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sabato 19 maggio 2012

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (128)

Giuseppe Leuzzi

Siamo kantiani. Dice Kant che ciò che sta al di sopra di ciò che ha un prezzo, e che non ha prezzo, è dignità. Il Sud non avendo prezzo, non sarà tutto di dignitari?

Si chiama Libero il cane dell’amico d’infanzia calabrese a Belgirate, dove fa il professore.

È incredibile il cumulo di sciocchezze che si sentono sulle donne al Sud. Sull’asservimento eccetera, derise, sbeffeggiate. E più sull’essere madri, che è il bello delle donne.
Anche da parte delle donne meridionali.
La madre mediterranea è invenzione di Corrado Alvaro.

Resistono forti i microcosmi, malgrado l’omologazione dominante e ormai lunga. Separati, molto diversi (anomali) e caratterizzati, negli accenti, i linguaggi, gli atteggiamenti, perfino nell’aspetto.

L’ironia è costante al Sud, una sorta di seconda pelle. Manierata in Sicilia, competitiva in Calabria, feroce a Napoli, ma irrinunciabile. L’ironia, si sa, demolisce e non costruisce, specie in amore e in affari.

La Spagna è cattiva non solo a Milano. Era cattiva già al tempo dei Borgia, che invece curavano il giardinaggio e l’arredamento. E diedero il primo santo ai gesuiti.

Per molti anni, fino al 1948, l’Italia è stata fatta anche dal Sud. Dallo hegelismo napoletano e dalla sua concezione dello Stato alto, attraverso i burocrati e i magistrati.
Poi il discorso del Sud si è spostato sulla criminalità, e ora non è niente altro.

A Nord, in Germania per esempio, il basso è in alto: la Bassa Sassonia, la Bassa Baviera sono le regioni settentrionali.

Napoli
Era una capitale d’Europa, che l’unità ha duramente punito. L’unica – non Torino, non Milano.

Pagare il pizzo alla camorra per fare un film (“Gomorra”) contro la camorra non è male. Sembra strafottenza napoletana, e in parte lo è - come aver dato parti non marginali a camorristi anche non piccoli nello stesso film. Ma conferma che le mafie sono solo interessate ai soldi. L’onore? La politica? Il potere? Il controllo sociale? Sono imprese, nefaste.

È stata la capitale del postmoderno, nel rinascimento bassoliniano e dopo: il recupero e il cambiamento (stravolgimento) d’uso. Le stazioni super di una metropolitana che non c’è. Il chiostro di Santa Lucia disfatto per rifarlo com’era nel Cinquecento. Gli alberi d’epoca (del Trecento? del Cinquecento?) trapiantati forzosamente a san Martino. Il riutilizzo di cappelle, chiese, acciaierie, fabbriche, col loro fondo d’inquinamento e morti, costoso e impraticabile. L’invenzione dello spreco.
In termini poveri, è la camorra degli architetti.

“Quale italiano ha fatto con la penna per l’Italia più di noi in tre anni?”, Dumas poteva vantarsi nel 1862. E per Napoli naturalmente, dove profondeva l’inesauribile energia. Che ha dimenticato tutto, nemmeno “L’Indipendente”, il giornale di Dumas, è studiato.

Dumas aveva due servitorelli, un ragazzo calabrese di San lucido e uno napoletano di Santa Lucia, “rappresentanti dell’odio che divide i due popoli”. Al punto che agevolmente li indusse a duellare al coltello: una sola ripresa, di dieci minuti, al termine della quale uno contò diciannove ferite, l’altro ventitré,.

Dumas aveva vicini di casa a Napoli gli ospiti di una succursale del carcere. Una settantina di persone, molte delle quali uscivano per le loro attività in carrozza.
- Chi sono – chiese lo scrittore.
- Galantuomini.
- Ma che hanno fatto?
- Niente.
- Come niente?
- Beh, hanno ammazzato qualcuno.

Mafia
Mafia come Mothers and Friends in America è conio di Norman Mailer, in “Miami e l’assedio di Chicago”

Può essere una mitopoiesi insistita, forma di demenza. Nella sua forma “occulta” è la sindrome perfetta del complotto. Tale è in Giorgio Galli, che prima di spiegare al Tribunale di Palermo la mafiosità di Andreotti, l’aveva celebrata in “La regia occulta”: la storia d’Italia fatta dalla mafia. La mafia (i leader della Dc siciliana, Gioia, Lima, Gullotti) vota Fanfani a congresso di Firenze, ottobre 1959. Quindi vota il centro-sinistra. E così via: centocinquanta pagine, su un articolo di Pietro Zullino, giornalista di “Epoca” – che però si chiama fuori.
Galli aveva già scritto una biografia di Fanfani. Per Feltrinelli. Senza mai incontrarlo, è vero.

Ritorna Leoluca Orlando e uno non può fare a meno di ricordare che combatté Craxi e Andreotti col metodo della mafia: colpire l’avversario con le sue stesse armi. Contro i politici delle leggi speciali antimafia preparò dossier che in qualche modo (sentito dire, sostenitori remoti e opportunisti, chiamate di correo) potesse infangarli nelle pratiche più rivoltanti: lupare bianche, traffico di droga, corruzione negli appalti. Lui che fu il re, insindacabile, degli appalti. A Palermo. Dove ebbe voto unanime, benché la stocastica lo escluda, nelle sezioni elettorali di mafia.
Falcone non se ne fidava. Nemmeno Borsellino.

Non è un’emergenza. Poiché è una costante. Né un fenomeno emergente, poiché è lì da tempo immemorabile. È dappertutto, non solo al Sud, quando la legge è debole.
Tutto questo è ovvio. L’emergenza serve per altri scopi, per esempio per attivare l’antimafia.

I suoi pentiti sono una riedizione cialtronesca del patto col diavolo. Anche se i magistrati s’illudono di gestirla, troppo ingenui per tanta infamia – si assimilano i pentiti di mafia ai pentiti del terrorismo, mentre sono due mondi diversi, opposti.
Come nascono i pentiti di mafia è impossibile prevederlo, il loro terreno di coltura è infetto: sul tema mafia e politica, per esempio, s’innestano su un potenziale di ricatto enorme, personale, familiare, di cosca (sono oggi in realtà i “pentiti di una politica”).

leuzzi@antiit.eu

Com’è verde la speculazione

Ecocompatibile tutto è possibile. Soprattutto la speculazione, l’arte dell’epoca. Incorreggibile, anche alla crisi ormai quinquennale. Che guadagni ha fatto incalcolabili sulla bolla, gonfiando lo sviluppo, e ora li fa sgonfiando la bolla, un flop senza fine. Il meccanismo è semplice, della speculazione finanziaria, e invincibile. Ma non meno semplice e sottile, insidioso, sprezzante, il boom verde non ci costa meno. A partire dal “risparmio” di energia, con annessa anidride carbonica, che paghiamo il 50 e anche il 100 per cento in più di quanto costa l’energia. Nei consumi domestici e nelle automobili.
Si costruisce ora verde. Case in aspetto di bosco, condomini cioè, o meglio torri, di 80 e 100 metri di altezza – la superficie riportata in altezza. Sarebbe bosco veramente quello tradizionale, a terra, semplice, salutifero anche. Ma così si può anche costruire e rispettare i parametri di fabbricabilità, il rapporto tra cubatura\verde. Si possono cioè costruire anche le superfici di rispetto: la terra è rendita fondiaria, la miniera più grande e più ricca finora inventata, e non si può lasciare agli alberi. Creando naturalmente capolavori di architettura contemporanea. Tokyo, come dubitarne?, l’ha già fatto, New York ci pensa, Milano l’ha subito adottata, con selve di terrazze alberate su per venti, trenta piani. Che avendo quattro lati moltiplicano per quattro la superficie alberata. Elementare. Per tornare a dirigere alla Scala, o la voleva invece dell’Expo?, Abbado aveva chiesto tre anni fa “la piantumazione di novantamila alberi”. Eccolo accontentato.

