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sabato 24 ottobre 2009

Breve storia dell'unità - 3

Don Liborio Romano, il ministro dell'Interno di Francesco II, non tradisce il suo re, ma scopertamente gli spiega che Garibaldi e l’Italia hanno vinto. A Garibaldi, che sta a Salerno indeciso se marciare su Napoli, “All’Invincibilissimo Generale Garibaldi”, scrive: “Con la più grande impazienza, Napoli aspetta il vostro arrivo, per salutare in Voi il Redentore dell’Italia".

L’atto per cui Garibaldi si ricorda a Napoli dopo la liberazione fu la nomina a Direttore dei Musei e degli Scavi di Alessandro Dumas. La nomina più longeva della caotica transizione, quasi quattro anni, finché Dumas non si stancò.

Appena a Napoli, Garibaldi scriveva a Vittorio Emanuele così: “Sire, dimettere Cavour e Farini. Datemi Pallavicino come pro-dittatore. Datemi il comando di una delle vostre brigate e io rispondo di tutto”.

La scomparsa di Mazzini
A Napoli è sparito, col repubblicanesimo, anche Mazzini. Che vivrà fino al 1872, ma è sparito dalla storia d’Italia e d’Europa, e dalle commemorazioni. Specie della Repubblica.
Dopo essere tornato brevemente con Mussolini, nella ultima vicenda, tragica e ridicola, del Duce. Riseppellendosi quindi con le sue gloriose insegne nel sacrario ignoto del Msi.

A Napoli riappare, con Garibaldi e Mazzini, per poi scomparire definitivamente, anche Carlo Cattaneo. Cattaneo era fuori della realtà dal 1848. A Napoli fece campagna contro l’annessione. Quando Pallavicino, l’inviato del re, si manifestò incapace, Garibaldi tentò di proporre Cattaneo a pro-dittatore. Su insistenza del dottor Bertani, altro milanese, il capo dei radicali. La cosa finì nel nulla, e Cattaneo resterà a Napoli in secondo piano, buono per i comitati repubblicani nelle manifestazioni, o per i colloqui con Garibaldi. Non aveva sessant’anni, ma non avrà più futuro politico. Alla riunione finale con Garibaldi a Caserta l’11 ottobre, prima di Teano, Cattaneo, venerabile dottrinario, sostenne l’argomento legale che Vittorio Emanuele era sempre il re del Piemonte e non dell’Italia, malgrado l’annessione della Lombardia, dell’Emilia e della Toscana, e si disse convinto che le popolazioni delle due Sicilie non avevano nessun motivo di volere l’annessione al Piemonte, sia pure attraverso plebisciti ed elezioni politiche.

Agostino Bertani è un altro che scompare a Napoli dalla storia dell'unità. Capo dei radicali, fu colui che volle, finanziò e organizzò i Mille – Garibaldi era incerto se salpare da Quarto il 5 maggio. Senza aiuti dalla Società Nazionale, dal Fondo per un milione di fucili, da Cavour, dal re. Ma si oppose all’annessione del regno delle Due Sicilie e fu per questo accusato di ogni bassezza – i dossier sono all’origine della storia dell’unità.
Bertani aveva governato Napoli come Segretario Generale della Dittatura coi suoi “Implacabili” dopo la liberazione, ed era l’autore della lettera ultimativa di Garibaldi al re. Lombardo, sospettava dei piemontesi. Ma al dibattito parlamentare del 2 ottobre 1860 sull’unione da fare, Bertani fu in aula calmo e disponibile, e chiese a Cavout di andare personalmente a Napoli e stringere la mano a Garibaldi.

I personaggi dell’unità erano popolari. Plon-Plon era il Principe Napoleone, cugino di Napoleone III. Mazzini era Pippo. Bombino Francesco II re di Napoli, o Franceschiello, figlio del re Bomba. Garibaldi era il Paladino e, per il re Francesco II, Don Peppino. Cavour papà Camillo.

Milano fa il birignao

È la ristampa dell’antologia dei pezzi su “Linus” curata nel 1992 da Gino & Michele. Il genere esile della rivista. E di un altro “inespresso”, ma al modo milanese: costretto alla scapigliatura aggiornata, della solita modesta bohème, sociale e linguistica, a margine del Clan e di Jannacci. Con pezzi di costume, più che racconti, il genere Camilla Cederna, riverniciato con Brera e Bianciardi, il furor linguistico e quello civile. Milano ha voglia di leggerezza, e questo è, purtroppo non va oltre il birignao. Viola ne è cosciente, da inurbato. “Quelli che..” è la lunga lista rabelaisiana di un’esclusione praticamente totale, di una persona che era la socievolezza incarnata.
Il modello, di vita e di scrittura, è Boris Vian. Ma Milano, evidentemente, non è Parigi. Fra gli aneddoti uno conferma che il leghismo c’è sempre stato. Il maestro elementare di Viola diceva su “Linus” già trent’anni fa: “Nella mia scuola ci sono più meridionali che italiani”.
Beppe Viola, Quelli che… , Baldini Castaldi Dalai, pp. 170, € 15

Letture - 17

letterautore

Céline – Esclamativi e punti di sospensione emergono nel Settecento come segni di linguaggio non articolato – primitivo – e non logico. In particolare per le anime sensibili. Così li adoperano Rousseau per Julie di “Nuova Eloisa”, Laclos per la Presidente dei “Leami pericolosi”, Sade per “Aline e Valcour”.

È il prototipo (ironia!) dell’Arbeiter di Jünger: antiborghese, forgiato dal sangue e dalla morte.

Don Chisciotte – O delle avventure prolisse e non divertenti: per vincere la paranoia bisogna moltiplicarla?

Moravia – Di estremo distacco personale, anche dagli intimi, Morante, Pasolini. Di diffidenza anche. Legge attraverso due soli (semplici) indicatori: Freud (la consanguineità, il déréglement e Marx (il boghese che fotte ed è fottuto). Il tutto in chiave materialistica: la vilenza non è spiegata (interpretata), e nemmeno il sesso.

Pasolini – Reincarnazione mistica di Malaparte. Autore e primattore del narcisismo italico del Novecento: arcitaliano (si dice D’Annunzio ma è Malaparte).

Insopportabile è l’idealizzazione del popolo, nei romanzi e nelle poesie friulane: buono allo stato “naturale” (Friuli), integrato cioè alla tradizione, depravato nella società moderna (borghese, urbana) che lo costringe alle borgate e all’abiezione. L’artificio qui è al doppio grado, voluto: Pasolini sa che il popolo non è buono: ha condannato lui, ha ucciso suo fratello.

È l’anti-illuminista. Manca totalmente d’interesse per i valori laici – libertà, democrazia – anche nella fase di vicinanza a Pannella, opportunista. Mai un moto di curiosità, nemmeno minimo, nonché rapporti personali, con socialisti o liberali. Non poteva che essere cattolico e comunista, con cattiva coscienza.

