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sabato 13 marzo 2010

Il Kulturkampf pedofilo

Non ci sono preti pedofili in Italia? Purtroppo sì. E in Francia? O in Spagna, che è socialista e molto laica, certo non tenera con i preti? Ma non c’è in questi paesi una maggioranza protestante, come in Germania, Gran Bretagna e negli Usa – e in Irlanda e Austria, che sono propaggini culturali. Non ci sono i soldi, le organizzazioni, i giornali ancora in guerra coi papisti o coi gesuiti, come qualche secolo fa, riproducendo in tutto, negli argomenti e nel tono degli argomenti, il Kulturkampf con cui la Prussia piegò dopo il 1866 la Germania appena conquistata, la guerra culturale. Né ci sono, come è il caso negli Usa, un paese dove anche la giustizia è business, gli avvocati a percentuale, che propongono cause gratis pagandosi a percentuale del dividendo: personaggi senza scrupoli, sempre ai confini del ricatto, specializzati nella sanità e nell'infortunistica, dove ci sono di mezzo ricche assicurazioni, per i quali sono un filone d'oro i fondi che la chiesa ha disposto a risarcimento degli abusati.
Il direttore della sala stampa vaticana dice che i casi dei preti sono una piccola parte della pedofilia, e questo non dice bene: anche un solo caso fa scandalo, l’orgoglio del moralismo non va lasciato ai riformati. Ma è vero che l’indignazione è solo pregiudizio, e scandalismo.
Si riproduce in questo caso specifico ciò che avviene in grande. Che in questo mondo globale, senza più guerre ideologiche né di potenza (non di potenza dichiarata), si torna alle guerre di religione. Improvvisate, sudaticce, disgustose, ma sanguinarie. Contro i cristiani ovunque in Asia e in Africa, è caccia libera per islamici e indù, benché già da alcuni secoli i cristiani non ammazzino più gli infedeli. E all’interno della cristianità è caccia al cattolico, meglio se prete.

Pasolini si documentava con gli spioni

È sconfortante sapere che Pasolini si documentava su robaccia tipo “Questo è Cefis”, di un Corrado Ragozzino, in arte Giorgio Steimetz, un informatore. Anche se il presunto “capitolo Dell’Utri” di “Petrolio” non esistesse. Fa cascare le braccia che uno che voleva scrivere il Romanzo del Secolo dialogasse con simili testimoni. Ancora più sconforta che nessuno dei tanti letterati che seguono la vicenda del capitolo mancante se ne meravigli. L’Eni c’è già, e anche Cefis, nel romanzo qual è stato pubblicato. Con essi lo scrittore è superficialmente negativo, e ora si capisce perché.
Non c’è contenuto in “Questo è Cefis”, solo minacce di contenuti: allusioni, deduzioni, anatemi. L’agenzia Milano Informazioni che “Questo è Cefis” ha editato, spiega Carla Benedetti pubblicando il libro nel suo sito ilprimoamore.com, non ha fatto una tiratura né una distribuzione, ha solo messo in circolazione qualche copia, per condizionare Cefis. Non si dice ricattare per non incorrere in qualche avente causa, ma il senso è quello. Era la prassi allora in gran numero di queste “agenzie” di stampa, alcune delle quali mandavano note in esclusiva agli abbonati, mentre altre ciclostilavano un bollettino, settimanale o bi-trisettimanale, ma sempre per gli abbonati, in circolazione riservata, esclusiva eccetera, e gli abbonati erano i politici più potenti e gli enti economici. Senza che mai nessuno, tra i politici e i manager cui queste veline si indirizzavano, le prendesse mai sul serio. Né nessun giornalista, per quanto portato allo scandalo e al pettegolezzo – Cefis ha avuto ben altri critici, Scalfari, Turani.
Era un piccolo business sicuro. Che “La gioia del giorno”, il primo volume del romanzo del Secolo di Astolfo, rappresenta proliferante a Milano, specie nelle “guerre chimiche”, nella scalata dell’Eni a Montedison, e nella “chimica dei pareri di conformità”, con comitati di piccoli azionisti, avvocaticchi, deleghe alle assemblee, e informative dei servizi segreti, ovviamente sempre “deviati”. Una disinformacija di cui “Non c’è anarchico felice”, il secondo volet del ciclo, di recente pubblicazione (Lampi di Stampa, pp. 676, € 21), reca in più punti traccia, riferendosi a “una ditta Lupo-Pecottini” (quest’ultimo per molti aspetti un calco del seriosissimo Pecorelli, morto poi assassinato, che con i servizi segreti gestiva l’agenzia “O.P.”):
“È la potenza della campagna «Mancini lader», che va ora in autonomia. Il signor Pontedera, personaggio d’autore, è sparito. Lettere anonime affluiscono, affluirebbero, pare, in Procura, dettagliate seppure non documentate, su carta intestata dell’Anas, Lupo ne aveva fotocopia già prima del blocco della collaborazione: l’onorevole socialista ha fatto costruire, quand’era ministro, un’autostrada di quattrocento chilometri in quattro anni, uno scandalo, che il potere dei funzionari dell’Anas, basato sui ritardi, i rinvii, e le revisioni di prezzo, fa svanire…” (p.41)
“A Roma si costituirà il Partito Armato, all’assemblea di Potere Operaio, al Palazzo dei Congressi. Lupo è riapparso per profetizzarlo a Milano: Pesce, Piperno e Scalzone, che per questo ha lasciato Milano per Roma, metteranno in minoranza il moderato Negri e andranno in clandestinità, in attesa del golpe. L’assemblea sarà partecipata, attraverso un innominato sociologo, dal ministero, sempre secondo il famelico Lupo” (pp.127-128)
“Certo, il fatto c’è, c’entri o no la Cia, o il consigliere per la Sicurezza Nazionale dottor Kissinger, accreditato in simultanea da Lupo e dal suo amico Pecottini: i primi visti Usa mai concessi a comunisti italiani, anzi addirittura degli inviti, andranno ai due massimi responsabili militari del Pci (p.302)
“Arriva Lupo con un quadro della sorella, che autentica come Guercino, per il quale chiede esattamente 49 milioni”(p.600).
Le stesse note circolavano nei mattinali dei servizi segreti, a giudicare dalle veline che “L’Espresso” pubblicò nel 1972, o 1973. Che il presidente del consiglio Rumor avrebbe passato a Cefis, o Cefis avrebbe passato a Rumor, non si seppe. E venivano a loro volta utilizzate, a scopi per così dire dissuasivi, da politici e potentati. “Milano Informazioni” era gestita in realtà da Graziano Verzotto, un ex senatore di Palermo, uno dei veneti disinvolti che hanno fatto fortuna nella capitale siciliana, dove come si sa la mafia non c’è, plurinquisito per più magagne, che si è accreditata la fiducia di Mattei e De Mauro, dopo morti, ma che Mattei e Cefis tennero accuratamente lontano e anzi in sospetto.
Alla natura di queste note si rifà d’altra parte tutta la questione del capitolo mancante di “Petrolio”. Se ne parla infatti da un anno e mezzo, da quando il fotografo editore di Pavia Giovanni Giovanetti ha annunciato la ripubblicazione di “Questo è Cefis”. C’è stato poi un libro che ha ripreso la questione, allargandola a ogni possibile piega complottistica: “Profondo nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (ed. Chiarelettere). Che riprende "Il Petrolio delle stragi" di Gianni D'Elia, “inchiesta” pubblicata tre anni prima dallo stesso Giovanetti, e il dossier di Lucarelli e Borgna "Così morì Pasolini", pubblicato quattro anni prima da "Micromega". Una storia, insomma, che non finisce mai. Il 9 aprile ne ha parlato ampiamente Luigi Mascheroni sul “Giornale”, che forse Dell’Utri non legge – o legge.
“Forse Pasolini non è stato ucciso da un ragazzo di vita perché omosessuale, ma da sicari prezzolati dai poteri occulti in quanto oppositore a conoscenza di verità scottanti”, questo è, per intendersi, il pensiero di Giovanetti, che sempre ci promette “Questo è Cefis”. Giovannetti è peraltro di Pavia, la stessa città del procuratore Vincenzo Calia, che, non avendo forse niente da fare, si dedica da una ventina d’anni alla morte di Enrico Mattei. Tra carte di questo tipo: un appunto del Sismi secondo il quale la Loggia P2 è stata fondata da Cefis, che l’ha diretta fino a quando fu presidente della Montedison, e poi l’ha lasciata a Gelli… Che conferma quello che tutti sanno. Eccetto, purtroppo, Pasolini e i suoi esegeti.
La speranza è che “Petrolio”, che a parte la pornografia non è granché, ed è stato pubblicato incompleto postumo, fosse un romanzo accantonato da Pasolini, più che non finito - le allusioni dell’agenzia Milano Informazioni su l’Eni e Cefis non sono la parte peggiore del libro. Ma le tante redazioni letterarie, i critici, gli storici della letteratura e dell’editoria, che su “Questo è Cefis” si esercitano, quelli sono proprio sconfortanti. Anche se c’è il conforto di sapere che il paese è migliore dei suoi letterati, insomma un po’ serio, un pochino.

