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sabato 11 agosto 2018

Ombre - 427

Si fanno le cronache dalle spiagge, come è l’uso nei mesi estivi. In tre giorni, tra giovedì e sabato uu.ss., il “Corriere della sera” inneggia al boom di Milano, pulizia, movida, turisti. A Capri dedica due pagine: “Manager violentata nella suite – stupro in un hotel a cinque stelle”, di una donna francese da parte del suo ospite. E un servizio “Il lento declino dell’isola scintillante – I troppi visitatori e le soluzioni inadeguate”. A Roma in prima l’ennesimo titolo “L’estate cafona dei turisti”. 

 “Ho autorizzato un raddoppio delle tariffe su acciaio e alluminio per la Turchia mentre la loro moneta scivola rapida verso il basso”, twitta Trump alla vigilia del più che probabile lunedì nero. Si rimprovera al presidente americano la scarsa sensibilità politica. Ma Trump non è Nessuno: è – vuole essere – il volto nudo del potere, dell’imperialismo o pax americana. Per chi lo avesse dimenticato nella melassa obamiana. È stato eletto per averlo proclamato, “America First”. 

Il padre novantenne del presidente della Toscana Rossi è rapinato in casa. Rossi non ha altro da dire che: “Le armi non servono”. Non dello straripamento di furti e violenze, a danno di singoli e invalidi, in tutta la Toscana, e specialmente a Firenze e a Pisa, le sue città. Solo gli interessa fare polemica con Salvini. Si capisce che i partiti muoiano – Rossi si ritiene prossimo segretario del Pd. Rossi è un “sicuro democratico”, ma ne siamo sicuri? 

Si moltiplicano i tiratori ad aria compressa, tredicenni ma anche adulti perseguibili, con accompagnamento di ingiurie, a danno di africani sparsi. Che inevitabilmente professano il non razzismo. Consigliati da avvocati – il razzismo è perseguibile per sé, anche senza danno alla persona offesa. Ma creduti?  

“Due ragazzi del Gambia chiedono all’Europa di processare i governi Gentiloni e Conte per le atrocità subite in Libia. Mentre c’è chi vuole rivolgersi alla Corte penale internazionale” – “Il venerdì di Repubblica”. Dietro i due africani s’immaginano coorti di avvocati, italiani e europei – chi altro poteva immaginare una causa del genere? Per gli africani è sfruttamento di ogni tipo.

Si rinnova periodicamente, ogni dieci anni, il duello tra “la Repubblica” e Travaglio, già colonna del quotidiano. Ognuno accusa l’altro di volare basso. A che altezza? Dieci anni fa Travaglio e il suo ex giornale litigavano su come attaccare Berlusconi. Oggi litigano su come gestirne l’assenza – litigano sui tweet anti-Mattarella, ma in realtà sono in crisi di astinenza. Berlusconi dovrebbe essere immortale per certo giornalismo.

Da Veronica Lario a Angelina Jolie, donne palesemente problematiche sciolgono matrimoni con alimenti milionari. Passando per vittime, nei tribunali e nelle cronache. Affrante si presentano a protezione dei figli, e vengono credute, l’avvenenza fa premio. Un certo maschilismo ci vorrebbe, dei brutti.

“Cesano Boscone: bloccate le auto di chi non paga (la mensa scolastica). Tra i fermi un Suv”. La meraviglia è che anche i padroni di un Suv non paghino la mensa scolastica dei figli. Solo i piccoli e poveri sono inadempienti. Alla giustizia?

“«In molti scattavano foto. Li ho mandati tutti via». I 4 minuti dell’agente eroe”. L’agente eroe si sminuisce, in fondo ha solo salvato degli stupidi: per scattare una foto stavano vicini a un’autocisterna in fiamme. Da postare su facebook?

“La Bce è così indipendente che non risponde dei propri errori. Per esempio, alzare i tassi a maggio e a luglio 2011 aggravò di molto la crisi. Tutti ormai lo sanno. Eppure la Bce non si è mai sentita tenuta a spiegare quell’errore”, Ashoka Modi, ex vice direttore Europa a Fmi. Come non detto.

La Nato si è allargata al Montenegro, nota democrazia adriatica. Per rafforzare la difesa dell’Occidente? Per proteggere il contrabbando? 

La verità dell'accoglienza- bis


Gran reporter dell’Africa, e della (finta) cooperazione allo sviluppo, in vecchiaia confinato al napoletano rione Sanità, che non è più quello da cartolina di Eduardo (“Non c’è un asilo comunale, non c’è una scuola media, non c’è lo Stato. Ragazzini ti attaccano di giorno armati di coltello, senza motivo, animati da una rabbia incontenibile. Qui i bambini pensano che chi si alza alle 7 per andare al lavoro sia uno sfigato, che l’operaio sia uno stupido, che la vita valga zero”), AlexZanotelli,  comboniano, ex missionario in Africa, non ha perso a ottant’anni l’onestà, né l’inconcludenza - se non è democristianesimo (furberia).
Con Stefano Lorenzetto sul “Corriere della sera” per la serie “Confessioni”, dice che la colpa del rione Sanità è di Rete 4 e Canale 5. Se la fa, lo rivendica, con Grillo e Lanzalone, dopo Veltroni. E della sua cacciata dal mensile “Nigrizia” dei comboniani, richiesta nel 1987 dalle autorità ecclesiastiche, incolpa Spadolini, ministro della Difesa, e Craxi, presidente del consiglio – con Andreotti, un Belzebù di famiglia un vero democristiano non se lo nega. E come non ricorda bene i fatti di trent’anni fa, sballa sui prossimi trent’anni: “Entro il 2050 avremo anche (in aggiunta a quelli “economici”) 250 milioni di rifugiati climatici, 50 milioni dalla sola Africa” – il continente “diventerà per tre quarti inabitabile a causa del riscaldamento globale”.
Ma delle cose che sa è onesto informatore. Sui migranti: 1) “L’Onu ha riconosciuto 65 milioni di migranti. L’86 per cento di loro ha trovato riparo nel Sud del mondo”, 2) “Il Libano ha 6 milioni di abitanti e ha accolto 1,5 milioni di siriani fuggiti dalla guerra. Nel 2017, in Italia sono arrivati 130.119 profughi”. E sulla cooperazione, il terzo settore, che ha (mal)trattato in un libro, “L’industria della carità”, di cui spiega sul “Corriere” la struttura affaristica: “Le organizzazioni umanitarie dell’Onu bruciano l’80 per cento delle risorse per il loro mantenimento. Il personale dell’Alto commissariato per i rifugiati sverna in hotel di lusso accanto ai campi profughi”. E alla interlocuzione dell’intervistatore: “Conosco un privato che intasca 3,5 milioni l’anno, netti ed esentasse, ospitando i richiedenti asilo in edifici fatiscenti”, conferma: “È un business. Come quello degli hotel decrepiti riaperti per loro a Napoli”.  

Il castello di Otranto regge


Autore non alternativo, anzi ben established, membro del Parlamento, quarto conte di Oxford, protagonista della vita sociale a Londra, Horace Walpole volle esercitarsi a 47 anni in un racconto di avventure che sarà il capostipite di un nuovo genere, il gotico – un horror a lieto fine. Lo pubblicò sotto pseudonimo, William Marshal. Poi, dopo il grande successo, a suo nome.

