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sabato 4 gennaio 2014

Miracolo a Roma

Spulciando i curriculum online dei consiglieri regionali del Lazio, si trova una Gaia Pennarella, cinquestellata, laureata in lingue, che svolge attività di “free lances”. Sarà un’indiana, metropolitana?
L’alfaniano  Sabatini ha cominciato a lavorare a vent’anni, poveretto, nel 2003-2004. Ma era nientemeno che “funzionario di collegamento al ministero degli Esteri” con l’Unione Europea. Funzionario, agli Esteri, a vent’anni? Erano gli anni di Frattini ministro degli Esteri – facesse Frattini i miracoli, anche lui?
Riccardo Valentini, indipendente, è premio Nobel per la pace. L’ha avuto nel 2007. Era iscritto all’associazione ambientalistica di Al Gore, l’ex vice-presidente Usa premiato quell’anno.
Però, sono stati votati, questo è ineccepibile.

Fisco, appalti, abusi (43)

Si dice pudicamente che il fabbisogno è cresciuto di 80 miliardi, per non dire che il debito è cresciuto. Ottanta miliardi in più di debito, in un solo anno. Senza dire dove questo”fabbisogno” è andato. In un bilancio che ha tagliato e taglia tutte le spese note - tutti i servizi alla collettività. Possibile che si rubi così tanto?

Per pagare i suoi debiti con le imprese, la Regione Lazio raddoppia l’addizionale Irpef. Da subito a carico di lavoratori e pensionati, quelli che pagano le tasse in anticipo. La Regione Lazio ha amministrazione democrat.

Con i saldi di fine anno è ormai noto a tutti che Monti ha istituito una seconda patrimoniale sulla casa, oltre all’Imu, ora Tasi. La chiama imposta per servizi indivisibili, ma nessun servizio è connesso: si pagano 30 centesimi per ogni mq., foss’anche disabitato, e questo è tutto.

Si paga l’imposta sui servizi indivisibili in una con la Tares ai Comuni, la tassa rifiuti. Ma con due distinti sistemi di pagamento, e due posti dove pagare: l’F 24 in banca (non in banca online, impossibile, allo sportello), il conto corrente alla posta. La tassa si vuole odiosa.

Su un consumo elettrico di 166 kWh nel bimestre, per un costo di € 15,27, si paga una bolletta di € 58,85. Il “resto” è a pagamento della “commercializzazione”, del “dispacciamento”, dell’Iva e anche di una “perdita di rete”. Quanti ci devono mangiare sulla luce?

Per 90 mc. di gas, del costo di € 51,92, si paga una bolletta di € 125,49. Sui consumi viene caricata la “rete”, 32 euro e mezzo, e quaranta euro di Iva. Si paga l’Iva sul gas due volte, la seconda, di € 22,60, su una base imponibile di € 102, 89, comprensiva anche di € 18,09 di imposte. 

Guida ai religiosi, per non perdere la ragione

Si ripubblica in economica l’edizione otto anni fa di Mario Zonta. Maimonide, medico e giurista, scrisse la “Guida” sul finire del secolo XII. È una delle figure maggiori del giudaismo rabbinico, e un conoscitore di Aristotele. Qui propone in parallelo, in sintesi, la morale aristotelica e la morale ebraica tradizionale, anzi rabbinica. Con l’obiettivo dichiarato di dare una base razionale alla religione. Indirizzato ai filosofi e ai religiosi, già allora divisi fra la tradizione e l’agnosticismo (razionalismo).
Un obiettivo rivoluzionario. Per l’epoca, 1180-1190. E perché convincente, uno dei più riusciti. In 186 voci o brevi capitoli, Maimonide si muove con grande capacità persuasoria. Avendo la costanza di seguirlo, o pregiandosi dell’esoterismo – numerico, alfabetico, eccetera: Maimonide resta un rabbino e parla soprattutto ai rabbini.  
Mosé Maimonide, Guida dei perplessi, Utet, pp. 886 € 14