Le Note di servizio fanno paura ai Pd

Arrivati alle Note di servizio, i cattolici del partito Democratico hanno drizzato le orecchie, da Marini a Franceschini e Tonini – e, si dice, all’imperturbabile Prodi. Un po’ tutti, si dice, con l’eccezione della vispa Bindi.
Le Note di servizio sono gli sfoghi che ufficiali e sottufficiali dei carabinieri mettono per iscritto, in genere a carico dei non criminali, registrando opinioni, confidenze, invidie, e anche le calunnie, senza fonti né pezze d’appoggio, appena un “si dice”. Un genere piemontese, che opprime l’Italia unitaria da un secolo, e che di norma resta confinato alle caserme. In passato le Note di servizio si erano distinte in Sicilia contro noti galantuomini isolani, Giuseppe Alessi, Michele Pantaleoni, Giuseppe La Loggia – un ammasso d’infamie che emerse alle prime Commissioni d’inchiesta sulla mafia, e ne determinò la concorde obliterazione a ogni effetto pratico. Molte sono finite in passato sui giornali, in tutti i giornali si sa, ma sempre in forma anonima, come pegno dell'alleanza tra l'infornatore, ufficiale o sottufficiale, e il giornalista. Questa è la prima volta che si pubblicano dichiaratamente come Note di servizio, e questo ha fatto la differenza.
Vedere le Note di servizio dichiararsi sui giornali, a opera delle giornaliste di D’Alema, deve aver fatto accapponare la pelle ai molti, soprattutto agli ex Dc, se ora se ne dicono preoccupati. C’erano stati scambi allarmati già in precedenza, sullo straripamento dei giudici nelle elezioni, con le liste negate, le intercettazioni, le sentenze just-in-time. Giudici non noti, e quindi, si presumeva inizialmente, di cultura diversa, radicale, o alla Che Guevara. Ma le Note di servizio dei carabinieri ecologici, e poi Trani, hanno fatto sorgere il fantasma odiato di D’Alema.

