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sabato 6 luglio 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (175)

Giuseppe Leuzzi

Autobio
Antonio ha appena aperto il rifugio in montagna. Per arrotondare fa quello che il Parco non fa, una giornata di svago didattica per i ragazzi delle medie. Ha montato un affascinante “percorso” di slides, e un percorso naturalistico semplice, breve, per i giorni di bel tempo. Chiede un fee modestissimo per ragazzo, per evitare esclusioni, di famiglie che non possono pagare. Ma i ragazzi “avevano ognuno il suo telefonino appeso davanti”. Era il 2001.
Per portare su i ragazzi era stato deciso che le famiglie se ne sarebbero occupate. C’è stato un intasamento: ogni famiglia ha portato il suo, ed è venuta a riprenderselo.

Dei compagni alle elementari, una trentina abbondante, solo cinque sono rimasti al paese, e due delle quattro ragazze. La classe è il 1941, rimpolpata di qualche ripetente o ritardatario. Dei nutriti collaterali per parte paterna, quarantinque primi cugini, più quattordici zii, solo nove sono rimasti in paese, compresi i genitori, nove su cinquantacinque.
Questo è un bene e un male: l’emigrazione rappresenta una cesura. Dai racconti di chi è stato a trovare i fratelli, le sorelle, i cugini, negli Stati Uniti, in Australia, in Canada, non emergono mai novità adattate al proprio ordinario, alla propria vita di ogni giorno. Benché tra gli emigrati le storie di successo abbondino. Almeno tre imprese edili di primaria importanza sono state create da compaesani emigrati in Hamilton, Ontario, Canada, dove si contano più di un centinaio di famiglie del paese. Portate al successo dagli stessi emigrati, prima e meglio che dai loro figli. Ottime posizioni, nell’edilizia e nella lavorazione del maiale (prosciutti, insaccati), anche a Perth, Australia, dove un’altra colonia si è creata di dimensioni analoghe. E a Melbourne, la metropoli australiana, dove il circolo dei compaesani organizza periodiche feste con oltre cinquecento convitati di qualità. Lo stesso gli emigrati: nessuno ritorna. C’è la memoria, c’è magari il vanto delle origini, ma la visita è sempre breve, spaziata, ogni dieci anni o più, e alla fine spazientita. Alfredo Strano, che in Australia è diventato scrittore bilingue, e caso di studio all’università, si è trovato a un occasionale ritorno più spaesato di prima.

Il giovane D.F. viene per un consiglio, dovendo scegliere l’università. Viene con la mamma. La quale è stata mandata dalla zia.
M.F. farà poi tutto il contrario di quanto detto.
La mamma si trasferirà con lui in città tutto il tempo degli studi.

Dalla zappa, che piegava in due, siamo passati all’indolenza. Che c’era ma era borghese, da figlio di mamma - le mamme più di oggi erano determinanti. Del secondo o terzogenito maschio avviato agli studi per non dividere la proprietà, avvocati o medici che non avendo concluso gli studi passavano il resto della vita tra i cento passi al circolo, per le chiacchiere prima di pranzo e di cena, e lunghe dormite. Accuditi talvolta da sorelle nubili altrettanto risentite, e tuttavia restie ad affrontare una vita propria di fatiche, tra figli, case e marito. Ora è il sogno dei molti, c’è il “bamboccione” anche qui. Il notabile con l’unghia lunga del mignolo, falso laureato, vero nullafacente, è sostituito dalla rotondità dell’adolescente eterno. Entro l’albagia dei diritti cui il sottogoverno confina i più – la politica del posto, la pensione o il sussidio, a carico dei pochi che lavorano. Rotondo anche nell’epa, nell’attesa dell’impiego cui si sa incapace – è il vitellone due generazioni dopo, o tre: è questo il ritardo. Tra quelli che restano, e non fanno i pendolari. Che non sono più i pochi, segnati a dito. Anche per questo quelli che se ne vanno non sanno tornare, troppa indolenza: incertezza, superficialità, approssimazione.

Alla fatica e alla strafottenza è subentrato diffuso l’oblomovismo: lamentarsi di tutto, estranei e anzi renitenti all’azione. La reattività c’è sempre dominante, istantanea, violenta. La collera breve, che può essere assassina tanto è incontrollata. Ma non la prestazione costante, progettuale, applicata. C’è se essa risponde al “colpo di genio”, l’agnizione di un destino in un momento di astri favorevoli, di ritmi ascendenti, di ciclotimia. Ma anche in questi casi più spesso l’applicazione è breve: l’entusiasmo non è mai stato il nostro forte, piuttosto il senso critico. Si direbbe una civiltà femminile, magno greca? locrese?, non fosse di uomini robusti e pelosi. Ma indecisi, ecco.

Calabria
Vittorio Sgarbi è e stato deputato per una legislatura in una circoscrizione in provincia di Reggio Calabria. Tanto è bastato per ridisegnare alcuni paesi, partendo dalla pavimentazione stradale e dal colore delle case, Gerace, Serra San Bruno, Mileto, Ardore. Che hanno trovato una nuova identità e la mantengono.

I paesi della periferia nord di Reggio Calabria, Archi, Catona, Gallico, Campo Calabro, erano agrumeti profumati di specialità apprezzate, quale l’ovale calabrese, succoso e fresco a giugno. Ora i giardini sono di riporto, di costruzioni interminate, polverose, sporche.
Erano anche il solo luogo in Europa dove maturava la frutta tropicale. Qualche albero ancora resiste di chirimoya, un frutto che, importato dal Perù, si vende a cinque euro l’unità.

Dopo la conquista araba della Sicilia, alla fine del nono secolo, lellenismo trova rifugio in Calabria, “per lo più tra le montagne” – “Calabria bizantina, p. 104.

“Mille Calabrie” trovava l’abate scrittore Vincenzo Padula, tornando alla sua Cosenza e alle vicinanze, prima e dopo l’unità, ma più nei tre anni in cui pubblicò “Il Bruzio”, il suo giornale. Era preciso l’abate, che Carlo Muscetta ha riscoperto e pubblicato nel 1950, “Persone di Calabria”, aveva indagato su clima, storia, feste, costumi, lingua, prima di concludere che “ogni città è nazione”, un piccolo mondo che era – è - “un vero mosaico, un abito di Arlecchino.