Molta passione e moltissima (insolita nel grigio panorama dopoguerra) cultura. C’è sant’Agostino nel ciclo mediterraneo, Vangelo compreso, anche se Pasolini parla di san Paolo, nella trilogia del piacere (ridotto, come per Agostino, al piacere sessuale), in “Teorema”, “Salò”, eccetera, cioè nel ciclo della morte, che è la morte della carne, lo strazio tragico del neoplatonismo – di Plotino e Porfirio in aggiunta al fascino ambiguo (ipocrita) del manicheismo. C’è anche una sensibilità eccezionale per il tempo, le angosce piccole e grandi, le lievitazioni di superficie e le correnti di profondità, i falsi scopi e i falsi specchi, e c’è partecipazione indubbia, che nobilita lo sforzo di comprendere.
Ma il linguaggio è falso – la posizione è falsa. È artefatto, anche negli articoli: se i Democratici cristiani sono fascisti, non possiamo che prendere il mitra, nient’altro. Le sue morti sono teatrali, “dannunziane”. La politica è umorale – malapartiana. Nel nome della verità. Perché? Quale rimozione la lingua deve coprire, quale faglia nascondere? Non è un’eredità culturale, non era artefatto il Pasolini ragazzo. Perché in tanto biografismo, perfino coltivato, è taciuto il fatto più drammatico, l’unico vero? L’assassinio del fratello giovane, bello, buono, a opera di partigiani titoisti. Il “tradimento” a scuola di Sergio Telmon? È un caso di doppio linguaggio?
La sua passione è diabolica (ma chissà, naturalmente, chi è il diavolo): fredda, arrogante. Spcie nella mitezza che gli viene attribuita. È incerto ma è apodittico: quale dei due è affettato? La mitezza deriva dal disprezzo. Un occhio d’indifferenza truce – su tutto, borgate e Terzo mondo compresi. E gli amanti? Non ne aveva: Pasolini non s’innamorava

Proust – O della letteratura “mostruosa”: la borghesia ottusa e contenta, di cui fa il “ritratto fotografico”, école du regard, come proiezione. Ha gli stessi tic, gli estetismi, o snobismi, perfino la sessualità frigida, incapace di passioni, nemmeno in realtà della geloisia, la passione del possesso,. Proust ne è parte, non critico, l’ironia è affettuosa. Così come i suoi avidi lettori. L’orrido è quello dell’io che si guada compiaciuto essendosi scarnificato a morte, di un narciso moribondo. Che è una contraddizione: da qui la stucchevolezza.

Molto è Des Esseintes, studiato. Il ricordo non viene solo con le madeleines, viene anche col cesso degli Champs-Élysées.

Le Albertine come romanzo della gelosia? Ma che gelosia, su che “diritto di possesso”? Su quale storia, che non c’è. È la storia di una mantenuta. Con tanti deliri adolescenziali? E una coabitazione incongrua: A. entra ed esce, P. idem, è questo che la “Prisonnière” registra – se dormono insieme non si sa. La “Fugitive” è atroce – scadente balzacchismo. È la “piccola” filosofia della gelosia, molto fin-de-siècle (anche se la storia si completa durante e dopo la grande guerra), come tante altre “piccole filosofie”.
L’Albertine della “Prisonnière”, ma anche prima, rasenta la parodia dell’amore femminile romantico. Se è l’autista di Proust, non è però un gioco rabelaisiano, è uno sfogo assurdo.

letterautore@antiit.eu

venerdì 23 ottobre 2009

Le guerra persa di Tabucchi

Lo scrittore si seppellisce sotto un triplice artificio. Del “prendere il fucile” dopo sessant’anni, dell’incongruo estetismo – di triplice incongruità: del morente, del resistente, della scrittura fredda – e dell’ira giornalistica. È sorprendente, perché Tabucchi ne sapeva di più. Ma è, forse, solo uno dei tanti. Dei comunisti che non sanno di aver perso la guerra, non vogliono saperlo, ma sono numerosi abbastanza, nelle case editrici, le librerie, i critici, i giornali, nonché fra i lettori evidentemente, per continuare con foga, con successo, questo genere inerte, l’invettiva resistenziale. Non inerte, negativa, poiché occupano gli spazi e anche gli interstizi, togliendo il respiro.
Il problema non è Berlusconi. Evitando l’esame di coscienza, questi comunisti confermano di avere essi stessi ucciso il comunismo, e impediscono di rifarlo o ripensarlo. I Tabucchi, i Saramago, i Garcìa Marquez sono loro gli Stalin e i Breznev, gli sterilizzatori del comunismo, per la faziosità stupida. Qui c’è anche il traffico d’organi, e lo sfruttamento del Terzo mondo. E Tabucchi diventa verboso, lui che scriveva scarno, creando per evocazione. Le due cose, il soggetto pompier e il verbiage, vanno insieme, sintomo e segno della mancanza di misura.
Antonio Tabucchi, Tristano muore

Breve storia dell'unità - 2

Ai primi del 1861 c'era già una sinistra, Rattazzi, Depretis, Brofferio, Pepoli e altri, che si faceva forte di Garibaldi, pur non essendo mazziniana, non più, né repubblicana: voleva solo fare le scarpe a Cavour. Quando Garibaldi uscì dallo sdegnoso esilio a Caprera e fece ingresso alla Camera dei deputati a Torino, il 18 aprile 1861, da un passaggio secondario che lo portava direttamente agli scranni più alti della sinistra, da dove fu istantaneamente visto da tutto il (piccolo) emiciclo, aveva in mano un discorso scritto da Bertani. Garibaldi era quello che tutti si aspettavano, col solito abbigliamento studiato, camicia rossa, poncho gaucho grigio, la coppola da pastore meridionale. Non lesse il discorso di Bertani, ma fece quello che Bertani si aspettava: disse Cavour uno spergiuro, un traditore, e il fomentatore di “una guerra fratricida”. Cavour ne fu segnato a morte: “Se l'emozione uccidesse, in quell'ora sarei morto”, dirà.
Tra sospensioni e riprese il dibattito durò tre giorni, Cavour fu difeso da Ricasoli e anche da Nino Bixio, e rispose a Garibaldi composto, dicendosi sicuro che tra lui e il generale c’era solo l’incomprensione sul “compito doloroso” da lui assolto di cedere Nizza alla Francia. Su iniziativa del re poi lo stesso Cavour incontrò Garibaldi, e la cosa finì lì: la guerra, il tradimento e tutto.

Nell'incontro con Cavour dopo lo scontro del 18-20 aprile alla Camera, Garibaldi tenne le mani ostinatamente coperte. “Non ho visto affatto le sue mani”, scrisse Cavour a Ricasoli, “le ha tenute sempre sotto il suo mantello di Profeta”. Né Cavour gli porse la mano salutandolo alla fine dell’incontro: Garibaldi aveva giurato che piuttosto che stringere la mano di Cavour si sarebbe tagliato la sua.
Il teatro comincia presto nella storia dell'Italia unita.

Dal fatale 18 aprile Cavour non si riprese più. Ebbe sbalzi fortissimi di pressione, ora rosso fuoco ora cadaverico. Era gentile e diplomatico, divenne brusco e intrattabile. Aveva sempre voluto gli incontri importanti la mattina all’alba – un'abitudine che l’Avvocato l’Agnelli ripeterà. Ma ora non dormiva quasi più nel corso della notte. Il conte Gabaleone di Salmour, suo vecchio amico, lo trovò esaurito e quasi inerte in uno dei loro incontri, all’alba del 26 maggio: “Non sto bene”, gli confidò l'amico, “dopo quella disgraziata seduta in cui sono stato attaccato così ingiustamente da Garibaldi, non mi sono sentito più bene”. Dieci giorni dopo era morto. Di un malanno che i medici non hanno saputo diagnosticare.