venerdì 3 gennaio 2014

Voglia di Strapaese

Avviene a Camilleri, nato a Porto Empedocle in una famiglia che usava l’italiano frammisto al dialetto, da sessant’anni lontano dalla Sicilia, con moglie e figlie romane, a volte senza contatti con l’isola per un anno o più, di non poter esprimere un concetto o un senso se non in siciliano, nel “suo” siciliano – che è ben diverso da quello di Catania etc. Recependo però con fastidio l’etichetta di “scrittore siciliano”. È la cosa più notevole della conversazione, i ricordi e le tecniche scrittorie di Camilleri – non diverse dalle spieghe anteriori.
È un libro d’autore. Di autori. Tutto sull’amarcord. Ci sono Calvino, Benvenuto Terracini e Wittgenstein, ma di più i ricordi, cioè il fascismo. Ce è sempre nostalgia, .sotto l’avversione. Di qualche squarcio interessante ci lasciano col desiderio. De Mauro, giovane accademico a Palermo, ricorda che “quando la discussione si accendeva – e quando c’era Sciascia capitava spesso”, si slittava sul dialetto. Sciascia era polemico? No, parlava poco. Sciascia non era allineato al Pci? Più probabile. Ancora De Mauro, accademico avventizio a Palermo, e con lui il giovane Luigi Spaventa, fine anni 1960, non riuscivano a spiegare agli amici a Roma che la mafia “esiste”, a persone “accreditate della migliore cultura italiana”: non capivano, ne ridevano. 
Ma c’è Pirandello, scrittore in dialetto, traduttore anche dal greco all’agrigentino – che il dialetto, stabilì, è “la cosa stessa” (non è vero, ma rende l’idea). C’è la teoria delle emozioni. C’è quella delle parentele – Camilleri: tra lingua e dialetti è come tra l’albero e le fronde, dalle quali trae la linfa. E c’è una voglia di dialetto, forte . Fortissima: Camilleri e De Mauro ne discutono per perdonarsela, per esorcizzarla. E questo è Strapese, Maccari e Malaparte - che ertano anche loro fascismo. Anzi, è leghismo – eh sì. Nella forma alta, naturalmente, De Mauro è fulminato da Meneghello, “Libera nos a malo”. È un’introflessione che è una forma di retroflessione.
I dialetti, dunque. Che dirne, che i due ottantenni ingordi non si dicono e non ci dicono? L’emigrato che resta incistato nel dialetto dei suoi anni, di quando è partito, mentre nella comunità di origine la lingua (parole, significati, pronuncia) è mutata, questa è la chiave: la lingua, dialetto, compreso, vive. Nel suo terreno di cultura, naturalmente. L’emigrato invece la mantiene ben conservata ma morta – folklorica – mentre fuori casa si trapianta in terreno ostile o estraneo.
Lo stesso per le necessarie parentele. Camilleri ricorda, Benvenuto Terracini e la lingua “centripeta”, che si rinnova con gli apporti dalla periferia al centro. Il dialetto è una conformazione di una lingua – un adattamento, fonetico, glottologico, morfologico, la diversificazione della lingua stessa. Ma è anche un fatto di aspettative deluse. Un colpo al sentimento innato dell’immodificabilità della lingua. La delusione dell’emigrato di ritorno è l’esito delle aspettative, il loro rovesciamento. Ed è vissuta come un tradimento:  l’emigrato di ritorno soffre l’innovazione come una sorta di tradimento dell’identità.
La lingua per natura, e dunque il dialetto, non isola: più spesso l’apporto dell’immigrato – invertendo la direzioni di marcia - è vissuto come un’innovazione, linguistica oltre che di costume, mentalità, e pratica (culinaria, religiosa). Le tante esperienze di drammaturgia italiana oltralpe, a partire dal Seicento, o anglo-americana in questo dopoguerra in Italia, o di canto, e perfino di scrittura, attestano la comunicabilità delle lingue.
Per restare in armonia con i discutanti, molto “siciliani”, si prenda Pippo Pollina. Siciliano cento per cento, nemmeno emigrato, e sempre in palla su temi italiani, in lingua italiana, è  stanziale nel mondo tedesco, vivendo stabilmente, da trenta dei suoi cinquant’anni, a Zurigo. È un artista “germanico”, popolare lungo l’asse Svizzera, Germania, Svezia, che canta in italiano. Il concerto che ha dato all’Arena di Verona il 12 agosto, per i trent’anni della sua “germanizzazione” – uno dei suoi rari concerti in Italia, anticipato a gennaio da una presentazione al Parco della musica romano – è stato onorato soprattutto da un pubblico tedesco. È vero che era cantato per metà in tedesco, “Süden” – il disco-spettacolo è costituito da sedici canzoni, che si susseguono una in italiano e una in tedesco. La lingua è familiare, tribale, comunitaria (politica, religiosa, settaria), nazionale, cosmopolita.
Andrea Camilleri-Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Laterza, pp. 126 € 14


A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (193)

Giuseppe Leuzzi

Chinnicchinnacchi” no, non è “arabo, è latino. Lo spiega Camilleri persuasivo a Tullio De Mauro in “La lingua batte dove il dente duole”: “Sei mesi fa mi scrive un professore che insegna latino arcaico, e mi spiega che chinnicchiennacchi deriva paro paro dal latino arcaico, basta scrivere col k quis hic in hac («cos’è questo in questa cosa», «che c’entra?»)” – forse quid, ma non importa..

A Taranto l’acciaio “uccide”, a Trieste, dove ne uccide di più, no.

Trento prima per qualità della vita nella classifica di “Italia Oggi”, Crotone ultima. Lo scrittore Carmine Abate vive nel trentino e scrive memorabilmente del crotonese, dove è nato e cresciuto.

Si cercano i fusti tossici delle industrie del Nord che la camorra ha sotterrato nel casertano. Meritoriamente si cercano, anche con dispendio di risorse. Non si cercano invece le “industrie del Nord” che quei fusti avrebbero smaltito illegalmente. Una ricerca che non costerebbe. 

Severgnini firma sul “Corriere della sera” sabato un “Italie 2013” in cui ricorda il rogo della Città della Scienza a Bagnoli:”Non è solo un incendio di matrice criminale, ma il luminoso, terribile riassunto dell’impotenza del Sud”. Poi ci ripensa. “Chi pensasse che il fuoco è il marchio dei drammi del Sud, dovrà ricredersi: in novembre, a Prato, sette morti nel rogo di una fabbrica-dormitorio cinese”. Il cerchiobottismo anche tra Nord e Sud?

Vent’anni dopo avere invocato per il Sud il filo spinato, Ernesto Galli della Loggia si ravvede domenica 22 chiedendo sul “Corriere della sera” la “pura e semplice applicazione della legge”: la condanna dei criminali. Lo chiede in reazione all’incriminazione di due vedette dell’antimafia, Carolina Girasole e Rosy Canale: ci voleva tanto per sapere che la mafia la combattono i Carabinieri?

W Schiavone, il fusto tossico
Arruolare Schiavone contro il Sud? Non è un’idea, è un fatto – non isolato, uno di tanti. Schiavone è Carmine, capo camorrista da un ventennio pentito. Dopo vent’anni Schiavone s’è ricordato che la camorra ha trattato i fusti tossici dell’industria del Nord, e ha appestato il casertano. Un linguaggio generico che si tradisce da solo – il delinquente sa di cose, non “fusti tossici”, di persone, (mediatori, commanditari, beneficiari), e di luoghi precisi. Che il giudice Cantone, che a lungo ha “gestito” il pentito, spiega con chiarezza a Vittorio Zincone su “Sette”:
“Mettiamo ordine ed evitiamo sensazionalismi. Non capisco tutta questa visibilità che viene data oggi a Carmine Schiavone”. È un ex boss che dice cosa da brividi. “Nulla di nuovo. La magistratura ha già controllato e in molti dei luoghi che lui indica come inquinati non è stato trovato nulla”. Perché allora rilascia interviste in cui minaccia epidemie tumorali e catastrofi bibliche? “Forse, oggi che non ha più il programma di protezione, intende ritrattare le sue accuse. O più semplicemente gli piace il ruolo di guru che gi attribuiscono i media”..
È così: il “fatto” sono i giornali e i telegiornali, ci hanno creato e ci creano sopra un inferno. Ancora non hanno trovato il fusto, ma ci sperano molto.

