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sabato 14 agosto 2010

Problemi di base - 34

spock

“Siamo passati dal Pci al Pc” (D’Agostino “Dagospia”)?

Si dice Antigone l’amore contro il potere. È regina borghese in effetti, che si permette l’amore, filiale e fraterno. Ma è l’amore di una donna di potere. O sono le donne uomini di potere?

Perché la Chiesa, che è madre, è fatta di soli uomini?

Perché il matrimonio è “da salvare”?

Gesù non ebbe coetanei, essendo stati i bambini della sua età trucidati da Erode?

Come fu accertata l’età dei bambini di meno di due anni?

Israele fece un salto di due classi d’età?

Dove arrivava l’Egitto, nel quale la Sacra Famiglia si rifugiò a dorso d’asino? A quanti chilometri da Nazaret? Bisogna riaprire gli accordi di Camp David?

Perché la stagione dei concerti non va da aprile a ottobre, invece che da novembre a aprile? Potremmo tossire tutti liberamente.

spock@antiit.eu

Calabria senza capi, Salerno-Rc in coda

Arrivati in Calabria, i lavori per il rinnovo della Salerno-Rc inevitabilmente frenano. Da Lagonegro a Reggio Calabria i poco più di 200 km. del percorso possono prendere sei e sette ore di tempo, con defatiganti inspiegati rallentamenti che durano ore. Mentre le scadenze per la consegna dei lotti, già allungate dal 2009 al 2011 e al 2013, si prolungano al 2014, che poi sarà il 2015, e perché no il 2020. per una spesa che, finora, è di dieci miliardi - 24 milioni a chilometro, per un allargamento!
Altrove, in presenza di un rivoluzionamento del trasporto locale e di collegamento col resto del mondo, si sarebbero chieste e pretese garanzie e tutele. Non in Calabria. Lavori al rallentatore, unicamente mirati alla revisione costante dei capitolati di appalto, ritardi nei finanziamenti, moltiplicazione del costo chilometrico con faraoniche gallerie e viadotti monumentali, rendono i ritardi infiniti.
Altrove si sarebbe scelto un percorso meno costoso, e di costruzione più rapida, e controllata nei costi. In Calabria no. La monumentalità delle opere, il bengodi degli appaltatori, è anzi motivo di orgoglio, e l’unico argomento di cui localmente si discute. Non dei ritardi. Non dei costi eccessivi. Non dell’isolamento della regione, specie in questi anni di turismo prevalentemente economico, in conseguenza della crisi, che l’avrebbe potuta favorire rispetto alle altre destinazioni, tutte più costose, dal Gargano al Salento, al Cilento e alla stessa Sicilia, raggiungibile con i traghetti.
Altrove la politica locale avrebbe mediato una soluzione che rispondesse agli interessi della regione. Specie nella crisi economica perdurante, quando il costo basso della vita nella Regione avrebbe potuto infine far decollare il turismo. A questo scopo la Regione sponsorizza la Nazionale di calcio, al costo di milioni. Altri li ha spesi per una campagna Magna Graecia, un fantomatico festival di spettacolo e cultura in tredici siti archeologici.
Ma l’occasione si può dire perduta. L’Anas assicura che il traffico sulla Salerno-Rc è cresciuto tra luglio e agosto del 12 o quel che è per cento rispetto a un anno prima. Ma gli operatori della provincia di Reggio stimano che le presenze si sono dimezzate, in trattoria e in albergo. A fronte di un calo nazionale del 25 per cento delle presenze balneari. Il calo si vede a occhio: vuote le spiagge già il giorno dopo Ferragosto. Specie nella provincia di Reggio Calabria. Dove la Salerno-Rc si snoda per molti tratti in galleria. In gallerie lunghe chilometri e, grazie ai lavori in corso ormai da un quinquennio, poco illuminate. Qualcuna nient’affatto illuminata. Una buia e gocciolante, un vero antro. Ma i calabresi restano orgogliosi delle opere che si apprestano, i loro onorevoli in testa.
E questo è il grande punto nero della Calabria: la mediocrità della rappresentanza politica. Usciti di scena trent’anni fa Mancini e Misasi, nessun capace leader politico è maturato. Si conferma nei fatti, piaccia o no, il bisogno delle élite per la buona riuscita delle politica, nelle democrazie: il voto non risolve il problema della democrazia, l’efficace rappresentanza degli interessi, ci vuole la capacità di mediare da parte dei politici. Moro, e poi D’Alema, in Puglia, che così ha avuto uno “sviluppo” fenomenale. Come già in Sicilia gli ottimi democristiani ex Popolari negli anni 1950-1960, prima che venissero soppiantati dagli uomini della mafia, Lima e Ciancimino.