Quando Cavour morì tutti lo piansero, i torinesi “papà Camillo”, i parlamentari il politico, gli italiani il patriota. I cattolici ne rimpiansero l’onestà di carattere e di propositi. Solo l’Italia del popolo, mazziniana, lo vituperò come cinico, malato, diabolico.
L’odio è antico.

Ombre - 32

La Svizzera ha buon gioco sul “Corriere della sera”, su “Repubblica” e sulla “Stampa” (non sul “Sole 24 ore”) contro lo scudo fiscale e i controlli alla frontiera dei trafficanti illegali di capitali. È solo per odio contro Berlusconi e la sua legge?

Bobo Vieri chiede in Tribunale a Milano la condanna di Telecom e Inter a 21 milioni di ammenda per averlo spiato quando giocava nella squadra di Moratti. Nessun dubbio che abbia ragione, e poi non chiede 750 milioni. Ma non avrà nulla, nemmeno 2,1 milioni, nemmeno duemila e 100 euro, perché Telecom e i Moratti non sono condannabili. La giustizia a Milano si fa così.

Marchionne non sarà pagato dalla Chrysler. Per il lavoro che fa alla stessa Chrysler, ventiquattro ore su ventiquattro ormai da sei mesi. Prenderà solo quanto ha pattuito con la Fiat. Lo comunica il Tesoro Usa agli azionisti Chrysler, ma ha l’aria di non essere una buona notizia: il titolo sicuramente ne soffrirà.

L’ora di islam una settimana, il posto fisso l’altra, l’odiosa Irap di Visco la terza: è la ricetta estiva della Lega applicata al resto dell’anno, il governo occupa gli spazi dettando l’agenda. Così i giornali hanno di che scrivere. Possibilmente con argomenti di sinistra: “Vi butto il posto fisso sui coglioni”, s’immagina Berlusconi mentre lo divisa.

Con tutto il rispetto, ma quella del posto fisso è una farsa. La mena il ministro che ha sul gobbo tre milioni e mezzo di nullafacenti, senza i quali il debito italiano scomparirebbe e anzi l’Italia sarebbe in attivo. Tre milioni e mezzo di dipendenti a posto fisso che ora magari, dopo Brunetta, in ufficio ci vanno, ma non sanno che fare.

La Corte Europea condanna l’università Cattolica di Milano perché ha licenziato un professore di religione che si è dichiarato ateo – nemmeno licenziato: non gli ha rinnovato l’incarico. C’è l’obbligo, per questa Corte e questa Europa, di far insegnare religione a un ateo.

Il vice-questore di Napoli vorrebbe ridurre la scorta a Saviano, la ritiene immotivata. Il capo della Polizia allora interviene e dice che, al contrario, va rafforzata. Berlusconi e altri ricevono una minaccia di morte terrorista. Il capo della Polizia interviene e dice che il messaggio non è “autentico”. Che razza di fascismo è questo?
O bisogna dire che Berlsuconi è più abile come editore, come Mondadori?

Nessun dubbio che Rosetti, superabitro di Collina, abbia fatto perdere volutamente la partita alla Roma domenica contro il Milan, club con cui Collina a lungo ha avuto relazioni speciali. Rosetti è uno che ci vede, non fa errori. Lo stesso Rosetti che fermò la Roma in corsa per lo scudetto due anni fa, facendo letteralmente pareggiare l’Inter in Inter-Roma il 27 febbraio 2008 – e criticato espulse la volta successiva Perrotta prima ancora che entrasse in campo… Ma per i romanisti un solo nemico esiste, la Juventus.

Nessun dubbio tra Flavio Briatore e sir Max Mosley su chi bara e chi ne è vittima. Hanno entrambi molto pelo sullo stomaco, ma uno di più. Solo che è inglese, mentre l’altro è proprio italiano. Anche per i giornali italiani.

“Opinioni scicche (o cicche)”, lamentava Flaubert con George Sand nel 1866: “Essere per la religione cattolica (senza crederne una parola), essere per la schiavitù, essere per la casa d’Austria, portare il lutto per le regina Amelia, ammirare “Orfeo agli Inferi”, organizzare la protesta agricola, parlare di sport, essere freddi, mostrarsi idioti fino a rimpiangere i trattati del 1815 (la Santa Alleanza contro la Francia, n.d.r.). È tutto quello che c’è di più nuovo”. Nel 1866. E centoquarant’anni dopo.

Fa senso la foto di gruppo di Fini e D’Alema sul “Corriere della sera” con i loro “giovani” ad Asolo. Oggi più di ieri, quindici anni fa, all’inizio della politica in tv, quando si spalleggiavano sul teleschermo quali dioscuri della Seconda Repubblica, freschi di comunismo e di fascismo che allegri rinnegavano. Allora si pensava: è tattica politica. Oggi è velinismo? A sessant’anni? In quindici anni non hanno fatto e detto nulla di giovanile, solo vecchi trame, col complesso di Andreotti.

Bagnasco non vuole l’ora di islam a scuola, Martino sì. Cardinali entrambi. Visto da destra e visto da sinistra? No, si apprestano le posizione per il conclave. La questione in sé meriterebbe riflessione.

giovedì 22 ottobre 2009

Il "Todo modo" del compromesso

Balzac scrisse quaranta volumi in cinque anni, secondo la sorella Laure. Un volume ogni quaranta giorni, scrivere senza pc era molto più lento, soprattutto fare le copie. A trecento pagine in media a volume, dieci pagine al giorno, tolte le domeniche, le feste e qualche convegno amoroso. Erano libri di vario genere, che pubblicava sotto vari pseudonimi. Questo ai suoi vent’anni – ai trenta-quaranta, dal 1827 al 1848, novantasette opere, trentamila pagine, quattro-cinque in media al giorno, di cui rivedeva le bozze normalmente dieci-undici volte, nel mentre che viaggiava, come gli piaceva, e chiacchierava.
Camilleri a ottant’anni, non abbiamo fatto il calcolo, ma probabilmente è sopra la media di Balzac, che finora era un record: da un paio d’anni ormai è a un libro al mese. In più, pur usando lo stesso nome, esprime una multipla personalità, sulla traccia di Kierkegaard e Pessoa: è autore di Montalbano, di romanzi storici, di romanzi francesi di costume, di libri d’attualità, e di novelle metafisiche, non male, queste ultime. “La rizzagliata”, per non perdere tempo con gli editori, che pur essendo anch’essi diversi, stanno attenti a non intasare le librerie con più di un Camilleri al mese, lo ha pubblicato l’anno scorso in Spagna.
Questo è un libro diverso, un altro genere nei multipli Camilleri. Un giallo, ma non alla Montalbano. Uno palermitano, molto. Che è anche un vero romanzo storico, come pretende l’autore, seppure di attualità, e un romanzo di costume solido, ben difeso dalle fregne. È e sarà il romanzo del compromesso storico, dove ogni infamia è normale – come “Todo modo” è il romanzo della Dc e di Moro. Ma questo è il meno, chi vuole lo legge ogni giorno sul giornale. Il libro è molto più – anche se lascia per una volta cauto l’incensatore del risvolto, Salvatore Silvano Nigro.
La città, la Sicilia, vi è rapida e acuminata, da cultura metropolitana. Piegata infine su se stessa dalla nota piaga, compiaciuta, del potere che fa aggio su tutto, che ha fottuto e fotte la Sicilia. Scintillante. Di una tortuosità cristallina, Camilleri vi fa ottima resa della verità, che a Palermo si adegua: plastica, informe, cera fusa, e sempre mortale. Avviluppandola e svolgendola senza una debolezza, un’indecisione, una faglia. Dopo aver fatto giustizia, sbadatamente, delle cianfrusaglie che ancora si vendono sul Sud, sulle donne, le corna, e le mafie.
A proposito di Spagna e di morte: c’è chi dice che la Spagna è sopraffatta dal senso della morte, per il funerario asburgico, le mantiglie, le corride, ma non può essere che sia stata Palermo, che Sciascia vuole molto spagnola, a infettare la Spagna? Che di suo, in fondo, è vandala, un po’ vagabonda cioè, e quando vuole sa applicarsi, si fa i conti, vede le convenienze. L’italiano dialettizzato, cui Camilleri costringe i lettori anche in questo romanzo metropolitano, non si spiega altrimenti, che come riaffermazione di una vecchia superbia.
Andrea Camilleri, La rizzagliata, Sellerio, pp. 211, € 13