La malinconia, anzi la “melanconia”, Lombroso vi elesse a tratto caratteriale distintivo. Questo il suo calabrese “tipo”: “La statura è media, il temperamento bilioso; L’animo fiero, iracondo, testardo, impavido, desideroso di dominio, fino alla prepotenza, amante della lotta, dei piaceri, ma pieno d’intelligenza, di vita, e di un senso estetico delicatissimo che si rivela nei proverbi e nelle canzoni dell’antica Grecia”.

Ma non era tenero, il misuratore di crani umanitario: “I Calabresi di temperamento bilioso, come sono i più, vanno soggetti alle emorroidi, all’itterizia, alle epatiti, ai calcoli biliari e alle ostruzioni viscerali, che finiscono poi con gli edemi e con le idropi”.

La storia del Museo
“Sono calabresi quelli che hanno distrutto rovine greche e romane a Reggio, fra cui la fontana monumentale lunga cento metri e alta sei sul lungomare, e chiese bizantine e tempietti greci fatti saltare con la dinamite per farci una passeggiata sopra la ferrovia. Dei bronzi di Riace, per cui Reggio sembrò pronta alla rivolta,da cui partì per i suoi sogni di rinascenza turistica e commerciale, non si occupa più nessuno. Nel Museo hanno assunto come custodi e guide degli analfabeti che rispondono alle domande con grugniti. Non sanno niente di ciò che custodiscono, come se fosse un capriccio del Municipio conservare quei cocci di terracotta e quei marmi spezzati”, Giorgio Bocca, “Aspra Calabria” – in “Inferno”, 1992..
Bocca dice che i “custodi” leggevano la “Gazzetta dello sport” e guardavano il cielo. Questo non è vero: soprattutto fumavano, e schiacciavano le cicche sugli angoli delle scale e dei corridoi, perché il sovrintendente gli aveva proibito di fumare nelle sale – le poche aperte. “Le apriamo a turno”, dicevano, “non c’è abbastanza personale”. E, ridendo: “Se volete vederle tutte dovreste venire il 25 aprile, perché la operativa vattelapesca fa volontariato”.
Oggi? Il museo è del tutto chiuso, da quattro anni, e ai “custodi” piace meglio così: ricevono lo stipendio a casa.

Bocca ha anche un sovrintendente che per tredici anni, per non dare un riconoscimento al suo predecessore, faceva vedere sole le tavolette fittili di Locri. A cui succedette un sovrintendente che chiuse invece il piano di Locri, e riaprì gli altri piani, ma con le vetrine sporche, e senza l’aria condizionata. Il piano di Locri, che aveva l’aria condizionata, il nuovo sovrintendente adibì a Centro Esposizione, per i suoi amici pittori della domenica.

leuzzi@antiit.eu

Divorati dai rifiuti

Sono i rifiuti urbani il segno (il simbolo?) della modernità, la “monnezza”. In Italia e non solo, in tutte le capitali del mondo. Ai margini di una condizione urbana oberata dagli intasamenti, le esalazioni, i vapori putridi, senza respiro a volte, e sempre senza tempo. Il solito marziano di questo avrebbe da riferire: con o senza il riscaldamento della terra o il buco nell’ozono, la quotidianità sulla Terra è respirare a fatica, digerire veleni, smaltire calorie, e sopravvivere al frastuono.
Non è una novità. E non lo è abbastanza. “Stiamo divorando il pianeta?”, si chiede Borriello. Lo chiede a una serie di esperti, gli economisti Rifkin, Bianchi e Paganetto, l’ambientalista Pratesi, vari manager e giornalisti specializzati. Facendo anche il punto sullo stato di (non) attuazione degli impegni internazionali alla preservazione. La risposta è ovvia. Condensabile nella semplice estrapolazione dell’andamento demografico: nel 2050 saremo nove miliardi, e consumeremo il 40 per cento della fotosintesi, sa scapito delle altre specie.
Edoardo Borriello, Il pianeta divorato, Tower Books, pp. 118 € 10

venerdì 5 luglio 2013

Ombre - 182

Renzi è tutti noi. Ma: chiude il Maggio, forse pure il Comunale, si fa prostituzione a Palazzo Vecchio, l’integrativo per i dipendenti comunali è illegale e i dipendenti devono restituire i soldi, e lui non c’è, non sa, non se ne occupa. O il sindaco d Firenze è un altro?

Napolitano, il primo capo dello Stato “comunista”, che impone al Parlamento l’acquisto del supercaccia Usa, chi l’avrebbe mai detto?

Riina testimone d’accusa dello Stato-mafia, anche questo, è un incubo?
La mafia sconfitta il giudice riporta
In festa alla testa dello Stato.

Quella rossa di Marino va all’asta, quella blu di Alfano viene rubata – e ritrovata. Sembra un copione vecchio, di ladri di biciclette, e lo è.

Va Letta a Parigi, a Bruxelles, a Gerusalemme, e si chiama primo ministro. Mentre è solo un presidente del consiglio. Non sa la costituzione? Crede alla favola della Seconda Repubblica, pure lui?

Alonso deve correre contro la sua Ferrari. È il miglior pilota del mondo ma da quattro anni non vince (quasi) nulla, da quando è alla Ferrari. Progettata, messa a punto e organizzata da Montezemolo, quello che si vuole salvatore dell’Italia – “ah, se l’Italia mi avesse votato”. Gliene combinano sempre una, a Montezemolo. Però lo pagano.

Può Alonso, il miglior pilota del mondo, perdere un campionato di F 1 quando, dopo dodici gare, e a sette dal termine, aveva 39 punti di vantaggio? Lo ha fatto. La Ferrari ce lo ha costretto. Di Montezemolo che si propone salvatore della patria – con l’emulo Monti, è vero. Lo stesso di sopra.

La “madonnina della sinistra”, così dice Maria Teresa Meli su “Io Donna” che Laura Boldrini viene chiamata alla Camera. In effetti una certa sinistra ama “vedere la Madonna”. La vide perfino in Irene Pivetti – che ci prese gusto, e invece che di cuoi borchiati si rivestì di veli, con le manine giunte e il collo torto.

Corrispondenza (quasi) inverosimile di Paolo Lepri sulle accuse di Grass ad Angela Merkel, di “aver guastato in breve tempo i rapporti con tutti i paesi vicini”. Il lettore ha prima cinque colonne di messa in guardia contro lo scrittore (si dice pure che è stato nazista):

http://archiviostorico.corriere.it/2013/giugno/28/Grass_prende_mira_Merkel_Opportunista_co_0_20130628_3ed42990-dfba-11e2-b251-5f21c984fc54.shtml

Si può capire che Lepri e il suo giornale siano per Merkel. Ma perché?