venerdì 13 agosto 2010

Il peggior nemico politico è l’amico

È forse l’insegnamento più valido di Maurice Duverger, insigne storico francese delle idee politiche che ora si trascura. Era il perno della storia della Quarta Repubblica francese, come da lui sintetizzata, trasfusa nella sua opera su De Gaulle e la Quinta Repubblica (“La Vème République”): la litigiosità in regime parlamentare è accentuata soprattutto tra personalità e fazioni politiche affini, più che tra i partiti e gli schieramenti opposti. L’attività è continua a smarcarsi dalle posizioni dominanti nel proprio schiarimento, e a indebolire le posizioni di leadership stabile. E si traduce quindi, inevitabilmente, nell’instabilità continua e nel sabotaggio di ogni tentativo dirigistico o di governo. Senza rimedio, se non l’antiparlamentarismo. E cioè, nel caso francese, De Gaulle. Che poi assestò il sistema costituzionale sul semipresidenzialismo, un assetto che dà al presidente meno poteri del presidente-dittatore pro tempore americano, ma lo tiene in carica per sette anni, due in più del Parlamento.
La Repubblica italiana è stata modellata sulla Quarta Repubblica. Questo non si dice più, da un paio di decenni, ma si è sempre saputo. E ne ha mediato l’instabilità, proprio secondo lo schema interpretativo di Duverger. Anche questo non si dice più, ma è sempre vivo il ricordo delle furibonde liti tra maggiorenti democristiani, tra Andreotti e Fanfani, tra Moro e Fanfani, tra Andreotti e Moro, tra Andreotti e De Mita, o Forlani. Mentre Craxi trovò la sola possibilità di governare i socialisti nell’annientamento di ogni maggioranza interna – nella “maggioranza bulgara” di cui lui stesso si lamentava.
Il voto è in questo sistema, insisteva Duverger, sempre destinato a essere disatteso, qualsiasi maggioranza esprima. Che sembra un paradosso ma è la realtà: il sistema parlamentare, escogitato per riflettere il voto popolare (e con le leggi elettorali proporzionali in Italia pretendeva di rifletterlo all’unità), nel suo pratico funzionamento è destinato a disattenderlo sempre. La politica avvilendo nei giochi di corrente: gruppi, fazioni, personalità, oggi fondazioni. Il fatto fu noto per un periodo agli interessi vested (Confindustria, banche, giornali), e da allora sempre agli elettori, che vent’anni fa promossero i referendum antiparlamentari, e da allora hanno sempre votato per semplificare gli schieramenti.
Oggi gli interessi costituiti sono tornati, se non al parlamentarismo, che non osano avocare, alla “crisi permanente”. Temendo evidentemente una decisa azione di governo, in campo fiscale, per esempio. O della spesa pubblica. O della giustizia, che in Italia è sempre stata una giustizia per i potenti – di qualsiasi schieramento. Gli elettori sono invece ancora intuitivamente aggrappati all’idea di una semplificazione della rappresentanza in favore di un rafforzamento del governo. È questa probabilmente la ragione maggiore del successo persistente del berlusconismo, che ha saputo raggruppare tante anime politiche “proporzionali”. Ma in questa divisione è l’attuale difficoltà del fronte riformista, dell’adeguamento delle istituzioni fuori delle false utopie della Quarta Repubblica francese. Tanto più che in questi venti anni il sistema della rappresentanza si è potuto semplificare sostanzialmente a livello locale (Comune, Provincia, Regione), ma in nessuna misura nel governo della Repubblica: il presidente del consiglio continua a non avere nessun potere, solo l’obbligo di mediare costantemente, mentre la legiferazione viene rinviata e impedita dal bicameralismo “perfetto” (due Camere con le stesse funzioni e gli stessi poteri) e da procedure parlamentari defatiganti.
Di Duverger, lo studioso decano a 84 anni degli scienziati politici, è è opportuno ricordare che è stato eletto in Italia al Parlamento europeo nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro, nelle liste del Pci. Ed è – è stato - più noto per l’opera “La democrazia senza il popolo”.

Montalbano centralista democratico

Montalbano vira al politicamente corretto. Tratta incidenti sul lavoro, il commercio degli immigrati, dei bambini, e degli organi, la Lega, l’omosessualità latente di Catarella, e vuole dimettersi contro il governo Berlusconi. Può essere la passione politica? Quello che non fece la mafia e la Dc fa Berlusconi? È possibile, Camilleri augura, in versi, la morte al Cavaliere. Che però è il suo editore, e lo ha immortalato vivente nei Meridiani. Può essere l’età: Montalbano sente gli anni. Ma forse è la Sicilia che si è ripreso Camilleri. Da sfottente. Scorbutico e geniale, come un sicliano vero, Montalbano è diventato un siciliano di maniera. Può essere: il politicamente corretto è opera di sradicati, negri, donne, disadattati, cioè gente che si riconosce per essere, solo negra, donna, disadattata. L’unica cosa certa è che si muove come dentro il centralismo democratico – dove tutti sono morti, cioè, senza sorprese.
Andrea Camilleri, Il giro di boa
La paura di Montalbano