Emigrato, sradicato
Tornano gli emigrati, e non si trovano a loro agio. Perché vengono da un mondo migliore – meglio organizzato, più ordinato e pulito, più ricco, più promettente? No, perché non ritrovano il “loro” mondo locale, quello che avevano lasciato. Case, strade, figure diverse, quelle femminili specialmente. Soprattutto ci trovano un’altra lingua, cioè un altro dialetto. È questo che li fa sentire esclusi, in rapporto alle attese, alla preparazione, ai lunghi e costosi viaggi, e quindi a disagio. 
L’emigrato è fermo, nel rapporto col luogo natio, al momento dell’emigrazione, mentre nella comunità di origine tutto è mutato, non può non mutare, se in meglio o in peggio non importa. Soprattutto la lingua, che è un “organismo” forzatamente vivo e quindi in continua evoluzione. Contrariamente al sentimento innato di una sua immodificabilità. La delusione dell’immigrato di ritorno è l’esito delle aspettative, il loro rovesciamento. Ma è vissuta come un tradimento:  l’emigrato di ritorno soffre l’innovazione come una sorta di tradimento dell’identità.

Napoli
Non si sa se congratularsi per la nascita della bambina da una madre in coma da quattro mesi, o vituperare chi ha provocato il coma della madre, uno sparatore a caso. L’estrema vitalità va con la barbarie?

“La gatta cenerentola”, unico capolavoro del Novecento musicale a Napoli, andò in scena a cura della Regione Emilia-Romagna, non della Campania. Roberto de Simone, autore e ricercatore ineguagliato a Napoli, è stato sempre rifiutato dalla città.

La Terra dei fuochi dietro Napoli è così detta perché c’è l’abitudine di ammassare i rifiuti e dargli fuoco. È un fatto di “civiltà” e non di camorra. Ma si fa come se.

Il casertano non ha un’incidenza di tumori peggiore che altrove. Ma piace dirsi vittime. Per fare teatro? Per una modesta invalidità?

Cirio era piemontese, un manovale di Nizza Monferrato. Impiantò un’industria a Torino, che avviò le esportazioni, presenziò all’Expo di Parigi nel 1867, fu Commendatore della Corona d’Italia, e nel 1891 fallì. Il piemontese Cirio non di diede per vinto. Andò a proporre le conserve dove si produceva la materia prima, e tre anni dopo, nel 1894, poté riaprire a San Giovanni a Teduccio. Nel 1900 la Cirio era tra le aziende conserviere più grandi d’Europa.

Dunque “O sole mio” è ucraina. La più famosa canzone napoletana, forse la più famosa al mondo, da Gigli a Pavarotti, e a Sinatra, Tony Bennett, Elvis Presley, nacque a Odessa. Il sole è quello del mar Nero, dove Edoardo Di Capua era in tournée col padre Giacobbe, bravo violinista. Durante una sosta nella città, allora russa ora ucraina, una mattina illuminata dal sole, il giovane compositore Di Capua dotò di note la canzone affidatagli dal’amico Capurro a Napoli prima della sua partenza.

Capurro e Di Capua morirono in povertà negli anni 1910: non poterono mai riscuotere i diritti d’autore. Che andarono alla case editrice, Bider. Bontà del diritto napoletano. Un causa lunga settant’anni, che nel 1972 ha riconosciuto coautore della melodia Alfredo Mazzucchi. Che nient’altro musicò – era “redattore” della casa editrice musicale, di cui fu poi titolare. Ma questa decisione fu di un tribunale di Torino: c’è qualcuno più furbo della furbizia.

Doveva cambiare segno e status col plebiscito per l’uomo nuovo De Magistris, e ha collezionato, nel solo 2013, il record delle nefandezze: il rogo della città della Scienza a Bagnoli (che era una modesta struttura malgrado il nome roboante…), i mezzi pubblici senza benzina, i furti al museo dei Girolamini, lo sfratto dell’Istituto di Studi Filosofici, i crolli alla Riviera di Chiaia, il ritorno di Scampia, della crminalità-fortezza in città.