Benché di orientamenti liberali, raconta una storia che è una sfida all’Illuminismo, e al suo secolo -  il racconto è del 1764. Un romanzo di avventure eccessivo, i colpi di scena si susseguono, ma credibili.
Otranto ricorda, inavvertitamente, un’Europa islamizzata, se non fosse fallita la conquista di Maometto II nel 1480.
Horace Walpole, Il castello di Otranto, Rusconi, pp. 125 € 9



venerdì 10 agosto 2018

Letture - 354

letterautore


Ingmar Bergman - “È stato un teologo agnostico: il suo insegnamento per immagini ha affrontato con decisione le domande ultime sul senso della vita, della morte, del sapere, dell’amore e della solitudine” – card. Gianfranco Ravasi, “Il Sole 24 Ore Domenica” 5 agosto. Nel “Settimo Sigillo”, titolo dell’Apocalisse, e altrove: “Bergman si è confrontato con le verità estreme che la superficialità dei nostri giorni tenta di narcotizzare. E lo ha fatto di film in film, lasciandosi talora sorprendere dalle teofanie di luce, altre volte e più spesso precipitando nello sconforto di una sconfitta perché l’Oltre e l’Altro si rivelavano troppo resistenti al suo approccio”. 



Facebook – O dell’insensibilità? “La Rete non è la nuova agorà; è un formidabile strumento di manipolazione della realtà, di sdoganamento dell’ignoranza, di distruzione di competenze, di rinfocolamento della frustrazione”, Aldo Cazzullo, “Corriere delal sera” 3 agosto. ¿Verdad ?

Era il parere già di Virginie Despentes, “Vernon Subutex”, un romanzo costruito sul branchage, sul collegamento costante, alla p. 129 dell’edizione Livre de Poche: “Internet è lo strumento della delazione anonima, del fumo senza fuoco, e della voce che corre senza che si sappia da dove viene”.

Gestualità – “Macron, Trump, perfino i reali inglesi: la gestualità è diventata il sostegno universale a un linguaggio povero”, Denise Pardo, “L’Espresso”. Vero, a un linguaggio impoverito. Ma è un sostegno povero, nei casi citati e negli altri che si vedono: la gestualità è un linguaggio ricco, Totò non è lì per caso. Un’epoca povera di linguaggi.

Latino - La chiesa cattolica lo ha abolito nei riti quotidiani e nella preghiera. Ma lo ha mantenuto negli atti ufficiali e in molti riti particolari. L’effetto è però il contrario di quello previsto dal Concilio Vaticano II cinquant’anni fa. L’abolizione del linguaggio comune nella pratica religiosa quotidiana ha portato a chiese diverse, per ritualità e anche teologia, in Africa, in America Latina, in Asia, anche in Nord America, diverse che in Europa. Mentre il latino dei e le funzioni speciali, a due generazioni dal Vaticano II, risulta ostico ai più nella chiesa, anche alle gerarchie.
Un’altra lingua comune peraltro è sempre più adottata per le funzioni di governo, i sinodi, le comunità ecclesiali: l’inglese.

Machiavelli – È stato frequentato in Russia molto prima di Lenin, da Puškin. E prima di Puškin da  Karamzin. Ma anche da Tolstòj, prima di Dostoevskij, come ci si aspetterebbe, e forse da Gogol’. È la “scoperta” dello slavista Marco Caratozzolo, “Lo sguardo russo sul ‘Principe’ di Machiavelli”, (“Quaderni di storia”, 81, gennaio-giugno 2015). Dopo essere stato comunicato ai russi in forma critica nel secondo Cinquecento dai gesuiti, specie dal Possevino, il gesuita che, in qualità di diplomatico pontificio, viaggiò anche in Russia.
Puškin possedeva l’opera completa di Machiavelli, in francese, l’edizione in dodici volumi pubblicata a Parigi tra il 1823 e il 1825. Possevino lo ricorda lui stesso nella terza delle tre annotazioni su Machiavelli ritrovate nel diario edito come “Table-talks”: “Il gesuita Possevino, così noto nella nostra storia, fu uno dei più zelanti detrattori del retaggio di Machiavelli. Egli riunì in un solo libro tutte le calunnie e gli attacchi che l’immortale fiorentino aveva attirato sulle proprie opere, e con esse arrestò la nuova edizione di queste. Lo studioso Contingio, che editò ‘Il Principe’ nel 1660, mostrò che Possevino non aveva mai letto Machiavelli, ma lo interpretava per sentito dire”. Queste informazioni Puškin traeva dall’introduzione all’edizione francese del 1825, di J.V.Périès.
Le altre due annotazioni di Puškin sono sul “divide et impera: “Divide et impera è una regola di Stato, non solo machiavelliana (prendo questa parola nel suo senso più comune)”. E di psicologia sociale: “L’uomo per sua natura è più incline condannare che a lodare (dice Machiavelli, questo grande conoscitore della natura umana)”.
Possevino aveva molto lavorato contro la Riforma in Svezia e in Est Europa, in Polonia, Rutenia, Russia. In Russia si era fatto ascoltare da Ivan il Terribile, sensibile al suo progetto di crociata contro i turchi. Di Machiavelli si era occupato in “Iudicium”, un’opera del 1592, posteriore quindi alla morte dello zar Ivan, contro il diritto pubblico nascente – Machiavelli, Bodin e altri.
Machiavelli in realtà non era stato tradotto in russo al tempo di Possevino. Alcuni passi del “Principe” furono pubblicati in russo in rivista nel 1813, con il titolo “Appello agli italiani”. La traduzione integrale del “Principe” si ebbe nel 1817. Rifatta nel 1869, insieme con i “Discorsi intorno ai primi tre (sic!) libri di Tito Livio”. E poi ancora nel 1910. Le “Istorie fiorentine” saranno tradotte solo nel 1950. “Belfagor” invece, la novella, era stata tradotta nel 1824, e poi più volte ristampata e ritradotta.
Ma più in generale, nota Caratozzolo, Machiavelli non era fatto per piacere all’autocrazia russa - cui l’intellighencija si rifaceva. Che evidentemente ne avvertiva la finalità libertaria sotto l’apparente celebrazione dell’autocrazia stessa: Machiavelli era uno spauracchio politico per la corte e i feudatari. Le cose cambiarono nell’Ottocento, nota Caratozzolo: “La conoscenza di Machiavelli, più che un disonore, diventò un obbligo per gli intellettuali”. I decabristi, i primi insorti per la libertà, nel 1825, ebbero presente, nelle loro discussioni e congiure, “il ricordo di Machiavelli”, nota Franco Venturi.
Nikolaj Karamzin, scrittore e storico di molto peso (autore della prima “Storia dello Stato russo”), delle generazione precedente Puškin, fa di Machiavelli, nella prefazione alla “Storia” che lo renderà celebre, la pietra di paragone dei doveri dello storico: “Nemmeno il profondissimo pensiero di Machiavelli può sostituire nello Storico il suo talento nella rappresentazione di un evento”.
Caratozzolo ipotizza che Gogol’ abbia compulsato una edizione originale delle “Istorie fiorentine”, pubblicata a Riga, mentre stava preparando le lezioni sulla storia italiana all’epoca di Dante, nel 1834, da docente all’univevrsità di Pietroburgo. Tolstòj invece possedeva la traduzione del “Principe” del 1869, con i “Discorsi” intorno a Tito Livio. Nei materiali per “Guerra e pace” fa parlare Andrej Bolkonskij con interesse della teoria del “Principe”. Teoria da cui era “molto affascinato”, dice Caratozzolo, “anche se non mancò di criticarne sottilmente l’opera”. In particolare in uno scritto tardo, del 1905, “«Una sola cosa è necessaria». Intorno al potere statale”, a proposito dei renitenti alla guerra in Estremo Oriente, al punto da morire o impazzire. Impazziscono, argomenta, traditi dal potere, che per l’uomo russo, radicato nella schiavitù, non può essere che violento, intollerante. Per dimostrarlo, cita Machiavelli, “un uomo che sa in cosa consiste il potere di governo, come lo si deve acquistare e sostenere”. Di alcuni passi del “Principe”, tratti da diversi capitoli, citando una sintesi personale nella parte quarta dello scritto.  
Machiavelli era però già nella storia culturale russa. Ma dal lato sbagliato, accomunato ai gesuiti, cioè al rifiuto. Da parte della intellettualità moderna e liberale. Per questo criticato e rifiutato da Dostoevskij, in particolare. E da Bakunin. Che in un lettera del luglio 1870, a Alfred Tallandier, scrive di Nečaev, il dissidente russo teorico del terrorismo e probabile terrorista: “È arrivato gradualmente a convincersi che per fondare una società seria e indistruttibile bisognava prendere per base la politica di Machiavelli e adottare pienamente il sistema dei gesuiti: per corpo la violenza, per anima la menzogna”.