Breve storia dell'unità

A Palermo Cavour mandò prodittatore, insomma questore, il marchese Massimo di Montezemolo. Piemontese, liberale, il marchese cercò di gestire la città. Ma c’erano da sistemare i nobili e i dignitari del vecchio regime, che altrimenti sarebbero diventati nemici, tutti i parenti di tutti i patrioti, e perfino convincere diecine di funzionari, che prendevano quattro e cinque stipendi, a prenderne uno solo. Fece perciò poco. Anche perché il suo compito era principalmente di consentire a Cavour di liberarsi di La Farina a Palermo, e di Farini a Napoli.

Quando Vittorio Emanuele visitò Palermo dopo la conquista, fu accolto da manifestazioni folli d’entusiasmo. La plebaglia staccò i cavalli, spinse la carrozza reale su per via Macqueda fino alla cattedrale, e infine lo incalzò dentro il sacro edificio. Regalmente indignato per questo trattamento, Vittorio Emanuele disse al sindaco disinformare la folla che non era un tenore né un ballerino, e che sarebbe stato bene che si comportassero come uomini e non come bestie. Parlò poi in cattedrale, senza mai menzionare Garibaldi. Evitando di farsi rivedere in pubblico nel resto della visita. Benché Montezemolo e Lamarmora spiegassero che il contatto con la persona del re avrebbe fatto molto di più per l’Italia che non gli editti.

La chiesa e i cattolici furono il problema principale di Cavour dopo l'unificazione, e parte la ricostruzione. La sua idea “Libera chiesa in libero stato” egli proponeva a vantaggio della chiesa, e dei cattolici nella vita politica. Così egli la spiega ampiamente nelle lettere a Diomede Pantaleoni e in tre discorsi parlamentari a fine marzo 1861, “che, presi insieme, formano una sola orazione” (Thayer, 454), e rimangono di validità incontestabile. A fronte dei risultati controversi di molti concordati, compreso quello con l'Italia. Al termine dei discorsi Cavour predisse che, in un regime di reciproca libertà, il partito cattolico sarebbe stato la maggioranza: “Sono rassegnato a finire la mia carriera sui banchi dell'opposizione”.
Un tentativo di convincere il papa e il suo ministro cardinale Antonelli ad abbandonare il potere temporale, portato avanti da Cavour a Roma attraverso il dottor Pantaleoni, il gesuita Carlo Passaglia, e altri tre suoi agenti, Omero Bozino, procuratore legale vercellese, imboscato a Roma dal cognato architetto Giovan Battista Caretti, l’avvocato Salvatore Aguglia, mediatore d’affari degli Antonelli, e l’abate Antonio Isaia, segretario della Dataria, le Finanze vaticane, col sostegno di numerosi cardinali liberali, fallì all'ultimo minuto, quando già gli stessi Pio IX e Antonelli si erano convinti. Il 17 marzo 1861, all'improvviso, il papa ingiunse a Pantaleoni di lasciare Roma entro le ventiquattro ore.
Non si è trovato il motivo dell'improvviso mutamento. La spiegazione più plausibile è che Antonelli abbia scartato all’ultimo, quando alcuni cardinali di curia si sono manifestati contrari. Perché il suo assenso era stato comprato: il governo italiano avallava tutti i contratti della sua famiglia con la curia vaticana, e a lui personalmente donava tre milioni. Antonelli non poteva rischiare di vedersi rinfacciare i traffici familiari in concistoro.
Lunedì 18 marzo, la vigilia di san Giuseppe, Pio IX pronunciò un discorso, con la solennità di un'enciclica, contro il governo di Torino, il progresso e il liberalismo, ribadendo l’inviolabilità del potere temporale, al quale attribuì carattere religioso, non potendolo elevare a dogma, com'era nelle sue abitudini. Tre anni dopo la condanna sarebbe diventata definitiva col “Syllabus”.
Sarebbe stata un’altra storia, dell’unità e dell’Italia.

Prima del discorso il papa insultò tanto pesantemente il cardinale Santucci, uno di coloro che gli consigliavano l’abbandono del potere temporale, che il prelato impazzì, e dopo pochi mesi morì.
Con Pantaleoni Pio IX avrebbe voluto cacciare da Roma anche la famiglia del dottore. Non poté, perché la signora era inglese, e Palmerston non si sarebbe privato dell'occasione per attaccare il papa. Ma il papa si permise un: “Ah, quel maledetto Palmerston!”.

mercoledì 21 ottobre 2009

Una buona autonomia sarebbe da Napoli

Uno ascolta in tv il senatore Mancino impegnare il Csm a difesa dei calzini del giudice Mesiano. L’autorità del Csm. D’urgenza. E a tale proposito anzi scrivere e dare assicurazioni al presidente Napolitano. E non c’è dubbio, si complimenterà per l’autonomia e la prontezza di riflessi del senatore, di Napolitano e dei giudici. Ma a Napoli, forse. Altrove, ma forse anche a Napoli, a chi possono interessare questi calzini? E se sì, i pesanti accenti dei vertici dell’autonomia dei giudici non susciteranno diffidenza e anche repulsione? Certo controllata: la napoletanità della giustizia è stata denunciata, ma la giustizia non se ne dà per inteso.
O il senatore Mancino vuole semplicemente impallinare l’appello di Berlusconi, e la sospensiva della esecutività? Non vorrà per caso costringerlo a dare 750 milioni, di euro, a Carlo De Benedetti, che non se li aspettava e non sa che farsene? Il problema è che uno con Napoli non può escluderlo: Napoli – a Napoli o a Milano – è capace di tutto.
La città che si è assunta tutta la giustizia d’Italia, costituzionale, civile, penale e sportiva, è come si sa una dove non c’è nessuna forma di giustizia. Non si riescono neppure a tenere le primarie del partito Democratico. E la Procura si affretta a rinviare sine die il famoso processo contro la Juventus, come perfino questo sito sapeva dodici giorni fa (http://www.antiit.com/2009/10/moggi-verso-la-prescrizione.html), ricusando la giudice, in attesa della prescrizione: doveva deporre il maresciallo che ha intercettato Moggi (un solo maresciallo per centinaia di telefonate al giorno?), e questo non è possibile. Il solo colpevole a Napoli, come si sa, è Mastella, che figura napoletano ma non lo è.
Certo, Mancino è un problema a sé: parlava con Ciancimino e non sapeva che i mafiosi sono prima di tutto malfidati – traditori, ricattatori, calunniatori. Ma la storia è sempre quella, dei nove giudici su quindici della Corte costituzionale napoletani, più il capo dello Stato, Napolitano, e del Consiglio superiore della magistratura, Mancino. Più il loro commentatore principe, D'Avanzo. Della giustizia dunque napoletana, leguleica, furbesca, strafottente, che soggioga l'Italia con i boss di Milano, i banchieri e i loro giornali.