giovedì 12 agosto 2010

Il re dei media ha i media contro

Non se ne parla più da qualche tempo, ma Berlusconi resta sempre quello che, tra i suoi tanti conflitti d’interesse (commistione tra affari privati e affari pubblici), ha il maggiore nel controllo dei media. Poiché controlla la Rai, ed è padrone di Mediaset e Mondadori, quindi controlla praticamente tutto il sistema radiotelevisivo, e il maggiore editore. Ma chi legge ancora i giornali, specie in questa stagione di viaggi vacanzieri su e giù per l’Italia, o anche soltanto guarda la tv, non se ne accorge. A meno che non sia un lettore esclusivo del “Giornale” o di “Libero”, dove peraltro scrivono personalità libere come Giampaolo Pansa, e di “Panorama”. Se anche vedesse solo il Tg 5, se ne accorgerebbe poco. Per il resto, dal “Foglio” in qua, si trova in territorio critico. Critico contro Berlusconi.
Sono contro, più o meno di chiaramente, il gruppo Rcs, compresa la “Gazzetta dello sport”, che “fa politica”, ne fa molta, la galassia L’Espresso-Repubblica-Finegil, e i giornali locali a essa comunque affiliati, quella Monti-Riffeser, “Nazione-Resto del Carlino-Giorno”, con altri, numerosi, giornali locali affiliati, dal “Tempo” di Roma alla “Gazzetta del Sud” di Messina e la Calabria, il gruppo Caltagirone, cui fanno capo i giornali leader di molte grandi città, e l’informazione del gruppo Sky, con i suoi ritmi ossessionanti. Avviene nella stagione delle vacanze, girando per l’Italia, di trovarsi in un paese che è tutto fuorché berlusconiano. In nessuna città, grande o piccola, si trova “il” giornale locale schierato per Berlusconi, e anzi è ovunque polemicamente contro. Citando a caso, “La Stampa” a Torino (che fa un’opposizione luciferina per conto di Montezemolo…), “Il Gazzettino” a Venezia, “Il Piccolo” a Trieste, “Il Secolo XIX” a Genova, “il Messaggero” a Roma, di cui è fondista Romano Prodi, “Il Mattino” a Napoli, “La Gazzetta del Mezzogiorno” a Bari, “La Sicilia” a Catania, “Il Giornale di Sicilia” a Palermo. Soltanto “il Sole 24 Ore” si mantiene a distanza.
Quanto alle tv, nessuno che guardi le reti di Berlusconi, Rai compresa, se ne trova indottrinato. Si può arguire che la persuasione è occulta, attraverso la spazzatura dei programmi spazzatura, ma sarebbe un’opinione spazzatura anch’essa, tanto più per volersi critica o colta – un residuo francofortese, la spocchia di un notabilato senza ruolo. Mentre lo spettatore è sommerso dalle tv di opinione, di area democratica o di partito, da La 7 a “Repubblica”, Red eccetera – senza nemmeno più bisogno di viaggiare, il digitale terrestre gliene porta a diecine a casa. Si capisce che l’uomo vada in giro dicendosi vittima dei media. Cioè, non si può dire, ma ha ragione.
Berlusconi dice che sa cos’ha detto il giorno dopo, leggendo i giornali. E questo è vero, c’è uno strano modo di fare giornalismo, innecessariamente coartato a questioni di principio, labili peraltro, quando non scopertamente ipocrite, dall’Ansa in giù. E questo spiega che i giornali perdano copie, oltre che credibilità. Ma c’è di più: chi veramente avesse a cuore la libertà d’informazione dovrebbe interrogarsi sul cortocircuito tra i media, o opinione pubblica in senso tecnico, e la politica, o opinione pubblica democratica.

Dove sono finiti Verdini e Bertolaso

È troppo tempo ormai che non abbiamo più notizie di Verdini e Bertolaso. Ogni giorno ne avevamo paginate piene, confidenze esclusive affidate da inquirenti di varia natura, giudici e colonnelli della finanza, alle signore della giudiziaria. Ma da quando, Bertolaso prima, Verdini dopo, hanno chiamato delle conferenze stampa per dire: “Smettetela!”, la confidenze hanno smesso di profluire. O le signore hanno deciso di non pubblicarle più. O i loro giornali. In base al diritto-dovere all’informazione?
Si capisce da questi repentini mutamenti di registro quanto la libertà dell’informazione sia ipocrita in Italia. Dove l’informazione viene fatta a uso esclusivo di pochi interessi, non pubblici. Non cioè dichiarati, politici per esempio, sociali, ideologici, ma accuratamente coperti e quasi sempre truffaldini – di chi dichiara di volere una cosa e ne persegue invece con pervicacia un’altra. La schiera dei media “democratici” offrirà un vasto campo da dissodare agi storici, e sarebbe oggi materia di analisi estremamente interessante per dei semiologi o studiosi del linguaggio, se ce ne fossero.
Il lettore, di sinistra e anche di destra, è solo quello che porta il suo obolo quotidiano a questi interessi. Di cui conosciamo peraltro i soggetti portatori e quindi, è presumibile, la modestia degli orizzonti, De Benedetti, Bazoli, Passera, l’uomo della famosa cricca Di Pietro-De Benedetti, allargato a Fini, i piccoli feudi politici (la banca, l’energia, l’istruzione e l’università per gli ex Dc, la rendita urbana e la grande distribuzione nelle regioni ex rosse), le molteplici cordate di affari, che si proteggono con la questione morale. Lo statalismo si è dissolto lasciando isole sparse di potere surrettizio, di cu facciamo le spese, anche come lettori.