Rom – “Gli intellettuali di sinistra adorano i Rom, perché li vedono soffrire molto senza mai sentirli
parlare” – Virginie Despentes, “Vernon Subutex”. Come i cani e i gatti? .

Roma – Senza latino, non ha alcuna ragione di essere la sede della chiesa cattolica. Robert Harris lo fa dire a un cardinale conservatore, nel suo thriller sul “Conclave”, ma non contestato: “L’abbandono del latino porterà da ultimo all’abbandono di Roma”, a cinquant’anni dal Consiglio Vaticano II molti se lo chiedono già, e “presto se lo chiederanno apertamente. Non c’è una regola nella dottrina o nella Scritture per cui il papa debba risiedere a Roma”.

Velo – “Non contente di occuparsi di tutto nella case senza mai lamentarsi, sentono ancora il bisogno di portare il velo per esibire la loro sottomissione. È guerra psicologica, questo è: è fatto perché il maschio francese senta come è svalutato”, “Vernon Subutex”. L’autrice, Virginie Despentes, lo fa pensare a un buon cattolico fallito nell’arte del cinema, ma è un discorso in linea col suo femminismo – col femminismo esibito nel racconto contestatore. Abbastanza realistico: il velo delle donne mussulmane è una scelta. Per marcare la differenza. Per marcare una superiorità, la “scelta” della sottomissione. Che di fatto non c’è, né in casa né nel diritto matrimoniale – la donna mussulmana, la donna araba in specie, non è sottomessa (lo stesso ripudio non è indolore).


letterautore@antiit.eu

Vite e atti degli uomini infami

Raccontare ventitré vite criminali, quanti sono questi boss “rivoluzionari”, non depone bene – Foucault ci tentò con una, una sola, non fu granché e non andò oltre : “Le vite degli uomini infami”, la serie da lui ideate nel 1977 sui “Cahiers du cinema” e subito promossa da Gallimard in una collana, “Le vite parallele”, da lui stesso diretta, cominciò e fini nel 1978 con “Herculine Barbin, dite Alexina B.”. L’infamia si racconta male. Busca o Spatuzza, per dire i minori di questa serie di De Stefano, non sono meno indigeribili di Herculine Barbin. Ma De Stefano ci riesce.
La promozione  - forse l’editore, forse lo stesso De Stefano – vuole i ventitré espressione di una grande forza e capacità creativa, che in altro ambiente sarebbe stata indirizzata costruttivamente con buoni esiti. Questo è difficile da credere. È l’ambiente che crea il delinquente, non il delinquente che ammorba l’ambiente? Il problema non è dell’uovo e della gallina, è della legge, e della pacifica convivenza cui tutti hanno diritto, che i malavitosi impediscono ai più deboli o meno capaci.
Questo non si dice ma è evidente. Quando i Cutolo e i Riina attaccano il potere, beccano sempre, il potere sa essere inflessibile. È diverso quando si accontentano di tenere sotto scacco gli onesti lavoratori e i non violenti. La malavita è anzitutto un problema di giustizia, sociale.
Ma senza questa premessa, le storie fluiscono godibili. Per tutte le quasi seicento fittissime pagine del volume, benché questi “atti dei delinquenti” siano per lo più noti, avendo fatto la cronaca. Il genere è avventuroso, e anche in molti aspetti infame, come è della stampa scandalistica: per vendere si scrivono e si rappresentano, si magnificano di fatto, si eroicizzano, persone e comportamenti ignobili. E il genere purtroppo è dilagante, segno che se ne è creata la domanda, a partire dagli sceneggiati Rai e dai personaggi creati da Enzo Biagi. Negli stilemi dell’apologia, non ce ne sono altri. De Stefano ha una sua misura, tra la repellenza e l’apologia, probabilmente perché sa raccontare.
Ventitré dunque i boss repertoriati, con vita, misfatti e miracoli. De Stefano ha già scritto molto della camorra, nella sua città, e molti materiali recupera in questo volume enciclopedico. Qui ci porta con successo anche fuori Napoli, con Riina, Spatuzza, Siino, Michele Greco, Provenzano, Brusca, Messina Denaro.
Bruno De Stefano,  I boss che hanno cambiato la storia della malavita, Newton Compton, p. 570, ril. € 9,90

giovedì 9 agosto 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (371)

Giuseppe Leuzzi


Salvini dimette per mafia il sindaco di Siderno Pietro Fuda, settantacinquenne in politica da mezzo secolo, un Dc che è stato Forza Italia e poi, con Agazio Loiero, il fondatore del partito Democratico Meridionale, senatore, presidente della provincia di Reggio C., sindaco al suo paese da tre anni con una maggioranza di sinistra, senza addebiti specifici. Ma forse la politica non c’entra. Fuda ha citato in giudizio per danno erariale la gestione commissariale, cioè prefettizia di Siderno precedente la sua elezione. La Prefettura lo ha “sciolto” per mafia. Che sicuramente c’è, ma dove? 

Il ministro dell’Interno è stato eletto senatore in terra di mafia. Con i voti dei fedelissimi di Scopelliti, l’ex presidente della Regione Calabria finito in carcere per avere truccato i bilanci di Reggio quando era sindaco. Uno che era stato eletto a sua volta con i voti di Berlusconi, ma ora con Berlusconi è in rotta. E dunque?
Però Salvini – è il ministro dell’Interno, yes – ha sbancato la Calabria, ottimo. Da solo. Ci voleva un lombardo.

C’è lo Stato dietro la mafia, lo Stato dietro il terrorismo, lo Stato dietro le stragi, lo Stato dietro la crisi, interminabile. Forse non è una battuta dire che il problema del Sud è l’Italia.

Quando il Sud era il Nord
“Quando la sponda ricca del Mediterraneo era quella meridionale”, spiega Amedeo Feniello, lo storico medievista, su “La Lettura”. Operosa, ingegnosa, imperialista. È un fatto, nella storia, per più secoli. Il Sud non è stato un problema fino all’unità. Il Regno borbonico del Sud era criticato dai liberali a Londra, ma anche i Savoia erano maneschi coi giovani italiani, e gli austriaci.
Il titolo di Feniello però è riferito al rapporto col mondo arabo: “Intorno all’anno Mille i viaggiatori musulmani descrivevano l’Europa come una contrada di genti povere, sporche, incivili. Mentre il Nord Africa, oggi ribollente di tensioni e ostilità, era ricco d’ingegni, arte e cultura”. C’è da temere?
La ricchezza in realtà si crea. Con l’applicazione. Essendo però padroni del proprio destino.  Il Sud non può liberarsi dell’Italia e nemmeno gli converrebbe. Ma liberarsi della cappa mafiosa sì, dovrebbe. Anche contro l’Italia.