Superbonus per Lotito: in due settimane i suoi calciatori in Brasile hanno raddoppiato di valore, Candreva, Onadi, Gonzales. Anche quelli che non giocano, Hermanes, Marchetti. E in più la Juventus gli deve dare l’incasso maggiore della Supercoppa, e giocarsela all’Olimpico, in casa della Lazio. Dopo aver regalato l’anno scorso alla stessa Lazio la Coppa Italia. Lotito è un uomo fortunato, oppure ha investito anche nella Juventus?
Monica Leofreddi è vittima da anni di uno stalker. Ha dovuto cambiare casa tre volte. E non se l’è inventato: l’uomo è noto, e non nega. Ma resta libero, liberissimo d’insistere: la Procura di Roma cestina inesorabile le denunce. Eppure la presentatrice non è l’ultima arrivata a Roma. Non è della stessa corrente del Procuratore della Repubblica? O non sarà berlusconiana? Basta un sospetto, a volte.

La mattina “Repubblica” scrive che alcuni contratti di derivati del Tesoro potrebbero essere più gravosi del previsto. Il pomeriggio il Procuratore Pignatone apre un’inchiesta. È così che si amministra la giustizia. I mercati? La Ue? La serietà?

Le tre bacchettone in parrucca
Il filo tessendo della mediocrità
Che sempre è astiosa
La moralità ricompongono
Ambrosiana, in banca e in borsa.

La sinistra disfattista

Bocche spalancate a sinistra per l’uscita di Laura Boldrini contro la Fiat. Cos’ha ottenuto la presidente della Camera: più macchine, più lavoro, più occupazione? Ha solo fatto un favore alla Volkswagen, e forse neppure lo sa. Ha anche fatto un favore alle fabbriche fuori dell’Italia, in Polonia e in Brasile, dove la Fiat è libera di spostare la produzione, e questo probabilmente lo sa ma non gliene frega. Un abisso fra Boldrini e la socialdemocrazia tedesca, il laburismo britannico. Del resto, si dice, non a caso è una ex democristiana.
Non è però un fatto isolato – non è l’estremismo opportunista di chi non era di sinistra e si deve meritare il posto. La barbutissima Consulta, nominata da Ciampi e Napolitano, ha dichiarato incostituzionale una legge sulle rappresentanze sindacali, ma ha comunicato la delibera come se fosse il rigetto della Fiat. Luciano Gallino argomenta questa “ripulsa” criticando l’automazione delle fabbriche – sic! Attribuisce a Marchionne la colpa della crisi di produzione in Italia – sic! E plaude alla vera socialista Boldrini, lontana dalla “polverosa strada bassa delle relazioni industriali” seguita “in Francia e in Germania anche da governi sedicenti socialisti o socialdemocratici” – sic! Lo fa da “Repubblica”, il giornale di De Benedetti, uno che il più a sinistra che è riuscito a spingersi, essendo la destra occupata d Berlusconi, è Prodi-ora-Renzi.

Sembra Harmony, ma Irène si riscatta

Il racconto del titolo sembra una parodia del racconto d’evasione: “Era una bella notte calda” segna l’inizio. Segue: “Era una serata di fine stagione, al termine delle vacanze”. E comincia con: “«Qui muoiono», disse Colette, «gli amori della stagione»”. Il secondo titolo, “Giorno d’estate”, si apre così: “Certe unioni sembrano risvegliare nell’anima un dolore sordo, come il basto ferisce il fianco delle bestie appaiate”. Fotoromanzo? Harmony? Nelly? No, è qui il fascino ritrovato di una narratrice reputata d’appendice che il postumo “Suite francese” ha condotto a riconsiderare: riscattare la banalità.
L’alter ego Sylvie, che fantastica un’evasione, il padre-marito che vuole andarsene di casa, e poi, “L’inizio e la fine”, l’uomo in carriera che scopre l’inizio nella fine, sono una perenne autodifesa – del nomade, del perseguitato, del rifiutato. Irène Némirovsly racconta in vari modi con più costanza la storia del rifiuto della madre. Della madre propria, donna capricciosa – in “Suite francese” sarà il rifiuto della madre acquisita Francia.
Irène Némirovsky, Un amore in pericolo, Elliot, pp. 90 € 9

giovedì 4 luglio 2013

Grillo petabyte

“Tutto quello che è, è un blip statistico – una sequenza unica che, essendo dissimile da ogni altra sequenza nel database, deve rappresentare una nuova specie”. Meglio definisce la nuova specie dei grillini “La fine della teoria”, il saggio ormai classico, cinque anni fa, di Chris Anderson direttore di Wired. Sul mondo all’era del petabyte, la nuvola di Google. Le sue due paginette sono meglio delle sei di Casaleggio sul “Corriere della sera” in forma d’intervista. Come “ogni pagina è uguale a se stessa” nel mondo di Google, così è il grillino. È un mondo “effervescente” ma “di statistiche dimensionalmente agnostiche”. Senza possibilità di essere altrimenti – del resto, chi si ricorda il senso delle cinque stelle?
Nella cronologia di Anderson, Grillo è “la nuvola fuori da ogni modello organizzabile”, il petabyte appunto. Obama, subito prima, cinque anni fa, è il terabyte: lì, per quanto in gran numero, le pagine si leggevano e si contavano. Anderson dice che la cosa è stata “modellizzata” (teorizzata) da Peter Norvig, direttore della ricerca a Google: “Tutti i modelli sono sbagliati, sempre più avrete successo senza di loro”. Sembra il “modello” (teoria) del grillismo. Grillo si pone nell’età dell’informale, che da tempo spazia nella geometria e la fisica, ben prima che nell’informazione. “Pace a ogni teoria di condotta umana”, come sintetizza Anderson, “dalla linguistica alla sociologia. Dimenticate la tassonomia, l’ontologia e la psicologia. Chi sa perché la gente fa quello che fa?”. È Grillo.
Ci sono delle ragioni (scuse) per questo. “La ragione per cui la fisica s’è imbarcata nelle ultime decadi (la fase «bella storia» di una disciplina affamata di dati)”, spiegava Anderson, “in speculazioni teoretiche di grandi modelli unificati n-dimensionali è che non sappiamo come condurre gli esperimenti che dovrebbero falsificare le ipotesi – le energie sono tropo elevate, gli acceleratori troppo costosi, e così via”. Analogamente, bisogna pensare la politica troppo complicata per le persone semplici.
Il petabyte, PB, è un multiplo dell’unità d’informazione digitale – byte. Peta è la quinta potenza di 1000, o 10 alla 15ma potenza, un biliardo di bytes. Però non morde, questa si può dire l’unica differenza dal grillismo.