Il Mezzogiorno nasce a Torino

Dopo dieci anni è come nuovo: le “Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto”, di cui al sottotitolo del libro, è come se fossero intonse. Forse perché si tratta di una vindicatio del Sud, agile ma molto documentata, per i cinque sesti del libro. Dopo una prefazione che riesce a sovvertire in poche pagine gli stereotipi, la “rappresentazione costruita” del Sud: “La Questione Meridionale è un discorso, una costruzione dell’immaginario” – altrove, Salvatore Cafiero ha potuto dire che il fascismo, bandendo la parola, Questione Meridionale, ne coglieva a suo modo il carattere costruito. Per una imagerie italiana e europea dapprima sorpresa poi corriva. Che servì l’unità d’Italia come si è realizzata: il feudo, il latifondo, l’assenza d’imprenditorialità, tare antropologiche (familismo, individualismo, faziosità, clientelismo) e perfino (Lombroso, Niceforo) razziali, devianze (emigrazione, rivolte, mafie). Fino alla folklorizzazione: briganti e brigantesse che si acconciavano e parlavano come i loro fotografi e intervistatori li acconciavano e li facevano parlare, per essere veramente briganteschi – questa fondamentale decostruzione la dobbiamo a John Dickie e Nelson Moe, uno studioso inglese e uno americano.
Marta Petrusewicz ha trovato tante Società attive nel regno di Napoli, tecniche e scientifiche. E tantissime pubblicazione, sociali e politiche, di livello anche decoroso e perfino eccellente. Scopre molti modernizzatori, specie in agricoltura, con tutte le novità, francesi, olandesi, tedesche. Ha un intero capitolo su “Il liberismo degli agrari meridionali”. E dà conto di molti investimenti pubblici, negli anni 1830 e 1840, per rimboschimenti, strade rotabili, strade ferrate, porti e canali. Un a storia rifà peraltro non clandestina, c’è nelle lezioni e la corrispondenza di De Sanctis, che ancora si legge. Ma dimenticata.
Il declino del Sud comincia nel 1848, con la reazione e l’esilio. Nulla che non si potesse comare dodici anni dopo. Se non che gli esuli a Torino inventarono la Questione Meridionale… - e l’unità, che però, certo, è un’altra storia, fu fatta in modo che ancora oggi non si riesce a raccontare.
Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (45)

Giuseppe Leuzzi

Ras al Khaimah era un piccolo villaggio polveroso di pescatori quarant’anni fa. E anche trent’anni fa, cinque dopo il primo boom petrolifero. Ora organizza e ospita la Cup of America, con le lodi ammirate dei concorrenti, velisti di difficile palato.
Dubai era un creek anch’esso polveroso, da dove partivano la sera le dhows panciute per l’India. Centro del contrabbando, si diceva, dell’oro, di cui sia gli emiri il subcontinente indiano sono ghiotti. Ma le dhows caricavano a vista, alla rinfusa sul ponte, boatte Cirio, sanitari, e materassi a molle, un piccolo cabotaggio, nel quale toccavano anche l’India. Ora Dubai è il primo hub aereo intercontinentale, col più grosso boom immobiliare, dopo Shangai, si è fatte spiagge dorate, e di cascate irrigue adorna i palazzi, gli alberghi e ogni parete.
Del Qatar solo si sapeva che ospitava la flotta Usa. Ora fa l’opinione araba con al Jezira, esporta gas in mezza Europa con impianti di liquefazione d’avanguardia, ha dichiarato re il suo emiro, e si permette un ministro ebreo, anzi una ministra.
L’Oman quarant’anni fa non aveva la luce elettrica, l’emiro si opponeva.
Gli emirati il De Agostini registrava ancora come Trucial States, staterelli della tregua, della tregua dell’impero britannico con i pirati. Non più grandi ognuno di poche tende rifatte in muratura. Al Kuwait come a Umm al Qwain si avevano problemi quarant’anni fa, e ancora trent’anni fa, a portare il latte a casa dal supermercato: senza la borsa termica andava a male. Ora sono non solo il posto più ricco della terra – basta il petrolio. Ma anche il più attivo e inventivo. I principi sauditi, i fratelli del re in carica, quando arrivarono i soldi del petrolio ne rimasero storditi: volevano sbancare Montecarlo, bevevano, compravano yacht superaccessoriati che non usavano. Ma dopo cinque, dieci anni, erano diventati imprenditori, investitori, operatori finanziari tra i più capaci nel loro paese e nell’economia globale.
Tutte le teorie del sottosviluppo e del ritardo economico vanno riviste. Specie quelle della questione meridionale.
L'Irlanda era il paesi più povero dell'Europa occidentale nel 1973, quando aderì alla costituenda Unione europea. Era il paese più ricco trent'anni dopo - malgrado fosse stata il retroterra di una violenta guerra civile nell'Ulster.

Il giudice Mesiano è ripreso da un vicino di casa a Milano a cui è sempre sembrato strano: solo, senza vita sociale, che si fa fare la barba dal barbiere, passeggiando e fumando la mattina in attesa che il barbiere apra. Uno straordinario documento antropologico, su un giudice della Repubblica, su Milano, sui vicini di casa a Milano, su un calabrese a Milano, dove non si passeggia.
Il giudice sarà stato fotografato per vendetta politica, per la sentenza contro Berlusconi, comunicata anticipatamente alla controparte, pubblicata surrettiziamente via email. Non senza motivo insomma, la Lega non nasce sul nulla. Ed è meglio avere il coraggio delle proprie opinioni, anche a Nord. Ma: che ci fa un calabrese a Milano, a cinquant’anni, che la mattina aspetta di scambiare quattro parole col barbiere? Per il “posto”.
È un video di due mondi. Totalmente diversi e separati, benché li unisca il concorso unico nazionale. Si può pensare la sentenza abnorme di Mesiano la sua guerra a Milano.

Dice il ministro Tremonti al “Corriere della sera” il 26 settembre: “Il Centro-Nord, 40 milioni di abitanti, un medio-grande paese europeo, da solo produce più ricchezza della media europea”. È grande come la Spagna, e (molto) più ricco. “Il Meridione d’Italia, 20 milioni di abitanti, grande come Portogallo e Grecia messi insieme, sta invece sotto la media europea”. Ci hanno ridotti a venti milioni.
Sembra riduttivo e anche leghista: ridimensionare il Sud. Ma potrebbe essere una via d’uscita: un Sud sempre più ristretto. Ciò che s’intende per Sud, malaffare, malgoverno. S’intravede già un Sud senza la Puglia, per esempio, se le signore di Bari non faranno più le escort, e senza la Basilicata, così pulita, dove fioriscono anche i calanchi, o la Sardegna. Poi magari il Sud si limiterà in Sicilia ad Agrigento-Palermo, in Campania a Napoli-Caserta… È la filosofia dello shrinking: bisognerebbe ogni tanto “sbagnare” il Sud.