Mater semper certa
Carlo Macrì racconta al “Corriere della sera” una favola a Cosenza a lieto dine: ¨Io laureata con mia figlia, affetta da sindrome di down”, in Comunicazione e Dams, discutendo la tesi lo stesso giorno.
Poiché il giornale, per acume promozionale, vuole pagata la lettura in archivio, ve ne sintetizziamo la storia. Loredana Ambrosio, che a Cosenza è funzionaria in Confartigianato, ha seguito la figlia Francesca Pecora in tutti gli studi (“mai avuto bisogno dell’insegnante di sostegno), fino alla laurea. Condividendo gli interessi della figlia, fino alla passione per il teatro, la danza, il cinema, al punto da rifare l’università insieme con lei, fino alla laurea: “Lo studio per lei è stato una sicurezza”.
Poi si dice il familismo. Quello dei brutti, sporchi e cattivi sarebbe brutto lo stesso, come ogni cosa che loro toccano.

…et non
 “La scrittrice, nata a Reggio Calabria nel 1978 ma romana d’adozione…”, “Corriere della sera”, 6 agosto. La scrittrice si è fatta esorcizzare? O è pregiudizio redazionale?

Martedì Filippo Tortu, figlio di Salvino, oro sicuro nei 100 m. agli Europei di Berlino, è “l’atleta milanese” e “il Pie’ Veloce brianzolo”. Mercoledì lo stesso Tortu, svogliato quinto, è “di Tempio Pausania”.

Vanno molto le origini, che combinate con l’antropologia che si vuole applicata al Sud fanno stato di una sorta di mafia congenita. L’origine della camorra Pasquale Villari, lo storico napoletano maestro di Salvemini, unitarista convinto e anzi entusiasta, poneva nelle “Lettere meridionali”, la seconda serie, del 1876 (la prima è del 1862, di lettere pubblicata sulla “Perseveranza”, giornale di Milano…) poneva nell’unità, per come si era conclusa. Villari riporta  l’origine della camorra all’abolizione del feudalesimo e all’unificazione. In questo caso nell’uso spregiudicato dei camorristi come gestori dell’ordine e del commercio da parte di Liborio Romano, il ministro borbonico dell’Interno passato con Garibaldi, e dei nuovi amministratori. E nell’abbandono a se stessa della plebe da parte dello stato unitario. Specie con la manomissione della manomorta, i beni che si lasciavano in  eredità agli enti ecclesiastici perché provvedessero agli indigenti.

Machionne era abruzzese, è emigrato con i genitori quando aveva quattordici anni. È l’unico punto della biografia che non si rileva – una biografia ricca, molto, ma non molto variata, fissabile in tre-quattro punti. Se fosse nato e cresciuto, e avesse fatto le medie, poniamo, in Lombardia, non lo avremmo saputo? Tutti i suoi compagni di classe. Tutti i suoi vicini, i parenti.

L’odio-di-sé musicale
Ancora nella passata legislatura, presidente della Camera Laura Boldrini, l’orchestra di fiati dei ragazzi di Laureana di Borrello, 6-20 anni, era stata invitata a partecipare a un concerto nella Sala della Regina. L’invito poi decadde, si disse, su informative dei Carabinieri che riscontravano parentele di qualcuno dei ragazzi con gente “in odore di ‘ndrangheta”.
Successivamente l’accusa decadde e il concerto, si disse, era stato annullato per l’indisponibilità della sala. Che pensarne? Che sicuramente qualcuno dei ragazzi era imparentato con gente in odore di ‘ndrangheta, nei paesi è così. Se le gente “in odore” venisse perseguita e condannata, o assolta, la ‘ndrangheta non sarebbe così inesorabilmente contagiosa.
Qualche mese dopo, nei dibattiti estivi, una tre giorni 19-21 luglio di “Gente in Aspromonte” organizzata dalla giunta Dem della Regione Calabria a Africo vecchio, la storia è ripresa da Mimmo Gangemi: i Carabinieri “in due diversi riscontri” esaminano “le parentele di ogni singolo componente della banda” e trovano “l’odore di ‘ndrangheta”. Ma la giornalista Mediaset Valentina Loiero, figlia di Agazio, giornalista e presidente della Regione Calabria: “Sicuramente è arrivata quella informativa, è chiaro che è arrivata. Ma non qualcuno, erano tutti, tutti. Io ti farei dire cosa mi disse il prefetto di Reggio”. Tutti, tutti.
Una banda – non musicale - di teen-ager: vogliamo battere le paranze di Saviano? Fare musica non è la stessa cosa che sparare, ma si vede che la ‘ndrangheta nel suo monopolismo si è data ora agli ottoni.   
Il prefetto di Reggio, che ha già a Ferragosto il record annuale di scioglimenti di consigli comunali per mafia, è lo stesso denunciato da Fuda per danno erariale – forse non era lo stesso del danno presunto, i prefetti cambiano, ma la prefettura è immutabile.

Il pranzo di Pasquale
Bruno De Stefano ha fatto un grosso lavoro, raccogliendo le biografie minuziose, una ventina di fitte pagine l’uno, di 23 boss, di camorra, prevalentemente, mafia, ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita, “I boss che hanno cambiato la storia della malavita”. Cambiato no, ma certo non c’è limite al peggio. “Da Raffaele Cutolo a Totò Riina, le storie di tutti i criminali che hanno tenuto sotto scacco l’Italia”, continua il sottotitolo. Questo è vero, da ogni punto di vista, che i criminali hanno tenuto sotto scacco l’Italia.
Di uno di essi, Pasquale Galasso, un ricordo personale ricorre, raccontato in questa rubrica
il 13 dicembre 2015
Sulla spiaggia di Roccella Jonica, in un lido chiamato “Dal naso al cielo”, letterario (è titolo di Pirandello), all’ora di pranzo, su una duna incombente un signore pasteggiava solo, massiccio visto dal basso. Corretto in camicia, scuro di pelle ma non abbronzato. Che a tratti emetteva suoni rauchi forti, duri. Sembrava non guardasse nessuno, ma a ognuna delle sue ejaculazioni un movimento inquieto si produceva a una tavolo in basso, un tavolino non apparecchiato, da bar. Dove quattro donne era come se ne accusassero ricezione: ogni volta si agitavano in conciliabolo, poi l’una o l’altra si alzava, il viso tirato, e scompariva, riappariva, scompariva di nuovo. Poi tornava. A ogni urlo lo stesso sommovimento, come una reazione nervosa. Quattro donne in bikini, nerissime di tintarella, non parenti, chissà perché davano netta questa impressione, non più giovani ma ben tenute, anche se si muovevano lente, e quasi piegate, con la borsa attaccata alla spalla. Di cui non si seppe che pensare, in assenza di spiegazioni dell’imperturbato gestore di “Dal naso al cielo”, o come si chiamava il lido.
L’uomo, che sembrava conosciuto, poi si rivelerà sui giornali Pasquale Galasso. Le donne dunque le poliziotte di scorta, che lo assistevano durante il pasto. Piegate dalle armi che portavano nei borsoni. Quattro della vicina caserma di un reparto speciale antimafia di Polizia, aperto in un grande edificio nei pressi della spiaggia. Un reparto che serviva anche, evidentemente, ai poliziotti e alle poliziotte per farsi un po’ di mare nel tempo libero. Questo nel 1997, o 1996. Pasquale Galasso si era pentito, ma ancora non si sapeva.
Di un altro capo camorrista censito da De Stefano, Carmine Alfieri, quello  molto devoto, con angoli in casa dedicati a  immaginette di madonne e santi, si diceva in Romania che fosse un frequent flyer, un viaggiatore  frequente tra i due paesi. Lo dicevano i giovani accompagnatori in occasione di un’intervista importante con l’allora presidente Iliescu, che per candidare la Romania alla Ue cercava il sostegno dell’Italia - e lo ebbe. Erano giovani dei servizi segreti: lui non faceva mistero del suo ruolo, lei era giovane, bella, poliglotta, “figlia di diplomatico”, come occorreva a tutti i giornalisti che lavoravano al di là della cortina di ferro, solo da poco demolita. Era la primavera del 1993.
Alfieri De Stefano rappresenta come “’O ‘ntufato, cioè l’arrabbiato”, con un’espressione sempre torva. “Taciturno, riflessivo, affidabile”, è quello che portò alla malavita Galasso, in carcere e poi fuori. Galasso era di buona famiglia, figlio di un ricco concessionario di automobili, studente di medicina, uno che aveva a disposizione una Porsche, e una Ferrari 380 GTS. In Porsche, racconta De Stefano, fu soggetto a un tentato rapimento, mentre viaggiava con la sorella Consiglia. Tornavano da un notte fuori con gli amici. Pasquale aveva vent’anni. Dapprima pensa che i tre figuri armati vogliano la macchina, poi capisce che è un rapimento di persona. D’improvviso si attacca a uno dei tre, gli prende la pistola, si mette a sparare a caso. Due dei tre muoiono, il terzo riesce a scappare. È l’inizio della fine. Il padre lo fa difendere da Giuliano Vassalli e Vincenzo Siniscalschi, i migliori su piazza, ma i dieci mesi di carcere preventivo lo macchiano per sempre, tra Cutolo, gli Alfieri, i Moccia, gli Zaza e altri camorristi.