Con D’Alema tornano i dossier

C’è un simul stabunt, simul cadent, un accordo non scritto tra Berlusconi e D’Alema sugli scandali? Sempre più numerosi e rumorosi, e sempre più ineffettuali? Nel partito di Casini tutti lo dicono, e anche alcuni tra i bianchi del Pd? Sono troppi gli scandali sollevati da D’Alema contro Berlusconi, si dice, di nessun effetto politico però, se non di riportare a galla lo stesso D’Alema: D’Addario, La Maddalena, Trani.
D’Alema, si aggiunge, che Berlusconi ha voluto al Copasir, cioè ai servizi segreti. Dopo avere rifiutato la mano tesa di Veltroni, che lo invitava a una reale pacificazione della politica, la cosiddetta normalità. Come se ci fosse un interesse comune tra i due, se non una intesa, a fronteggiarsi reciprocamente, ma allora in perdita per il partito Democratico e l'opposizione.
Anche il presidente Napolitano avrebbe preso le distanze da D’Alema, che pure fu il suo grande elettore al Quirinale. Ma più pesano i timori, non celati, dei cattolici. Che già avevano visto come fumo negli occhi la loro esclusione dalle candidature a presidente di Regione. Con l’imposizione a Roma di una radicale, e che radicale, e a Napoli di un bassoliniano. Solo in Calabria avevano avuto una candidatura, dove la partita era perduta. Se c’è preoccupazione non c’è però allarme tra i democratici anti-dalemiani. Che le elezioni si aspettano comunque perdute, col passaggio della Calabria al centro-destra, e quattro Regioni già di sinistra comunque in bilico, “malgrado i dossier e le radicalate”.
C’è di che alimentare l’inquietudine, del resto, nella pratica delle intercettazioni. Di cui si sa, i politici ne sono certi, che si fanno a tappeto, non incidentalmente. E vengono poi servite a questo o quel Procuratore. Anche se non appare chiaro chi tira i fili. Ma i Procuratori sono sempre “compagni”, questa è una certezza. Un’altra certezza è che Berlusconi ci guazza: si sa controllato, e tuttavia ci dà dentro. Attento a non dire o fare nulla di imputabile (raccomanda attrici a cui non viene data nemmeno una porticina, sparla di Santoro), giusto quanto basta a farne il mattatore di giornata. È una tattica? Non se ne vede la ratio, a meno che non sia un qualche segreto delle tecniche di comunicazione. Ma le intercettazioni a tappeto ci sono, e hanno già abbattuto Prodi - il secondo Prodi e forse anche il primo.
Con le ultime intercettazioni D’Alema avrebbe proiettato su Roma e da Roma l’apparato poliziesco-giornalistico che aveva rodato in Puglia contro Vendola. E questa è un'altra certezza. Dopo la riuscita liquidazione definitiva dieci mesi fa, dopo le elezioni amministrative, del ticket Veltroni-Franceschini. A Berlusconi, in questa vicenda da "Duellanti", la sfida tornerebbe comoda per mobilitare il suo voto, altrimenti minacciato dall’assentesimo, come sempre alle tornate amministrative tra i suoi non fanatizzati sostenitori.

Berlusconi e i giudici, come i due ubriachi

Chi si somiglia si piglia, dice un proverbio. È forse in questa saggezza l’apparente mistero del perché Berlusconi minaccia da quindici anni una riforma ai giudici e poi non la fa. Altre leggi sulla giustizia riesce a farle passare in una settimana, i record gli piacciono, mentre la riforma della giustizia, con la temutissima separazione delle carriere e un giudizio di merito del Csm sulle carriere stesse, questa non solo non la fa passare ma non la presenta mai e anzi non la fa nemmeno redigere. La minaccia, e poi la mette da parte.
La minaccia nei tempi morti. Quando nessuno degli incredibili giudici pugliesi e napoletani gli sta col fiato sul collo, cercando di azzannarlo, ecco che Berlusconi li aizza. Li chiama buffoni, comunisti, nullafacenti, tutto quello che gli passa per la testa. A D’Avossa e alle giudici del “Che” oppone leggi istantanee, una sorta di pernacchia parlamentare. All’alto consesso partenopeo della Consulta rinvia in fotocopia, cambiando solo il numero, le leggi che i marpioni sollecitamente cassano. Se la giustizia non meritasse rispetto si direbbe che Berlusconi e i suoi nemici in tribunale si tengono l’un l’altro, un po’ per le palle, un po’ come i due ubriachi che si accompagnano. È la gag dei fratelli De Rege, che Walter Chiari ha ripreso con Campanini, del saluto: “Vieni avanti, cretino!”, affettuoso benché rude.
La riforma sarebbe una cosa più che dovuta. Non c’è nessuno, a destra e a sinistra, che dubita che i giudici dovrebbero lavorare come ogni altro. Invece di avere comunque garantito lo stipendio di parlamentare - anche se commettono reati (è successo, e succede ancora, checché si dica, col “trascinamento”). Accelerando magari l’ambito traguardo con i salti a zigzag tra una carriera e l’altra. Ma Berlusconi, pur così attento alla popolarità, se ne guarda bene. È come se, risolvendo una volta per tutte la questione morale dei giudici, non avesse più nulla da dirci.

Epifani ruota di scorta, ma di che?

Uno “sciopero” senza motivazioni, e senza lavoratori, solo barbuti e tricoteuses, l’occupazione di cento città, con bandiere e slogan del Partito, a due settimane dal voto, non si era mai visto al tempo del Partito vero, il Pci, quando la Cgil era la “ruota di scorta”. C’era allora forse più intelligenza nel Partito. E sicuramente nella stessa Cgil. Il Partito sapeva come non arrivare sempre con l’acqua alla gola, a sbracciarsi tra i padroni dei giornali, furbi tessitori dell’antipolitica, e i robespierristi delle Procura oblomoviane di provincia, da Firenze a Trani.
Qui l'unica ragione plausibile del finto sciopero è una manifestazione nazionale del Pd, che non ci aveva pensato, e ha dovuto poi accodarsi a quella di Di Pietro oggi a Roma. Non è una ragione onorevole, essersi dovuti accodare a Di Pietro. Né lo è la ragione suppletiva, che tanto spreco dovrebbe servire la candidatura di Epifani al dopo Bersani, dopo le elezioni. Epifani ha dimenticato che lui è della Cgil, ma del ramo oggi defunto socialista? Che nel Pd è fumo negli occhi: non ci sono abbastanza posti per gli ex comunisti e gli ex democristiani, figurarsi per gli ex socialisti. Ma la ragione di fondo dello spreco è che il partito Democratico, nonché senza anima, è senza idee, e a questo punto senza una ragione d’essere. Ha espettorato qualunque sinistra che non fosse quella del compromesso, di osservanza berlingueriana stretta: comunisti, radicali, socialisti, verdi, socialità civile. E non sa che fare, a parte le candidature nelle vecchie roccaforti del Pci.
Che poi non sono più tanto rosse. Apparentemente lo sono sempre al 60 per cento. Ma questo perché Berlusconi e Bossi per ora non si presentano alla sfida, non seriamente: a ogni elezione, sia amministrativa che politica, non presentano che candidati scialbi, per i quali peraltro non s’impegnano a fare campagna. Dove poco polo le candidature sono state meno scialbe, a Parma, a Arezzo, i berlusconiani hanno vinto senza sforzo. Da un certo punto di vista, le cento città della Cgil potrebbero anche fare un evento emozionante, dal punto di vista della nostalgia.