Il Sud piange classico

A Calimera, oggi, “la melagrana si chiama sita come la giovinetta Side, che per sottrarsi alle voglie del padre si uccise sulla tomba della madre”, generando col sangue versato i chicchi scarlatti del frutto. Questi canti sono popolari, nei motivi (lamenti, nenie) e probabilmente nella melopea e nella dizione, ma di intonazione elevata: filosofica, mitica. Classica. Sia in morte che in vita degli amati, giacché sono tutti canti d’amore. Non si poetavano in antico le sorti dell’individuo, né si bestemmiava, Dio o la natura. E questi sono canti moderni antichi. Di persistenze: la comunità grecizzante del Salento è ridotta – lo era vent’anni fa, quando Brizio Montinari pubblicava la raccolta (di repertori Il Sud piange classico
Sono testi registrati vent’anni prima): appena sette comuni: meno della metà che cinquant’anni prima, un decimo rispetto a duecent’anni prima, e usava comunemente il gricò meno della metà della popolazione dei sette comuni, ventimila persone.
A vent’anni dalla prima edizione della raccolta, si può osservare che il gricò è ora stabilizzato, grazie ai fondi europei a protezione del bilinguismo. Come il grecanico dell’area di Reggio Calabria. Con effetti, va aggiunto, divergenti. Nel Salento si indirizza al recupero della poesia e della musica, la metrica. Nel Reggino della religione, l’ortodossia.
Nella semopre vivace introduzione Brizio Montinari dà conto delle due letture di queste persistenze: quella che la collega al dominio bizantino, a cavaliere del Mille, e quella, più persuasiva per ragioni fonetiche e sintattiche, che la fa risalire alla Magna Grecia. Leggendo questa raccolta la seconda ascendenza s’impone anche per le fonti della poesia: il canzoniere si apre con un “Moira, Moira, che cosa ti ho fatto….”. Senza “interferenze cristiano-cattoliche e mai comunque in riferimento al mondo sotterraneo”. Il contorno è contemporaneo: chiese, preti, messe, padrenostri, il “visito”, le condoglianze. Il “trattamento” invece è classico. Anche nei canti di morti, prevalenti nella raccolta, opera di préfiche in maggioranza, lamentatrici professionali. Con una significativa divergenza rispetto alle due parti della raccolta che invece sono di canti popolari romanzi, in dialetto latino, dal 29 al 44, e dal XV al XXVII, questi moderni, dallo Stilnovo e Petrarca in qua.
Sono classici i ruoli: il lamento è femminile, il canto d’amore maschile. La figura delle prefica si è estinta nel generale degrado di tutto ciò che è meridionale, ma era di grande dignità: cantava la morte improvvisando ma su modelli e modalità stabiliti dalla tradizione. In antico, prima che la funzione fosse trasmessa alla donna, in quanto depositaria come cultrice della memoria domestica, i canti funebri li intonavano gli aedi. Classica è anche la morte come trapasso, verso l’altra vita. Classica la simbologia, identica: mela, mela cotogna e melagrana sono la “più segreta carne di donna”, l’aidoion. Il morto è compianto, ma soprattutto allontanato: del morto si ha soprattutto paura: e le pratiche e le préfiche erano intese a “facilitare l’allontanamento del morto” e a “prevenire il ritorno del morto”. Si fanno molti inviti al pianto, c’è anzi un dovere di piangere, già Omero vuole “saziarsi di piangere”, ma per scongiuro. La terra è ancora madre – in epoca bizantina sarà tomba: “Ohimè, ragazza mia,\ ohimè – devo dire -\ che fuoco hai addosso! Quale acqua mai te lo spegnerà!\ - Non me lo spegne il mare\ e neanche il fiume salato;\ me lo spegne questa mia madre”. L’oltretomba è ancora ellenico: “È uno specchio forte, dal punto di vista fisico, del mondo terreno. Pieno di monti, fiumi, sorgenti, boschi, giardini. Tra i suoi abitanti vi sono relazioni del tutto simili a quelle della vita di ogni giorno”.
Brizio Montinaro, a cura di, Canti di pianto e d’amore dell’antico Salento, Bompiani, pp. 221 € 7,50

mercoledì 3 luglio 2013

Apprendistato da Angela Merkel

Anche per la disoccupazione giovanile il modello è tedesco: il tirocinio pratico, o apprendistato, affiancato alla scuola: “Siamo ora nella posizione di poter offrire un posto in un programma duale di formazione”, studio-lavoro, “a ogni giovane che lo vuole”. Alla vigilia della sua conferenza a Berlino sull’occupazione dei giovani, Angela Merkel ha dettato ieri il suo programma ai maggiori giornali europei riuniti: “Noi in Germania abbiamo imparato molto riducendo con successo la disoccupazione per mezzo di riforme strutturali dopo la riunificazione e possiamo ora portare questa esperienza a modello”.
Il sistema tedesco del’occupazione è difficilmente modellizzabile. È avvenuto in Germania dopo un decennio di fortissima disoccupazione, seguita alla riunificazione. I sindacati hanno ceduto su tutti i fronti: paghe orarie ridotte, per orari di lavoro ridotti, e un forte declassamento delle professionalità, dalla laurea in giù. La percentuale dei low wage earners, dei lavoratori a retribuzione più bassa della mediana, è in Germania la più alta fra i grandi paesi europei: il 22,2 per cento, contro il 12,1 in Italia e il 6,1 in Francia. Una percentuale che sale al 38 per cento per i contratti e tempo e per i ventenni. E supera il 50 per cento per i lavoratori con titolo di studio. È sempre alta, ma ridotta al 18 per cento, per il lavoratori di cui dice Angela Merkel, del sistema duale scuola-lavoro, delle scuole professionali e dell’apprendistato. Nel sistema scolastico tradizionale, non da ora, in Germania dopo l’obbligo, ai quattordici anni, la scelta si fa definitiva tra una scuola tecnico-professionale e il corso di studi liceale che aprirà l’università. 
“Non dovremmo solo tentare di rendere i nostri giovani più accademici”, può però dire Angela Merkel. Che tesse l’elogio dell’apprendistato e dell’artigianato: “La Germania sta beneficiando degli effetti positivi del lavoro specializzato e dell’artigianato, che godono di eccellente reputazione”. Non è vero, l’opinione tedesca non è qui con la cancelliera, ma è vero il fatto, il lavoro manuale si amplia invece di ridursi.
Con l’apprendistato, la Germania fa l’agenda, Angela Merkel la detta e la muove. Spiegandola in anticipo, per affermare la sua premiership, in interviste di cui controlla le virgole – nonché le traduzioni in ogni altra lingua. Può farlo. Più che la ricetta, s’impone il metodo e la capacità di governo. In Italia l’apprendistato, abolito quarant’anni fa con lo Statuto dei lavoratori, è rimasto osteggiato, la formazione professionale nei lavori manuali, come un abuso sui minori.