leuzzi@antiit.eu

giovedì 2 gennaio 2014

“Uomini di tutto il mondo, unitevi!”, Conrad

Fu il primo successo di pubblico di Conrad, nel 1914 - ed è l’unico romanzo di Conrad con l’happy ending. Un successo profetizzato dieci anni prima, alla lettura dell’abbozzo della storia, da Ford Madox Ford, trattandosi della “storia di una ragazza”. Ottenuto vendendo il libro, grazie agli editori americani, Doubleday e Knopf, proprio come girl novel. Non è così, è anzi un libro faticoso – lento e polemico. È però vero che le donne qui ci sono, per la prima volta nello scrittore all male, di anarchisti e avventurieri. Anche se da un punto di vista misogino.
È anche il primo romanzo “marittimo” di Conrad dopo “Lord Jim” , 1900. Dopo tre romanzi politici. Ed è anche il ritorno di Marlow, l’alter ego del narratore, quello di “Gioventù”, “Cuore di tenebra” e “Lord Jim”.
“Caso” (chance in origine) è l’intrecciarsi degli eventi inatteso. Di cui Marlow, impiccione benché solitario e distratto, è ghiotto. Caso sono anche gli incontri, le coincidenze, le cose quali si presentano, siano pure inezie. Ma il titolo è ironico – involontariamente? La vicenda è segnata dalla necessità – la parentela, le abitudini, le incrostazioni mentali - e non dal caso. E benché sia piaciuta al pubblico, è la costruzione più complessa di Conrad: un sistema a sei o sette equazioni, tanti sono i punti di vista, e i livelli di lettura che Marlow è chiamato a collazionare, e decifrare poi per il lettore.
Un Conrad al quadrato, dissociativo più di ogni suo altro romanzo, anche perché è lungo il doppio. Le scene madri si svolgono “Sul marciapiedi”, interminabile capitolo centrale, tra personaggi che s’incontrano più o meno per caso, o si eclissano dietro l’angolo. Tralasciando per di più di “dire” molte cose che si mostrano. Mrs. Fyne per esempio, la moglie di un dei partner narrativi, madre di due o tre figlie, al secondo capitolo si veste da uomo, dalla cintola in su, e ha ogni settimana una girl-friend, che accompagna a passeggio col braccio alla vita – sarà poi gelosissima, anche delle disgrazie. Una sfida alle convenzioni editoriali, dunque, del successo di pubblico.
La storia è semplice. Flora, figlia innocente di un Madoff della City, è affidata nella disgrazia a parenti sordidi. Confortata da vicini solleciti dei vecchi tempi, specialmente dalla moglie, Mrs.Fyne. Finché non “fugge” col fratello di lei, capitano di navi mercantili. Un residuo novecentesco di un canovaccio molto frequentato nell’Ottocento, “Jane Eyre”, etc. Conrad la irrobustisce: ne fa la storia di una giovane in pena, che vede solo la morte come scelta, e per caso viene intercettata, distratta, salvata da un passante, sia pure uno intromettente come Marlow. Che a distanza, per l’alchimia dell’amicizia amorosa, simpatetica, ricostituente, per il solo, minimo, segno di attenzione che manifesta, la introduce a se stessa e all’amore – “i sogni di sentimento, come i misteri consolanti della Fede, sono indistruttibili” è una delle frasi famose cui Conrad indulge. Flora a sua volta fa acquistare spessore a Marlow: la controfigura piatta di Conrad - un marinaio che non naviga, un amico di tutti senza un amico, un femminilista senza una donna, e un saputone, uno che sa tutto - diventa una sorta di spirito del bene.
È Flora la girl propagandata come l’eroina del romanzo, la ragazza infelice. E lo è, ma la storia vera non è di Flora, è di Mrs.Fyne. Di una femminista antifemminile - “Mrs Fyne non voleva che le donne fossero donne”. Di uno degli amori che non avevano nome, ma ben saffico, soprattutto nella gelosia, come era di tanti romanzi Fine Secolo. Anche se, sembra, a insaputa dello stesso Conrad. In una con un antifemminismo maschilista, anzi misogino. Se Marlow è Conrad, e  lo è, che nulla concede alle donne - poco o niente perfino a Flora.
E dunque, perché si legge, dopo l’improba fatica che dev’essere costata al traduttore, Richard Ambrosini? Per questo – almeno oggi, in questa ripresa: per l’antifemminismo. Anzi per il rigurgito maschilista. Il curatore della revisione Oxford venticinque anni fa, Martin Ray, opina che la “successione consistente di riferimenti alle donne” di questo “Caso”, di cui Conrad si vantava col suo agente, J.B.Pinker, sia datata e noiosa. E invece no, anticipa una sorta di revanscismo maschilista – o prolunga il flaubertismo. Quale ora serpeggia, seppure timoroso di dichiararsi, nello stesso femminismo. Rinfrescante, non tanto per gli argomenti – peraltro “inediti”, dopo il lungo inverno femminista - quanto per la franchezza. Né insensato: ogni argomentazione è condivisibile, probabilmente pure dalle donne.
Molte le frasi celebri, scolpite, epigrammatiche, aforistiche che infiorettano le disgrazie di Flora, probabilmente più che in tutti gli altri libri di Conrad. “Non c’è niente più di una confessione per fare diventare uno pazzo; e di tutte le confessioni una scritta è la più dannosa” – in argomento il cauto, disincantato, Marlow esce per una volta dal riserbo: “Mai confessare! Mai, mai! Uno scherzo inopportuno è fonte sempre di amaro rimorso”. O: “un ideale è spesso non altro che una visione fiammeggiante della realtà”. Ce ne sono ogni paio di pagine – “cinismo mi sembra una parola inventata da ipocriti”, etc..
Fra le tante elucubrazioni femminilistiche anti-femministe, insomma maschiliste, i torti del femminismo verso le donne: “una sorta di dottrina morale ferro-e-fuoco”, una vendetta. Ma più spesso l’attacco è diretto: “Niente può battere una vera donna nella visione chiara della realtà; direi una visone cinica”, etc.. In tema basta la dozzina di righe che Marlow si concede a p. 70: l’onore “è un venerabile lascito medievale che le donne non hanno mai veramente capito”.; anche la cautela è a loro estranea: “Il «sensazionale a ogni costo» è il loro motto segreto”: sempre eccessive: “Non si accontentano di tutte le virtù, pretendono per se stesse anche tutti i crimini”. Manca “uomini di tutto il mondo, unitevi!”, ma è come se Conrad lo dicesse.
Joseph Conrad, Il caso, Adelphi, pp. 400 € 20

Ombre - 203

Fiat, discussa e pericolante in Italia, funziona ed è apprezzata negli Usa. Saranno sempre cazzoni, questi americani?

Bob King, il capo dell’Uaw, United Auto Workers, il sindacato auto americano, dieci (venti?) volte la Fiom, ha sostenuto Fiat nel salvataggio della Chrysler. Landini, capo della Fiom, un sindacato che ogni anno perde diecimila iscritti per la crisi dell’auto, ne contesta ogni virgola. È vero che ha poco tempo da dedicare alla Fiat, i tempi morti delle comparsate alla Rai, di cui è vedette.