venerdì 18 maggio 2012

Le sorelle Schucht, l’altra metà di Gramsci

Le sorelle Schucht, l’amante, la compagna e l’amica, riemergono prepotenti, ma sempre di sghembo, anche in questo revival gramsciano. Che si conferma in senso proprio, festivaliero – della mente, dell’anima, dello spirito, dell’inquietudine, dei sapori, e della storia, purché “di Partito”. L’Accademia di Santa Cecilia ne ha fatto spettacolo ieri a Roma, al Parco della musica. Con discorsi lirici, del decano Bruno Cagli in testa, e musiche di Antonio Gramsci jr., il nipote ora quasi cinquantenne. Ma giusto per una celebrazione, senza novità – e senza verità: è sempre togliattiana bonaccia, censura e autocensura cioè, pur tra le diatribe accademiche. Maria Luisa Righi, che documenta su “Studi Storici”, il trimestrale dell’Istituto Gramsci, il rapporto di “Nino” con “Genia” sulla base di tre lettere, di cui ricostruisce la datazione e l’attribuzione, in un lungo saggio peraltro di grande lettura, poteva fare di più ma si limita al lavoro filologico.
Antonio jr. è figlio di Giuliano, il secondo figlio di Giulia e Antonio Gramsci. È voluto tornare in Italia dopo la desovietizzazione, e collabora con “l’Unità” e l’Istituto Gramsci sul tema delle tre sorelle. Ma è un artista, storicamente un agiografo, cultore (svogliato) delle memorie familiari. Il suo “La Russia di mio nonno. L’album familiare degli Schucht” tre anni fa fu più che altro un’occasione mancata.
Le tre sorelle Schucht sono l’altra metà di Gramsci. Nei suoi ultimi quindici anni, quelli del fascismo. Russo-tedesche di origine ma italianiste appassionate, bilingui. Eugenia se ne fece l’amante quando aveva già 33 anni - lui 31 - nell’autunno-inverno del 1922, nel sanatorio di Serebrjanij bor presso Mosca. Giulia, la più giovane, fu il colpo di fulmine un anno più tardi di Gramsci, che la preferì, avendone anche due figli, uno a Mosca, uno a Roma, non riamato. Tatiana (Tania), la più anziana, fu la devota confidente a Roma di Nino nei dodici anni del carcere, e ne fu soprattutto la segretaria, fedele. Insieme le sorelle ebbero in mano – hanno “gestito”, insinuano allusivamente i biografi di Gramsci – gli originali delle lettere dal carcere, fino a lungo dopo la guerra.
Le tre sorelle sono pure il grande rimosso di Gramsci, proibito parlarne. In linea anche con l’unidimensionalità maschilista e politica (partitica, censoria, faziosa) del partito Comunista, e dei suoi tanti professori, inclusi i biografi Fiori e Vacca. Sono state colpevolmente trascurate in vita, cioè volontariamente, quando era possibile saperne molto, e sono ora soprattutto una miniera perduta. Specie per il lato oscuro di Gramsci, che egli, com’è noto, nelle lettere a Eugenia e Giulia definisce come una sorta d’impossibilità ad amare – seppure cautelandosi con i ricorrenti “esaurimenti nervosi”, e le conseguenti crisi di solitudine e violenza. Partendo nel 1922 per Mosca, ricorda Maria Luisa Righi, Gramsci dimenticò totalmente Pia Carena, con la quale aveva un legame intimo.
Anche le sorelle non erano semplici. Avevano altre due sorelle e un fratello, che presto si allontanarono dalla famiglia, per matrimonio o interessi – il fratello Vitja, Vittorio, Gramsci lo ricorderà dal carcere “come funzionario del ministro degli Esteri (traduzioni), come sensale d’affari, come giornalista, come attore drammatico in tournée e Samarcanda e dintorni”, e un po’ ignorante d’italiano, benché avesse fatto gli studi in Italia (“nel 1922 mi scrisse alcuni articoli che non potevano nemmeno essere corretti”). Il padre Apollon, erede di una fortuna russo-tedesca, era stato socialista rivoluzionario. Per questo era stato confinato con la moglie in Siberia subito dopo il matrimonio. Emigrò poi in Francia e a Roma, dove visse coi proventi dei depositi e titoli svizzeri e italiani, fino alla guerra, quando rientrò a Mosca. Nella rivoluzione passò con Lenin, legando al Partito Comunista le sue fortune – morirà rispettato nel 1933.
Tania aveva preceduto a Roma la famiglia, da cui si manterrà sempre separata. Si laureò in Scienze naturali e visse a Roma in autonomia, facendo l’insegnante in una scuola privata e dando lezioni di francese, sola, fino al rientro forzato alla vigilia della guerra nell’Urss, dove morì quattro anni dopo, nel ‘43, a 55 anni. Giulia s’era diplomata in violino all’Accademia di Santa Cecilia a sedici anni, alla vigilia della grande guerra, e fu molto innamorata di un giovane concertista, Yuri Gancikoff, che tornò in Russia volontario nella guerra, e morì combattendo nella rivoluzione contro le truppe di Kerensky. Si legò a Gramsci senza trasporto, e si rifiutò di seguirlo al rientro in Italia nel 1924, benché ne aspettasse un figlio. Arriverà a Roma un anno dopo, dove però vivrà da sola, benché abbia concepito con Nino il loro secondo figlio, lavorando all’ambasciata sovietica. Tornerà a Mosca prima della nascita di Giuliano, e corrisponderà svogliatamente col compagno, in carcere, malato. Eugenia aveva studiato a Roma pittura, all’Accademia, con Sartorio, ma senza profitto. Dominava Giulia, e si pretenderà “seconda madre” dei suoi figli, obliterando letteralmente la figura del padre. Sarà dominante anche tra le curatrici della seconda edizione delle “Lettere dal carcere” di Gramsci, che Togliatti fece preparare a Mosca nel 1941 e vedrà la luce nel 1947 da Einaudi. Entrambe, Eugenia e Giulia, avevano collaborato con Nadežda Krupskaja, la moglie di Lenin, al Narkompròs, il ministero dell’Istruzione – fu la Krupskaja a provvedere sollecita al ricovero di Eugenia in sanatorio quando ebbe i primi mancamenti, effetto della malnutrizione e del freddo.
La relazione torrida di Eugenia con Gramsci era al centro già dieci anni fa della ricostruzione romanzata di Adriana Brown. Un libro importante che, con minima cura editoriale, avrebbe meritato miglior diffusione di questa autoedizione, peraltro coperta dal silenzio – Righi la menziona in una riga, utilizzando invece ripetutamente la stessa fonte di Brown, Nilde Perilli, nei colloqui che questa ebbe con Adele Cambria, in “Amore come rivoluzione”, 1976. Adriana Brown si basa sui ricordi della nonna - Nilde Perilli - amica intima di Eugenia da quando andavano all’Accademia. Successivamente fu Tania e legarsi a Nilde Perilli, che la ospiterà negli anni a cavallo del 1930, quando Tania può lavorare poco per problemi di salute, e in più si occupa di Gramsci in carcere. L’amicizia strettissima fra Eugenia e Nilde si era rotta prima della guerra, probabilmente per motivi di uomini. Quando Eugenia torna a Roma come “seconda madre”, tuttavia, sia lei che Giulia saranno ospiti della vecchia amica.
Nilde Perilli fu una sorta di segretaria tecnica di Raffaele Bastianelli, il principe fascistissimo della chirurgia negli anni 1920-1930. Disegnava le parti anatomiche delle pubblicazioni del luminare, e di quelle di altri medici che frequentavano la clinica di Bastianelli. Aveva “conoscenze”, quindi, nell’ambiente medico, e si assegna nella ricostruzione di Adriana Brown un ruolo, su sollecitazione di Tania, per l’allentamento del carcere duro per Gramsci fino alla “liberazione”, a Formia e alla clinica Quisisana. Una donna comunque addentro ai segreti del regime. Sapeva della relazione impetuosa di Eugenia con Gramsci. È la sola testimone del ruolo egemone di Eugenia sulla sorella minore – lo aveva esercitato dapprima su di lei, l’amica dello schermo non bella, a Roma, dove Eugenia “viveva sola, circondata da una troupe di ammiratori, di amanti forse”. E dice spesso alla nipote che Giulia era ritenuta una spia, in forza alla Ghepeù, poi Nkvd. Maria Luisa Righi lo ricorda con più precisione, basandosi sui documenti: Giulia collabora con i servizi d’informazione dall’ottobre 1922, un anno prima di legarsi a Gramsci. Ma senza sorprendersene.
Maria Luisa Righi, Gramsci a Mosca tra amori e politica (1922-1923), “Studi Storici” anno 52, n.4\2011, pp.1001-1039
Adriana Brown, L’amore assente. Gramsci e le sorelle Schucht

Gramsci redivivo – per affossarlo meglio?