Letture - 142

letterautore

Autofinzione - È tribunalizia. L’autore la pratica nel senso che è in guerra con qualcuno-qualcosa, e se ne approfitta per regolare i conti senza contrasto o contraddittorio.
È una narrativa per questo cumulativa - ripetitiva, ossessiva - e senza chiaroscuri. Quasi un’oratoria.
Anche il punto di vista è quello dell’oratore sul palco che incontestato – più eloquente naturalmente – soliloqueggia. Arringando un pubblico preventivamente favorevole, per un qualche motivo,  contro i suoi nemici-fantasmi. Alla tribuna politica, di giustizia, letteraria, ora che usano le letture in pubblico e i festival.

Nicholas Blake – È lo pseudonimo, per una serie fortunata di romanzi gialli che tuttora si ristampano, del poeta laureato inglese – il poeta della regina - Cecil Day-Lewis. Di cui non si ricorda altro. O no: è padre dell’attore Daniel Day-Lewis.

Caratterista – Una chiave del successo di Montalbano è l’uso dei caratteristi. Di cui nel cinema nazionale si è perduta la funzione: attori-maschere di un solo personaggio, o meglio interamente calati nel personaggio, quasi senza nome, comunque senza glamour. La commedia all’italiana deve loro molto, Fellini ne faceva largo uso. Zingaretti è felice, anche contro la verosimiglianza del momento, quando ha di fronte il caratterista, che più spesso nei gialli di Camilleri è donna: involontariamente sorride, fa finalmente teatro e non reality.

Kafka – Comico? È la tesi di Kundera. Del resto l’aneddotica vuole che la lettura del “Processo” agli amici Kafka la facesse ridendo, e facendo ridere gli amici. Kafka satirico è una lettura congrua. Più rispondente comunque di quella messianica di Max Bord, da ebraista neofita.

Lettura – In “Quattro chiacchiere sul romanzo”, che poi sono un saggio, “A gossip on romance”, con cui intervenne nel 1880 nel dibattito sul romanzo tra Henry James e Walter Besant, Stevenson ha un attacco fulminante sul senso della letture: “Se qualcosa si può chiamare col nome di lettura, dev’essere un’operazione assorbente e voluttuosa; dovremmo godere su un libro, esserne innocentemente rapiti fuori da noi stessi, ed emergere dallo scrutinio con lo spirito pieno della più affollata, caleidoscopica danza di immagini, incapaci di dormire o di un pensiero concluso. Le parole, se il libro è eloquente, dovrebbero scorrere da allora nelle nostre orecchie con il fragore dei flutti, e la storia, se è una storia, rifrangersi in un migliaio d’immagini colorate all’occhio”.

Manzoni – Manca nella sua anamnesi la sicura derivazione delle turbe psicologiche costanti dal peccato. Dal senso del peccato, poiché lui non ne commise e sempre fu virtuoso. E dal peccato allora e per lui, milanese più di ogni altro, sempre e soltanto sessuale – il romanzo è centrato sul sesso.
Le sue turbe nervose vengono ricondotte e risolte nell’agorafobia. A motivo della loro prima manifestazione, a piazza della Concorde a Parigi il 2 aprile 1810 nelle feste per la nozze di Napoleone in casa d’Austria. Sottacendo il fondo irrisolto della sua sessualità, padre di tanti figli poco amati, marito di donne che lo veneravano per il genio, figlio di una “dissoluta”, per i costumi dell’epoca e la fama, e tanto più a Parigi, teatro delle prime turbe, e di un padre incerto.
Lui stesso, per quanto immaginabilmente (comprensibilmente) rimuovesse, aveva dei dubbi: “Vedo molto bene che l’immaginazione ha un grosso ruolo nei miei timori, ma questo nemico non basta conoscerlo per averlo vinto”.

Romanticismo – Più spesso è sentimentalismo. La differenza non si fa per derivazione del sassone. Che si vuole “più” preciso ma in questo caso non lo è.

Scrittura – È quella delle scuola di scritture. Senza profumo, senza fumo. Ordinata e grigia, come il vestito da ufficio. Da due generazioni ormai. La tecnica lo è. La lingua. Perfino le tematiche, il genere grand hotel internazionale – non più sull’abisso. Le scuole promuovono molti scrittori. Ma si editano solo autori delle scuole di scrittura.
Si lamenta in Italia l’assenza dell’agente letterario, ma la scuola di scrittura, benché costosa e esclusiva, ne è efficiente surrogato: si editano un gran numero di opere prime, e anche seconde.
La scuola di scrittura opera anche da comunità di lettura. Con estensione alla categoria (le scuole di scrittura tutte insieme), e in funzione di supporto (presentazioni, recensioni).

Sherlock Holmes - “Romanzesco, interessante conandoliano” si voleva C.E.Gadda, proprio lui (intr. a “Novella Seconda”): “Non nel senso istrionico, ma con fare intimo e logico”.

Storia – “Non abbiamo un solo libro sull’azione del Kgb in Italia”, lamenta Piero Craveri sul “Sole 24 Ore” l’altra domenica, “mentre per altri paesi europei e della Nato interi scaffali”. Per l’Italia dove il Kgb fu il più attivo, con Secchia e i suoi epigoni, specie a Praga, con Moretti e le sue Br, e con vagonate di pellami, oro, dollari e skorpion. Le fonti non difettano. C’è un censore? Occulto?