Non solo Rai Tre, anche Rai Uno ha poco da dire sul passaggio della Chrysler alla Fiat. Giusto quello che si fa dire da ignoti sindacalisti e un paio di lavoratori. Non che ne sappiano molto.

La televisione fa sessant’anni, ma chi se n’è accorto? La Rai è un’azienda della comunicazione, o un ufficio di collocamento?

Dunque, non ce l’avevano detto, ma le giudici Gatto, Pendino e Cannavale, che vorrebbero, dicono, Berlusconi impiccato, vogliono processati anche gli avvocati di Berlusconi, Ghedini e Longo. Processare gli avvocati difensori? Non è che queste signore sono stipendiate da Berlusconi – come le olgettine, anche se non per gli stessi fini?

Annamaria Gatto, Paola Pendino, Manuela Cannavale sono metà della sezione “soggetti deboli” del Tribunale di Milano. Specializzazione: reati in tema di immigrazione, sfruttamento della prostituzione. Ma proteggono in Tribunale le prostitute, e vogliono condannate quelle che resistono.

Litigano Travaglio e Breda sul “Corriere della sera” per alcuni giorni di fila su chi di loro, e forse Napolitano, è stato succube, complice, sicofante di Berlusconi. Siamo già all’ortodossia dell’antiberlusconismo. Ma perché sarebbe di sinistra?

Il presidente della Repubblica blocca il decreto “Salva Roma”. Lo blocca alla vigilia di Natale, è vero. Ma alla ripersa il 27 i lettori saranno tenuti all’oscuro del perché e del come. Non bisogna disturbare il manovratore Letta?

Può essere. Gli stessi lettori, infatti, sapranno che Letta è deluso. Ma senza dire se di se stesso, del papocchio che ha fatto, o di Napolitano.

Grillo grida all’impeachment del presidente della Repubblica. Per salvare Letta?

Dirige due teatri d’opera, a Bari e a Roma. A Roma anche il Parco della musica, che ha tre sale grandi da concerto e alcune piccole, una grande cavea, e innumerevoli saloni, dove molteplici eventi si organizzano ogni giorno. Dirige pure, in parte, il Festival del cinema, sempre a Roma. C’è un solo Fuortes tra i Democrat, un solo manager politico?.

Ma Fuortes è anche ubiquo? È vero che Roma è la città dei santi.

Va Emma Bonino a Teheran e si effonde con un peplo alla presentazioni ufficiali. Per non urtare chi, l’interprete – gli ayatollah se ne fottono?

Non solo la radicale Bonino, ben meno laici e laiche di Emma si sono prodotte per anni e decenni in guaiti contro l’obbligo della veletta per le signore che volevano parlare al papa. Solo che il papa l’ha abolito – ha abolito l’obbligo. Morto il papa, viva l’ayatollah?

La riedizione del Manuale Statistico e Diagnostico (Dsm) suscita negli Usa molte polemiche, scrive Emanuele Trevi, avendo risintonizzato ciò che è patologico e ciò che è normale: “Il nuovo a fondo viene dallo scienziato Allen Francis. Che afferma: non va curato chi è normale”. Gli altri non ci stanno. Scienziati? Neuro?

lunedì 30 dicembre 2013

Rosy Bindi in affari

O la vera storia del San Raffaele-Roma. Sergio Rizzo riesuma la vicenda oggi sul “Corriere della sera” tacendo l’essenziale. Che invece era noto quindici anni fa esatti, giorno più giorno meno (ripreso dal don Verzé cinque anni dopo nel suo libro con Giorgio Gandola, “Pelle per pelle”):
“Il ministro della Sanità Rosy Bindi ha imposto alla Fondazione milanese del San Raffaele di vendere a tutti i costi, anche a costo di svendere, l’ospedale che aveva appena terminato di costruire a Roma. Senza nessuna ragione, per atto d’imperio – i buoni cattolici sono spietati. Siamo a settembre.
“Rosy Bindi ha fissato anche il prezzo di cessione: 201 miliardi. Cioè lo svenamento per il San Raffaele, che pretende di avere investito 350 miliardi. La Fondazione milanese però non ha alternative: è impossibilitata a operare. Su impulso del predecessore di Bindi, Luigi Berlinguer, ex Pci, aveva già assunto e formato anche il personale. Ma non può aprire in mancanza della convenzione con la Regione Lazio. Che è retta da Piero Badaloni, giornalista garbato, ma inflessibile Dc, anzi “popolare” come Bindi. Il San Raffaele ha dalla sua, oltre che l’ex Pci, Cesare Geronzi e la Banca di Roma. Ma niente da fare: Badaloni non risponde, e non si fa trovare – immaginare Badaloni che tiene testa a Geronzi non è possibile, ma l’ex giornalista è tenuto con la briglia stretta (come Rosy Bindi?) da ambienti vaticani. Con i quali è anche Giovanni Bazoli, banchiere milanese ma forse più influente di Geronzi.
“L’8 ottobre cade il governo Prodi, il nuovo presidente del consiglio D’Alema fa ben sperare, ma poi è costretto a confermare Rosy Bindi. Che, trionfante, fa fare una perizia a un suo consulente privato, e tira fuori la cifra dei 201 miliardi. Senza dolo apparente: è lo Stato che si porta acquirente, quindi meno spende meglio è. Siamo sempre a ottobre. La Fondazione traccheggia, ma sono i banchieri ora a caldeggiare la retrocessione, “vivamente”, come si suol dire, tutti molto cattolici, la Cariplo, Bazoli, lo stesso Geronzi. La Fondazione firma un preliminare per 201 miliardi. Ma nicchia a finalizzarlo in consiglio.
“A novembre il consiglio è convocato. Ma arriva una telefonata di Antonio Angelucci, imprenditore sanitario di Roma, che si porta acquirente per 270  miliardi. Un salvagente insperato per la Fondazione. Che però nicchia ancora: non vorrà “lo Stato” esercitare la prelazione, nazionalizzare alle sue condizioni? No, lo Stato dà via libera. Una storia a lieto fine, dunque, seppure parziale?
“La storia non è finita. Perché ora, poche settimane dopo l’irruzione del gruppo Angelucci (Banca di Roma? Geronzi personalmente?), sembra completarsi diversamente. Il gruppo romano tratta già per rivendere il San Raffaele allo Stato, e al ministro Rosy Bindi. Per 320 milioni. Cinquanta miliardi di valore aggiunto in pochi mesi, per un’opera ancora non avviata: un record. Ma di che natura?
“Il San Raffaele è nato a Roma nel 1994, uno degli ultimi atti dell’ultimo rettore di sinistra – intelligente, onesto - dell’università La Sapienza, Giorgio Tecce, per decongestionare il Policlinico Umberto I, soffocato anche nelle opere murarie, coi posti letto in corridoio. E in meno di tre anni era stato realizzato. Un investimento da 330-340 miliardi di lire, secondo le stime dei più accreditati broker del settore. Rosy Bindi ha agito su impulso del nuovo, chiacchieratissimo, rettorato della Sapienza? Per conto degli Angelucci? Contro l’ex Pci? Con quale utile per lo Stato, per gli utenti?”
Il progetto di decongestionamento del Policlinico si riprende oggi, dopo vent’anni, su iniziativa delle giunte di sinistra al Comune di Roma e alla Regione Lazio, e della “sinistra ferroviaria” di Trenitalia. Ma è scommessa facile che non passerà.