leuzzi@antiit.eu

Il giallo dello Spirito Santo

“Un tempo era Dio a spiegare ogni mistero. Adesso è stato spodestato dalle teorie del complotto”. Ma tra i cardinali in conclave, per l’elezione del nuovo papa, non sarà la maggiore sorpresa.
È il prossimo conclave. Harris lo dice in avvertenza, a chi non ci avesse pensato, negandolo: “Il defunto Santo Padre descritto in ‘Conclave’ non intende essere il ritratto dell’attuale papa”. E poco dopo, mentre descrive la Casa Santa Maria, precisando del papa defunto: “Dopotutto, un eccesso di semplicità era anch’esso una forma di ostentazione,  e il compiacimento per la propria umiltà un peccato”.
Un thriller “scritto”, come è l’uso di questo autore, senza compiacimenti ma senza sciatterie. Con molte chicche, per il senso filologico acuto di Harris, seppure alla mano, senza saccenteria, come già nella trilogia su Cicerone, o su Plinio in “Pompei”. Per esempio, subito, la descrizione di Santa Marta che non avevamo ancora avuto, nelle ormai tante cronache del papato bergogliano.
Sa raccontare perfino il manuale papale per il conclave.
La sorpresa: dopo il papa non italiano, e il papa non europeo, il successivo sarà non bianco? Tutto lo lascia supporre. Ma di più può succedere - o di peggio. Con il Medio Oriente, anzi proprio lislam bellicoso di questi anni, tra noi.
Il finale è un po di maniera, è ben lepoca Lgbt, ma non sacrilego. Il vecchio cardinale decano, attraverso il cui occhio la storia si dipana, vedrà la sua disponibilità messa a dura prova dallo Spirito Santo, cui spetta decidere. L’inquietudine resta costante. 
Robert Harris, Conclave, Oscar, pp. 265 € 12

mercoledì 8 agosto 2018

Fake è la fake news

Che novità è questa? Falsa è la falsa notizia! Probabilmente è stato detto, ma non abbastanza: la fake news non è una novità. Le lettere anonime, le denunce, i confidenti di polizia, la disinformacija politica?
Ma proprio nel caso specifico non c’è niente di nuovo sotto il sole, e non per reazionarismo. “Cambridge Analytica” era ben nota vent’anni fa, Peter Weir l’aveva mostrata per due ore in “Truman’s Show”, che è un film, ma quanto reale. O, per dirne una che si è dimenticata nelle celebrazioni della Grande Guerra, l’interventismo francofilo di D’Annunzio e Mussolini nel 1914-15: una straordinaria, magistrale?, opera di “sensibilizzazione”, degli influencer D’Annunzio e Mussolini, anche loro molto ben retribuiti. Non erano troll, non si nascondevano.
Era la guerra, le false notizie sono in guerra moneta corrente, ci sono storie autorevoli delle false notizie in guerra? Ma non era una informazione in guerra, erano informazioni, pagate, per la guerra. E i due mettevano a frutto anche politico l’introito pubblicitario: avrebbero retto l’Italia per un quarto di secolo dopo lecatombe. 
E che furto è quello dei dati online? Dove invece piattaforme prosperano sulla pubblicità dei dati, miliardarie.

La noia della noia

“Viviamo per uscire la sera, tutte le sere”. E: “Che facciamo il giorno? Ancora non lo sappiamo. Abbiamo delle colazioni”. La conclusione è un’anticipazione: “Gli operai si sono fatti la macchina. Presto usciranno tutte le sere”. Non errata.
La satira del generone italico, nel 1968, detto jet set, che il Sessantotto avrebbe spazzato via - non il generone, il linguaggio che generava. Ma dieci anni prima c’era già stata la “Dolce vita”, ben più persuasiva. È una satira dispeptica, non coinvolgente. Anche come ritratto d’epoca, cinquant’anni fa, non prende. Il Grande Imprenditore-Affabulatore-Seduttore, di cui il racconto è il rittratto, che discetta di etichetta prandiale, cena intima, seduta, in piedi, social, sexy, e social sexy o sexy social, fa suo ogni profilo femminile purché di classe (“la bellezza è intelligenza”), sognando “la principessa”, ha “serate” di 24 ore, e insolentisce ovviamente i collaboratori, è “the king of bidet”, impegnato a vendere l’attrezzo al mercato angloamericano, che lo ignora. Che è, era, una barzelletta.
Ottieri, letterato precoce, con interessi e studi di sociologia, è stato narratore prolifico, “il” narrator degli anni 1960 a giudicare dai titoli, ma non se ne salva probabilmente nulla. Forse “Donnaruma all’assalto”, 1959, sull’esperienza in fabbrica a Pozzuoli, che apriva con Volponi il breve filone della narrativa “industriale” – entrambi lavoravano con Adriano Olivetti. Questa satira ha l’aria di un divertissement, svagato. Un collage probabile di frasi tratte dalla stampa popolare scandalistica dell’epoca, “Stop”, “Abc”, “Oggi”, “Novella”. C’è anche una Piscicelli, in anticipo sul terremoto dell’Aquila. Ma non “colla”. Gli studenti “giocherellano”. Orazio, il Grande I-A-S, è sportivo, ma “lo sport da me preferito”, confessa non richiesto, “è il social climbing”. I dialoghi sono di questo tipo: “Il diner in piedi è denagogico. Serve quando mescoliamo. Il dîner  seduto serve quando scegliamo”.
Un reperto d’epoca, esso stesso. Di quando era d’obbligo la noia.
Ottiero Ottieri, I divini mondani
Bompiani, remainders, pp. 79 € 3,50
Guanda, pp. 90 € 11,50

Problemi di base stellari - 437

spock


I computer fanno servi eccellenti ed efficienti, ma non ho nessuna voglia di servirli” (Spock, “Star Trek: The Original Series”)?

“Credo sia la mia avventura, il mio viaggio, e suppongo che la mia posizione sia, lascia le carte cadere dove possono” (Leonard Nimoy, ib.)?

“I miei sono arrivati negli Usa come immigrati, alieni, e sono diventati cittadini (Nimoy), è possible?