Tantissime storie si ordiscono di complotti, ma nessuna del Kgb.

leterautore@antiit.eu

Joyce respinto dall’Italia

Non fu un “respingimento”, del resto non c’erano scafisti, ma una saracinesca sì. Joyce scrisse molto in italiano. E per cinque anni, dal 1907 al 1912, esclusivamente in italiano. Eccetto il saggio su Dickens, che però è il tema d’abilitazione all’insegnamento dell’inglese nelle scuole secondarie italiane. Ma con fastidio dell’Italia: già nel 1911 .il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione gli aveva impedito, scrive, di “trasferirsi nel Paese la cui lingua usa ogni giorno, avendola scelta deliberatamente come madrelingua per i suoi figli Giorgio e Lucia”, quella dell’amato Denti Alligator, come scrisse nella domanda per un posto di supplente.
Una lettura malinconica. Gli scontri di Joyce con la burocrazia per un modesto posto d’insegnante fanno ridere ma per essere deprimenti. Conoscendo le lettere italianissime, qui non comprese, ai figli, triestini di nascita e di prima lingua, agli Svevo, e a Linati, la tristezza si moltiplica. Si capisce che l’anno dopo, nel 1913, Pound lo salvasse dalla disperazione, cioè dall’Italia.
Giorgio Melchiori, che ha curato trentacinque anni fa questa raccolta, con Jacqueline Risset e Gianfranco Contini, ha anche un Joyce romano – le aveva tentate proprio tutte. Qui ci sono gli scritti italiani compresi nella raccolta Oxford, di “Occasional, critical, and political writing”. Parte di essi per un progetto di libro, da intitolare “L’Irlanda alla sbarra”. Più “Anna Livia Plurabella”, i passi di “Finnegans Wake” riscritti da Joyce in italiano, con le lettere di accompagnamento a Stanislao, Settanni e Nino Frank – al quale scrive già in francese.
Il solito Joyce imprevedibile. Umorista. I “dotti tedeschi” scoprono tutto, anche Shakespeare. I danesi e i norvegesi sono in Irlanda, nei tre secoli prima degli inglesi, “gli stranieri neri e bianchi”. Eurista. “Il rinascimento, per dirla in poche parole, ha messo il giornalista nella cattedra del monaco”. Seminale. “Shakespeare e Lope de Vega sono responsabili, fino a un certo punto, del cinematografo”. Anticipatore. “Siamo avidi di dettagli… Il giornalista volgare è più grande del teologo”. In due delle lettere a Frank c’è la storia della “Moglie del Sardo”, un romanzo di cui Joyce ha sentito da Larbaud, che poi sarebbe “La moglie del Sordo”, e invece non esiste – quasi uno scherzo ai futuri filologi: il joyciano principe Ellmann lo attribuirà a Grazia Deledda.
James Joyce, Scritti italiani

martedì 2 luglio 2013

Il teste

Riina testimone daccusa contro lo Stato?
Bisogna restaurare la vergogna.

La tempesta perfetta

Una tempesta molto artificiosa. E molto tedesca, cioè brutale, scoperta. Non c’è scandalo nello spionaggio Usa. Non in quello che due spie dicono. Ma sì nella reazione tedesca. Sproporzionata, concertata, aggressiva. Indirizzata verso i partner europei prima che contro gli Usa. Alla Farnesina e a palazzo Chigi non hanno dubbi. La stessa reazione di Napolitano, “bisogna vederci chiaro”, ne sarebbe espressione: non bisogna sottovalutare la reazione tedesca, bisogna disinnescarla.
La manovra è stata montata fuori del vertice europeo di Zagabria. E questo ha fatto drizzare le antenne. Il giorno dopo era il tema dominante. A opera del cristiano democratico Elmar Bork, presidente della Commissione Esteri a Strasburgo, e del presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, socialdemocratico, sempre da Strasburgo, entrambi sopra le righe e all’unisono. Ai quali si univa il presidente della Commissione europea Barroso, detto “il lacchè”. Con la cancelleria sullo sfondo, che non si “pronunciava” ma faceva sapere. Pochi dubbi che la manovra non fosse concertata. Spazzati via dalla mobilitazione del partito tedesco in Italia: Monti e il “Corriere della sera” – è questo il senso che si dà all’inopinata messa in mora di Monti al governo.
L’effetto, non si dubita, è di mettere in stallo il negoziato per il libero scambio, altrimenti irrifiutabile. E di indebolire l’asse tra la Bce e la Federal Reserve, che nei diciotto mesi di Draghi hanno agito di conserva – una nuova linea di attacco al Draghi e al suo quantitative easing. Cristianodemocratici e socialisti che imputano agli Usa una guerra fredda all’Europa sa di falso telegramma di Ems. Un falso scopo, un pretesto, l’obiettivo essendo di tenere gli Usa politicamente fuori dell’Europa.

L’Europa, un sogno tra i tonni

Il primo viaggio all’estero del papa è dunque a Lampedusa, tra gli africani che ogni giorno vi muoiono, nel mare, senza nome. Giovani e giovanissimi. Fuori bordo e entrobordo, per la furia del mare o per la sete. O perché è finita la benzina. Aggrappati alle gabbie per i tonni. La miseria più raccapricciante di questo pur marcio Duemila, sembra teatro, un teatro dell’assurdo.
Ci voleva un papa migrante per saperlo. O di fuorivia, questa Europa non sa più di che si tratta. Ci voleva un papa, nello sciapo laicismo dell’Europa germanica, nella scristianizzazione. Forse non per fare, le potenze del male sono radicate. In Europa, in quella del Sud e in quella del Nord, non nei mercanti di carbone umana, che al più sono scafisti di nessun peso e altrimenti non esisterebbero. Ma almeno per aprire gli occhi per un giorno.

Il povero caro

Litigano le vedove da Maria Laura Rodotà – anche altrove, ma di preferenza su “Sette” (sarà un’altra fisima ambrosiana?). Sulla reversibile del caro estinto. Se debba essere suddivisa pro quota tra le mogli in proporzione alla parte di ognuna nella vita coniugale del defunto. Oppure se l’ultima non debba essere privilegiata, dato che l’ha assistito nella malattia, la demenza e, si fa capire, l’impotenza, mentre la prima o le prime se lo sono goduto. Campanile, senza Campanile.
Il dibattito alimentano queste ultime, le vedove ultime. Con gli istituti di previdenza alla finestra ghignanti. Aspettandosi che, chissà, il governo non abolisca le reversibili. Per risparmiare, oggi tutto si fa coi tagli. O per una equità verso le donne che non aspettano la reversibile.