Eduard Meyer l’avrebbe fatto meglio. O Arthur Rosenberg. Anche Canfora peraltro, ne ha i mezzi, in tante folgoranti filologie classiche ne ha fatto mostra, ma la passione (politica) dominante dev’essere tossico immunoresistente. E si arriva a Gramsci sballottato dai portantini come un qualsiasi santo nella festa, tra chi lo vuole acomunista se non anticomunista, chi un antesignano di Aldo Moro, chi uno equidistante tra Mussolini e Stalin, e chi una vittima di Togliatti. Canfora contribuisce diligente.
Raccoglie alcuni saggi su Gramsci con la promessa scattante di un approccio libero. Ma sono le solite diatribe di Partito: perché Gramsci apprezzò il Führerprinzip (“Capo”), e perché finì per dire il fascismo durevole, o perché gli storici comunisti, Spriano in testa, si censurano. Con molto Ruggero Grieco in lungo e in largo, che benché immodesto non avrebbe mai immaginato tanto onore. L’autore delle tre lettere compromettenti per i capi comunisti in carcere, Gramsci, Terracini e Scoccimarro, nonché dell’incongruo “Appello ai fratelli in camicia nera” del 1936. Se fu o non fu spia di Mussolini - non lo fu: non era un’aquila, ma questo al vertice del Pci, allora PCd’I, non può essere.
Il lettore è seppellito sotto gli indizi. Chi ha avuto “la «trovata» di far lavorare intellettualmente Gramsci su determinati temi come la “Storia d’Europa” di Croce o il decimo canto dell’«Inferno»”? Chi, non lo sappiamo, ma ecco Gramsci scolaretto tardo. Sraffa ha copia di lettere di Gramsci che “contengono parole troppo aspre per Tania e per Carlo”. Contro Tania cioè, che le ha ricopiate? E chi è Carlo, Marx? Il filologo che si vuole detective accumula un mucchio inverecondo di indizi insignificanti - il sindacato degli investigatori dovrebbe protestare.
Ma non si ride. Come si possa criticare Spriano e gli altri storici di Partito (il “processo storiografico pilotato che caratterizzò il Pci negli ultimi anni di vita di Togliatti e negli anni subito successivi”) senza criticare il Partito non si capisce. Né ricaviamo nulla del fascismo, a parte l’ammirazione per la polizia politica - non per altro, perché aveva a “modello la macchina poliziesca sovietica”. E Gramsci resta sepolto nella tomba che Togliatti gli ha ritagliato. Una vera vita di Gramsci, sicuro best-seller, nessun autore o editore ci prova: non si può fare? Per non dire di Sraffa, personaggio per ogni aspetto ragguardevolissimo, che resta sempre intonso. Più di ogni altro testimone di Gramsci, benché abbia vissuto fino al 1983. Una icona muta. Economista molto apprezzato, da Einaudi di cui fu l’allievo, e da Keynes, che ne pubblicò i primi scritti e gli procurò gli incarichi a Cambridge, nel 1927 come professore, poi, riluttando Sraffa a insegnare, come bibliotecario. Dopo essere stato giovane professore alle università di Perugia e Cagliari. Logico di notevole capacità, interlocutore privilegiato per più anni di Wittgenstein. Investitore di notevole fiuto e fortuna. L’aneddoto più celebre che lo concerne è che si arricchì con le obbligazioni giapponesi nel 1945, che trovava praticamente regalate sul mercato, forse comprate dopo Hiroshima, forse prima, ma nella certezza che Tokyo le avrebbe onorate. Un uomo per più aspetti geniale. Reciso nelle sue decisioni – insofferenze, preferenze: a Cambridge è ricordato per questo. Ma semplice e costante tutore finanziario di Gramsci, per le modestissime esigenze del carcerato, libri soprattutto. Col quale non era in rapporti di amicizia. Nonché intermediario diligente (rutiniero, preciso) di Gramsci con Togliatti, che non conosceva, e con la Terza Internazionale a Mosca. Dal 1924 membro coperto del Pcd’I, benché in rapporti familiari e personali di amicizia con Turati e i socialisti allievi di Einaudi, Nello Rosselli, Raffaele Mattioli.
Canfora è stato a lungo convinto e polemico difensore della buona fede di Grieco. Come tale è ricordato da Lo Piparo, nei “Due carceri”, p.22, libro uscito a fine gennaio, Ora invece, all’improvviso, lo rappresenta quale spia fascista. Ma ancora non fa il secondo, necessario, passo che Lo Piparo ha fatto. Grieco ha scritto a Gramsci, Terracini e Scoccimarro, ma a Gransci in modo da comprometterlo e aggravarne la posizione processuale. Gramsci se ne lamenta più volte. Parlando con la cognata Tania, e scrivendole, dice che “l’atto scellerato” può essere stato “una leggerezza irresponsabile”. Ma aggiunge: “Può darsi l’uno e l’altro caso insieme; può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere”. Sraffa, parlandone con Tania dopo la morte di Gramsci, spiega: “Gramsci considerava Togliatti colpevole della provocazione”. Non sono parole a caso, Sraffa è sempre calcolato, né lievi.
Si tende, da parte dei “vecchi comunisti”, guardiani dell’ortodossia (“la storia del Parito gloriosa”), a utilizzare la corrispondenza fra i massimi dirigenti, in regime di clandestinità, come fosse un banale scambio tra conoscenti, sul più e il meno. Se Grieco ha scritto quello che ha scritto, in forma solenne, con passaggio cioè della sua missiva via Mosca, Togliatti non ne era all’oscuro. Togliatti, dunque: In una nota biografica scritta per il Comintern nel 1932, riesce a fare la storia del partito nei primi cinque anni, fino al 1926, senza mai citare Gramsci… - cosa peraltro da tempo nota, portata alla luce da Aldo Natoli, quindici anni fa, nelle note alle “Lettere” Gramsci-Tania Schucht. Canfora invece si vuole togliattiano integrale. Da storico? Da filologo? 
Lo scatto del paziente e oculato topo d’archivio, beffardo eversore del conformismo, riemerge nella vera storia di Ezio Taddei, un cialtrone che incantò il Pci. Un delinquente comune, creato politicamente dall’Ovra per demolire il ricordo di Gramsci. Ma è avventuriero mediocre, fece anche pochi danni. La vera storia di Taddei è quella del credito che il Partito gli assicurò. Tre biografi illustri tra il 1958 e ancora il 2004, lirici: Giansiro Ferrata, Domenico Javarone, Massimo Novelli. Il credito antigramsciano e gli elogi continuati di Ambrogio Donini, che pure a New York aveva accolto Taddei per quello che era, come un fascista. L’elogio commosso in morte, nel 1956, di Ingrao, su “L’Unità” che dirigeva. L’entrata nei “Narratori contemporanei” Einaudi tra i primi nel 1946 – “Taddei arriva all’Einaudi prima di Gramsci” (questo è vero Canfora). Col romanzo “Rotaia”, titolo sovietico (questa a Canfora è mancata), “su cui profonde immediati elogi, paragonando Taddei a Čechov, Italo Calvino su «L’Unità» di Torino”. Mentre, Canfora perfido, “Vita e pensiero”, il mensile cattolico, “scriverà icasticamente: «non c’è come la stupidità che scoraggi»”. Fino a “Vie Nuove”, il rotocalco di Partito, che per i vent’anni dalla morte, nel 1975, lo celebra come una vittima preventiva , nel 1945, della caccia alla streghe maccarthysta negli Usa, potenza dell’autoinganno. Una galleria di ridicolaggini che però rimanda mesti al quesito: e il Partito? Poiché il “provocatore perfetto” era perfettamente conosciuto per tale, in lunghi dettagliati ritratti dei giornali di Partito che lo stesso Canfora ha cura di allegare, “Lo Stato operaio” a Parigi nel 1938, “L’Unità del popolo” a New York nel 1941. O bisogna immaginare lo stesso Canfora “provocatore”? Magari contro la storia indiziaria.
Luciano Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno, pp. 304 € 14

giovedì 17 maggio 2012

Il rating è semplicemente razzista

Riguardati da tutte le parti, i verdetti delle agenzie di rating hanno un solo criterio: il razzismo. Gli Usa meglio dell’Europa. E in Europa le economie del Nord meglio di quelle del Sud. Per criteri obiettivi, si dice, che però non si vedono. C’è conflitto d’interessi nelle agenzie di rating, che hanno soci e lavorano per conto di clienti che dovrebbero invece controllare. Quando si farà la storia di questi anni solo apparentemente convulsi si vedrà che molti rating servono unicamente la speculazione. Ma il modo come questo conflitto d’interessi si realizza - il criterio - è razzista.
Non abbiamo saputo della Lehman Brothers prima che la stessa banca si dichiarasse fallita. Né dei buchi Bnp Paribas o JP Morgan prima che le stesse banche li denunciassero. Né abbiamo saputo del crack delle banche irlandesi o islandesi prima che avvenisse. Mentre non c’è ragione, questo è palese, per declassare le banche italiane, che stanno meglio di quelle francesi, e non peggio di quelle tedesche.
I fallimenti di banche in Europa d’altra parte, naturalmente imprevisti, riguardano casi enormi in Gran Bretagna, Olanda, Francia-Belgio, Germania: Bear Sterns, Royal Bank of Scotland, Abn Amro, Fortis, Dexia, Commerzabank, Hypo Real Estate e altre tedesche minori (tra esse Sachsen Lb, Wtes Lb, Ikb). Ora anche, da ultimo, una banca spagnola, Bankia. Mentre vengono ripetutamente declassate le banche italiane che, comparativamente, non stanno peggio.
È un razzismo alla rovescia, probabilmente, una forma di servitù volontaria: non del vertice sulle zone periferiche, ma delle stesse zone periferiche contro se stesse. Di filiali locali che hanno introiettato il complesso d’inferiorità. Non c’è altra ragione per cui si condannano le banche italiane e non le altre. E quelle italiane prima di quelle spagnole, che stanno molto peggio – da tutti i punti di vista: patrimoniale, degli attivi, della solvibilità dei crediti. Perché in Spagna l’odio-di-sé non è così pronunciato come in Italia. E non si provvede a migliorare il rating dell’Italia, che per l’Ue, l’Ocse e il Fmi è quella che, pur nel grande indebitamento, sta facendo i conti meglio.

La vita è inumana in Jack London

La stessa traccia raccontata due volte, nel 1902 e nel 1910, fa due racconti diversi. Davide Sapienza, che ha avuto l’idea di proporre i due racconti insieme, li diversifica per il finale, per una mutata visione della vita dell’autore, da ottimista a pessimista. Mentre sono due racconti diversi. Non eccezionali, benché famosi e molto riscritti, più di queste due volte. L’edizione si segnala per l’idea.
Il saggio che l’accompagna, di George R. Adams, gira attorno al non detto (indicibile) di J.London, finendo per fare una “favola proto ambientalista” – ma allora sarcastica? Socialista herbertiano, cioè darwinista, London sa meglio raccontare la vita non umana, degli animali e gli elementi. Qui del gelo e non del fuoco, opera dell’uomo: il ruolo dell’uomo nel darwinismo è casuale come tutto, e resiste non si sa perché, dovrebbe essere già estinto.
Jack London, Preparare il fuoco, Mattioli 1885, pp. 92 € 9

Quando il lavoro era il “padrone”

Parise, che aveva tentato a Milano per un lungo decennio d’integrarsi nell’industria editoriale, vi traspone il suo rifiuto. Nella metamorfosi di un giovane provinciale gaio e aperto che il lavoro trasforma in una marionetta. Anzi in una cosa, un barattolo.
Pubblicato da Feltrinelli e subito premiato col Viareggio, nel 1965, come un qualsiasi libro mastro da compagno di strada, “Il padrone” è invece, ma Parise lo disse subito e Montale se ne accorse, un “Candide” trasposto nell’età delle fabbriche. Un viaggio irridente nella contemporaneità. Su una traccia sorprendente, il darwinismo “all’inverso”, come subito vide Montale. Non sorridente però, voltairiano, e prolisso. Con gli anni non acquista leggerezza, e anzi si appesantisce. Di divertente resta poco. Il dottore che si chiama Diabete, “l’orango diventa triste per lunga consuetudine con l’uomo”, e poco altro. Il protagonista-larva sa perfino filosofare alla fine di tutto: di se stesso come “il capolavoro della proprietà assoluta”, delle catene della specie “che non si possono spezzare”, e del silenzio che subentra una volta “chiamati col loro nome tutti gli oggetti” – ma chiamare col loro nome tutti gli oggetti non è operazione infinita? Poco cambia che il padrone dottore Max possa essere il dottor Garzanti, come Livio voleva essere chiamato in azienda, l’editore per il quale Parise lavorava, appassionato di filosofia, scrittore, eccetera - chi era Livio Garzanti?
Montale è stato negli anni milanesi l’aedo del giovane Parise, per “conoscenza diretta” dice in una recensione. L’irridente vicentino, che si sentiva infelice nel demi-monde letterario, coltivava i letterati illustri, Montale nel soggiorno a Milano, e dopo, a Roma, Gadda. Si trovava suo agio con chi non si prendeva sul serio. Come lui stesso. Qui è invece veramente arrabbiato.
Può essere una buona lettura storica. Erano quelli anche gli anni in cui si discuteva (si rifiutava) l’“integrazione”, il posto fisso. Anche nello Stato, ma soprattutto nelle aziende private. Una tensione trascurata dalla storie, che però fu una delle forti corrente che tracimarono nel Sessantotto, il rifiuto del lavoro. Ma non si sa se farne un merito a Parise, o un demerito: l’idea fa aggio purtroppo sulla lettura. Più che al Candido di Voltaire, al suo spirito rapido, l’anonimo di Parise è un insistito Gulliver, alla Swift, col quale, com’è noto, non si ride. L’editore vuole “Il padrone” una metafora, parola lieve, ma la lettura delle metafore più spesso è faticosa.
Goffredo Parise, Il padrone, Adelphi, pp. 268 € 19

Letture - 95

letterautore

Cassola – Joyciano? Prima dell’“Ulysse”. Bilenchi si dice in “Amici” quello che per primo lo fa pubblicare, con la raccolta “La visita”, da Bonsanti per le edizioni di “Letteratura”. Convinti entrambi, lui e Bonsanti, contro le perplessità di altri amici, che “negli scritti di Cassola c’era una novità, sia pur piccola, la quale non veniva soffocata dalla palese influenza di Joyce sul giovane scrittore”.