Non c’è avvenire senza storia. “Di tutti i bisogni dell’anima umana, non ce n’è uno più vitale del passato”, è l’asse portante di “Radici” (L’enracinement) di Simone Weil. La distruzione è della storia: “L’avvenire non ci apporta niente, non ci dà niente; siamo noi che per costruirlo dobbiamo tutto dargli, dargli la nostra vita stessa. Ma per dare bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa, che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati da noi”. Non è il passato che manca al Sud, che ne avrebbe anzi, di dice, troppo. Ma “il passato distrutto non ritorna mai più: la distruzione del passato è forse il crimine più grande”. Il Sud manca di tante cose, ma soprattutto di memoria.
È sterminata e inappellabile l’analisi di Simone Weil sul rapporto della persona con i luoghi. “L’eccesso di stabilità produce nelle campagne un effetto di sradicamento”, dice a un certo punto, e corrobora. E la terra è centrale al Sud. Bisognerebbe organizzare per le campagne una sorta di Tour de France. Con tappe di lungo periodo, non in città ma in altre campagne – l’acculturazione attraverso il servizio militare è per questo dannosa, spiegava la filosofa, contribuisce allo sradicamento: il giovane contadino esce umiliato dal confronto con l’urbanizzato, il settentrionale, l’alfabetizzato.

Mafia
È incredibile che Massimo Ciancimino soggioghi giudici, giornali e televisioni con l’incredibile storia del “papello”. E anzi ne produca uno palesemente contraffatto senza essere incriminato per calunnia. Ma è il modo d’essere della giustizia in Italia: si giustifichino Mancino, Amato, Rognoni, Borsellino che non si può più difendere, i carabinieri. Più persone stimabili possono trascinare nel fango, più i giudici diventano attivi, efficienti, risoluti.

L’odio-di- meridionale
Fabio Cannavaro è colpevole non colpevole di doping. Cioè non si dopa, ma si dice che è accusato di essersi dopato, ingiustamente certo. Oggi come cinque anni fa, quando l’Inter e la Rai fecero circolare un suo video con una flebo.
Sì, ma perché Cannavaro, uno pensa, e non un altro, magari della stessa Juventus? Si vede che Cannavaro in qualche modo c’entra. È invece no, è Cannavaro e non un altro perché Cannavaro è il miglior calciatore napoletano su piazza. E questo non va giù a Napoli: erano i giornalisti napoletani della Rai, vecchi e nuovi, dello sport e dei tg, chi più furbo, chi più aggressivo, che volevano seppellirlo cinque anni fa - prima che i giudici, napoletani, non trovassero di meglio per affossare la Juventus.
I napoletani sono le prime vittime di Napoli: leguleismo, concussione, corruzione, e la violenza illimitata, molto “onesta”, della Legge. I meridionali in genere sono le vittime del Meridione: altri calciatori di successo, il calabrese Sculli, il siciliano D’Agostino, appena arrivano alla Nazionale trovano un Procuratore della Repubblica che li associa alla ‘ndrangheta il primo, alla mafia il secondo - quando avevano dodici e tredici anni (Iaquinta e Gattuso l’hanno fatta franca, ma per essere andati via prima dei dieci anni).

leuzzi@antiit.eu

martedì 20 ottobre 2009

Malinconiche barzellette di regime

Malinconico ritorno, quasi un epicedio, alla malinconia d’antan, di prima dell’intossicazione politica. Fatale all’immaginazione del reale inafferrabile, gli stati d’animo, le accensioni, le ombre, e alla scrittura fine, di grana sottile, che hanno fatto la cifra di Tabucchi.
Il radicamento cosmopolita, di uno scrittore che sta bene ovunque, emulo del nume Pessoa, che illumina questi rapidi aneddoti, s’invischia peraltro sempre nel politicamente corretto alla maniera parigina, superficiale e ultimativo. Con le barzellette di regime. C'è perfino il reducismo - si veda il diverso esito del suo spione Stasi pensionato con lo spione del non meno impegnato G.Grass, “È una lunga storia”: tutt’altra storia.
Antonio Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta, Feltrinelli, pp. 175, € 15

I godimenti dell'Io infranto

Libro spaventoso. Onesto, accattivante a tratti, spaventa che si ristampi da trent’anni ormai in continuazione, forse il libro che è stato più in catalogo del suo pur opulento editore, settecento pagine di poesia. Peraltro molto ineguale: è un’antologia, ma molti pezzi ha spenti. Nell’originale oltre che per le traduzioni, che, benché aderenti, inevitabilmente trascurano con le rime la musicalità e il ritmo, specie in “Mensagem”. Eccetto che per lo stesso “Mensagem”, il poema del Portogallo, per il saggio di Tabucchi e per le note di Maria José de Lancastre. E per l’invenzione degli eteronomi, certo, la lettera alla zia, “Ultimatum”, “La legge di Malthus della sensibilità”, i versi gnomici, la filosofia di Antònio Mora.
C’è di che leggere, i motivi d’interesse non mancano. In “Ultimatum”, dove Pessoa scaccia i mercanti dal tempio, D’Annunzio è “don Juan a Patmos”, H.G.Wellls “immaginifico di gesso, cavatappi di cartone per la bottiglia della Complessità”. Ma sommersi da valanghe di versi e di pagine inutili. Incredibilmente illeggibile la celebre “Ode marittima”, che per un migliaio di versi mai risponde all’iniziale curiosità (e tuttavia è già alcuni “Cantos” di Pound…), così come le altre “Odi” di “Alvaro de Campos”. Con la traduzione peraltro spesso migliore dell’originale. Specie delle ultime poesiole, con i loro suoi tanti versi entrati nella parlata.
È per questo un libro spaventoso, sorprendente per la tenuta, sempre riedito, un libro di poesie. Di un autore che pretende: “Non mi ricordo un libro di quelli che ho letto”, si amerà la saggezza, in poesia e in prosa: “La più «radicale» delle dottrine, se viene universalmente accettata, è una dottrina conservatrice”. Si apprezzerà per le tante anticipazioni. Dal celebre “è tardi già, e ancora è presto”, alla fenomenologia, con più chiarezza peraltro di un Husserl. A Heidegger e il cosiddetto esistenzialismo: “E per assenza esisto, come il vuoto”. Alla fisica della Complessità.
O è buon compagno per la gnomica lieve degli ultimi versi, specie degli ultimi versi, sorprendente. Di freccette dritte al cuore. Un florilegio si può estrarre che consolerà i più:
“Sono venuto qui per riposare,\ma ho scordato di lasciarmi a casa!
“Quali altri? Non ci sono altri”.
“Ogni cosa a suo tempo ha il suo tmpo”.
Tutto Reis: “Ciò che sentiamo… è ciò che abbiamo”. “Chi poco vuole, ha tutto”. “Non so di chi ricordo il mio passato”. “È in me che Dio ha vita”.
O Caeiro: “C’è abbastanza metafisica nel non pensare a niente”. “Pensare a Dio è disobbedire a Dio”.
Di un pessimismo già di stagione. “Uno studio imparziale è un lavoro socialmente inutile”, conclude Pessoa. E perché dovrebbe essere socialmente utile?
Pessoa sarà stato il monumento all’Io nel momento in cui l’Io si decomponeva, e lui stesso lo smembrava meglio di altri - Foucault, nell’“Archeologia del sapere”, 1969, dirà questa applicazione di superbia ineguagliabile: l’autore che dichiara la morte dell’autore, e annunzia che non sarà mai lo stesso, quella pratica lasciando all’anagrafe, chi scrive questo in realtà “scava un tunnel, per nascondersi e sfuggire a sé stesso”. E questa è la chiave della sua discreta costante popolarità: l’ego terribile, spropositato, sfrenato, nel compiacimento illimitato di sé per centinaia, migliaia, di versi e di pagine, ripetitivo e anche sorprendente, e senza tragedia. Non c’è altro motivo: l’arguzia e la gnomica sono succedanee, lampi parziali. E Tabucchi certo, la chiave è il curatore: per nessun altro è vero come in questo caso, che l’autore è il suo lettore. Qui, in “Un baule pieno di gente”, “Il signor Pirandello è desiderato al telefono”, e in altri saggi e scritti di circostanza, Tabucchi crea un Pessoa affascinante.
Leggendolo come nuovo un secolo dopo, Pessoa è anche la sanzione dell’immutabilità del Novecento, monotematico nella crisi dell’Io presuntuoso, il secolo della novità continua, radicale sempre: è contemporaneo ciò che Pessoa sapeva e scriveva nel 1910, con gli stesi termini. Sarà anche questo un motivo della fortuna costante di questa robusta antologia.
Fernando Pessoa, Una sola moltitudine