mercoledì 11 agosto 2010

Da Vinci violentato da venti donne

Un problema resta, che non viene risolto, né da Brown né dagli esegeti: come Leonardo e Cocteau per un verso, e Newton vergine, hanno celebrato periodicamente il matrimonio sacro. A una periodicità semestrale, secondo la tabella di p.382, Leonardo dovette subire una donna una ventina di volte, Newton una sessantina, Cocteau una novantina. Ci dev’essere un segreto in questo che è il libro più venduto mai in Italia. E che prima delle tirature di “Repubblica” e dei Miti Mondadori è stato venduto col passaparola. L'intrigo forse, in ambienti “distinti”, lontani dal noir italiano fermo agli slums di Dickens. O il racconto in forma di fuga: la fuga continua dei protagonisti, e quella del racconto in tre-quattro filiere narrative. La storia è sciatta (il Graal, il Sang Real, la fica-rosa…), i personaggi senza carattere, quando non sono ridicoli. Il segreto sarà l’insignificanza?
Dan Brown, Il codice da Vinci

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (64)

Giuseppe Leuzzi

Il vagabondo napoletano che si nutre inalando i sapori della rosticceria è tema di racconti metropolitani nordafricani, di Algeri, Orano.

La mafia è un’insorgenza democratica. Bisognava pensarci, è innegabile, come la trova F.R., giornalista americana che ha voluto “vedere” la mafia: i prognati, l’eloquio, il portamento, l’abbigliamento, gli sguardi, l’etica, i mafiosi sono la plebe. Anche per la genealogia, si può aggiungere, e per l’onomastica (i soprannomi non sono mai lusinghieri).
Da questo punto di vista la mafia sta tutta dentro la teoria delle origini del capitale come violenza. Ma questa evidenza contrasta con le frasi fatte dei sociologi ufficiali -, col supporto dei carabinieri, i quali però sono scusabili per non essere sociologi - sulla base della teoria: il popolo non può essere cattivo. Da qui la necessità della cupola, del terzo livello, della mafia come sistema di potere. Che viene comodo per le tattiche politiche – soprattutto in Sicilia e a Napoli – senza incidere sulla mafia.

Sicilia
Il “Corriere della sera” celebra, per la penna di Pietro Calabrese, il tramonto. Dalla sua casa sulle Madonie, sopra Cefalù, Calabrese si gode tramonti da celebrazione. C’è in Sicilia il culto del tramonto. Il vecchio albergatore del “Sole” a Trapani lo consigliava ai visitatori. E in effetti a Trapani il tramonto è scenario mutevole di dramma giocoso. Ma poi perché non godersi l’alba, la Sicilia guarda anche a Oriente? Il tramonto è a sinistra, certo, ma è il buio, il freddo, il male,

Arrivando da Napoli col postale della notte, la Sicilia si annuncia con lo Stromboli, che rompe l’oscurità col fuoco. Si entra, sulla superficie muta del mare, in un mondo altro, qual era ai primordi, con le sciare, gli scoppi di Vulcano, i soffi di vapore sull’acqua e sulla terra, una serie di portenti.
Ma la storia pesa. La Sicilia ha viscere irritate da cronica gastrite per eccesso di goloseria, fetide, o da stipsi, di cui a fatica si libera. Quando accade, la genialità e la superbia dilagano sopraffacendosi.

A piazza Aretusa nella civilissima Siracusa aspettano pazienti le spose per la fotografia. Il fotografo ha un aiuto, che tiene i pannelli rifrangenti, e un elettricista con due lampade, attaccate alla batteria della 750 in moto. Ingolfato senza collo in una camicia blu con cravatta, l’autista della Bentley bicolore si pulisce le unghie. La sposa inseguono una maestra di cerimonie, che controlla l’inquadratura, la posa e l’altezza del mento, e la sarta per rimodellare l’abito multistrato. Lo sposo aspetta congestionato nella calura senza ombra, i rever a lancia gli arrivano alle spalle, di gabardina acrilica color mostarda. Capi unici, ardui da imitare certo, e da riutilizzare.
Si spendono per un rito di minuti diecine di milioni di vecchie lire, con l’addobbo e il pranzo un centinaio, l’Italia povera è ricca. O è diversa: nei cesti votivi degli sposi nelle chiese orto-dosse pacchi Barilla e biscotti Saiwa sostituiscono il grano e le focacce.

La creazione del Sud
La Licata ha scritto, Feltrinelli ha stampato e pubblicizza con una serie di eventi, Massimo Ciancimino ha dettato “quarant’anni di storia”, dice la copertina. La storia della mafia dettata dalla mafia. Compresi La Licata, l’editore Feltrinelli, le Librerie Feltrinelli?