Fisco, appalti, abusi (42)

Gli aumenti di imposte e tariffe nei decreti del governo per la ripresa economica superano le riduzioni di oltre due miliardi.

Un reddito medio-basso a Roma, 1.500 euro al mese, pagherà l’addizionale Irpef raddoppiata nel 2014.

Roma ha avuto 600 milioni dal governo. Per ripianare il bilancio. Pur avendo un’imposizione locale, per addizionale Irpef, Imu-Iuc e Tares, da 2 a 4 volte superiore a quella di Milano.

“Niente straordinari a Capodanno” per i vigili urbani a Roma, è allarme nei giornali: “Eventi a rischio”. Eventi gratuiti. Di un Comune che è stato appena salvato dal fallimento con 600 milioni del Tesoro.

Per pagare una visita specialistica in ambulatorio, all’ospedale Gemelli di Roma, l’attesa è di 57 minuti – normalmente di 45, risponde l’impiegato alle proteste.

Per liquidare una pratica Equitalia a Roma, via Colombo, l’attesa è indefinita, fino a tre ore e mezza. In un posto senza mezzi pubblici e senza parcheggio. Si va a Equitalia a piedi, come ai vecchi santuari, come in pellegrinaggio, in ginocchio?

La metro Roma-Lido serve 800 mila persone. Inventata da Mussolini, è rimasta a settant’anni fa, sia la linea che, si direbbe, i vagoni. All’ultima delle periodiche proteste, il sindaco Marino promette: “Entro aprile venti nuovi capitreno”. 

L’Europa senza radici viene dalla guerra

Un’altra Europa, che non quella dei dazi e dei tassi d’interesse? Non sradicata, come l’ha voluta l’élite laica che ne ha redatto le costituzioni? Era possibile. È quella cui pensavano gli europeisti radicali e “naturali”, fuori dai centri d’interesse, Eugenio Colorni, Altiero Spinelli, Jean Monnet. E Simone Weil, che curiosamente ne redigeva i fondamenti costituzionali, nell’esilio-esilio di Londra stesso tempo che Colorni e Spinelli al confino a Ventotene. Non in progetto o manifesto, ma in un insieme di appunti, saggi e lettere che qui opportunamente Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito riuniscono. Con un apparato critico che è anche una scorribanda negli ultimi mesi di vita, e nella personalità stessa, della filosofa.
L’Europa di Simone Weil è un’entità nuova, ma consapevole delle proprie radici. E anzi a esse ancorata: alla filosofia greca, razionalistica, platonica, e al cristianesimo delle origini depurato. ai suoi anni (1942-1943) un’utopia rispetto alle condizioni in cui l’Europa versava. Rispetto alla stessa Europa che combatteva il nazismo. È per questo che il suo esilio è doppio: Simone si sente prigioniera, e anzi vessata, dalla Francia combattente con la quale è venuta a schierarsi a Londra, tenuta in punta di bastone e anzi in sospetto. Più che un vero progetto di Costituzione, gli scritti delineano la constatazione, possibile già nella fase più delicata della guerra, di un’occasione fallita, di un’immane tragedia senza catarsi.
Simone Weil, Una costituzione per l’Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi, pp. 376 € 22

domenica 29 dicembre 2013

La morte nella vita

La morte in vita. Luce livida, parole mute, sensi e sentimenti spenti, socialità asociale. Un affaccendarsi vano, non nuovo. Con la vita nella morte, ma illusoria. E questo è un colpo nichilista, da ko - da sapiente narratore.
Uberto Pasolini, Still life