lunedì 19 ottobre 2009

Eni lungo tubo di Mosca - malgrado Obama

Tanto gas, e ora anche petrolio: c’è più di un fronte in cui l’Italia ancora conta, malgrado la si voglia sparita, e in quello del rapporti con la Russia e del mercato degli idrocarburi è anzi centrale. Lo sa la Farnesina e lo sa l’Eni, dove i rinnovati tentativi di smembramento portati avanti da soci americani cosiddetti indipendenti non hanno ingannato nessuno.
L’Eni, che un tempo si diceva “il lungo tubo di Mosca”, resta il canale privilegiato del petrolio e del gas russo in Europa. Un asse che la Casa Bianca vede come il fumo negli occhi. Obama ora come già Bush jr. e Clinton. Berlusconi immaginò di superare le riserve Usa proponendo a Gazprom un partner privato – un affare doppio, poiché questo privato, un certo Mentasti, era amico suo e di sua moglie. Putin lasciò passare e poi fece formalizzare, gradualmente, i contatti con l’Eni. Obama ha abbandonato la pregiudiziale antirussa, ma resta contrario a un asse eurorusso, e quindi a una stabilizzazione della forniture di energia, che l’asse renderebbe un dato di fatto. Anche se non ha carte in mano, a parte naturalmente l’obbligo per ognuno di mantenere relazioni speciali con gli Usa.
La tournée europea di Hillary Clinton, che ha volutamente escluso l’Italia, non ha ottenuto niente nelle capitali europee ritenute più affidabili, quali Berlino – che Washington ora si associa in tutte le iniziative che vedono coinvolti come compagni di strada gli altri europei membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Francia e Gran Bretagna. Anzi, il progetto Nabucco, che Washington ha messo su, potrebbe dirsi nell’occasione finito, pur godendo ancora dell’appoggio entusiasta della Commissione di Bruxelles, dove il commissario per l’Energia risponde agli interesse dell’Enel tedesco, la Rwe, che sola è interessata al progetto. Il Nabucco prevede l’aggiramento della Russia, convogliando il gas di Azerbaigian, Turkmenistan, Iraq e Iran attraverso la Turchia. Un gasdotto dai costi improponibili, per forniture da paesi di nessuna affidabilità, al contrario della Russia.
Germania, Francia e Olanda, che avrebbero dovuto sostenere Nabucco, sono ora orientati per il Nord Stream, un gasdotto che bypassi l’Ucraina attraverso il Baltico, per lo sfruttamento dei nuovi giacimenti di Yuzhnoi Russkoye e Shtokman. Vi sono interessati i gruppi tedeschi E.on e Basf Wintershall, le francesi GdF-Suez e Total, e l’olandese Gasunie.
Ma Gazprom trova soprattutto sbocco con l’Eni. Che, in aggiunta ai 10-12 miliardi di metri cubi l’anno importati via Ucraina, ha già avviato un gasdotto via Mar Nero, il Blue Stream. E di un altro, il South Stream, ha definito con Gazprom gli accordi in dettaglio. In South Stream entrerà anche il colosso Electricité de France.
Una terza grande condotta Eni potrebbe avere la partecipazione russa, il Tap, Trans Anatolian Pipeline, da Samsun a Ceyhan, che porterà al Mediterraneo il petrolio del grande giacimento kazako di Kashagan. La Russia è interessata a utilizzare l’infrastruttura per le proprie esportazioni. È in questa prospettiva, ancora riservata, che Berlusconi è stato inopinatamente invitato dal suo amico Erdogan al vertice russo-turco di due mesi fa. Berlusconi, cambiato il referente a Washington, è ora solidamente per l’Eni.

La spia è triste

È la storia di un colpo audace, al protettissimo museo Topkapi di Istanbul, e di un temuto golpe o atto terroristico. Che una banda di criminali e la polizia turca conducono in parallelo. È il romanzo della spia suo malgrado, che era e resta povero, anche di spirito. Ribattezzato in traduzione col titolo del film famoso del 1964 di Jules Dassin. Ma il film è brillante, il romanzo triste.
È la traduzione di “The Light of the Day”. Un borsaiolo egiziano, che si finge inglese e opera sui turisti che arrivano ad Atene, viene ingaggiato, da una sua vittima che l’ha scoperto e lo ricatta, per il at per il colpo del secolo al muso Topkapi di Istanbul. Ma lo ricatta anche la polizia, con la quale non potrà non collaborare, che per altri motivi segue il gruppo di cui è entrato a fare parte. Il film si ricorda più agile e caratterizzato dell’originale di Amber. Ma qui è la radice di tutta la letteratura spionistica del Grande Freddo, o della guerra fredda: un mondo dolente e rassegnato, più che avventuroso. Anticipatore, anche se di pochi mesi, del più famoso Smiley, “la spia che venne dal freddo” di Le Carrè, e dei cloni di Smiley.
Il vero plot naturalmente non è il furto del Topkapi. Ovvero sì, ma intrecciato con altri più avventurosi. La chiave è che nessuno è quello che appare. Eccetto lo spione, che per definizione non lo è.
Curiosamente, oggi come sessant’Anni fa, la Turchia postbellica è tra il qua e il là: dà l’idea di essere familiare e insieme remota e estranea. Per un fondo di durezza sugli splendori del Bosforo, e per una concezione al fondo di diversità.