C’è stato sconcerto tra i forcaioli per la condanna a metà di Dell’Utri. Non basta loro che il senatore sia condannato come mafioso, volevano mafiosa anche Forza Italia. Il “Corriere della sera” ha apre la prima, a firma Giovanni Bianconi con un: “Marcello Dell’Utri è stato condannato, Forza Italia assolta. Il senatore è stato amico dei mafiosi e «concorrente» nei loro reati, ma il movimento politico che ha contribuito a fondare non è il partito della mafia”. La mafia è un reato meno grave che Forza Italia?

Questa storia della mafia universale sarebbe ragione sufficiente per una lotta di liberazione dall’Italia. Che mette la mafia dappertutto, nell’aria, nell’acqua, nel sonno, e non per stupidità. Non gliene frega nulla della mafia, ma di coprire i propri sporchi affari con un ombrello più sporco: lo apre ora anche sull’Italia settentrionale.

La squalifica del Sud arriva tardi, con l’unità. Come la napoletanità, altro flagello, o i briganti, e ora la mafia. La squalifica delle parti è connaturata ai processi unitari moderni, alle nazioni. Nelle parole di Ernst Jünger (“Entretiens” con J.Hervier): “Il concetto di nazione quale è stato sviluppato dalla rivoluzione francese ha avuto conseguenze molto nefaste”. L’unità significa cassazione delle parti. Jünger conosce anche il segreto di nazioni che sembrano troppo grandi o diversificate e sono invece le più forti, come gli Usa: un impero è molto meglio (più fungibile, più democratico), di una nazione: “In un impero, ognuno può parlare la lingua che vuole, che sia il polacco o lo yiddisch, la sua lingua materna. Mentre in uno Stato nazionale bisogna che tutti parlino la stessa lingua, etc.” Ma la squalifica del Sud è eccessiva, e nasce da uno squilibrio: non è l’unità contro tutti i particolarismi, sono l’unità e alcuni particolarismi contro altri.

Il controllo del territorio
Noi siamo qui, in mezzo alla campagna, sotto il controllo dei carabinieri. Al cervellone del Viminale sanno tutti i miei spostamenti, il mese di agosto che passo in vacanza in campagna, nella casa di famiglia. Bisogna ogni tanto aprire le case, contro la polvere e l’umidità, e anche contro i ladri, la tentazione di rubare. E del resto la proprietà assenteista è un peccato, per questo viene tassata e occupata. Ma succede questo: che per undici mesi, in città, lo Stato si disinteressa di me, potrei trasportare droghe o armi o esplosivi, e magari innescarli. Ma nel mese di agosto mi controlla una volta la mattina e una volta la sera: sa così che sono andato in una certa direzione, e poi sono tornato. Il controllo di notte serve per dare drammaticità all’operazione, e per arrotondare con lo straordinario notturno.
Sono le piccole attività che si danno ai militi per tenerli in esercizio, come Alec Guinness faceva nel “Ponte sul fiume Kway”, cominciando da qui a insegnare loro il controllo del territorio. È un buon esercizio: scelgono le macchine targate Roma o Milano, e quelle fermano per i controlli: l’assicurazione è su queste macchine normalmente pagata, la patente non scaduta, e non vi si trasportano armi, nemmeno improprie, il rischio quindi è minimo, e il militate impara con tranquillità a leggere i documenti e interrogare via radio il cervellone del Quirinale. Non gli si può fare alcun rimprovero, sono istruiti a dire le frasi di circostanza, cominciano con buon sera e finiscono con buona serata, dopo aver inquisito con noncuranza: “Siete in vacanza?” C’è una stazione di carabinieri, con quattro o cinque militi, ogni piccolo paese, e non bastano le piccole denunce, una-due ogni mese, a tenerli occupati: ogni brigadiere comandante di stazione è un colonnello Nicholson che eroico inventa qualcosa per tenerli occupati e anche per esercitarli proficuamente.
Solo che Guinnes nel film lavorava per il nemico giapponese. Per quale nemico lavorano i militi dell’ordine pubblico? Come Norman Douglas una volta acutamente rilevò, questo Stato non fa fare le cose a chi le sa fare meglio ma chi più ne ha bisogno. Questi giovani moderni e bene educati hanno sicuramente bisogno di uno stipendio, che quindi volentieri gli paghiamo. Se si interroga dunque il cervellone del Quirinale, noi alle dieci di sera del 10 agosto 2010 siamo a un incrocio in mezzo alla campagna.

Le Legge sono al Sud i carabinieri. Che sono in ogni paese, più dei preti, e più verecondi. Quelli della stazione di Gioia Tauro presidiano spesso la stradina che porta alla grande spiaggia tra Gioia e Palmi, a Scinà, Pietre Nere, la Tonnara. Non all’incrocio della stradina con la statale, ma poco prima. Scelgono una delle macchine in fila e chiedono i documenti: la patente, la carta di circolazione e il bollo dell’assicurazione, di cui segnano i numeri minutamente in loro computer o registri, insieme con l’ora e la località. Scelgono di preferenza macchine dell’Alta Italia, con le quali il rischio d’infrazioni è ridotto. Forse per bontà: è la stagione delle vacanze anche per i CC.
Un po’ più su, all’incrocio della stradina con la provinciale, i carabinieri potrebbero agevolare il deflusso dei bagnanti, a mezzogiorno e la sera, evitando le code che tengono a lungo le famiglie in surplace nelle spiagge di provenienza, Scinà, Pietre Nere, la Tonnara. Ma la Legge si osserva controllando i documenti. Anche a Gioia Tauro, la cittadina con ha la più alta densità mafiosa per centimetro quadrato, record probabilmente mondiale - è probabile che anche il ghiacciolo al bar paghi il pizzo.
Si perpetua l'uso locale di segnalare la presenza della Legge agli automobilisti che precedono in senso inverso, con tre lampeggi o colpi brevi di clacson. Per un paio di chilometri dopo l'incontro con la Legge stessa, finché dura lo sconcerto.