giovedì 11 marzo 2010

Secondi pensieri (39)

zeulig

Amore - Giace nel loculo in cui lo ha intombato Madame de Lafayette, che ne aveva orrore: si muore d’amore nei suoi geometrici racconti. Mentre prima si moriva correttamente d’amore negato.
Ma è vero che c’è un amore mortuario.

Ce n’era di più quando ce n’era di meno. Pima non c’era la disponibilità, ma la scintilla reciproca scoccava di frequente, almeno nei testi. Ora che c’è la disponibilità perfino spasmodica nei settimanali femminili e nei mensili maschili, si moltiplicano i singles, nei testi e nelle statistiche.

È la ricerca della bellezza? L’estetica è passione amorosa, è della stessa natura. La bellezza prende e immette in ogni suo rapporto. Che sempre però è concluso: di coppia, parentale, fraterno, di gruppo. È anche la bellezza un ideale intimo? I canoni estetici in realtà sono personali, è vero – anche quelli classici, così determinati.
La bellezza è l’amore, amore divino, in Platone, che ne parla molto.

Bellezza - È un riconoscimento, anche non sappiamo di che. Il riconoscimento è il procedimento più rassicurante della narrazione: lo straniero che ci sta di fronte è l’essere dei nostri sogni più amati.

Si può dire la bellezza vera, anche quando è inquietante o sciocca: Elena, la vedova nera, Circe. È il meccanismo del divismo, la nostra mitografia: l’oggetto del divismo – è un oggetto, non un soggetto – spesso è sciocco ma sempre è affascinante, per la bellezza che irradia.
La verità è una dichiarazione di bellezza?

Canto - È l’arte più umana – più democratica – di tutte.

Cinema - È il linguaggio delle ombre e perciò deplorevole (E.Zolla, S.Weil)? Ma è anche il linguaggio della luce. Simone Weil lo assomiglia alla caverna di Platone, dentro la quale siamo incatenati a guardare le ombre: “Ciò mostra quanto amiamo la nostra degradazione”. Ma se le ombre sono un linguaggio è in virtù della luce: le ombre sono giochi di luce. La caverna di Platone è degradante in quanto vi siamo tenuti in ceppi, ma questo non avviene a opera delle ombre o della luce, è la “condizione umana”. La luce – l’ombra – è il linguaggio di Dio, da qui la sua forza.

Va in parallelo col reale sociale, mentalità, mode, tic, linguaggi. Ha rispondenza immediata e mobilità, mentre le altre espressioni d’arte sono persistenti, volendo interpretare la realtà invece che rifletterla, vanno per decenni e perfino per secoli – si dice il Seicento in pittura, il Novecento in letteratura, il cinema, è vero, ha solo un secolo, ma non va per decenni o altri segmenti “storici”. Perché ha la mobilità dell’industria, che altrimenti non sopravvive (chissà che ne avrebbe detto Marx, che l’industria così bene ha leto): il suo marketing, o incontro col gusto, dev’essere istantaneo. Determina anche in buona misura il gusto che rappresenta. Per essere l’espressione d’arte per eccellenza.
È in questa rispondenza la chiave dell’immagine come strumento propagandistico principe. L’arte porta a riflettere e solleva, l’immagine trascina. Nel cinema l’immagine e il dialogo vanno veloci, e l’effetto è di insieme – di struttura.
È forse un’arte agli inizi. L’inizo di una cultura di massa, per esempio, o di una Regolata Oggettività. Che viene dall’America. L’universo freddo e semplificato previsto da Lovecraft e Rice Burroughs. Quindi soggetta a sviluppi magari positivi, oltre che innovativi. Non esente però da manierismi. E da quella violenza totale che è il buonismo, il conformismo cioè e la stupidità dei buoni propositi – “Festen”, il film più trasgressivo, ne è il paradigma.

Creazione – Non può essere che continua – è nello stesso concetto di Dio.

Cuore – È l’organo dell’epoca: della poesia, la filosofia, la religione, la rivoluzione. Con la sua passione specifica, l’Amore. Come già nel Cinquecento, quando entrambi finirono nelle guerre sterminate di religione.

Intelligenza – Si apre con l’immaginazione. È la fantasia che guida il cocchio, lo fa procedere. Altrimenti è statica, né la natura le parla né i fatti.
Ma non c’è un’intelligenza immobile. L’assenza d’intelligenza è l’assenza di fantasia?

Morte – Fissa le cose per sempre. Per il bene e per il male. Ma dà loro uno spessore, seppure sempre nell’ambiguità tra vero e falso: un’amante morta, per esempio, è un’amante per sempre. L’eternità è un susseguirsi di baluginii informai. La vita è piena di senso in quanto è un susseguirsi di sparizioni e superamenti.

Nichilismo – È una reazione, che altro? A Hegel. Il mondo che esso nientifica è quello di Hegel, e poi dell’American Dream. Una cosa un po’ troppo semplice, e del genere soprammobile, i nanetti in giardino.

Ozio – L’inattività, anche programmata (l’impassibilità o atarassia), è un equivoco. È essa stessa, in quanto dottrina o modo di essere, fonte di attività e passione. Senza, sarebbe noia e angoscia, cioè il suo opposto.