 “Sono nato a Boston, sono un cittadino che poi è andato a Hollywood ed è diventato un alieno (Nimoy)?

“La vita è come un giardino: puoi avere momenti perfetti ma non puoi preservarli, se non nella tia memoria (l’ultimo tweet di Nimoy)?


spock@antiit.eu

L’infobesità dell’Europa, o Céline al femminile

La morte di Alex Coach, bellissimo controverso rockstar, nero ma non fa differenza, scatena a Parigi la caccia alle sue ultime confidenze, registrate e mai pubblicate. Si presuppone per evitare lo scandalo, quale che sia – Alex si è suicidato. Un pretesto come un altro per una galleria saporitissima di personaggi della Parigi da bere, giornaliste, pornostar, trans, donne ricche, in genere in fame di uomini, e anche questo è consolante, e tutti i vecchi, generalmente disadattati, e nuovi amici di Alex. Una galleria di uomini e donne che si scorre d’un fiato – e le trecento fitte pagine sono già doppiate e triplate da due sequel. Seppure tutti nello show business, ai margini, l’aspetto trito e non glamour di esso – Vernon Subutex, negoziante di dischi, cinquantenne fuori mercato per la crisi del prodotto, finisce barbone, scroccone, ladro. Con molti echi, che però non disturbano - Vernon ha un negozio di dischi probabilmente perché Philip K. Dick, espulso dall'università in quanto obiettore  alla guerra di Corea, lavorò a lungo in un negozio di dischi, ma non c'è bisogno di saperlo. 
Organizzata come una fuga musicale, ma al passo di galoppo, una commedia umana del Millennio – un’analisi che è parte del (mis)fatto. Pruriginosa, ma è la fantasia di oggi – oggi siamo tutti banchieri, quello che ci manca è il sesso. O meglio un romanzo verità. Molto rock, tra reduci e militanti: scattante, rapida, ripetitiva ma variata. Una “commedia” però non alla Zola ma alla Céline – in letteratura sarebbe Céline (era Céline un rocker malgré lui?). La frase breve, a mitraglia. Ma ogni parola sempre necessaria. Il fondo disperante - qui non per la guerra, ma la disintegrazione, nazionale, personale, è disperante lo stesso: si balla, si tira, si scopa sopra il volcano, compulsivamente. La collera rattenuta – compassione. La stessa apocalisse: “È finito, il vecchio mondo”. La mimesi del parlato, immodificabile. In cui tutto è trasfigurato ma è “più” vero. La felicità del linguaggio – non c’è “parlato” più “parlato”. L’argomento è la protesta socializzata: droghe, alcol, sesso, tatuaggi, disintossicazioni e salario di base, l’ex alternativo è divenuto square. Ma niente lagne. Virtù del linguaggio, filante, calzante, aderente, agile, elaborato e elastico, tagliato su misura, i gerghi e il quotidiano elevando a lingua. Una lingua che sembra eccessiva ma non si fa togliere nulla. Fluente, come una grazia, ma forse anch’essa costruita. Non più attorno agli interessi sordidi ma alla sopravvivenza, non tralasciando nessun piacere, sesso, fumo, coca, alcol, e vivere a sbafo. Si direbbe un Fine Secolo, la decadenza che va con la fine, ma è il nostro modo di essere, in Francia, in Europa, in Occidente.  
La “fuga” è aggiornatissima, già nel 2015, quando è stata scritta, c’era tutto l’oggi. Tutti sono connessi, e quindi connettibili, ritrovabili, anche da remoto. Ma sordidamente, gli haters già appestano internet, una macchina da escrementi – ancora negli anni 1980 “il rapporto con i media non era esclusivamente costituito da sfide e ostilità”, e “non si raccontava non importa che, furiosi di essere anonimi, condannati a sparare la cazzata più lapidaria possibile, acculati al silenzio assordante della propria impotenza”. I miliardi si fanno in un clic, un secondo e mezzo. O si perdono: “è l’infra-instabilità”. C’è già “la bellezza youtubica”, con le influencer di ogni nuovissima tendenza, che anzi creano. E chi si crea in rete cinquanta false identità, per venderle al miglior offerente, troll e no, è semplice, ce n’è domanda: “Lanciare un linciaggio mediatico è più facile che far decollare un virale positivo”, spiega la navigatrice, “La Iena”, si suoi danti causa, “il disprezzo si trasmette facile come la rogna”, e “l’epoca plebiscita la brutalità”. E in genere la “infobesità”. Con l’attrice porno, ex, che deve scrivere un libro – “tutte le star dell’X che contano hanno scritto almeno un libro”.
Despentes si è situata nel mercato pornosoft, necessariamente leggero, ed è un peccato. 
Virginie Despentes, Vernon Subutex, Bompiani, pp. 304 € 18

lunedì 6 agosto 2018

Secondi pensieri - 355

zeulig


Bellezza - Veniamo dall’inferno della bellezza proustiana, che sa di Bosch e non di Breughel, e quando è riposata fa intravedere Manet, e solo salva le principesse mamme, ed è facile negare la bellezza. Che però è ovunque.
Virginia Woolf, Lady Sackville-West e Violet Trefusis, importante storione d’amore, avevano i capelli a posto ma visi segaligni e cavallini. Le racchie di Bloomsbury, che erano scrittrici, si corteggiavano coi sottintesi, si esaltavano privandosi? La bellezza è dunque attrazione. Ci sarà anche tra i netturbini, turbini insorgono durante la raccolta.

Fichte – Trascurato (cattivo carattere?). Anche oggi, nel mondo che realizza le sue invenzioni. Della nazione. Dei primati. Dello Stato nazionale chiuso, anzi dello “Stato economico chiuso”, l’opera che modellò il socialismo e più non si pubblica: la libertà è la sicurezza fisica e materiale, la concorrenza fa male.

Hegel – È altra razza – altra da Marx: Marx non parlava con Dio, oppure sì ma non da beghino,  beveva, s’infatuava, s’indebitava. Hegel è un pietista rifatto illuminista.
Che incrocio, la ricerca di Dio, o anima del mondo, calata nella filosofia per despoti.

Io – Siamo tutti “romanzieri esperti e raffinati”, dice McEwan, citando un Jerome Brunnes, “The Remembered Self”. Non solo gli scrittori. I lettori sono cullati in questa ipotesi, che sono loro a farsi la storia, il libro. Con la lusinga sottintesa che ognuno costruisce se stesso, così come costruisce i “suoi” personaggi. McEwan, nel racconto “Il mio romanzo viola profumato”, cita Mary McCarthy: “Prima o poi cominciamo in un certo senso a sceglierci o a inventarci l’io che vogliamo”. Ma, allora, al netto del patrimonio genetico, della famiglia, dell’infanzia, della malattia, degli incidenti, del lavoro, dei vicini, di banco, di casa, di scrivania, di posto, e delle catastrofi, naturali, infettive e belliche… Nella “immensa baraonda della vita” che Henry James lamenta.  

