pensieri; di conseguenza la forza che è sovrana qui è sovranamente determinata dal pensiero. L’uomo è una creatura pensante: è dal lato di ciò che comanda alla forza”.
Simone Weil, La prima radice, SE, pp.288, € 24

Le origini di Alvaro

Alvaro nasce e sarà, in quanto giornalista e linguista, il primo scrittore-viaggiatore del Novecento (il secondo, Arbasino, ne ripercorre molte maniere, e perfino alcuni lessemi – anche se non saprà chi è Alvaro). Ma con un distinto senso delle radici, benché sofferto, della famiglia, del paese. Questa raccolta di una parte dei testi che egli scrisse per il “Mondo”, in prevalenza da Parigi (c’è anche una prima prova di traduzione di Proust) dà corpo duraturo, benché accennato, irriflesso, alle nostalgie dello scrittore. Nel quadro delle frequentazioni internazionali, Proust, Pirandello, Copeau, Crémieux, ritornano San Luca, il padre, i fratelli, la madre-donna. L’introduzione di Anne-Christine Faitrop-Porta, lunga un quarto della raccolta, ne rileva i motivi, assortendoli della bibliografia di tutti gli articoli di Alvaro per “Il Mondo”.
Ci sono anche molti elzeviri, genere oggi in disuso. Non lunghi, una paginetta, ma densi. Del rifiuto della “letteratura”? Non dicono infatti niente, ma usavano molto, per il bello stile.
Corrado Alvaro, Lettere parigine e altri scritti 1922-1925

lunedì 27 aprile 2009

Dopo la Juve Baldini attacca la Roma

Non c’è una cordata tedesca, o svizzero-tedesca, che vuole comprare la Roma, meno che mai il proprietario della Porsche, c’è Franco Baldini. Che però, allo stato, non può, e forse non vuole, comprare, ma divertirsi sicuramente sì. L’ex direttore sportivo della squadra capitolina ha architettato l’anno scorso la fantomatica cordata Soros, con un avvocato newyorchese che non chiedeva nemmeno il rimborso spese. Ora prova col playboy Flick, un altro che non si prende la briga di smentire, insieme con un procuratore di calciatori, la cordata tedesco-svizzero-romana è tutta qui.
Oggi come un anno fa la manovra ha un solo obettivo: speculare sul titolo, poiché sull'As Roma in Borsa si può farlo liberamente. E in subordine, perché no, svilire l’As Roma in debolendo la proprietà attuale, della famiglia Sensi che per la squadra si è svenata. Baldini è quello che era: un procuratore di calciatori, famoso per essersi inventato un in esistente passaporto italiano di Recoba.
Tutto questo è un fatto noto, anche se non se ne parla. Baldini non è mai apparso dietro la cordata Soros, e appare molto di striscio dietro quella Flick, ma di entrambi gli affari sono fonti giornalisti notorimente suoi confidenti. È una bizzarria, più che un azzardo o uno scherzo, ma a Roma e sull'As Roma può succedere. È poi Baldini non è la coscienza del calcio italiano? È anche facile: Baldini, che non ha nulla da fare a Londra, dove si trova al seguito di Capello, pur essendo pagato dalla federazione inglese, si diverte a sovvertire ogni regola del calcio, con i suoi fidati giornalisti romani e alla “Gazzetta dello sport”.
Speculazione
Resta da capiare la ratio di queste voci. Senza escludere la voglia di fare male: Baldini è un genio del calcio, che dopo avere affossato la Juventus affossa ora la Roma - del calcio come s’intende in Italia, molto intrigante. Ma l’uomo è anche interlocutore privilegiato delle forze dell’ordine, il confidente che ha costruito per intero tutto lo scandalo Moggi, il suo concorrente. È insomma un virtuoso, uno che vuole salvare il calcio. E dunque bisognerà che i Sensi si arrendano. Fino ad ora ne hanno beneficiato, anche loro: le cordate di Baldini hanno fruttato notevolissimi sbalzi del titolo in Borsa, con notevoli plusvalenze per i bene informati, al rialzo e al ribasso - la Roma è quotata in Borsa, proprio come la Juventus. Ma, prima o poi, è facile scommessa che ci sarà una Roma targata Baldini. Magari dalla B, se qualcuno alla Consob vorrà infine vedere le carte – questo è il vero mistero di entrambe le misteriose vicende: come mai il titolo non è stato sospeso in Borsa.

Centro-sinistra? "L'Unità" non l'ha detto

C’è spazio per tutto, le canzoni, i film, le crisi di coscienza del Pci, Arbasino, Camilla Cederna, Deaglio, ma per il centro-sinistra solo di striscio, a proposito di un disegno di legge di Lombardi e della programmazione (fallita) di Giolitti - anche Morandi c’è, ma è Gianni. Non c’è altro spazio per l’esperienza centrale della modernizzazione nella Repubblica: il sistema sanitario nazionale? lo statuto dei lavoratori? il diritto di famiglia, senza gli NN e le ragazze madri? i parchi nazionali? Sotto il termine vago peraltro di riformismo, il Psi non esiste. Più che una storia, sembra un lungo articolo dell’“Unità” anni Cinquanta, quella che faceva la realtà.
L’autore, Crainz, curatore di Enzo Forcella, ha tutta l’aria di essere un (ex) socialista. È anche una buona ragione per essere un ex storico?
Guido Crainz, Storia del miracolo italiano

Le tre metamorfosi di Camilleri

Infaticabile (è ormai a un libro a settimana, a meno che non avesse i cassetti stracolmi), ma pieno di fascino, Camilleri costruisce la sua terza metamorfosi, dopo “Maruzza Musumeci” e “Il casellante”. Genere lontano dalla contemporaneità, e tuttavia riuscito: fresco, agile, sorprendente il giusto. Roba da storia della letteratura. Tanto più sorprendente per essere scritto in quella lingua falsa che Camilleri ha adottato come sua con Montalbano: un dialetto italianizzato, e viceversa, che i professionisti della provincia siciliana privilegiano, quale segno di autenticità e modernità insieme, ma che non è una lingua per nessuno, tanto meno per i caprari del racconto - lingua peraltro comprensibile solo in Sicilia (e in Calabria, che si è latinizzata un paio di millenni fa via Sicilia).
Ciò malgrado, terza sorpresa, il racconto è stato a lungo in vetta alle classifiche di vendita. E dunque non è vero che il Sud non legge.
Andrea Camilleri, Il sonaglio, Sellerio, pp.197, € 12

La scoperta di Scerbanenco

Un’ambientazione esotica, Boston d’inverno, approssimativa come nel “Ballo in maschera”, l’opera di Somma e Verdi, ma qui negli anni 1930, con personaggi falsi pure nei nomi, un Faletti di settanta, ottant’anni fa, ma una vicenda pure persuasiva, un giallo al modo della Christie di Poirot – “indovinate chi tra i presenti?”. Una grande capacità narrativa per uno scrittore che l’editoria inflessibile ha costretto a lavura’.
Scerbanenco era di destra, e per questo non è potuto diventare il Simenon italiano, come ambiva, non a torto – fu confinato ai “femminili”. Il modello Simenon era anche lui di destra, ma era franco-belga.
Scerbanenco era famoso giallista in Francia negli anni 1950. Ora, dopo cinquant’anni. questo è possibile anche in Italia.
Giorgio Scerbanenco, La bambola cieca, Sellerio, pp. 283, € 13