Gadda muore piangendo Manzoni – la giovinezza

Gli viene da piangere sui “Promessi sposi”. Arbasino ha raccontato la stessa cosa nell’“L’ingegnere in blu”: a Gadda in ospedale i “giovani” leggevano Manzoni e lui “ascoltava attento, sdraiato, immobile. Ma aveva uno sguardo spaventato”. Era un ritorno all’adolescenza, a Milano tradita? Gli ultimi mesi di Gadda furono atroci. Qui, tre note spalmate su tre mesi, è solo, trattato dalla badante come un rimbambito, al buio perché “tanto non legge”, imbelvito a volte, la sopportazione non bastando.
Alla soglia degli ottant’anni l’ultima testimone della morte del suo “scrittore assoluto”, ne ricorda i momenti finali. Per l’amicizia di cui l’Ingegnere l’aveva colmata, dopo un’intervista per la Rai nel 1972, “una consuetudine naturale e quasi familiare, che mi emozionava e onorava”. Il ricordo è affettuoso, il diario triste. Una dozzina di paginette in tutto (il resto è preso da una nota di Andrea Casòli), ma valgono come una biografia. C’è la morte di Gadda, non diversa dalle altre morti, ma c’è una non necessaria brutale agonia.
I memorialisti del Gadda privato ne fanno una macchietta, cerimonioso, imbranato. Bizzarro anche nelle ultime ore. Qui non è dispettoso, semmai giustamente in collera, e non è ipocrita: ha bisogno a volte della “signora Ripa di Meana” e la chiama al telefono, le chiede il favore di venire e trovarlo, di leggergli qualcosa.
Ludovica Ripa di Meana, La morte di Gadda, Nottetempo, pp. 30 € 3

Secondi pensieri - 145

zeulig

Amore - È femminilizzato. Eva Illouz, “Consuming the Romantic Utopia”, ne faceva un campionario già quindici anni fa, sull’uso esteso di una semantica rovesciata: tutti termini e modi femminili per vivere e descrivere l’amore, tesoro, caro, carino, intimo, calmo, confortevole, dolce, o lieve. Un “arsenale” romantico (ma più sentimentale) che porrebbe la relazione, e l’uomo nella relazione, nella sfera sentimentale femminile.
Ma forse l’amore ora è semplicemente domesticizzato. Nel’epoca in cui la famiglia (la relazione stabile) viene invece dismessa, si può aggiungere: l’amore, quindi, si femminilizza nel senso che si assottiglia, evapora. Ma in linea con l’ordine ora dominante dell’economia domestica feminilizzata. Una volta lo era nel silenzio patriarcale. Ora nel cinguettio femminile. 

Autorità – Da distinguere dall’autocrazia – si può dirne l’opposto. Dall’esercizio cioè del potere,  che inevitabilmente è duro, monocratico.

Condizione umana – È gratuita – fuori dalla Germania, certo. La morte è certamente l’esito della nascita, ma la nascita imponderabile e impagabile.

Corpo – Il Duemila ha fatto sparire l’uomo. Di cui si era tentata la femminilizzazione, nella pubblicità, nella moda: luci soft, colorazioni lievi, languori, onirismi, morbidezza, depilazione totale. Ora viene ingrigito e coperto, dal pelo e dai tatuaggi. Mentre il corpo femminile dominante si fa muscolare: nel balletto, al cinema, nella pubblicità la figura diafana e morbida cede ai volumi, alla plasticità, del gesto, delle masse, e al performativo (sportivo, acrobatico, scientifico). Nel gesto, nell’illuminazione, nel taglio prospettico.

Dio – Per la Bibbia è un confusionario. Subito, al Genesi” 11, 1-9: preoccupato e invidioso del linguaggio comune tra gli uomini. Fu per questo che fece della città e della torre che dovevano celebrare l’unità il luogo che sarà chiamato babel, confusione.
Dio invidioso è un problema. È un peccato capitale. Ma non si può far finta di nulla.

Economia – Era del buon padre di famiglia, da Leon Battista Alberti ai suoi referenti classici. Oggi di direbbe della buona madre.

Ineguaglianza  - È la passione dell’epoca – c’è una “passione dell’uguaglianza”, ce n’è una dell’ineguaglianza. Non dichiarata ma esibita: nel commercio, nelle leggi,nell’opinione, e anche nella filosofia. Partendo semplicemente dall’Altro, e il Diverso.

Internet – Ci fa tutti Bovary. Perduti tra il principio di prestazione (produttività) e la rêverie sentimentale. Il tutto squadernato  (contemporaneo, accessibile, appianato), nell’età che si vuole della pubblicità, è una scena morbosa, di guardoni e guardati. In cui il voler essere si scioglie nell’esistere, l’infinita possibilità del tutto, anche gli affetti e gli affari, che allenta ogni tensione, e quindi ogni sviluppo. Semplicemente occupa il tempo, che intanto è passato. “Un chiasso straordinario” lo dice Butor. Ma non indifferente. Più che formare o informare, occupa e svuota – lascia stanchi, cioè inerti. È come se Sherlock Holmes accumulasse dati e lì li lasciasse.
Una “scienza” non assiomatica, certo, ma nemmeno deduttiva – né ermeneutica, narrativa, poetica. Rappresentativa di se stessa. Un’“arte” non costruttiva.

Logica – Si vuole illogica. Non c’è un sentiero diretto nel pensiero, da a, economico. Il filo si svolge contorto e dispersivo. Massimamente nelle questioni di logica, ghiommeri praticamente inestricabili.

Peccato - Torna col sesso la concezione autoritaria, del peccato come trasgressione al potere. Senza l’offesa (violenza, prevaricazione) che è la condizione del crimine legale. Il crimine è qui la libertà del soggetto di fronte all’autorità, sia pure negli interstizi – l’autocrazia si vuole invasiva, totalitaria. La trasgressione all’ordine del potere, del divieto integrale come manifestazione del potere. L’ordine in sé e per sé, senza giustificativo e non risarcitivo (riparatorio), tipico delle sacrestie (puritanesimo, controriforma), e dei totalitarismi.
Una concezione non costante nella storia. Nello stesso giudeo cristianesimo. Anche ultimamente in Italia, nel contrasto, all’interno della chiesa, tra la concezione più largamente politica della vita privata e sociale del cardinale Ruini e quella confessionale, chiusa, della chiesa ambrosiana, dei cardinali Martini e Tettamanzi. Ma una concezione totalizzante: non c’è scarto laico, in questa materia, rispetto al magistero confessionale.