Céline - Saul Bellow lo fa “nichilista positivo”. In “Ravelstein”, il racconto di due ebrei, il protagonista Allan Bloom (“Ravelstein”) e l’autore Bellow, Céline emerge in una delle prime pagine, quale autore di una “commedia, o farsa, nichilista”. E su questo “intransigente”: “Robinson (il personaggio alter ego di Céline, n.d.r.), il nichilista non transige su un punto solo: non mente sulle poche, pochissime cose che contano veramente”. Bloom-Ravelstein lo spiega all’autore, con una chiave persuasiva: “La situazione di questo Robinson è un replay del dramma medievale in cui i criminali più malvagi, abbandonati a se stessi, tornano a rivolgersi alla Beata Vergine”.
L’autore, Saul Bellow, se ne convince quando pensa di essere in punto di morte, per aver mangiato in un ristorante dei Caraibi un pesce velenoso. In una delle tante pause dell’interminabile ritorno alla salvezza negli Usa, confida alla moglie sconvolta: “Céline non avrebbe finto di non aver collaborato alla Soluzione Finale”. E in rapporto a “Grielescu”-Mircea Eliade, di cui è stato amico a Parigi ma che gli si è rivelato fascista e poi nazista, per vent’anni, e antisemita: “Non avrei scambiato l’interbase Grielescu con l’esterno destro Céline. Se la metti in termini mutuati dal baseball puoi comprenderne facilmente la follia”.

Confessione - Il romanzo viene dalla lanterna magica, dalla soffitta abbandonata, come dice Zambrano. Con un tempo diverso da quello della vita. Quando giunge a essere tempo del-la vita, Proust, Joyce, è una confessione. E, come in Giobbe, risuona della voce dell’autore. Che è il pregio della confessione: parola a viva voce.
La confessione è un romanzo, essendo narrazione. Il presupposto, della confessione come del romanzo, è che l’uomo soffre e rischia di perdersi. È genere letterario recente, che tenta di farcire il vuoto dell’inimicizia tra la ragione e la vita. Si trovano questi pensieri in Maria Zambrano, che la confessione propone a rimedio agli immaturi europei, sherpa del mondo vanitosi: “È stata nostra caratteristica aver agito, noi europei, dopo venti secoli di cristianesimo e altrettanti di filosofia, come adolescenti, esserci affidati all’azione per uscire dall’ermetismo del nostro cuore indurito”.

Inflazione – Sempre più regola i linguaggi: gestualità, parole, titoli, presentazioni. Da tre decenni a causa del politicamente corretto, in una con l’insignificanza dei linguaggi, ricercata, come un valore. Da qualche anno per l’adozione-invasione della pubblicità, per natura esagerata. Tutto è super in televisione, perfino i convenevoli e i buongiorno. I ristoranti moltiplicano i cappelli, gli alberghi le stelle. Tutto è – dev’essere – ecocompatibile, che non vuol dire nulla. Tutti i capiufficio sono direttori o vice-presidenti, anche se non si sa di che. L’“Economist” ha rintracciato perfino un Direttore di Prime Impressioni, sta per usciere. Tutti gli onorevoli a Roma sono presidenti di qualcosa. Anche i non-onorevoli che bazzichino Politopoli. I vecchi “dottori” sono ora professori. E così ogni medico in ospedale. Non ci sono più abitazioni tranquille, o modeste, o borghesi, ma residenze “mozzafiato” con finiture “di lusso” in ambiente “esclusivo”. Nelle crociere, negli alberghi, negli investimenti immobiliari non ci sono più proposte diversificate per dimensioni, finiture, posizione, ma soluzioni “di lusso” oppure, dice ancora l’“Economist”, “luxury”, “superior luxury” e “grand superior luxury”.

Informazione - Si leggono i siti dei giornali in sostituzione dei giornali. Per mancanza di tempo: andare in edicola, tornare, sfogliare, cercare una cosa, prende tempo. Per non spendere un euro – almeno finché i siti saranno gratuiti. Con milioni di contatti – idem. Per poterne “vedere” molti invece di uno. La comunicazione in internet è del resto molto più vasta dei giornali online. Ma si è meno e non più “informati”.

Intellettuale – Un’élite camuffata da egualitaria, la vuole Allan Blom nella memoria (“Ravelstein”) del suo amico Bellow. Che sfrutta l’egualitarismo, si può aggiungere, e lo devitalizza.

È una forma di potere, il potere intellettuale, che è esclusivo. Per secoli le donne poterono godersela con cavalieri, menestrelli e palafrenieri. Poterono perfino diventare sacerdotesse e, in Francia, ascendere al trono grazie a una legge salica di cui poco o nulla si sa. Ma non poterono entrare all’università - che era chiusa peraltro ancora nel Duecento ai frati mendicanti, Tommaso d’Aquino, Buonaventura.
Il potere si esercita con l’esclusione. E l’intelligencja è una maniera di esclusione. Il potere più feroce è quello politico, che giudica e squarta. Più determinato è nella forma religiosa. Il più furbo, naturalmente, è quello economico, che calcola senza passione. Il più ingiusto è quello intellettuale. Le donne non sono discriminate per il sesso, che scemata, ma per l’intelligenza.

L’intellettuale di Saint-Simon, il marchese industrialista, grande di Spagna, ha sempre gli occhiali, che allungano, accorciano, deformano. Simmel lo fa sociale: “L’uomo puramente intellettuale è indifferente a tutto ciò che è propriamente individuale”. Ma l’intellettuale individuo è in carriera e anzi incoercibilmente individualista, al riparo dell’esercizio critico.
Fu “operatore” in una parte del Sessantotto, adiacente a “Tempi Moderni”, a iniziativa di Cesare Garboli. Una sorta di salariato. Ma senza funzione se non per il prodotto: giornalista, redattore editoriale, pubblicitario. Fu detto anche Intellettuale Collettivo.
“Organico”, orrenda parola, è di Gramsci. Fu Mitlaüfer a metà degli anni 1935 con i Fronti Popolari, compagno di strada, un po’ gregario.

A lungo l’intellettuale non ha avuto radici, era un vagabondo, di casa mutevole dove curiosità e speranza lo spingevano. Viaggiavano i filosofi antichi, e quelli cristiani, e i poeti: Lullo, Dante, lo stesso pantofolaio Petrarca. È il qalendar persiano, di cui l’Iran ha perduto la memoria, W. Ivanov ci ha lavorato quarant’anni per ritrovarlo. Variamente tradotto outlandish, scholar-gipsy, uccello migratore, benché viva nella sua poesia, insiste Henri Corbin, il qalendar è “libero come il vento”, uno che “non dorme due notti nello stesso posto”. L’intellettuale ha ora invece l’intelligenza del sentimento - il rivoluzionario è intellettuale, dice Hobsbawm, storico compagno. Ma se organico al partito dev’essere politico, prudente: si evince da Gramsci, e l’opinione è consolidata in Occidente a partire dalla Riforma protestante, conclusa dalla Riforma cattolica a Trento, che fu concilio di storici e letterati, con alcuni teologi.

Pound – Frequentato da Bilenchi a Rapallo nell’invenro del 1941, durante una lunga convalescenza nella cittadina ligure, su presentazione molto ben accetta di Montale, è irrimediabilmente fascista. Dell’opinione incrollabile che il fascismo è un “superamento” del bolscevismo, sul fronte anticapitalista e su quello del progresso umano e sociale (le corporazioni, l’assistenza, la previdenza), e gentilmente rigido contesta ogni obiezione di Bilenchi, fascista di sinistra già mezzo comunista. Che però ne mantiene memoria di uomo eccezionalmente vigoroso, occupato in interminabili esercizi ginnici e partite da tennis. Nelle pause dei viaggi a Roma per parlare alla radio contro gli americani. Integro, nella sue “fissazioni”. Non remunerato per i radiodiscorsi. E anzi con i conti bloccati in banca, ricorda Bilenchi, in quanto cittadino americano, quindi nemico.
La novità più importante e trascurata di questo ritratto di Bilenchi è che Pound nel 1941 gli disse di Joyce, che lui stesso aveva “costruito”, nella redazione, per la pubblicazione, in libreria, nella critica: “Non vale nulla”. Con l’aggiunta: “Joyce non ha inventato nulla, c’era già tutto in questo libro”. In “Tarr” di Wyindham Lewis: “È tutto qua dentro”.

letterautore@antiit.eu

mercoledì 16 maggio 2012

Euroché? Un dialogo tra sordi

Nessun cenno da Hollande, nessuna iniziativa in cantiere per avviare la ripresa. Malgrado i sorrisi di circostanza, Monti non ha fiducia in una iniziativa europea per sbloccare la nuova crisi monetaria. A quattro mesi ormai dal suo avviso a inizio febbraio, “dobbiamo decidere che crescita vogliamo in un’Unione retta dal patto fiscale”, niente è stato fatto. E niente si preannuncia, né al G 8 né al vertice europeo. La mutualizzazione del debito attraverso gli eurobond, che dovrebbe essere l’asse della nuova Europa, non è bizzarra o improponibile come appare. A prima vista significa che i paesi virtuosi, i.e. la Germania, dovrebbero caricarsi il debito delle cicale. Di fatto significa che o l’euro e l’Europa esistono, oppure no. Una moneta non può avere quindici o ventisette politiche monetarie separate. Né può valere indefinitamente per ventisette paesi diversi: l’unificazione monetaria è stata divisata come la strada maestra verso l’unità europea, essendosi rivelata impercorribile quella strettamente politica, e quella militare, e solo in questa ottica ha senso. Il primo eurobond, ricordano le storie, fu quello emesso da Autostrade (allora Iri, cioè di proprietà pubblica) nel 1963, concordato da Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, coi banchieri Warburg di Londra. Un finanziamento semplice, elaborato e attuato da persone competenti, che fece felici i creditori, le banche e il debitore Autostrade, e segnò l’inizio dell’euromercato, col quale l’Europa è cresciuta. Erano obbligazioni aziendali, denominate in dollari, per un mercato mondiale. Il nuovo eurobond dovrebbe essere emesso dall’Unione Europea, o da una sua Agenzia del debito, a valere sui debiti degli Stati membri. Con modalità diverse a secondo dei tanti progetti messi in campo. Il più semplice e pratico, pratico, ed effettuale, è quello di Prodi e Quadrio Curzio, che vuole gli eurobond garantiti dalle riserve auree – l’Italia ha un terzo dell’oro europeo. Ma la qualità dei progetti incide poco sul dibattito. Che è attorno al “fare”, non al “che fare”. Cioè al non fare, la divisa della Germania.