Marx – Se si (ri)leggesse, una colonna emergerebbe – tralasciando la sua attività politica dopo la delusione del Quarantotto – liberale. Non del tipo romantico. Di quello realista, dopo Machiavelli e Hobbes, che si occupano delle condizioni reali della libertà.
Marx era e rimase un borghese, anche nella teoria della rivoluzione, nonché del materialismo e del proletariato. Fu protagonista del Quarantotto, col suo giornale, la “Neue Rheinische Zeitung”, sostenendo la guerra tedesca contro la Russia, la Danimarca, e i polacchi austriaci. Compagno e mallevadore, già autore a ragione celebrato del “Lohengrin”, quel Wagner che proclamava “il tedesco è conservatore”, e “solo l’assolutismo è”, grazie a Dio, “tedesco”.
Nasce romantico, e per questo, per farsi perdonare, esagererà nella critica: il suo borghese sta tra il romantico e il filisteo, che è  il borghese non romantico. Poi fu un emigrato. Arrivò al socialismo critico non dai bisogni del proletariato, che non conosceva, ma da se stesso, giovane, tedesco, intellettuale del Marzo ’48, eretico per esigenze di ruolo, il condottiero che, aperto un varco, ci erige sopra il suo castello, da hegeliano. E da hegeliano rovesciato il castello lo fa al quadrato. Che non è apostasia, non c’era il marxismo all’epoca, ma un modo d’essere, non antipatico.
Marx sarebbe stato in guerra con i suoi esegeti - li avrebbe spernacchiati, usava così: lui non ha colpa del chiacchiericcio che lo ha seppellito, parlava e scriveva diretto. È Cristo, anche se non lo sapeva, con la barba, evangelico – se era ebreo, s’è convertito: per il dovere del paradiso in terra, della giustizia. Un Cristo laico, per la fregnaccia del Diamat. La classe resta vaga, su cui ha scritto migliaia di pagine, ma non sarà una goliardata? Alla fine, dopo tanta politica, non ha una teoria politica – la classe non è una.
Molta politica del resto è retorica, un bel dire: Marx lo scoprì di Machiavelli, che riscriveva Sallustio, “La congiura di Catilina”, o Tacito, che rifece Sallustio.

Si vuole Marx economista e agitatore e non filosofo. E invece lo è, sotto forma di Heidegger, il primo marxista: i tedeschi della rivoluzione conservatrice, che Marx abominavano, se ne sono appropriati i criteri e gli obiettivi, anche se solo in funzione antiliberale.

Fu economista fantasioso, essendo autodidatta, mentre fu politico mediocre - litigioso, invidioso, e inefficace. Marx del resto è Napoleone, seppure con la ghigliottina di Robespierre. Pensa come Napoleone più che come Hegel: semplifica la storia perché vuole farsene una. Rilancia, sul supporto di Hegel e della storia rivelazione, l’unicità della Rivoluzione francese nel senso della compattezza, e anzi della monoliticità. Che è come la Rivoluzione si presentò nel mondo, ma questo a opera di Napoleone, della conquista napoleonica.

I Marx erano, e sono, una famiglia nobile dell’ortodossia ebraica. Nel ’48 Marx ebbe a compagna di rivoluzione, con Wagner, Malwida von Meysenburg, benché già matura. Nei gironi di Dante starebbe a uno superiore, grande la barba, segno di saggezza, e il carico di gloria, ma assiderato nel cuore e le membra per l’errore di giudizio. Per avere congelato il lavoro, la più democratica delle passioni. Mentre l’economia che realizza le condizioni da lui poste per il comunismo, quella yankee, ne è immune, e anzi vaccinata.

È vero che il lavoro è semplice, pochi  moduli ricorrenti, la competizione, la fede, la cura, la stanchezza, più frequente che non. È la vita al suo minimo, la sopravvivenza trasferita dalla savana all’aria condizionata, con la busta paga e la pensione, per questo il lavoro non ha buona fama. Ma è il proprio dell’uomo, un atto di fede, ogni mattina, oggi che l’economia è monetaria e bisogna fare soldi, e anche prima, ogni mattina l’applicazione costante a qualcosa di nuovo, sia pure ripetitivo senza residui come il moto perpetuo, un’eterna pedalata. Si è sempre autocritici, quindi anche del lavoro. Ma è parte del lavoro.

Morte – Se ne fa l’esaltazione istrionicamente, come a teatro – il teatro protegge.

Passione – È patire, non una bella cosa. È da Omero che la psicologia, umana e divina, ha coscienza di esser dominata da passioni irresistibili e inspiegate, in forma di possessione. Che ogni volta lasciano un segno, ed ecco le metamorfosi, l’ira di Achille, l’inganno di Ulisse. Più forte e comune è la possessione in forma di amore. Ma né in Omero né dopo si spiega come a queste metamorfosi resti indenne chi le provoca, sia esso ninfa o diavolo. È il problema della bellezza, che molti trasforma, forse pure gli dei, e può restare inalterata, inalterabile.

Poststoria – Siamo nel ciclo della storia. Felicemente: orgogliosi, inventivi, fattivi, anche nelle sconfitte, assertivi anche se (proprio perché) critici. C’è stata una preistoria. Dopo una protostoria, un neolitico, e un tempo incalcolabile dal Big Bang. Ci sarà una poststoria? Sembra inevitabile, nella macchina tritatutto dell’evoluzione. Ma non postumana – certamente non questa dell’intelligenza artificiale, tipico sviluppo umano. Siamo “condannati” alla storia Alla memoria e all’azione - quel 2 per cento, o 0,2 per cento, che secondo Desmond Morris caratterizza l’uomo rispetto all’orango.

Ragione - “Ho perso la ragione”, André Jolles scrisse a Aby Warburg da Firenze, e la ragione era la fanciulla che segue le tre matrone della stanza della puerpera del Ghirlandaio per La nascita di san Giovanni Battista a Santa Maria Novella, vaporosa, svagata e fremente.
Ma non sarà male: Jolles ne deriverà l’attenzione per l’insignificante nella narrazione - anche se a lungo si sentì col Ghirlandaio come Hylas, il giovane amante di Eracle, dalle ninfe avviluppato a dolce morte.


zeulig@antiit.eu

Monumenti alle mafie


Atroce piccola speculazione, a uso dei giovani. Dai Beati Paoli a Messina Denaro. Non immagini d’epoca, di un qualche interesse, ma una sorta di graphic novel, con disegni di Enzo Patti. Dei mafiosi tra noi, non privi di virtù, e di successi sociali, specie con le donne.
Sempre con Osso, Mstrosso e Carcagnosso, una scemenza originata nel carcere di Favignana, e da qualche tempo diffusa in Calabria, soprattutto a opera dei giudici. Ma fino alla favolistica recente sulle mafie, Buscetta eccetera, che venti anni fa erano ancora solo mafie, mentre ora alimentano business editoriali sostanziosi e anche carriere universitarie.
Osso, Mastrosso e Carcagnosso sono sbarcati anche Spagna. Dove sono stati collegati a una loggia segreta, la Garduña, che avrebbe dato origine alle amfie durante il dominio spagnolo. La cosa è gratificante, poiché così le mafie, che sono meridionali, si ascrivono al (mal)governo spagnolo, e non a una tara razziale. La Garduña è ua società segreta invetata nell’Ottocento in un paio di romanzi anticlericali, tipo l’Opus Dei o i Fratelli di Sion di Dan Brown, la cupola dei preti. Mah
Ciconte-Forgione-Grasso, Storia illustrata di Cosa Nostra, Rubbettino, remainders, pp. 191, ill. € 7