Psicanalisi - È la riduzione della realtà, anche subliminale, a un linguaggio. A uno solo, preciso e delimitato, per essere scientifico. È la riduzione del linguaggio a un linguaggio.

Religione – I fatti sono semplici: è la morte un fatto naturale? è il male nella natura delle cose? La risposta è fattuale: qualcosa c’è. Ma è anche sempre individuale: la religione è per questo una e diversa, è individuale. La risposta non può essere univoca perché la religione è un esercizio mentale: è una constatazione d’ignoranza.
È in questa constatazione il timor Dei: senza, si diventa sfrenati.

Sesso - È durissimo livellatore. Toglie senso e sapore a molta storia: infanzia, vecchiaia, famiglia, verginità (sublimazione). Toglie anche il piacere della carne, nel mentre che la moltiplica in immagine. È una ritenzione che propone, un’immensa cupola del desiderio, nel mentre che annulla le diverse esperienze della vita.

Vecchiaia – La sua saggezza viene per autoattribuzione, il mondo essendo – essendo stato – governato perlopiù dai vecchi. Ha passioni distruttive, la decadenza, il cinismo, l’incertezza, la querimonia, il didattismo, oppure non ne ha, è fredda. Non è l’osservatorio migliore per capire la vita, e non necessariamente ha accumulato conoscenza – non sa e non può tenere il contatto con gli eventi.

Verità – Si esaurisce nella comunicazione: dire la verità è dire quello che si sa, di cui si è a conoscenza. Né c’è altra verità, se non la comunicazione.
La verità è solo ciò che si dice – si sa, si dice per saperlo saputo. Saputo per averlo imparato (comunicato) o intravisto.

zeulig@antiit.eu

La guerra bella di Jünger a Parigi

È il diario degli anni dell’occupazione di Parigi: Jünger vi è capitano di fanteria, addetto alla censura, ma la censura è assente, e la guerra pure. Il “Diario” comincia diciotto mesi dopo la vergogna della sconfitta fulminea ma i francesi sembrano aver dimenticato, buquinisti, antiquari, scrittori, donne di mondo. Della stessa dimenticanza si crogiola Jünger, che però filosofa: su falsità?
Un libro Jünger scrive proustiano d’eccellenza, accattivante e rivoltante. Non perché non sia un democratico, o uno del tempo, lo è, ha netto il senso della libertà perduta. Egli si sente “francese” come i suoi interlocutori abituali, Gallimard, Cocteau, Jouhandeau, Guitry, migliore di Merline (?), de Brinon, dello stesso Céline. Ma fa anche, proustianamente, un libro dell’Io, dallo snobismo esasperato. La serata è modello da Lady Orpington: aneddoti lievi, questioni di grammatica e di retorica, champagne del 1911, mentre la città trema sotto i bombardamenti, e dopo che Speidel ha spiegato gli “ordini criminosi” di Hitler (la “Soluzione Finale”), parlando profondamente della morte. Anche Picasso, comunista, pittore di “Guernica”, è libero e rispettato.
Come si vive dentro una guerra, sia pure allo Stato Maggiore? Le conversazioni di Jünger ripetono quelle di Malaparte, che Malaparte aveva pubblicato qualche anno prima in “Kaputt”, di persone che tutto sanno ma evitano di dirlo. Jünger evita di proposito, della Francia e del fronte orientale, i luoghi – noti – dove si macellano le persone. Legge la Bibbia in parallelo con lo sterminio degli ebrei – in comunione spirituale con le vittime. S’immerge in “cacce minime” d’insetti, e colleziona libri. Tra figure di donne molteplici e incerte.
Ernst Jünger, Diario

mercoledì 10 marzo 2010

Ronchey, il tradimento dei laici

Famoso come Ingegnere, perché si dilettava di percentuali, e per avere introdotto l’uso di citare l’ “Economist”, per questi stessi motivi Alberto Ronchey si potrebbe dire il Provinciale: le percentuali erano il linguaggio della pubblicistica americana (della Cia?), ancora negli anni del disgelo e della distensione, per “dimostrare” che un russo a Mosca non poteva sopravvivere, mentre la citazione dell’“Economist” è uno dei lutti di questo giornalismo alla deriva, di copie e autorevolezza. Ma non è questo il punto, l’uomo non mancava di humour. Che da ministro della Cultura andò giustamente orgoglioso di aver riportato al lavoro dopo vent’anni gli uscieri rivoluzionari di Brera, nonché di aver trovato nei musei e le gallerie uno spazio per il bar e i ricordini. Era anche accreditato di avere inventato negli anni 1960 la lottizzazione, il concetto della spartizione partitica del potere, ma di partitocrazia e lottizzazione si parlava all'Istituto Cesare Alfieri di Firenze negli anni 1950.
L’ultimo e più vero Ronchey è il manager della Rizzoli Corriere della sera, che accettò l’incarico nel 1994-1996 per licenziare un migliaio di giornalisti e poligrafici, chiudere testate, e far emergere e insieme occultare un ammanco di 1.300 miliardi. Lo scandalo più grave del dopoguerra. Privato, nel senso che rubavano al gruppo editoriale sia gli azionisti, gli Agnelli, che i manager. Ma criminale, per false comunicazioni sociali, evasione fiscale, fondi neri, finanziamento illecito dei partiti, una serie lunga di delitti. Per occultarlo nel senso di indurre col suo nome la Procura di Milano a insabbiare il caso, senza alcun atto istruttorio, benché una diecina di reati fossero già stati riportati a galla dai revisori dei conti. E ne aveva coscienza se poi, lautamente retribuito per la sua presidenza, si era ridotto praticamente al silenzio, ormai da quindici anni.
Aveva subito per questo un “processino” a Striscia la notizia, ma muore riverito. Mentre è l’anima nera del laicismo italiano. Una delle due – l’altra è Scalfari, che il laicismo appaltò a De Mita e Berlinguer, due che si distinguevano per negare che ci fosse in Italia una cultura politica laica (solo il comunismo e il confessionalismo esistevano in Italia: questo è stato sostenuto dai due, rileggere per credere). Si deve al laico Ronchey, a capo della laicissima Rizzoli, nella laica Milano, l’avvio di questa epoca di falsi moralismi e vera corruzione (nelle privatizzazioni, la finanza, gli appalti, la giustizia, il giornalismo) che ha ridotto il laicismo a cache-sex intellettuale della più insolente avidità.