La guerra civile senza odio del ‘43

Come fare la guerra senza saperlo. Magari dalla parte sbagliata. Terzi aveva diciott’anni nel 1943, tentò di diventare ufficiale di complemento, alla fine ci riuscì, ma poté non sparare un colpo, e finì prigioniero nel campo Usa di Coltano. Questo antieroica guerra civile l’aveva già raccontata nel 1952, da comunista, alla “terza sezione” del Pci a Torino, e già allora aveva ammutolito tutti con la sorpresa: la sua “generazione perduta” è straordinariamente eccezionale nella normalità, nell’assenza di odio.
Editore amabile, ora prossimo agli ottant’anni, Terzi non si smentisce nella scrittura: racconta brioso ed elegante. S’inventa un progetto di evasione con un compagno di cui dice di ricordare solo il nome, Alvaro, mentre nella naja tutti si sono sempre chiamati per cognome, ma è peccato veniale.
Lodovico Terzi, Due anni senza gloria 1943-1945, Einaudi, pp.96 €12

Secondi pensieri - (100)

zeulig

Amore – È il sentimento di cui più si sente la mancanza in questa epoca di disinganni e solitudine (singletudine), il mezzo secolo ultimo, di consumi (shopping) e liberazioni – se ne soffre l’impossibilità.
È una pulsione residua? La demografia non si è fermata, e anzi vuole potersi moltiplicare artificialmente, con la poligamia in attesa della clonazione e dell’utero artificiale. Forse, dopo la liberazione, l’amore è indirizzato verso il potere – il rapporto parentale. Verso una sorta di capacità multiforme di unificare (concentrare) la sfera desiderante, nella costante one-upmanship personale che ha sostituito ogni altro orizzonte.

Beatitudine - I macarismi non saranno dei poveri invece che degli umili? Solo in Matteo le beatitudini sono dei poveri di spirito, e non è una bella cosa. In Luca sono dei poveri e basta. Perché il discorso della cruna dell’ago sarebbe metaforico e non reale?

Democrazia – Come la rivoluzione, costeggia lo stato di natura. In Hobbes e C.Schmitt, ma anche in Rousseau e Marx – seppure la natura di questi ultimi sia idilliaca.

Dio - È onnipotente, meglio che di amore o conoscenza, con Calvino. E poi con Hobbes. Che il sovrano concepisce e definisce Deus mortalis.

Intellettuale - Il reale infastidisce l’intellettuale, che il pensiero divide dall’atto, l’etica dalla giustizia, la politica dagli affari, la classe dal popolo. Il sovietismo, che più ne aveva propagandato la figura, a partire dal Sessantotto (Polonia, Praga) ha messo l’intellettuale sotto processo. A fini di politica pratica ma non senza verità, quale “strumento di sovversione ideologica”. Che non è un complimento, l’ideologia è la fuga autorizzata dal reale.

Non ha ragione l’intellettuale se non romantica. Oscuramente, per il rifiuto che gratifica più dell’intelligenza, il rifiuto dello sfruttamento e della guerra, anzi del mondo, per l’entusiasmo, per l’odio. È così che l’amore di sé e dell’umanità si trasforma in disegno di potere. Che è duro. Anche se è, nell’immediato, il partito politico. Ha il sapore aspro, malgrado le cautele retoriche, della violenza. E comporta la perdita dei fini. L’intellettuale non può che essere contro, l’intellettuale onesto. Impaziente, assoluto. Come la verità, più di Dio.

L’intellettuale è generalista impegnato, in opposizione all’esperto, che è invece specialista e neutro. E parte dall’etica della convinzione invece che della responsabilità. Della ricca, molteplice, convinzione – che è la fede. Della borghesia rappresenta l’individuo di programma, astratto, estremo, subdolamente orgoglioso. Fuori da contesti, tribù, tradizioni, compagni di strada, spesso pulciosi. La “Parabola” di Saint-Simon mostra che se la Francia venisse privata di colpo dei cinquanta maggiori scienziati, ingegneri, artisti, banchieri, industriali e artigiani cesserebbe di esistere. Ma nessuna incidenza avrebbe la scomparsa dei cinquanta se colpisse i nobili, i politici, i cortigiani e l’alto clero. Anche il lavoratore di Jünger, il rivoluzionario aristocratico infatuato della guerra, ripete in realtà Saint-Simon, il protosocialista socio in affari di Comte.

Lavoro – Si è fatto a lungo differenza tra chi lavora con la testa e chi con le mani. Per definire l’identità borghese – o anche per sfuggire a essa, nel mentre che la si fondava. Confondendo il pensare con la retorica del pensare, il pensatore pensoso dello scultore, lo scarnito san Gerolamo dei pittori. La differenza interessava al Settecento, agli Adami del capitale, Ferguson e Smith: “In un’epoca in cui tutto è separato”, scrisse il primo, “l’arte di pensare può benissimo consistere in un mestiere a parte”. Ma siamo quello che facciamo.
Lavorare non discende dal mestiere, non è certificato corporativo. Né definisce una condizione sociale o culturale. Lavorare è espletare un compito, ed è l’esito di questo compito. Un incontro è un lavoro. Fare l’amore lo è, quando lo si faceva. Lavorare è, a parte la fatica, che però è anche dell’ozio, vivere sociale e tra le cose. L’inattività è dolore, secondo qualcuno, proprio perché impedisce il contatto col mondo, con le cose. È il lavoro che stabilisce con le persone e la terra, e con gli eventi, un rapporto comunque liberatorio, per quanto a bassa intensità oppure deviante, utilitario, dispotico, usurante. È la forma più solida dell’essere, più del rapporto personale, affettivo, più della malattia, o degenerazione del sé. E allegria, ha scoperto Heidegger dopo Mike Bongiorno: ci vuole “gioia nel lavoro”, il lavoro è genuino solo se si è felici, cioè viceversa.

A lungo il lavoro è stato tenuto in sospetto, dannato dalla Bibbia, tipo inferiore di attività che sovrasta e inibisce la superiore attività del pensare. L’industria subito non piacque ai romantici, Stendhal, che contro Saint-Simon e le attività pratiche scrisse un pamphlet (“l’industrialismo, che paga i giornali, è parente del ciarlatanismo”), e Constant (“l’industrializzazione è un nuovo complotto del materialismo”).
Stendhal che pure fu studioso dei fatti e della teoria economica. Elaboratore del principio del neo capitalismo, dicendo la felicità “il godimento risultante dal consumo”- prima di arrivare alla conclusione, smobilitato e senza risorse, che “pensare è il meno caro dei piaceri”.

Usa dire, in politica, che non c’è abbastanza lavoro, mentre è vero che non si è mai lavorato tanto, giacché bisogna guadagnare per vivere, e tutti devono in qualche modo lavorare. La società moderna è la società del lavoro, può dire Hannah Arendt: “L’età moderna ha portato a una trasformazione dell’intera società in società del lavoro”. Per questo ugualitaria.

Manierismo - Il fenomeno più trascurato della storia europea, e italiana in particolare, e più caratterizzante, anzi dominante. Uno dei “caratteri fondamentali” della storia dell’Europa, che è una storia moderna - sì, l’impero romano, sì i barbari, sì il Medio Evo cristiano, ma l’Europa viene con gli Stati, il governo della legge e l’espansione (l’inimicizia). È l’epoca comunemente collocata fra Rinascimento e Barocco, approssimativamente tra il 1550 e il 1650. L’epoca della creazione degli Stati. È l’epoca del mascheramento e della simulazione, che in termini politici si traduce negli arcana imperii. Non più nel senso del divino, come pretendevano i vecchi imperia, ma del segreto.

Stato – È sovrano (divino) da cinque secoli per non soggiacere al papa (religione). È stato detto dello Stato di Hobbes, il suo primo ideatore nel “Leviatano”, che è il Dio del calvinismo, onnipotente e imperscrutabile. Ma non per questo è la migliore forma consociativa. È la “forma” della polizia e della guerra, che hanno aspetti indesiderabili (insocievoli). La comunità ne potrebbe fare a meno, come l’anarchia: entrambe si precisano nell’intento di fare a meno degli esiti perniciosi dello Stato: guerra, controllo (forza).

È in Hobbes l’antitesi alla democrazia, la quale non ricorre altrimenti che come stato di natura selvaggio, dell’homo homini lupus. Lo Stato è ordine, pace (polizia: nascono insieme), homo homini Deus (Bacone da Verulamio), Deus mortalis (Hobbes).

Lo Stato macchina di Hobbes, regolato, regolatore, prima che in Hobbes è in Campanella, nella “Città del sole”, 1608, e poi nella “Monarchia di Spagna”, 1640.