leuzzi@antiit.eu

martedì 10 agosto 2010

La storia Feltrinelli della mafia scritta dalla mafia

Il giornalista La Licata ha scritto, Feltrinelli ha stampato e pubblicizza con una serie di eventi, Massimo Ciancimino ha dettato “quarant’anni di storia”, dice la copertina. La storia della mafia dettata dalla mafia. Compresi La Licata, un giornalista che si pregiava di patrocinare Giovanni Falcone e il 41 bis, l’editore Feltrinelli, le Librerie Feltrinelli?
Ciancimino Massimo, La Licata Francesco, Don Vito, Feltrinelli, pp.311, € 18

Svanite in Procura le denunce Rai dei Tulliani

Il partito degli anti-Tulliani alla Rai, che è quanto dire tutta l’emittente pubblica, è a caccia delle varie denunce che da un anno si sono seguite sugli appalti alla madre e al figlio Tulliani. Qualcuna pubblica, su tutte quella di Guido Paglia, il giornalista da sempre amico di Gianfranco Fini, il compagno della Tulliani figlia che ha propiziato il benessere della famiglia. Molte private, seppure indirizzate alla Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica, e forse anonime. Ma circostanziate, come ormai si sa. Tulliani madre ha incassato un milione e mezzo di euro come una sorta di diritto d’agenzia su una striscia quotidiana di circa duecento puntate. Tulliani figlio, a cui il direttore di Rai Due Mazza aveva promesso la produzione di un programma in prima serata, che poi retrocesse in seconda serata perché si presentava, e fu, un flop, avrebbe incassato, seppure in veste di produttore, il doppio.
Ci dev’essere stato un cortocircuito in Procura, si maligna in Rai. Dove il partito aziendale gongola per la disavventura degli improvvisati produttori: è una carta che si ritiene infine decisiva contro il facile outsourcing, l’appalto all’esterno di servizi e programmi. E l’aspettativa è che qualche testa cada, alla direzione della Rete Uno, di cui Mazza è ora titolare, e dei programmi, riaprendo spazi per le carriere interne. Ma il trionfalismo è cauto: il fatto che le denunce siano cadute nel nulla, senza intercettazioni o altri atti istruttori, fa temere che lo scandalo venga comunque coperto.

lunedì 9 agosto 2010

Fare corrente con Montecitorio

Tre puntini di sospensione chiudono la lettera aperta del presidente della Camera Fini per fare luce sul Montecarlo Gate. Dopo aver confermato tutti i punti dubbi della vicenda, compreso il suo personale interessamento, Fini chiude minacciosamente con i puntini di sospensione. Come a dire: ve la farò pagare. C’è molta ilarità per questo nella stessa Camera, cui però segue, in ogni deputato, la considerazione un po’ impaurita: a un presidente della Camera non dovrebbe essere consentito. Non tanto l’ortografia, quanto l’uso della carica a bassi fini politici, di gruppo politico.
Fini usa la carica di presidente della Camera per costituirsi una “corrente” politica. Questa è una novità assoluta, si dice. E piccona, se ce sono ancora, le istituzioni residue dopo l’assalto della Seconda Repubblica. In altra epoca sarebbe stato impensabile, oltre che impossibile: pensare a un Ingrao, una Jotti, un Napolitano, che brigassero politicamente dallo scranno di Montecitorio è impossibile, si dice a sinistra e anche a destra. Un qualche precedente Fini lo trova in Violante, ma erano gli anni della presidenza Scalfaro.
Napolitano certamente non è un golpista, ed è anche una fine mente politica. Ma forse non ha molto coraggio. Il fatto è che disturba molti, e nel partito Democratico più che tra i berlusconiani, che il presidente della Repubblica non trovi uno strumento appropriato per bloccare l’uso dissennato della presidenza della Camera a fini di “corrente”.