Eric Ambler, Topkapi, Adelphi, pp. 241 € 18

L'uomo-penna

Il letteratissimo “uomo-penna” (di cui all’amante da giovane, la poetessa Colet) amava scrivere ma odiava il mondo letterario: “Sarebbe una bella idea”, scrive all’amico Maxime du Camp, “quella di un gagliardo che, fino ai cinquant’anni, non pubblicasse niente e poi, d’un colpo, facesse comparire, un bel giorno, le opere complete, e la finisse là”. Uno che non può fare altro ma sente la scrittura come una fatica. Un giorno. Un altro sente il desiderio di scrivere montare “come eiaculare”, scrive alla Colet - “come fottere” a Taine.
Questa minuscola scelta della corrispondenza puntata sulla scrittura offre però, fra le tante chicche, di cui la corrispondenza di Flaubert mai è avara, quella del plagio. Di quando Flaubert si scopre Balzac, avendolo infine letto: una scena di “Bovary” è uguale nel “Medico di campagna”, mentre “Louis Lambert”, personaggio e titolo di un altro romanzo di Balzac, è l’amico di Flaubert morto giovane Le Poittevin, e comincia “con una frase di «Bovary»”. Dopo il lampo sull’’89: “Non trovate”, scrive a George Sand, “in fondo, che, dopo l’’89, siamo via di testa? Invece di continuare sulla grande strada, che era larga e bella come una via trionfale, ci siamo perduti per le viuzze”. Tradizionalista: “Prima di ammirare Proudhon, se si studiasse Turgot? Certo lo CHIC, questa rivoluzione moderna, che ne sarebbe”. E all’illustre amica anticipa le frasi fatte: “Opinioni scicche (o cicche): essere per il cattolicesimo (senza crederne una parola)…”
Gustave Flaubert, L’homme-plume, Mille-et-une-nuits, pp. 112, € 1,95

Il mondo com'è - 24

astolfo

Diritti - I diritti politici e civili si mordono la coda. Un giudice americano non estrada in Italia un noto mafioso perché in Italia c’è la tortura. Non in America, che tiene a Guantanamo nelle privazioni alcune centinaia di mussulmani senza difesa e senza identità. Per i diritti di libertà, che aveva inventato con l’Urss (sì, con l’Urss), insieme con Brezisnski e il papa Woytila, Carter abbandonò lo scià per Khomeini. E inventò Bin Laden in Pakistan, per difendere i diritti umani nell’Afghanistan sovietizzato. Clinton e D’Alema hnno fato guerra alla Serbia per liberarla da Milosevic. E per questo crearono un fronte di liberazione mafioso nel Kossovo.
I diritti civili e politici sono insidiosi. Tutte le minoranze potrebbero pretendere diritti esclusivi, e non c’è limite alla partenogenesi, di minoranze di minoranze. I baschi naturalmente, i catalani, oppressi dal castigliano, e perfino i sud tirolesi, che sono diventati, coi soldi di Roma, i più ricchi d’Europa, e quindi del mondo – o forse no, sulla Quinta Avenue a New York ci può essere una popolazione analoga, duecentomila persone, più ricca.

Guerra – Oggi si vuole giusta, pulita, umana. E sempre popolare. Nella discussione su pace e guerra si è sempre al dibattito sulla democrazia ateniese: se sono – erano – i ricchi a spingere per l’espansione, la guerra continua, oppure il popolo, che in Atene comandava. Razionalmente, non c’è guerra che possa essere popolare, ma così è molte volte.
In Serbia i bombardamenti hanno ucciso alcune migliaia di civili, per liberare la Serbia dal suo presidente Milosevic, poi inutilmente dichiarato criminale di guerra, per il palcoscenico di una giudice svizzera, e per liberare i kossovari che non volevano essere liberati, meglio la Serbia che l’Albania, e che comunque non l’avevano richiesto, con l’eccezione di un fronte di liberazione creato ad hoc, per un mafioso. L’ “ingerenza umanitaria” è teorizzata come “diritto d’intervento” da Giovanni Paolo II ai diplomatici il 16 gennaio 1993. Il diritto di (non) intervento è stato rimodulato nell’“unificazione” del mondo conseguente alla caduta del comunismo, sulla base dei diritti umani, che sono ora il fondamento etico di ogni politica. Ma non c’è criterio per far passare i diritti umani come criterio di giustizia. Oggi Roma direbbe che Cartagine è da distruggere perché immola i bambini, i Afghanistan e non solo, e questa è la sola novità.

Iran - Obama ha scritto agli ayatollah evangelico, alla Jimmy Carter. Che poi montò la catastrofica spedizione in elicottero. L’unica cosa che può avere imparato dal suo messaggio è che l’Iran ha una storia molto antica.

Liberale – A lungo è stato sinonimo di antireligioso. Era in tal senso liberale anche il bolscevismo.
Fu questa accezione a indurre il liberale Godetti a sponsorizzare il bolscevismo al tempo di Stalin?

Mistero – Può essere anche un linguaggio, un modo di pensare. Dei celti, per esempio. Oggi della piccola borghesia, dice Adorno: fa parte della sua paranoia della cospirazione universale.
Ma la piccola borghesia ha soprattutto certezze – false ma solide.

Sindacato – Organizza il lavoro dipendente, che rappresenta nei contratti collettivi, e associa i lavoratori pensionati. È minoritario nel mercato del lavoro, rappresentando il 26 per cento della forza lavoro: un quarto dei 23 milioni di occupati (ne rappresentava più della metà vent’anni fa, e il 42 per cento ancora dieci anni fa). Superato da un’organizzazione del lavoro sempre più flessibile, che a lungo ha avversato pregiudizialmente e che ora non sa recuperare.
A lungo ha avversato, oltre che il lavoro dipendente semiautonomo, le regolamentazioni che delle sue varie forme diversi governi hanno tentato (“legge Biagi”). Non tutto il sindacato ma i suoi esponenti, Cofferati, Epifani, che soli si ritengono e sono ritenuti sindacalisti veri, duri e puri. È l’ultima roccaforte del reducismo, di masse in armi e non sanno perché.

Sinistra - La migliore cultura di sinistra è una cultura della crisi. Senza Marx, né Freud, che hanno scopi terapeutici, salvifici. È un coltura della crisi. Senza neppure Nietzsche. È il nichilismo riciclato sotto l’insegna di un esistenzialismo che fiorisce fuori del suo tempo. Heidegger era buono per Weimar, Sartre per il disonore dell’occupazione (per quanto, un cattolico che fa l’esistenzialista, e un cane rabbioso che tace l’ignominia del collaborazionismo… ). Dopo il nazismo e la guerra, sul nichilismo ha fatto agio la democrazia, per quanto prudente e limitata – tenuta in vita da quella formidabile macchina del desiderio, del perfettibile, che sono i media americani. L’esistenzialismo s’è riciclato con la guerra fredda, Sartre col sovietismo, Heidegger con l’americanismo.
Manca una filosofia – riflessione – della società di massa, cioè della democrazia. Dei consumi, compresi quelli culturali, del benessere, della stessa odiosamata tecnologia. La carenza è coperta col vittimismo a buon mercato, detto cultura della crisi. Che è manifestazione tipicamente piccolo borghese, della salvezza individuale che piange nello scontro con la realtà, sia questa solo un ritardo del bus o la cosa alla posta.

Turchia – Si dice Turchia ma di fatto è un mondo “romeo” (greco, bizantino), sottomesso sette secoli fa da alcune tribù turche del centro Asia. I turchi si sono islamizzati per convenienza, per partecipare da posizioni di forza al gioco mediterraneo e poi europeo delle potenze, restando sostanzialmente agnostici – indifferenti, tolleranti. Ma hanno così “separato” la Turchia: non solo la cultura, artistica e politica, anche la popolazione restò sotto di loro “fissata” al momento della conquista, senza più mescolanza col resto del bacino mediterraneo, nelle forme somatiche e mentali (espressive) del tempo. È così che molte fisionomie e parlate mute, nel Salento, in Calabria e in Sicilia sono inequivocabilmente “turche”.

astolfo@antiit.eu