In Max Weber la deriva tecnico-burocratica dell’istituzione politica (Stato) della modernità è l’esito del razionalismo occidentale. Nelle varianti: soggettivistico protestante, e statualistico oggettiva.

zeulig@antiit.eu

martedì 15 maggio 2012

La fine è suicida dello stato sociale

“Tutto indica che lo stato sociale è finito”: Monti da ultimo ne fa la constatazione (l’avrebbe fatta con i suoi interlocutori politici e sindacali), da osservatore freddo. C’era l’assistenza prima dello Stato sociale, e questo può spiegare la tranquilla accettazione da parte di Monti, buon credente, della fine dello Sato sociale. Non c’era la previdenza, e l’elemosina e le cure erano amministrate dai parroci e i conventi. Qualcosa di simile c’è già da alcuni decenni per l’assistenza agli immigrati, l’assistenza ai malati di droga, Aids, etc., e di nuovo l’elemosina ai poveri (pasti, vestiti, ricoveri). Ma ognuno vede che è un modello improponibile: sussidiario ma non su larga scala o generale.
Il movimento del resto, nei grandi paesi che se ne erano finora privati, è verso una maggiore copertura sociale, sia sanitaria che previdenziale, negli Usa, in Brasile, in India, e nella Russia postcomunista. Anche per rimediare a un’assistenza sanitaria che, lasciata al mercato, non regolata e non tariffata, è insostenibile: o il costo è eccessivo, o le cure non sono garantite (i dentisti romeni o spagnoli).
Non si può del resto abbandonare la previdenza, soprattutto se si vuole liberalizzare il mercato del lavoro. La riforma Fornero è debole in questo: adottata per decreto nell’urgenza della crisi dello spread, ne sconta la debolezza alle Camere nel voto sulla liberalizzazione (flessibilità) del mercato del lavoro. La protezione del risparmio è il solo cardine su cui impiantare un mercato del lavoro flessibile. È anche l’ultimo baluardo della “legge”, dello Stato di leggi su cui da alcuni secoli il mondo s’è organizzato. Il liberalismo, per quanto superficialmente ideologizzato, non saprebbe rinunciarvi.

La democrazia per procura

In mancanza di meglio, si pensa di restituire il potere decisionale ai cittadini mediante una qualche legge elettorale. È un’opera di bene, di buoni propositi, ma ormai, dopo tanti tentativi (nel 2006 a Roma si è votato nella stessa tornata con sei sistemi elettorali diversi), velleitaria e inutile.
Si dice del resto di voler restituire il potere di scelta ai cittadini per rimediare all’antipolitica. E cioè oggi a Grillo come ieri a Di Pietro, e prima alla Lega, andando a ritroso, a Cicciolina, al partito della Bistecca e all’Uomo Qualunque. Mentre la sostanza è di dare corpo politico alla politica, e questo in regime democratico non è mai stato facile, se non in società a pluralismo sociale fortemente radicato, come in Gran Bretagna, negli Usa, in Olanda e in alcuni paesi scandinavi.
La radice vera dell’antipolitica è nella spersonalizzazione dello Stato. Un’infezione che ha aggredito gli Stati al culmine del loro potere un secolo fa, moltiplicando per tutto il resto del Novecento una serie di efferati totalitarismi dichiarati, che hanno lasciato il posto allo svuotamento della funzione politica.
La ragione C.Schmitt, il più acuto filosofo della politica del Novecento, la individuava nel 1938, nel pieno del nazismo, nella progressiva snaturalizzazione dello Stato in “macchina”. Per effetto della complessità dell’azione di governo e dell’azione eversiva di quelli che poi sono stati chiamati gruppi d’interesse o interessi costituti, in Italia “poteri forti”: partiti, sindacati, potentati economici e religiosi. L’effetto è comunque sotto gli occhi di tutti: si possono dire i nostri Stati democratici democrazie per procura. Ancorché costituzionali, ma di un parlamentarismo esangue (parolaio, inutile, asservito alle lobbies).
Si è detto, andava di moda cinquant’ani fa, che lo Stato e quindi la politica sono incapaci, non attrezzati, a rispondere a un mondo complesso e veloce. La questione è rimasta insoluta, nei termini allora posti: la complessità (e rapidità) per i critici, il potere decisionali per i fautori residui (C.Schmitt, Miglio), della sovranità degli Stati, nella forma hobbesiana del “quis iudicavit”. Formula da essi rovesciata nel “chi parla”, “chi pone le questioni”. Chi cioè influenza, manovra, dirige il potere dall’esterno.
Ma il potere legislativo è uno, ed è svuotato: questo è un fatto. Anche autosvuotato, attraverso una microlegificazione che esaurisce la potestà legislativa nella trivialità. Ma il Parlamento, quand’anche volesse agire bene, non lo potrebbe. Al tempo della controinformazione, anni 1960-1970, si voleva questo processo di svuotamento della rappresentanza opera dei poteri forti. Come se degli avventurieri avessero forzato la cittadella del buon governo. Mentre i media sono anche loro corrivi, i cattivi e anche i buoni: l’antipolitica è indotta dai media, che ne moltiplicano il potenziale dissolutivo, dalla Lega e Mani Pulite in poi, vent’anni di storia exlege.

lunedì 14 maggio 2012

Il boom tedesco gonfiato dai minijob

“È solo un caso che il record dei minijob e il boom dell’economia siano andati insieme”, afferma l’agenzia pubblica tedesca per il lavoro interinale. Ma lo dice perché la cosa è contestata. Dal sindacato, da alcuni studiosi, e da alcuni centri di ricerca. La conclusione, provvisoria, è che il boom tedesco, in controtendenza sull’economia europea, sia “produttivistico”. Alimentato cioè da una rete di economia in nero legalizzata, costituita dai minijob. Con un effetto reddito negativo sul risparmio e sui consumi interni, e positivo sui costi dei servizi per la produzione.
L’allarme è partito dalla crescita dei minjob. Erano cinque milioni quando la categoria fu sancita per legge nel 2003, sono ora 7,5 milioni. Che in aggiunta ai tre milioni di disoccupati statisticamente rilevati, fanno un totale di più di un terzo rispetto alla forza lavoro occupata a tempo pieno di 28,4 milioni. La crescita di questa forma di precariato legale sarebbe, per alcuni commentatori, all’origine del boom elettorale di socialdemocratici e verdi nella Nord-Renania Westfalia ieri – ma fu proprio un governo rosso-verde, quello del cancelliere Schröder, a legalizzare l’istituzione nel 2003.
I minijob sono occupazioni temporanee, fino a un massimo di 400 euro al mese, che vanno esenti da tasse e contributi sociali, sia per i datori di lavoro che per i lavoratori. Pagati all’ora, per un massimo di 9,75 euro all’Ovest, 7,03 all’Est. Ma con un larga percentuale di retribuzioni di 5 euro l’ora. Per il 63 per cento sono occupazioni femminili. Nei settori prevalentemente dei servizi: pulizie, ristorazione e alberghi, sanità, assistenza.
L’ufficio federale del lavoro interinale fa valere che tre quarti di datori di lavoro di minijob hanno un massimo di tre dipendenti. E che poco meno della metà dei minijobber sono dipendenti unici. Contesta cioè la formazione di un’economia legale in nero. Calcola inoltre che l’esenzione dei minijob dai contributi sociali non hanno gravato la previdenza, che registra una crescita constante dei contributi. Ma la scelta del 2003 viene criticata ora come “un errore”: ha incrementato il precariato invece di contribuito all’assorbimento della manodopera non occupata.

Milano è corrotta, ma tra parentesi

Sergio Segio era già celebrato su “Repubblica” molto prima che, ultimamente, nel salotto di Lucia Annunziata su Rai 3: a fine maggio 1999, quale sociologo del terrorismo. A nemmeno vent’anni dai tanti assassinii di sua progettazione e personale esecuzione, di alcuni giudici tra gli altri, Emilio Alessandrini e Guido Galli. Stajano ne fa uno dei suoi brutti “incontri” in questo viaggio nella città e nella memoria, nella Milano terrorista e corrotta. Una memoria perfino troppo piena, si può dire, essendo egli stato del terrorismo il primo testimone quasi oculare, arrivando per caso alla Banca dell’Agricoltura a piazza Fontana pochi minuti dopo l’eccidio, mentre i feriti venivano portati via dalle ambulanze e “qualcuno – un infermiere, un poliziotto? – gettava in un mucchio informe braccia, gambe, teste, pezzi di cadavere trovati via via nel salone”.
Strano viaggio, caduto nel vuoto (è già vecchio di tre anni), “nel cuore e nelle viscere della città”. A Milano evidentemente non è piaciuto, se ne sa l’esistenza giusto nei cataloghi. Nostalgico, di un’altra città, bene amministrata, illuminista, caring. Ma il prologo è già il libro: l’autore ex studente alla Statale, con un parterre di professori di gran nome, tutti sempre “via, per un processo, una consulenza, un consiglio d’amministrazione”, trova ritornandoci nella bacheca dei professori nomi noti, “i figli, o forse i nipoti, degli antichi maestri”. La seconda immagine è quella di Antonio Cederna, che nel 1953 guarda il nuovo piano regolatore e non ci trova più “il centro della città” dove vive da trent’anni, “atrocemente tagliato, mutilato, devastato”.
Un viaggio nella deiezione, in un città sorda e muta, un inferno notturno, freddo, per un sonnambulo con gli occhi sbarrati. Strano anche nella rabbia repressa. Tra le macerie, morali e materiali – proprio di mura scrostate, di buche, di marciapiedi – della capitale mandevilliana d’Italia, dei “vizi privati pubbliche virtù” cui Milano pretende. Con un Montanelli, oltre che un Sergio Segio, dal vero: forcaiolo, fascistone, reazionario, pulcinella dell’anticonformismo, di “abilissima verve” e “uso sapiente e spregiudicato delle bugie”, antisemita, cui Milano “ha dedicato nel 2006 una statua dorata”. Con i Crespi arroganti sempre, i padroni del “Corriere della sera”. E poco altro, la corruzione della città è chiusa in una parentesi. Anzi, gli unici colpevoli sono Craxi, Ligresti e Berlusconi – e i tedeschi naturalmente, con gli americani che poi li salvano, salvano i tedeschi, a guerra perduta. Quasi una “sindrome di Stoccolma”, della vittima affascinata dal criminale: Milano soprattutto si vuole indignata, con gli altri (“le piace buttare la merda al piano di sotto”, diceva Malaparte).
Corrado Stajano, La città degli untori, Garzanti, pp. 255 € 16,60