I paradisi fiscali sono tra noi – grazie Angela

Il 2013 è finisce con l’Ue che ancora una volta si dimentica, malgrado reiterati impegni solenni, la lotta all’evasione fiscale. All’evasione legale, che è quella che fa la vera evasione fiscale.
Santa Lucia, Panama e altre terre lavitoliane sono voci esotiche atte a mascherare, al più, l’acquisto di una villetta con spiaggia privata e personale di servizio a basso costo – la vita è dura ai Caraibi, tra umidità, tifoni, mosquitoes. I paradisi fiscali sono tra noi, a Monaco e al Lussemburgo, e in Olanda, Liechtenstein, Gran Bretagna, Irlanda, perfino in Austria fino a un paio d’ani fa, quando le Autorità chiudevano gli occhi, e in Svizzera naturalmente. Ma la Germania non vuole chiuderli. Dopo aver chiuso i suoi.
Un approccio europeo è necessario alla buona gestione del fisco, per evitare che le diverse aliquote nazionali diventino fattori di concorrenza. E per dare impatto alla lotta ai paradisi fiscali. Molti passi furono fatti avanti in entrambe le direzioni fino al 2009, quando Angela Merkel è tornata al governo senza i socialisti e coi liberali. Da allora una direttiva europea sui paradisi fiscali che avrebbe chiuso di fatto l’era del segreto bancario, in Olanda, Austria, Liechtenstein, Irlanda, Cipro, Malta, Gran Bretagna, è stata ritardata di semestre in semestre. Da ultimo il 22 maggio 2013 a “prima della fine dell’anno”, che ora si conclude senza direttiva. Contrari i paesi citati, ma i rinvii sono diventati norma per il patrocinio di Berlino.
Allo stesso fine, per bloccare la politica comune in tema di evasione fiscale, Angela Merkel ha concluso il 9 agosto 2011 un accordo con la Svizzera. Indipendentemente dalla commissione di Bruxelles e contro il suo parere. Garantendo alla Svizzera la riservatezza dei conti, e quindi l’anonimato dei capitali tedeschi nelle banche svizzere. In cambio di una cedolare secca – del 26,4 per cento - sugli interessi o le plusvalenze realizzate dai capitali tedeschi. Dando credito alla buona fede delle stesse banche svizzere.
L’accordo è stato bloccato a fine 2012 dal Bundesrat, la camera alta tedesca, dove l’opposizione era in maggioranza. Ma è stata oggetto di trattativa con una parte dell’opposizione, i socialdemocratici, per il varo del nuovo governo di centro-sinistra, che ha già messo all’attivo 2014 gli introiti previsti dall’accordo. era oggetto nell’estate 2013 di incontri del ministro delle Finanze Schäuble con i socialisti. La Merkel di centro-destra aveva già peraltro intese bilaterali analoghe, queste operative, con alcuni paesi Ue: con Londra per una cedo-lare del 27 per cento, con l’Austria del 25 per cento.

Il mondo com'è (158)

astolfo

Autoritratto - L’autofiction si moltiplica indefinitamente con i selfie, gli autoritratti che i telefonini hanno messo alla portata e nelle abitudini di tutti in ogni momento e occasione. Per lo più postati, se non immortalati, su facebook, una tribuna mondiale. Si può dire il millennio dell’autoritratto, se non propriamente dell’autofiction, campo finora riservato agli artisti, che ne usavano con parsimonia. 

Correttezza – Gli ottimi classici Oxford, della Oxford University Press, si corredano di uno svelto apparato di note e un glossario. Nei quali si spiegano (a uso degli americani, degli anglo-asiatici?) parole come Patagonia, Madagascar, “edizione speciale”, e che “d----bly” è “damnably”, e “una volte per tutte” è “costruzione francese”, ma non “poleaxed”. Non per pudore, che i testi e le situazioni spesso soverchiano senza remore, per correttezza politica: per non disturbare i turchi e i cinesi, che l’impalamento praticavano.

Femminismo – Senza più ostacoli in campo maschile, che è anzi corrivo e perfino ancillare. Ma sempre più circoscritto, e in qualche modo demotivato, dal movimento gay, o dell’indifferenza sessuale (promiscuità).

Golpe – È il marchio del Millennio – perlomeno in Italia. È iniziato col golpe dell’euro, denunciato dall’antropologa Ida Magli. Ora Luciano Gallino ne ha uno “di banche e di governi”. Ora, un golpe dei governi è una contraddizione in termini, ma chi può dirlo. Berlusconi dunque non è il solo, che il golpe lo vuole a giorni alterni di Esposito o Napolitano – ma perché non potrebbero essere uniti i due nella lotta, se sono entrambi napoletani…
È una derivata molto moscovita. Degli zar prima e poi di Stalin e il sovietismo: dappertutto e ogni giorno, si può dire, c’era un golpe da sventare. E il sovietismo è sempre forte in Italia. Il massimo avvisatore dei golpe in Italia, Giulietto Chiesa, che ne denuncia uno ogni paio d’anni, si era illustrato quale corrispondente da Mosca, seppure della liberale “La Stampa”.