La Repubblica del “ghe pensi mì”

Fini scrive una lettera aperta per confermare, negandoli, tutti gli aspetti negativi del Montecarlo Gate (sorvolando sulle volgarità che coinvolgono la compagna, madre dei suoi figli, e la casa comune d’abitazione, regalo del bancarottiere Gaucci). Come già Di Pietro, che pretese di avere preso a prestito, in contanti, cento milioni da un suo inquisito (con vicende familiari analoghe, di case o appartamenti) senza commettere reato alcuno. È la moralità della Seconda Repubblica, o della questione morale? Una moralità speciale, connaturata al soggetto che la agita, fosse pure un assassino.Il giovane cognato e la suocera divenuti edittalmente produttori esterni alla Rai, nel 2009, per volere del presidente della Camera, sembra di sognare. Del resto, il presidente della Camera rivendica nella sua minacciosa lettera di aver ordinato la vendita del famoso appartamento di Montecarlo a una società off-shore.
La protervia con cui Fini conferma, smentendoli, tutti gli aspetti negativi dell’appartamento di Montecarlo, compresi il suo intervento personale, e la speciale etica in affari e negli affetti della famiglia Tulliani, dev’essere il contrassegno dei fondatori della Seconda Repubblica. Che sono detentori della questione morale, e quindi non possono fare male. Sarà per questo che gli stessi fondatori si sono poi dati tanto da fare per evitare alla Repubblica leggi costituzionali e prassi istituzionali adeguate. Luigi XIV, o chi per lui, diceva “lo Stato sono io”, e così i Fondatori, Fini, Di Pietro : “La legge sono io”.
È il “ghe pensi mì” berlusconiano Si vede che il conflitto d’interessi è parte costituente della Seconda Repubblica. Berlusconi, anch’egli un Fondatore, pensa ai soldi. Gli altri, senza idee, se ne fanno una attribuendosi la moralità. La vera questione morale è la questione morale stessa. Si capisce che Bossi giganteggi in mezzo a questi soggetti politici.

I giudici vittime dell’antimafia compromissoria

Michele Costa, figlio del procuratore della Repubblica di Caltanissetta Gaetano, assassinato trent’anni dalla mafia, dice a Palermo, alla privatissima celebrazione del 5 agosto 2010: “Sull’omicidio di mio padre si è indagato superficialmente”. Cioè non si è indagato. Sull’omicidio di un Procuratore della Repubblica.
Nello stesso giorno, ma a Cortina d’Ampezzo, Calogero Mannino, prosciolto dopo vent’anni dalle accuse di mafia, chiede che si faccia chiarezza sull’omicidio di Rocco Chinnici. Che era un altro Procuratore della Repubblica, di Palermo, e quindi più esposto di Costa. Segno che anche su Chinnici non si è indagato. Né Costa né Chinnici, d’altra parte, fanno parte del panteon antimafia compromissorio che gestisce ogni anno le celebrazioni funebri a Palermo.
Michele Costa accusa la Procura di Palermo, nelle persone dei sostituti Sciacchitano e Lo Forte. A essi fa risalire la divulgazione delle indagini di Gaetano Costa, confidenzialmente agli avvocati dei mafiosi indagati. La divulgazione delle dichiarazioni del pentito Marino Mannoia in merito all’omicidio. La pronta liberazione di Tommaso Buscetta, che l’assassinio del procuratore Costa s’era prestato a declassare a “bravata”.
Ma c’è di più: quando le vittime della mafia sono democristiani onesti, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, sono vittime generalmente di altri democristiani. Sciacchitano e lo Forte, che poi hanno fatto carriera situandosi nel compromesso, sotto l’ombrello del vanesio torinese Caselli, erano criticati apertamente dal loro capo Chinnici come manutengoli democristiani. Ma, poi, lo stesso Michele Costa aveva difeso come avvocato Lo Forte nel 1997 nell’aspra polemica tra il giudice e i carabinieri del Ros. La storia dell’antimafia è poco onorevole – dell’antimafia istituzionale.