Il mondo com'è - 94

astolfo

Arianesimo 3 - Fu un altro inglese, Chamberlain, a dare l’“arianesimo” ai tedeschi, che del suo La genesi del XIX secolo, 1.500 pagine, comprarono centinaia di migliaia di copie. I Wagner se lo sposarono, il kaiser ricostituì sul suo libro la propria anima e il governo. Nel contempo si diffondeva in Inghilterra la teutomania del dottor Arnold, etnologo, detto l’“odiatore dei celti”, che vedeva teutoni ovunque, a partire dall’India. Ci vuole determinazione per dare purezza alla razza in Europa, che è un trivio, o negli Usa. Ma è in Francia che l’“arianesimo”, come ogni altra dottrina, fu perfezionata. Da Paul de Lagarde, il quale scelse di essere tedesco malgrado le ascendenze lorenesi, voleva Parigi rasa al suolo, e ungheresi, turchi, lapponi e celti perire, in omaggio alla religione dell’avvenire. Fine Ottocento pullula di religioni dell’avvenire: in questa chiave si sostenne pure che il marxismo è opera dell’“ariano” Engels, cui il semita Marx l’ha rubato.
Lagarde fu amato da molti Thomas: Carlyle, Masaryk e Mann, il quale lo nominò Praeceptor Germaniae. Il genio di Gesù, sosteneva, fu di “non voler essere ebreo”. Lagarde lo sostenne nell’ambito dell’“arianità” di Gesù, dolicocefalo biondo, mentre Chamberlain lo faceva “ariano” ad onore. Vacher de Lapouge annesse ai dolicocefali biondi Dante e Napoleone.
Fino a Drumont l’“arianesimo” fu francese. In Germania ebbe un solo avvocato prima di Hitler, Arthur Trebisch, che era ebreo. Arnaud de Quatrefages, padre dell’antropologia francese, disse peraltro i tedeschi “ariani” a metà, i prussiani essendo slavo-finnici, o finnici, popolazione che il professore non stimava in quanto ramo inferiore della razza bianca. L’ipotesi il dotto politico e scienziato teutone Rudolf Virkow empiricamente verificò nelle scuole tedesche, svizzere, austriache e belghe. La ri-cerca durò dieci anni e coinvolse quindici milioni di ragazzi, di cui si misurò il cranio e si rilevò il colore degli occhi e dei capelli. L’idea iniziale era di misurare i soldati, ma i generali non vollero. Coronò lo studio la scoperta che pure i finnici sono biondi, benché non dolicocefali, verificata personalmente da Virchow, il quale a tale scopo si recò in Finlandia.

Governo, Parlamento, Tecnici – Il testo che segue, sulla sostituzione della “tecnica” alla “politica” in regime plebiscitario, si leggeva nel 1932, al § 74, del “Lavoratore” di Ernst Jünger (in traduzione italiana “L’operaio”):
“Bisogna rifarsi qui al modo in cui i Parlamenti cessano di essere organi del concetto borghese di libertà e istituti di formazione dell’opinione, per convertirsi in unità di lavoro. Conversione il cui senso equivale a trasformare degli organi sociali in organi esecutivi. Bisogna qui rifarsi alla padronanza della tecnica del plebiscito che si compie in uno spazio in cui non soltanto il concetto di popolo ma anche le alternative emerse in argomento hanno rivestito un carattere molto equivoco. Bisogna inoltre rifarsi alla sostituzione del dibattito sociale e politico con l’argomento tecnico, che corrisponde alla sostituzione del ceto politico con gli esperti. In questo contesto si situa anche il prosciugamento della palude della libertà di opinione che è oggi la stampa liberale. Qui, ancora una volta, bisogna riconoscere che le tecniche sono molto più importanti dei singoli che producono l’opinione all’interno delle tecniche stesse. La macchina, il cui funzionamento assorbe a elevata andatura questa opinione, è infinitamente più pulita, la precisione e la rapidità con le quali non importa che giornale di partito giunge ai suoi lettori sono infinitamente più significative di tutte le differenza di partito immaginabili. È una potenza, ma una potenza di cui l’individuo borghese non sa più servirsi, e che utilizza, per difetto di legittimazione, come un perpetuum mobile della libera opinione.
“Si comincia infine a vedere che un’umanità molto uniforme è qui all’opera e che il fenomeno degli scontri di opinione deve connotarsi come uno spettacolo che l’individuo borghese rappresenta ripartendo i ruoli. Tutte persone radicali, cioè noiose, il cui tipo comune d’alimentazione consiste senza eccezioni nel monetizzare i fatti in opinioni. Il loro stile comune si definisce come un entusiasmo ingenuo scatenato da non importa che punto di vista, non importa quale prospettiva, di cui essi abbiano l’esclusiva – e dunque come il sentimento di un vissuto unico nella sua forma più svalutata”.

Islam – Ha sempre vissuto nella guerra civile, dagli inizi e in ogni sua conquista (in Spagna, per esempio, in Sicilia). Non ha nella sua tradizione politica (culturale) un Alberico Gentile, quello del “silete, theologi!”. O un Hobbes, buon credente ma antigesuita e antiprotestantesimo, nonché anti-independentista inglese.
Tuttavia, fino a quarant’anni fa, anche fino a trent’anni fa, all’avvento del khomeinismo, pur all’ombra del terrorismo palestinese, contro Israele, il Libano, la Giordania, era un mondo a parte. Alla ricerca di una collocazione tra Ovest e Est, tra capitalismo e comunismo, ma dominato da valori desueti, tutti di buon gusto. La cerimoniosità, l’omaggio alla bellezza e all’intelligenza, delle persone e della parola, il culto dell’ospite. In tutto il Maghreb, inclusa la insocievole Algeria, al Cairo, in tutto il Libano e a Damasco, in Iran, e massimamente tra i Palestinesi. Ahmed Shamlù, ultimo grande poeta persiano, riempiva gli stadi e si diffondeva in long-playing. Umm Khaltum al Cairo, Feiruz a Beirut cantavano per ore, per un pubblico estasiato, seppure di soli uomini, canzoni d’amore. Le donne a Teheran, Isfahan, Shiraz risentivano come una violenza la promiscuità imposta dallo scià in segno di modernizzazione – la stretta di mano, la conversazione obbligata con gli uomini.

Poteri forti – Ritornano costantemente nella pubblicistica ad adombrare un classismo mascherato e subdolo. E a spiegare il malfunzionamento della democrazia, prospettando la paranoia del complotto. Ma ci dev’essere dell’altro.
Carl Schmitt, il maggior filosofo politico del Novecento, li spiega nel “Leviatano”, il suo studio di Hobbes, connaturati allo Stato, al regime costituzionale (pp. 116-117): “Il pensiero hobbesiano è riuscito a farsi valere, assai efficacemente ma per così dire in via apocrifa, nello Stato «di leggi» positivistico del’Ottocento. Gli antichi avversari, i poteri «indiretti» della Chiesa e delle organizzazioni degli interessi, si sono ripresentati in questo secolo (il Novecento, n.d.r.) sotto la forma moderna di partiti politici, sindacati, gruppi sociali, in una parola come «forse sociali». Strada facendo, si sono impadroniti del potere legislativo e dello Stato «di leggi», scavalcando il Parlamento”.
Potere “indiretto” va inteso nel senso che J.Burckhardt gli dava, un potere che agisce “per mezzo di autorità secolari che (ha) precedentemente maltrattato e umiliato”. L’esito è noto – nelle parole di Schmitt: “Così, grazie al’irresponsabilità di un dominio soltanto indiretto – ma non per questo meno intenso – si ottengono tutti i vantaggi del potere politico e se ne evitano i rischi”. Il liberalismo è diventato il cache-sex di “potenze supremamente illiberali”. Con effetti mefitici sull’opinione pubblica: “Questo tipico metodo indiretto à deux mains permise ai poteri indiretti di presentare la propria azione come qualcosa di diverso dalla politica, cioè come religione, cultura, economia o come una faccenda privata, e tuttavia di sfruttare a proprio tornaconto tutti i vantaggi della statualità”.
Non rimane nulla, in effetti.

Si può dire di questi regimi che sono democrazie per procura. Ancorché costituzionali, ma di un parlamentarismo esangue (parolaio, inutile, asservito alle lobbies).

Sinistra-Destra – Nel 1936 Mussolini fece chiudere “L’Universale”, periodico di Berto Ricci, fascista della prima ora e al momento volontario in Etiopia. Concedendo un ultimo numero, nel quale promuovere, “se guerra ci dev’essere”, l’alleanza di Russia, Germania e Italia “contro le potenze capitaliste”.

Tra i libri che Romano Bilenchi, giovane fascista passato al Pci, passa da leggere e Leone Traverso nelle estati solitaria a Firenze durante la guerra ci sono, insieme con John Reed, Lenin, Trockij e la Krupskaja, tutto von Salomon: “I cadetti”, “La città”, “I proscritti” e “Il Memoriale”.

astolfo@antiit.eu

domenica 13 maggio 2012

Ombre - 130

“L’Italia non è la Grecia”, è il leitmotiv di questo governo, di Monti, Terzi, Passera, Fornero, e ora del prefetto Cancellieri. Che non si sa cosa intenda dire – non c’è terrorismo in Grecia. Ma, alti burocrati e professori, nessuno ha insegnato a queste persone la buona educazione? O è la sindrome lombarda?

La politica interessa solo a tre italiani su cento, comunica Mannheimer. È per questo che tg e giornali ce la impongono? Per punizione.

O non sarà la disaffezione dalla politica la stessa che allontana dai giornali? Vanno in parallelo – mentre i politici gigioneggiano impuniti. L’opinione pubblica non è attaccare il mulo dove dice il padrone, sia pure politicamente corretto – chi non lo è?

Alla solita cadenza mensile il “Corriere della sera” intervista per una pagina Giuseppe Pisanu. Non altrimenti noto che per avere fatto il ministro di Berlusconi, di cui ora si professa nemico. Che ogni volta dice prossimo il Grande Centro, che non c’è. Che non sia un mago?

Schaüble, il ministro più europeista del governo Merkel, prossimo presidente dell’Eurogruppo, capo della Csu bavarese, del partito cioè da sempre di maggioranza del Land che è diventato il più ricco della Germania grazie all’Europa, all’unione economica col Lombardo-Veneto, dice che senza la Grecia l’euro non soffrirebbe. Invita cioè ad affondare la Grecia. E a continuare su queste basi la speculazione contro la Spagna. Non per cattiveria, evidentemente.

Schaüble sa che ciò che dice non è vero, la Grecia fuori dall’euro crea molti problemi. O non lo sa?