La guerra è bella, delle donne

Coup de théâtre come si deve, senza vergogna, a Hollywood per gli Oscar: sei all’ex moglie Kathryn Bigelow, tre all’ex marito James Cameron, lei di 58 anni che esibisce per compagno il suo sceneggiatore Mark Boal, di 36, e regista donna di un film all male come non se ne facevano più da decenni, un film di guerra. E non è da escludere che i due vincitori non di rimettano insieme fra qualche mese per far rimbalzare il botteghino, o che la separazione sia di comodo, e lo sceneggiatore pure, che c’è di male. Ma il film è affascinante, per più di un motivo. Di cui la regia femminile per un film duro di guerra, uno dei pochissimi film sull’Iraq, due o tre, è il meno rilevante.
Il film è straordinario anzitutto perché nasce di serie B - "indipendente", ma insomma senza pretese. Non ha Grandi Scene, spettacolari, inseguimenti, battaglie, esplosioni (queste il giusto, un po’ di castagnole). Non ci ha belle donne neppure di striscio. Non ha star – si vede Ralph Fiennes come un’apparizione scherzosa nel deserto, e subito è liquidato per imperizia. È un film tutto filmico: è straordinaria l’abilità della regista, nei tempi, le inquadrature, le luci, i dettagli espressivi, nel catturare l’attenzione nei cinque-sei episodi che poi ha montato nel film. Due ore di cinema. Sullo sfondo dell’Iraq qual è in questa guerra: un deserto sporco e ostile, senz’anima, non per gli americani.
È anche un film inquietante. La guerra è una droga ne è l’apoftegma. Etico, nel senso della condanna. Ma vero: l’abilità della regista converge tutta nel ribaltare la condanna, senza compiacimenti, in fascino. Con la sceneggiatura naturalmente, che un finale vuole in cui l’artificiere non sa vivere se non sfida ogni giorno la morte. Ma più nei tempi e nel coordinamento della squadra, nell’ambientazioni desolata e ostile, anche nell’indifferenza, nella semplice curiosità. Nella stessa insensatezza della guerra, che seppure non detta, anche per rispetto dei morti americani con cui si apre la narrazione, viene però mostrata.
Il soggetto ricalca la vicenda personale di Stefano Rolla, il regista di cinema che morìa Nassyria, dove voleva lavorare, una delle vittime dell’attentato, ed era stato sminatore dell’esercito. Ci vuole Hollywood per fare un grande film di una così terribile vicenda - il politicamete corretto italiano magari d Rolla pesa che è un mercenario.
Il risultato è politicamente scorretto, e per questo si può capire che il film non sia stato premiato a Venezia, doveva aveva concorso al festival del 2008. I produttori avevano pure commissionato la musica a Marco Beltrami, il solito italiano d'America che vince gli Oscar musicali, lui personalmente molto politicamente corretto, arrangiatore dell'album "The Chinese Democracy" dei Guns N' Roses, ma non ci fu niente da fare. “The Hurt Locker” non ebbe il Leone d’oro perché il festival doveva premiare Silvio Orlando quale migliore attore, e questo è più scorretto. Anzi, si può elevare a cifra del deserto d’intelligenza e rettitudine della civilissima Europa oggi al confronto della superiore moralità della rozza America: miglior attore a Venezia doveva essere Mickey Rourke per “The Wrestler”, e quindi, per premiare Orlando, magari incolpevole, “The Wrestler” fu premiato quale migliore film… Ma chi ha saputo più nulla del film di Orlando? Mentre “The Hurt Locker” resterà negli annali. È così che periscono le civiltà, nella menzogna.
Kathryn Bigelow, The Hurt Locker

martedì 9 marzo 2010

La Grecia democratica cantava e ballava

Poco o niente è rimasto della musica antica, una ventina di frammenti greci (uno solo di Roma, dell’epoca imperiale). Quel poco ha reso impossibile il tracciamento dei tempi e dei ritmi. In assenza dei quali la cerimoniosità prevale nelle ricostruzioni, nel senso aulico: lentezza, ieraticità, coralità, l’armamentario del “classico”. Mentre si sa che i greci cantavano e ballavano in ogni occasione, dai vasi e dalla altre decorazioni. In forme che, all’epoca, non potevano essere che popolari: non si conservano nomi di compositori, a differenza delle altre forme di arte, lirica, epica, pittura, scultura, architettura, o di stili, o di scuole. E cantavano e ballavano soli o in coppia, nello spirito del divertimento come elevazione, anche nelle figura all’apparenza lascive.
La letteratura è invece enorme in materia, dei filosofi, Platone, il Socrate di Platone, Damone, Aristosseno, Alcidamante, Filodemo, e dei poeti appunto lirici. Queste sorprendente opera lo documenta. L’argomento era studiato tra Sette e Ottocento. Il dottor Burney ne era personalmente curioso, e nel suo "Viaggio musicale in Italia" registra molti cultori della materia e varie pubblicazioni. Padre Martini ne tratta ai voll. II e III della sua “Storia della musica”. La Francia disponeva delle ricerche del Roussier, “Mémoire sur la Musiques des Anciens Grecs”. Poi l’interesse si è perduto.
Gli studi qui raccolti da Brancacci, filosofo romano, sono sorprendenti in quanto documentano che la musica, nelle fonti storiche e filosofiche più accreditate, aveva in Grecia un compito “politico”, di formazione ed elevazione della città: “La musica è al centro della pedagogia e della democrazia”. In una, bisogna aggiungere, col suo potere mitico e cultuale. Della vasta e eccellente poesia lirica. Di Orfeo l’incantatore. Della fondazione di Tebe, dove le pietre si disposero l’una sull’altra a erigere le mura al suono della lira di Anione.
Aldo Brancacci, Musica e filosofia, da Damone a Filodemo, Leo S.Olschki, pp. 161, € 18