Tempo – “Il tempo è scaduto” è un errore logico e forse una frase fatta, il tempo non scade mai. Ma non si può volere una cosa e il suo contrario: il sole e la tempesta, la compagnia e la solitudine, l’io e l’amore, la morte e la vita. Non insieme, non per indecisione. Il tempo non sopporta i rinvii, non si ferma. Ha pazienza limitata. E forse è impositivo. Correzionale, una sorta di guardia carceraria, ma non senza ragione.
Lo stesso l’ambiente: le cose e le persone circostanti. Pazienti e disponibili quanto si vuole, rispettosi di una decisione che può essere solo propria, personale. Ma una decisione.

Uguaglianza - Resta celebre in Francia, per non essere celebrato e anzi dimenticato, lo storico Furet.  Che ha ristabilito, dopo due secoli, la verità della Rivoluzione francese. E più in generale la verità delle rivoluzioni. Da vecchio comunista essendo andato a fondo della parola e della questione. Sulla riscoperta, anche, di Tocqueville in appoggio a Marx. Analizzando l’egualitarismo, nazionalismo compreso, o “passione dell’uguaglianza”, di cui ha scoperto il fondo passionale più che economico, e per questo estremista, violento. E finendo per (o tornando a ) legare la democrazia indissolubilmente al capitalismo – in singolare parallelo in entrambe le evoluzioni, una generazione prima, con Luciano Canfora.

zeulig@antiit.eu 

lunedì 1 luglio 2013

Mani Pulite era contro la democrazia

Oggi l’onesto Di Pietro si rilancia sul “Corriere della sera”, dieci anni fa era “Le Monde”.
“Di Pietro sproloquia, su un “Le Monde” eccessivamente compiacente, di quando tolse “il coperchio alla democrazia”. Non alla corruzione, alla democrazia. Dice da sé, in prima persona, quello che si sapeva: che Mani Pulite è una deriva anti-democratica. Bisognerà cercare dunque il Piano di Rinascita di Di Pietro, dopo quello di Gelli.
«Le Monde» ha letteralmente ripescato Di Pietro dal nulla. E questo dimostra un’altra cosa che si sapeva di Mani Pulite: che ha avuto osservatori molto interessati al suo successo, francesi e tedeschi più che americani. E anche qualche suggeritore:  gente che sapeva chi aveva avuto accesso a certe tangenti – certe speciali tangenti e non altre, non tutte. In che misura esattamente. E dove le nascondeva. Ma qui con prudenza: qualche potentato politico che non ne era parte della combine, qualche banca o banchiere “svizzero” per tenersi il malloppo. Abbiamo anche avuto un Di Pietro stile Madison Avenue, padrone della comunicazione, che rubava il palcoscenico al suo capo Borrelli e a ogni altra personalità, compreso il vittorioso Prodi del 1996 – a quarantott’ore dalle elezioni i titoli erano per Di Pietro e non per Prodi, che aveva fato la campagna elettorale e l’aveva vinta: Di Pietro pretendeva di diventare ministro (e lo diventò, per meriti propri?)
Tanto eccelso, l’uomo ci ha messo poco a scomparire nel nulla. Conta meno di Buttiglione. Anche come pareri. Nessuno a”Repubblica”, il giornale dei suoi “grandi amici” (così si definiva Corrado Passera al telefono con Di Pietro, anche per conto del suo patron di allora, l’editore svizzero Carlo De Benedetti), penserebbe oggi di chiedere a Di Pietro cosa ne pensi, nemmeno in un riquadro.
«Le Monde» ne segnerà la rinascita. Magari con un suo partito? La scommessa non sembra difficile”.

Il santo contemplativo nell’azione

La smilza “Autobiografia di sant’Ignazio di Loyola”, non agiografica e a lungo proscritta dall’ordine, è solo noiosa: resoconti di transumanze, i “pellegrinaggi” appunto. Ma si ristampa ininterrottamente nella vecchia edizione di Roberto Calasso. Da ultimo forse per papa Francesco, anch’egli come Ignazio “contemplativo nell’azione”.
Il racconto del Pellegrino, Adelphi, pp. 108 € 16

domenica 30 giugno 2013

Problemi di base - 146

spock

Laico laido?

Serial serio?

Barbuti, tatuati, scalpati, e grigi, per non piacere?

Non converrebbe alle donne tenersi gli uomini, magari sorridenti, simpatici, sicuri?

Perché non s’incontra mai una targa rumena, polacca, moldava, bulgara, su una macchina italiana? Piccola o grande che sia.

L’Italia non spende il 60 per cento dei fondi europei, dice il ministro per gli affari europei Moavero. A chi lo dice?

Si conosce per imparare, o bisogna imparare per conoscere?

spock@antiit.eu

La trilogia italiana nella tebaide ambrosiana

C’è tutto quello che ci vuole, in questo primo pezzo della “nuova” trilogia sessuale. In più è nazionale. Ha Venezia come sfondo. E un prezzo onesto, giusto per la carta, la colla, il distributore. Ha pure colori vivaci, attorno al melograno, invece che bigi. Gli ingredienti sono giusti insomma. Lui è cuoco gourmet, più in di così – il secondo pezzo s’intitola “Io ti sento”, il terzo sarà “Io ti gusto?” Irene non è pseudonima. I riempitivi non sono tediosi, non sempre. È pure conciliante, senza brutalità, masochismi, sadismi: di un maestro che insegna il piacere. Ma arranca in classifica - dietro l’“altra” trilogia, per colmo, seppure vecchia di un anno.
Non decolla nemmeno nella sociologia della letteratura settimanalistica. Ci sarà un motivo. Il sesso dev’essere allogeno, di fuorivia? Succedeva all’Est, che in Polonia le donne erano ungheresi, e in Ungheria rumene. Ma allora sarebbe un caso di persistenza sovietica, del socialismo reale. O il marketing Rizzoli è inferiore a quello Mondadori? Ma dovremmo dare ragione sempre a Berlusconi. Eco non ci illumina, D’Orrico nemmeno, che pure fanno parte della stessa squadra. L’autrice-tentatrice è giovane e appetente, ma non sarà caduta nella tebaide? Tutti monaci, castrati, in questa Italia dopo Monti ambrosiana? La trilogia veramente nuova non dovrà essere delle beghine?
Irene Cao, Io ti guardo, Rizzoli, pp. 351 € 5