Intervistando Roland Berger, che è il suo vicepresidente, il “Corriere della sera” lo dice ripetutamente consulente della Fiat. A riprova di verginità? Veterotestamentaria, se tra tutti i suoi padroni il giornale rifiuta solo la Fiat - che non ha alcun potere da alcuni decenni.

Travaglio intitola “BerlusMonti” la sua ultima ponderosa fatica. Per vendere ci vuole dunque sempre lui, Berlusconi. Delle cui tante colpe non sarà la più piccola l’avere alimentato questo filone editoriale che affossa le librerie – non entra più nessuno.

Il “Corriere della sera-Roma” fa due pagine contro il sindaco Alemanno e la privatizzazione dell’Acea. Con larghe foto dei critici. Il sindaco è raffigurato in una fotina con questa didascalia: “Alemanno discute con il suo ex portavoce Simone Turbolente davanti al Gran Teatro. Di che cosa parlano? Mistero”. Giornalismo?

Elsa Fornero risponde al sito del “Corriere della sera” e subito si difende sulla riforma delle pensioni, che doveva essere la vera liberalizzazione del lavoro e non lo è stata:
http://www.antiit.com/2012/05/le-pensioni-fornero-una-truffa-legale.html
Abbiamo aumentato i contributi degli autonomi di dieci punti, dice, e questo assicurerà loro una vera pensione. Senza riguardo alle gestioni separate e ai fondi pensione che “garantiscono” pensioni irrisorie. Né alle “spese” di queste gestioni, che possono prendersi fino al 75 per cento dei contributi. Senza pudore.

Sui “costi umani della crisi” deve riflettere “chi ha portato l’economia in questo stato”. Triplice lezione di Monti, al suo convegno “Riforme e crescita”, in dieci parole: 1)non me ne frega niente, 2)altri tagli e altre tasse arriveranno, 3)c’è chi ha “portato” l’economia allo sbando e gli imprenditori al suicidio. Questa di “portare” l’economia è una novità totale nella scienza del ramo.

Il maggiore gruppo editoriale, quello del “Corriere della sera”, che non riesce a trovare un amministratore delegato è una novità assoluta. I manager presentiti hanno rifiutato. L’informazione è infetta?

Litigano i soci Rcs sulla gestione del gruppo. Non sulla redditività, che pure non c’è e dovrebbe essere materia perlomeno di discussione, ma su chi conta e chi no. L’informazione è potere. Solo potere.

Tripudiano “la Domenica Sportiva” e Sky per lo scudetto alla Juventus. Per una sera trascurano il leguleismo per parlare di atletismo. Tanta era stata la paura per gli ascolti e gli abbonamenti in picchiata. Ma non ci riescono: devono sempre dire che, per una volta, il leguleismo va messo da parte. Lo “spirito della giustizia” è così morboso?

Giuliano Ferrara festeggia su Rai Uno (“”è odioso ma godo”) la sconfitta d Sarkozy. Perché aveva pubblicamente irriso all’Italia, al governo italiano, in duetto con Angela Merkel. Fa vedere il duo che ride, nel mezzo della tempesta monetaria, ed effettivamente fanno impressione, Stanlio e Olio, non solo fisicamente. Com’è possibile che l’Europa abbia governanti del genere? E li elogi, perlomeno in Italia.

Il fisco non è uno sceriffo

Il fisco che si presenta come sceriffo è causa di tutto: del terrorismo, della disaffezione fiscale e anche, nella sua larga parte, dell’evasione. Tra i teorici e i fiscalisti più forse che nell’opinione corrente, la turbolenza che monta contro il fisco è imputata a un’errata gestione del fisco stesso.
Le tasse non si pagano spontaneamente. Sono un balzello, ingiuste o giuste che siano. Vanno calcolate e regolate. Una scienza delle Finanze è maturata a questo scopo nei secoli, col pedigree più robusto fra tutte le scienze dell’economia. Se le tasse non si pagano è che questa scienza è incapace o corrotta. Il fisco (ministero, agenzia, esattoria) tutto questo lo sa, ci è cresciuto dentro, l’ha metabolizzato. Se si presenta come sceriffo è perché vuole essere cattiva scienza delle Finanze.
L’imposizione immobiliare che Monti ha adottato, vaga e insieme punitiva, viene addebitata al presidente del consiglio, che pure è un economista, come la lettura che uno scolaretto abbia fatto di un articolo di giornale, uno solo. Come se fosse l’unico italiano che non sappia che un terzo delle seconde case, e forse la metà, sono case di emigrati – fonti di spesa semmai e non di reddito, se si facesse l’investimento minimo per la manutenzione. Che gravare l’agricoltura e il patrimonio boschivo di una patrimoniale è suicida. Che non si può raddoppiare all’improvviso una tassa, si rischia il collasso: le tasse vanno modulate. Generale è poi l’irrisione verso il contrasto all’evasione fiscale affidato ai blitz, quando “tutto si sa”, basta voler far pagare le tasse.

Schmitt novello Hobbes, dello Stato vuoto

Un’anticipazione, questa di Carl Schmitt nel 1938, della lettura finalmente corretta del “Leviatano”, e di Hobbes – autore, diceva Diderot, “da legge e commentare per tutta la vita”. Ancora valida, soprattutto per la leggibilità, benché tradotta dopo 72 anni. Un saggio inteso “a salvaguardare l’interpretazione del «Leviatano» da attualizzazioni mitiche e a difendere Hobbes da precipitose criminalizzazioni”. Tutto ribadito in termini semplici in una nota successiva al saggio, del 1965. Hobbes non è “un apologeta dell’assolutismo”. Con lui “irrompe sulla scena la chiara antitesi statuale al monopolio decisionale della chiesa cattolica”. È “il padre spirituale del moderno positivismo giuridico”, e “il pioniere dello Stato di «leggi» liberale”. Autore e sistematizzatore del “principio «nullum crimen, nulla poena, sine lege», essenziale per il diritto penale liberale”. Nonché fondatore della dottrina “che pone l’individuo e la sua libertà in un rapporto costitutivo con la proprietà”, cioè in un rapporto “che, solo, rende possibile in generale una moderna società borghese di mercato”. Senza responsabilità - titolo di merito per Schmitt – nella secolarizzazione o scristianizzazione del mondo intervenuta nel Seicento. Con un tributo ripetuto a Ferdinand Tönnies che qualche anno prima, nel 1926, aveva riportato Hobbes a verità. E una bibliografia ampia (che il curatore Galli riproduce), fino ai suoi contemporanei, Alessandro Passerin d’Entrèves incluso.
Sullo Stato, sulla guerra giusta, sull’opinione pubblica, o distinzione tra pubblico e privato (fides e confessio), e sui poteri forti che ci angustiano, il secondo contributo del libro (una rilettura dell’ultima bibliografia hobbesiana), Schmitt propone verità infine (cinquant’anni fa…) fattuali. Ma con lo stesso piglio affronta Hobbes. “Per Hobbes Dio è soprattutto potenza (potestas)”. Ma per uno scopo preciso, per evitare che “il luogotenente di Dio sulla terra”, il sovrano, divenga soggetto al “divino”, alla religione, che era all’origine della guerra civile, inglese e europea, cui Hobbes cerca un rimedio: “Il sovrano non è il defensor pacis, di una pace riconducibile a Dio; è il creator pacis, creatore di una pace esclusivamente terrena”. Un dio macchina, in termini moderni: “Lo Stato che sorse e si affermò in Europa nel Seicento è in effetti un’opera umana ben distinta da tutti i precedenti modelli di unità politica. Lo si può persino riguardare come il primo prodotto dell’epoca della tecnica, il primo moderno meccanismo in grande stile”. Lontano dall’Atlantide di Bacone, come dall’ottimismo rivoluzionario del Sette-Ottocento, da Condorcet a Marx, che ne pronosticava la cancellazione per superfluità in una società di giusti e quasi immortali. Con conseguenze evidenti: “La meccanizzazione dell’idea di Stato ha fatto sì che giungesse a compimento la meccanizzazione dell’immagine antropologica dell’uomo”.
Una lettura suggestiva e perfino facile nella traduzione di Carlo Galli, esegeta riconosciuto di Schmitt. Ma dopo un’irta introduzione dello stesso Galli, nella lingua e nei concetti. Irritata forse, per il “nazismo” di Schmitt nel 1933, che però non c’entra nulla col suo Hobbes: “Dunque per lo Schmitt cattolico reazionario, in epoca nazista, le derive liberali e tecnico-burocratiche della modernità non sono weberianamente l’esito del razionalismo occidentale nelle sue varianti soggettivistico-protestante e statalistico-oggettiva, ma di un cristianesimo ebraicizzante (cioè cattolico)”. Che non c’è in questo saggio – né in altro Schmitt. Qui c’è la punzecchiatura anti-ebraica, ma accademica e legata al nicodemismo, alla riserva mentale, nel cruciale passaggio tra fides (privata) e confessio (pubblica) che molta cabala e alcuni autori vorrebbero estesa alla cristianità nel suo insieme, la perniciosa separazione tra diritto e morale come un sottrarsi ipocrita. Una critica estesa peraltro alla chiesa e alla Riforma – Schmitt è anche l’unico studioso, con Hobbes e Rousseau, che, nei quattro e ora cinque secoli dalla Riforma ne tiene conto. Mentre c’è una lettura di Hobbes che nel 1938 in Germania non poteva non essere letta come un atto di “resistenza interiore”, non solo nello Schmitt del dopoguerra, che Galli vuole opportunista. Non è l’ennesimo scritto di Schmitt contro “le detestate potenze indirette dei gesuiti, dei massoni, delle sinagoghe, dei salotti letterari”, come Galli vorrebbe. Ma se fosse dov’è lo scandalo? Contro le “potenze indirette” Schmitt ha anzi, nel secondo scritto del volume, nel 1965, una pagina che da sola rende conto di tutto l’inviluppo recente dello Stato, in Italia tra gruppi di potere (i “poteri forti”) e gruppi eversivi, e altrove: dell’incapacità-inefficienza dello Stato macchina, svuotato dalla ragnatela di “potenze indirette”. È vero che Schmitt, novello Hobbes di questa nuova “comunione di lupi”, avrebbe bisogno di un suo Schmitt.
Carl Schmitt, Il Leviatano, il Mulino, pp. 182 € 18