Bobbio liberale, a disagio nell'eguaglianza

Hobbes, che Bobbio ha studiato molto, parte anche lui “dalla constatazione che gli uomini nello stato di natura sono eguali”. Ma, a differenza dei teorici dell’eguaglianza, trova proprio nello stato di natura una delle cause del bellum omnium contra omnes. Bella e semplice, l’eguaglianza è inafferrabile. E Bobbio non sa nascondere l’irritazione: l’eguaglianza è vuota, detto alla prima pagina, l’eguaglianza è vacua, è una petizione di principio in tutte le sue formulazioni – “a ciascuno il suo”, “la legge è uguale per tutti”, “a ciascuno secondo i suoi bisogni” (Marx). Pur scrivendone nel 1977 (questo volumetto ristampa le voci “Eguaglianza” e “Libertà” che Bobbio scrisse per la “Enciclopedia del Novecento”, rispettivamente nel 1977, vol. II, e nel1978, vol. III dell’opera, edita dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana), in un quadro politico, anche personale, impegnato tra il socialismo e il compromesso storico. L’ineguaglianza è certo reazionaria, conclude. Ma l’eguaglianza è una petizione di principio, va ogni volta riempita, sempre con la libertà.
La seconda voce, “Libertà”, trova Bobbio a suo agio, pianamente didattico. La libertà gli basta esporla: è una petizione di principio anch’essa, ma non problematica - oggi si potrebbe dire non “deviata” -, e non ha controindicazioni. Non fino al “silentium legis” come Hobbes la configura, con Locke e Montesquieu (e Orwell), il prudente torinese non si arrischia a tanto. E tuttavia sempre operosa. Anche se il Novecento l’ha negata.
La sintesi che Bobbio fa della libertà ferma da un secolo è perfetta. Con i tre problemi della non-libertà rimasti irrisolti: “A livello economico il tema dell’alienazione di derivazione marxiana, a livello politico il tema della burocratizzazione (o razionalizzazione del potere legittimo nella forma del potere legale), di derivazione weberiana, a livello ideologico il tema della manipolazione dell’opinione attraverso le comunicazioni di massa, che ha avuto la sua prima e contestata formulazione nella teoria critica della Scuola di Francoforte”. Ma a essi non prospetta vie d’uscita, e purtroppo apre un quarto fronte, con la categoria della società civile. Che il filosofo brevemente chiarisce come “organizzazione della produzione e dell’intera società” rispetto allo Stato, il leviatano che ha finora esaurito il pensiero liberale. Ma fatalmente convergendo, è il 1978, nello slogan di Scalfari e Berlinguer, che chiude in un impasse da un trentennio l’Italia - la società dei belli-e-buoni, esclusivi, spregiatori, i pataccari della questione morale. Da cui Bobbio non ha preso le distanze successivamente. La società “civile” è una contraddizione, un’autoaffermazione. L’aggettivo ha indubbiamente una valenza positiva, e si spiega che un partito, o gli spezzoni della Dc e del Pci che se ne fanno bandiera, lo utilizzino e lo vantino. Meno che dia ad esso valore assiomatico uno studioso della politica.
Norberto Bobbio, Eguaglianza e libertà, Einaudi, pp. 98, € 10

domenica 7 marzo 2010

Ombre - 43

“È vero: le regole sono brutali, arbitrarie, ideologiche. L’iscrizione si chiude alle 12,00, io arrivo alle 12,01 e trovo l’ufficio chiuso. Eppure, proprio queste regole che tagliano, definiscono e limitano sono l’unica risorsa che possediamo…”, esordisce Franca D’Agostini, che firma il fondo di “Tuttolibri” sabato. Leggere libri esenta dal frequentare un vero ufficio pubblico? Coi numeretti? Le ore per ogni pratica. I caffé, la sigaretta, i crampi di stomaco, i “mi assento un attimo”. Perché scriverne allora?
L’argomento è comune con il costituzionalista Zagrebelsky. C’entrerà l’ipocrisia torinese? Certo, non si può pretendere che ognuno frequenti i Tribunali, specie le sezioni dove e quando si presentano le liste elettorali. Ma, allora, perché sermoneggiare?

“Tuttolibri” dedica molte pagine all’8 marzo, con libri e personaggi anche interessanti. In copertina Mirella Serri fa un raffronto fra la donna forte, e libera si suppone, del “secolo scorso” e quella di oggi. Quella del secolo scorso impersona in due novantenni, Marisa Rodano, che ha il culto di Togliatti, e Teresa Mattei, che uccise Gentile (avrebbe anche inventato la mimosa invece della violetta, come proponeva Luigi Longo: insomma l’8 marzo è del Pci – ma si fa il suo nome per non nominare Rita Montagnana, la moglie del Migliore è sempre tabù). La donna di oggi “Tuttolibri” vede velina e un po’ escort. Non solo in Italia, precisa, anche negli Usa. C’è ancora il centralismo democratico?
Tra le donne mito del secolo scorso il settimanale invece ricorda con nostalgia Little Annie Fanny, cui la Magic Press dedica “un coloratissimo volume”. E non ha torto: Annie Fannie non è male.