domenica 8 agosto 2010

L’universo modesto di Jünger, narratore politico

Si ripubblica una serie di colloqui di Jünger in occasione del suo novantesimo compleanno, già pubblicati nello stesso anno 1986. Libro modesto, forse compiaciuto, in rapporto ai convolvoli cui il lettore di Jünger è avvezzo. Ma ne sottolinea molte della costanti. Con i noti limiti. Che in parte sono un pregio: l’universo di Jünger, ciò che crede, ciò che pensa, si mostra semplice. E forse è in questa semplicità la sua “profondità”, la capacità che lascia intuire di costeggiare il senso intimo delle cose, e i fenomeni del tempo, la “mobilitazione totale”, il “lavoratore” (la tecnica), la resistenza attiva.
Jünger è un’altra specie di Germania decente. Non quella ammirata degli sgobboni della verità (archeologi, filologi, storici, costruttori di mondi), ma quella umbratile dell’essere e il non essere, o della condizione umana: conservatore ma anarca (spirito libero), nazionalista ma cosmopolita, militarista contro la violenza. Autore “politico” quant’altri mai, nella saggistica e nella narrativa, in tutta la narrativa, e tuttavia diffidente: quando un autore si scopre nella sua sostanza senza cercare di esercitare un’influenza con uno sforzo di volontà, questo può comportare conseguenze esiti più importanti che se si lanciasse in una argomentazione politica: non dà un impulso ma un esempio”.
Un capitolo è dedicato al nazismo, a Goebbels che Jünger ha frequentato, a come lo scrittore può sopravviverci. Un altro alle droghe e la trascendenza. I sogni sono parte importante dei “Diari” di Jünger: “Sono dell’opinione che la vita del sogno immerge a una più grande profondità che la nostra visione diurna del mondo”. Della nonna paterna in particolare, con la quale ha fatto per anni “sogni strani”, poi raccolti in “Nelle case dei morti”). I sogni si collegano a uno dei temi jüngeriani, il Regno delle Madri: la preminenza delle figura femminili (la madre, la nonna, la bisnonna), lo inquieta: “Evoca l’antica Gaia, che non è sempre molto rassicurante”. Si sa: “Il campo delle madri si dispiega su un vasto orizzonte, dalle Erinni alla Santa vergine – e sempre si ritrova il serpente”, l’animale “che ha perduto le sue membra”.
Con qualche novità. Uno dei primi ricordi di Jünger, se non il primo, di un fatto sarebbe stato l’affare Dreyfus. Di cui il padre farmacista, che a tavola ammaestrava la famiglia sulle sue letture, avrebbe trattato a lungo e in profondità. Interessante il dubbio se considerarsi un uomo dell’Ottocento, essendo nato nel 1895, per la potenza formativa dell’infanzia, oppure del Novecento, percorso in tutta la sua lunghezza (Jünger morirà nel 1998 a 102 anni). E la “fuga” che non è possibile, attestata da uno che a 18 anni fuggì nella Legione Straniera, e subito dopo ne volle fuggire, nella prima guerra mondiale restò ferito 14 volte, e poi se ne andò a Napoli a studiare la biologia marina. O le regioni, con la fine del nazionalismo. Le piccole patrie ritornano – che Jünger è felice di avere chiamato madrepatrie, Mutterländer, dato che il tedesco patriarcalizza la patria, Vaterland: “Le nazioni come si sono formate, dopo il 1789, dovranno ridimensionarsi poco a poco, le patrie. Al contrario le regioni, la Normandia, la Cher, Marsiglia, etc., ciò che io chiamo Mutterländer, prenderanno un’importanza crescemte. Il centralismo perderà su questo terreno e sarà riportato su insiemi enormi”. Il presupposto è che un impero è molto meglio (più fungibile, più democratico), di una nazione: “In un impero, ognuno può parlare la lingua che vuole, che sia il polacco o lo Yiddisch, la sua lingua materna. Mentre in uno Stato nazionale bisogna che tutti parlino la stessa lingua, etc.” “Il concetto di nazione quale è stato sviluppato dalla rivoluzione francese ha avuto conseguenze molto nefaste”.
I limiti sono l’orizzonte culturale molto tedesco, con incursioni al confine orientale, la Francia, e a quello orientale, la Russia. Tipica l’argomentazione dell’Arbeiter, che Jünger dice tradotto impropriamente con “lavoratore”, derivando il termine tedesco, il "suo" Arbeiter da arbeo, “una parola gotica «eredità»”, da “mettere in rapporto col greco orphanos e il latino orbus”, privo, orfano, e quindi connesso con la morte… Lavoratore viene invece dal latino tripalium una forma di tortura. Quindi Arbeiter, conclude, è intraducibile. Che è vero e non lo è. Lo è, forse, in francese, e in spagnolo. Senza considerare che il lavoro aliena, per antica recente condizione che Marx supinamente ha recepito. Travagliare viene da tripaliare, torturare col tripalium, strumento dal triplice cuneo. Connesso nel Settecento a sofferenza, spossatezza, umiliazione, nell’Ottocento a povertà, miseria, sfruttamento. Il lavoro a lungo è stato fatica: labor, ponos, da penia, travail appunto, e Arbeit. Che potrebbe anche essere la stessa cosa che Armut, la povertà. Ma era il linguaggio dei predoni, cavalieri e cacciatori, che passando alla fatica della terra se ne lamentavano.
O si prenda la corsa all'autenticità, anch’essa trademark molto tedesco - francese di rimbalzo: ambiguo, insignificante, perfino ridicolo – la corsa alla purezza, si sarebbe detto in altra epoca. Contro la tecnologia, il progresso, lo sviluppo, il terzomondismo, la globalizzazione incipiente (per magari farsi intronare compiaciuto honorable chief da quattro marpioni liberiani). Senza riflettere o dire che prima della “civiltà”, sia pure imposta con mano dura, coloniale, c'erano schiavismo, sfruttamento, esporcizia - inquinamento, dell'acqua, del suolo, perfino dell'aria con gli incendi, e virus e bacilli di ogni sorta e formato, imbattibili.
Julien Hervier, Entretiens avec Ernst Jünger, Gallimard, pp.162, € 10,50

La sicilianità soffoca il brio di Camilleri

L’aneddotica al solito sfolgorante, il figlio (s)cambiato, è sopraffatta dalla sicilianità. E che ne viene fuori? Che un rapporto emotivo tra padre e figlio, o tra fratelli, è solo possibile tra siciliani. Non c’è in Svezia, per esempio, o in Sardegna. L’invadente sicilianità, da siciliano emigrato e sentimentale, che Camilleri ci evita in Montalbano, dove per fortuna non c’è l’“occhio di fuori”, giudicante. E la Sicilia vive come sa.
Andrea Camilleri, Biografia del figlio scambiato