domenica 5 agosto 2018

Servizi troll

Sempre meglio che lavorare usava dire dei giornalisti. Si fa ora la caccia al troll, da parte del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, il servizio segreto italiano, dell’Antiterrorismo, e dei Carabinieri allo stesso fine? Per darla a bere a chi?
“Migliaia di tweet generati da 400 profili la notte tra il 26 e il 27 maggio chiesero le dimissioni di Mattarella e la sua messa in stato d’accusa in Parlamento per alto tradimento”. Che accusa terribile. Ma erano troppi o erano pochi? Se nessuno se li filò – non dissero nemmeno che Mattarella era un porco, in genere lo dicono. I troll sono diffusissimi – l’impressione è che siano la normalità di internet. Ma erano, suggerisce il Dis, sospetti.
E perché non si potrebbero chiedere le dimissioni di Mattarella? Tutti vogliono sempre dimettere il Capo dello Stato, dove è la novità? È tempo di Russiagate, da due anni abbondanti, e il Dis lo trova comodo. Anche sulle elezioni in Italia? Questo non si può dire perché, in fondo, i servizi sono al servizio del governo. Ma sì nel caso di Mattarella, ad abundantiam. “Furono usati anche server dell’Estonia e di Israele”, dice il Dis.
Di Israele dunque. E della Mongolia no? Google è stato scoperto da qualche decennio. E il trollismo è il proprio, purtroppo, per molti, della rete.
Viene il Dis dopo la Cia e l’Fbi, tanto per fare qualcosa? L’America ama il complotto, ma un servizio segreto non è fatto per prevenirlo, invece che per alimentarlo?
Non si può farne la colpa al Dis, una mosca al confronto degli apparati miliardari degli Usa. Ma che senso ha riscrivere quello che i giornalisti, sfaticati, hanno scritto? Due mesi dopo che è stato scritto. Diffondere l’incertezza invece di accertare qualche fatto, prevenire qualche danno.
Non è una novità. Da anni i servizi segreti ci hanno abituati a relazioni che sono rassegne stampa, tarde e stracche. Un anno la ‘ndrangheta, un anno l’Is, un anno l’immigrazione incontrollata, quest’anno i troll. Una relazione specifica sui fatti italiani mai? Chi sono i mercanti di carne umana Nord Africa, per esempio. O cosa ci fa la Francia in Libia, la Total, Macron, gli agenti francesi (tanti)? Nel 2011 sarebe stato utile sapere che agenti francesi e inglesi preparavano una “primavera” ritardata contro Gheddafi  - o magari sapere chi e per che cosa organizzava le “primavere” arabe (lo sapevano tutti: erano islamiche, coi soldi sauditi, al coperto della Fratellanza Musulmana). E magari, perché no, intervenire subito quando ci fu l’“attacco troll” contro Mattarella. Senza aspettarne la leggenda metropolitana. E senza farsi pagare per riscrivere, con comodo, una leggenda metropolitana.
L’operazione che i servizi propongono con scandalo è diffusa e anzi normale in rete: assumere varie identità, con vari server. Una, dettagliata e sintetica, appena una dozzina di righe, è in un romanzo subito famoso, “Vernon Subutex”, del 2015, alla p. 127 dell’edizione originale in Livre de Poche – tra donne parigine gelose… Il romanzo è stato letto anche al Dis in ritardo?
Questa, però, non sarebbe male. Se le spie cioè leggessero, non avendo da fare.

Il romanzo del non romanzo

Curiosa riedizione, con la prefazione stroncatoria dello stesso Vittorini alla prima edizione nel 1948, tredici anni dopo la stesura, 1935 – quindici dopo il primo capitolo, su “Solaria” nel 1933. Una pubblicazione come un addio, una separazione. Era il romanzo delle grandi speranze giovanili, nel fascismo rivoluzionario, ma alla vigilia della guerra di Spagna. Sentimenti e illusioni postadolescenziali che non persuaderanno più lo stesso autore dopo la guerra.
Si ripubblica come documento d’epoca – e per i vittoriniani, se ne esistono, cultori della matera. Non una grande lettura. Cesare De Michelis razionalizza nella premessa: ripubblicarlo oggi, dopo settant’anni, sarà come nel 1948, la “coscienza” di un progetto fallito perché destinato al fallimento – Mussolini alimentava illusioni, ma non si nascondeva. 
Questo sito ne faceva anamnesi severa dieci anni fa:
“È un romanzo liceale, in America rientrerebbe nel genere college. Ci sono i baci rubati, i soprannomi, lo strappo sintattico e verbale, lo psicologismo del tema in classe, il diario. Non felice, però.
“Ghiotta resta invece, benché faticosa, l’avvertenza-prefazione di Vittorini alla prima edizione nel 1948 del “romanzo”, scritto “con «non piacere»”, così virgoletta. Sul perché si scrive (e si riscrive), e come si legge. Contro, allora, “i conformisti del realismo romanzesco”. Piena di ottime citazioni. “La verità non rischia niente a passare per un periodo di abiezione”. Il realismo psicologico, “questo era un linguaggio che sembrava obbligatorio imparare per scriver romanzi. Costituiva una tradizione di un secolo” (ma non cita Manzoni, per non dispiacere a Milano?). “Il melodramma ha la possibilità”, Vittorini è infine andato all’opera a venticinque anni, “negata al romanzo, di esprimere nel suo complesso qualche grande sentimento generale”. Oltre che dal conformismo realistico, siamo oberati dal romanzo filosofico o saggistico, “con recensioni di personaggi invece di personaggi, recensioni di sentimenti invece di sentimenti, e recensioni di realtà, recensioni di vita…”.
“Delizioso il calco d’esordio, inavvertito, di Kierkegaard e la sua teoria delle prefazioni. “Questo è un racconto nel racconto”: Vittorini, che non ama le prefazioni, “non ho mai creduto nelle prefazioni, mai, nel tempo delle mie letture, ne ho lette”, ne scrive dunque una. A malincuore, anche perché “un libro vecchio di tredici anni è una «cosa», non più parola”. Ma ne scrive una in XXI paragrafi e una trentina abbondante di pagine. Per scoprire che le prefazioni sono libri: “Quanti libri, del resto, non sono che prefazioni dalla prima parola all’ultima? Quante ne abbiamo pur letto come se fossero opere, e in cui, come se fossero dimore, abbiamo lasciato abitare a lungo la nostra mente, non sono invece altro che una soglia?”.
“Vittorini è anche un siciliano onesto. Questo non c’è negli apparati critici che lo concernono, ma è la sua caratteristica. Nell’avvertenza-prefazione al “Garofano” anche più che altrove. Ormai grande editore quando pubblica il “romanzo” nel dopoguerra, dice che avrebbe potuto continuare a pubblicarlo su “Solaria”, la rivista fiorentina, “la dirigevano i miei amici Alberto Carocci e Giansiro Ferrata, e il numero uscito nel febbraio del 1933 portò la prima puntata”. Ma dopo la prima puntata gli capitò di andare a Milano. Una scoperta “straordinaria, dopo cinque o sei anni durante i quali mi pareva di non aver avuto che da bambino rapporti spontanei con le cose materne”, e il “romanzo” fu completato a malincuore, anche per le noie della censura. Afferma che c’è nel libro “un diffuso elemento di impostura” (ma riducendola alla pretesa di aver fatto il liceo, mentre si era solo avvicinato alle scuole tecniche, e a confondersi con la borghesia, lui di famiglia povera di operai, contadini e piccolissimi impiegati…). E vuole riconoscere che il comunismo dei ragazzi fascisti nei primi anni 1930 “ricorreva di continuo nella stampa dei G.U.F. e persino in qualche settimanale di Federazione” - specie lo spartachismo (anche i feroci nazionalisti dei Freikorp tedeschi nei primi anni 1920 ne avevano nostalgia).
“Qualcuno nell’apparato critico ha rimproverato a Vittorini la scena con la prostituta Zobeide, e Vittorini concorda: “Il lettore… molto troverà, leggendo, che gli sembrerà falso: ad esempio, i rapporti tra il ragazzo protagonista e la donna di malaffare (ma non esattamente prostituta) della casa di malaffare”. Ma è il solo rapporto vivo del “romanzo” - anche se la “casa di malaffare” è propriamente un bordello, a minutaggio, la “donna di malaffare non esattamente prostituta” una puttana, del giro delle quindicine”.
Elio Vittorini, Il garofano rosso, Bompiani, pp. 240 € 13