I giapponesi, o sono cinesi, alzano gli occhi stanchi nella loro dura visita di Roma in una notte e due giorni, mentre seguono la guida implacabile col bastone a la bandierina, la fronte sudata anche a marzo, e di sbieco, senza neanche inquadrare, fotografano distrattamente la colonna Traiana, i due pini residui non sacrificati all’abbellimento urbano, la cancellata del Vittoriano, i cavalli alati in alto, la rotatoria di piazza Venezia, di cui non ricorderanno nulla.
Quanto diversi dai giapponesi che a Firenze attorno al 1960 fotografavano meticolosi Cellini e Michelangelo, in ogni piega, le vetrine, la disposizione degli oggetti nelle vetrine, e le sedie. Quelle dei caffè, imbottite, di Vienna, thonet, a spalliera rigida, a spalliera ricurva, anche quelle del Niccolini, teatro decaduto dove peraltro erano legate con una catenella perché non se le portassero via, perfino quelle pieghevoli che usavano al teatro dell’Orologio, roba da dopolavoristi. Il turismo ha domato anche gli asiatici: c’è un rimedio a tutto.

Ruggero Guarini scrive al “Foglio” venerdì indignato contro i partiti. Forte di Simone Weil, che li voleva abolire.
Ma Simone Weil voleva aboliti i partiti totalitari, che vogliono tutto dall’uomo. Cioè, quando scriveva, il partito Comunista. Potenza del Partito, anche su uno come Guarini!

A Balducci non trovano il tesoro delle tangenti. Trovano in compenso che è gay, pur essendo padre di famiglia, e per questo Quattrocchi lo sputtana, con la complicità dei migliori giornali. Di croniste giudiziarie tra le quali la professione di lesbismo non è rara.

Una tipica prima pagina del “Foglio” si argomenta “così”: “Così Lombardia e Lazio accelerano la crisi matta”, “Così il popolo del Cav. si sfoga”, “Così la magnifica Gabby è la nuova regina di Hollywood”. Ferrara è didascalico: crede al magistero.

Loiero e De Magistris vanno al voto insieme. Certo, non si sono ancora sparati.

In tutti gli scandali c’è sempre un infiltrato. In quello della Protezione Civile è Anemone? È lui che inguaia tutti i personaggi in commedia, compreso Bertolaso, e il proprio cognato, funzionario dei servizi segreti.
I Ros (del generale Ganzer) contro i servizi (che il generale hanno inguaiato a Milano)?

Non si fa mai male a pensare male di questa giustizia delle intercettazioni e dei processi scandalo. Si sapeva (si sentiva, si vedeva) che Provenzano era informatore dei carabinieri, ora c’è solo la conferma. Si sa (si sente, si vede) che i processi di Palermo a base di Ciancimino e Spatuzza, e quello della Protezione Civile, sono opera di un certo gruppo d’investigatori.

Napolitano, il capo che il Pd non ha

Avrebbe fatto un magnifico capo per il partito Democratico. Non aveva l’età, il partito toccava ai giovani di Berlinguer. Ora, ripescato per non sapere che pesci pigliare, non c’è occasione in cui Napolitano non faccia sfoggio di eccezionale intelligenza politica. Nel senso della difesa o gestione del ruolo, di presidente della Repubblica, e nel senso attivo, di saper parlare ai cittadini. Non fosse imbalsamato lassù, raccoglierebbe buona parte dei disperati che votano Berlusconi, e quindi, se non altro per l’orgoglio, le sinistre che non votano più. Sulle liste ha fatto pesare la pochezza dei finiani, Polverini in testa, e poi ha giocato la magnanimità dello statista. Sull’impunibilità ha voluto dare credito a Berlusconi, mettendone poi a nudo la pochezza politica, nel senso del ruolo. Mentre da politico attivo ha semplicemente ignorato le idiozie che arrivano da Milano e D’Alema, degli scossoni, i ministeri tecnici, i ministeri istituzionali, e da ultimo i Casini for president (con Fini vice-president… ). Non ci vuole molto per questo, un politico sa che sono scemenze, ma neanche la presidenza della Repubblica è immune allo scemenzario che ha preso il posto dell’opinione pubblica, e bisogna essere fermi con collaboratori, generone romano e notisti dei giornali, che sempre si portano tutti colonne del Quirinale e super partes.
Il Pd vero, senza Napolitano, si barcamena invece tra Di Pietro, che lo tiene per le palle, in che altro modo?, e Casini, la speranza del voto di quel Centro che vede come un miraggio, sebbene sia molto pratico. Ma c’è da scommettere che anche questa tenaglia Napolitano romperà. Non resterà molto di Di Pietro dopo questa campagna dissennata: non è uomo da prendere il voto ex comunista, quando è libero e non comandato come al Mugello, non con il “popolo viola” a piazza Navona, e agli altri non dà affidamento. Quanto a Casini, una volta aveva i voti di Mastella, poi ha avuto quelli di Cuffaro, e ora?

Si torna a puntare sull'euro

Molti elogi per Trichet e la Bce, rating confermati per i debiti euro già a rischio, elogi perfino per la Grecia: l’aria è al rimbalzo. Si gioca ora sull’euro forte? La rivalutazione è probabile, anche se le economie europee sono in sofferenza, e potrebbe anzi non fermarsi a 1,50. Si monta infatti anche la sfida di Obama alla Cina, e dell’Iran a Obam, col sostegno della Cina, e il dollaro è destinato a soffrirne, molto più di prima. A questo fine si mette nel conto pure quello che si sapeva ma si taceva, che la crisi delle banche americane (e britanniche) è ancora in sviluppo, il credito è in sofferenza. E che il debito americano (e britannico) sta crescendo a dismisura anche per gli stessi Stati Uniti.
All’improvviso il quadro si è ribaltato. La valutazione che si dà del quadro. Fino a una settimana fa tutto concorreva a un ulteriore spallata all’euro. Anche con argomenti incongrui: l’uscita dall’euro di qualche paese debole, latino o orientale, l’insoddisfazione tedesca, contro la Grecia, contro tutti, il congelamento dell’euro. Mentre l’uscita non è prevista e non è prevedibile, è come una secessione in uno stato federale. E la Germania si fa forte dell’euro molto più che del marco già glorioso, e lo dice – la sterilizzazione di una moneta è un’insulsaggine. Che il Fire di Tremonti, attenti alla triade Finance, Insurance e Real Estate, monopolizzi l’interesse invece dei soliti Pigs, non è solo per una risata.