Kabila – Chi è a capo del Congo, che ha bloccato le famiglie italiane invitate nel paese per completare le pratiche di adozione? Joseph Kabila, il presidente del Congo, in carica da dodici anni, virtualmente eletto, è succeduto al padre, Laurent Kabila, all’assassinio di questi il 16 gennaio 2001. “Monsieur” Laurent, il fondatore della dinastia, era personaggio in vista a Dar Es Salaam negli anni 1970, dove si era esiliato, per la vita dispendiosa e i costumi liberi. E per aver incontrato i favori, tra le tante, di Miss Ewan, Dorothea, che poi morì nel 1975 sulla strada per‘Ndola, in un incidente che forse è casuale. Il suo vedovo non sconsolato, monsieur Laurent, si faceva chiamare mzee, vecchio, ed era agiato imprenditore, di flotte da pesca, casini, e rapimenti, di studiosi europei o americani, che risolvendo in contanti o contro armi - monetizzava il mal d’Africa. Aveva un suo movimento di liberazione, Parti de la Révolution Populaire, filocinese, a Hewa Bora, tra Burundi e Congo, e una moglie tutsi, nera e alta. Ma manteneva il centro degli affari al sicuro in Tanzania. Ci sarà sempre un movimento di liberazione in Congo, terra delle tenebre, ma da cosa?
S’incontrava allora il Che sotto tutte le forme di gadget a Dar Es Salaam. Dove transitavano le armi fornite da russi e cinesi in gara per il socialismo, fucili Fal, mitra Uzi, pistole Beretta, roba capitalista liberamente rivenduta. Lo vevano distrutto, il Che, nel Congo. Obbligandolo per mesi a camuffarsi di dentiere e peli posticci, col nome comico di Tatu, e a medicare troie e sifilitici, mentre i militanti sopratutto scopavano, tra le zecche e i pungiglioni di Kigoma, Kibamba, Lulinga, accasciandolo di critiche violente dei sottopancia rivoluzionari, nelle anticamere dei capi. Ognuno pensava alla sua collosa tribù, e il Che era lì per nulla: Soumaliot demagogo e venduto, Kabila logorroico, Gbenye un bandito, Olenga un cretino, si aumentava i gradi a ogni villaggio conquistato, Mulele separatista del Kasai. E un tenente colonnello Lambert che, protetto dalla dawa, il liquido magico, si dichiarava “invulnerabile alle palle”: “Mi sparano, ma le palle cadono senza forza al suolo”. Era il 1965, il primo anno in cui non ci fu una rivolta in Congo. Trent’anni dopo, Kabila ce l’aveva fatta, dopo aver sobillato il Ruanda, e occupava anche Kinshasa, spodestando Mobutu, per la sua propria rivoluzione.
Miss Ewan morì incinta di cinque mesi, fedele a Laurent Kabila. Si poteva vedere alcuni anni prima, nella capitale della rivoluzione, rossa di minigonna, fiammeggiante, altissima su gambe scalpitanti, che mostrava fino all’inguine. Tutta inglese come si dichiarava, rapida nella controllatissima parlata, energetica sulla jeep che si guidava da sé, con l’aureola di apparizioni periodiche, i giorni passando a distribuire matite e gomme da cancellare ai bambini delle scuole povere. Integra malgrado tutto, nessuno l’avvicinava con intenzioni recondite, gli indigeni sembravano non vederla. La fondazione che rappresentava era canadese, diceva, i soldi di un magnate australiano.
Kabila II non si sa invece chi sia. Quando sia nato, da quale madre, in che anno, in che posto. E come faccia a governare, essendo di carattere schivo, e di età giovane, trenta, massimo trentacinque anni nel 2001. Forse un ruandese, figlio di una delle mogli di Laurent, una tutsi chiamata Marcelline. E di un generale che era stato a capo dell’esercito congolese, James Kabarehe, di cui Joseph era l’autista e figurava il nipote, e che da qualche mese l’aveva nominato comandante in capo dell’esercito congolese. Kabila II vive a Kinshasa senza parlarne la lingua locale, il lingala, mentre parla il kenyarwuanda, che si parla in Ruanda. A suo favore c’è un precedente: un altro generale schivo e silenzioso fu messo a capo del Congo per vent’anni e oltre, Mobutu. Ma, a differenza di Mobutu, non controlla il paese. Che in effetti è grande, ma Kabila II non controlla nemmeno Kinshasa, i movimenti di liberazione continuano a pullulare.

Mercato – Presuppone una forte (dominante) posizione di potenza. Storicamente: si è imposto quando l’Inghilterra dominava i mari, a metà Ottocento. E, nella storia contemporanea, dove e quando gli Usa hanno avuto una posizione di forza: dal Patto Atlantico alla Cina di Deng. O meglio alla caduta del Muro con Tienanmen, la caduta del comunismo. A patto naturalmente di produrre più merci più a buon mercato. È il problema oggi dell’Europa, soggetta all’egemonia tedesca, ma non dichiarata e non produttiva.
Spiegato suasivamente da Adam Smith , e dimostrato – probabilmente – da Ricardo, il libero mercato si realizza solo in ambito imperiale, dove una potenza esercita un’egemonia incontestata. Tale da restringere a un solo caso la\le possobile\i eccezione\i. L’impero inglese ne dà dimostrazione anche in negativo: di un mercato ristretto e perfino annientato se contrasta con la potenza. Imponendo nel Sei-Settecento, con i Navigation Act, l’uso di navi e equipaggi inglesi per i commerci, per stroncare la concorrenza olandese e francese. E nell’Ottonceto, con la rivoluzione industriale in corso, eliminando la concorrenza indiana nel tessile col blocco delle esportazioni, con dazi e contingenti.

Roma – È la città delle divinizzazioni, se non proprio santa – i santi, cioè, li fa. Ha cominciato Augusto con Cesare – e in prospettiva con se stesso. La chiesa le ha rilanciato su vasta scala. Roma ci ha pure provate con le dive, sulla scia di Hollywood, ma si è fermata a Sophia Loren – la materia prima si è perduta nel femminismo, livellatore. Ha supplito l’energetico Giovanni Paolo II, che ha rimesso in moto i processi a grande velocità

Snobismo – Arte recenziore, dispendiosa, inutile. A tutti gli effetti anzi devastante, e tuttavia diffusa. Celebrato attorno all’aristocrazia inglese, in realtà  ambìto in ogni classe sociale – impensabile è lo snobismo nei ceti popolari meridionali, in Sicilia, in Puglia, nel napoletano, in Calabria. L’imitazione la prosopopea da chi meno ci se lo aspetterebbe. È un fenomeno di compensazione, prodromo alla (o esito della?) invidia sociale.

Sorveglianza – È l’altro marchio del Millennio – o va con la Grande Congiura? Si contesta molto l’audiosorveglianza, le intercettazioni. Ma si plaude anche molto – è un caso di “visto da destra, visto da sinistra”: si contestano le intercettazioni Usa, si elogiano quelle italiane, se ne gode anzi. Mentre si plaude unanimemente ala videosorveglianza. Tutti i calciatori, gli allenatori e gli arbitri, e anche le persone per strada, parlano con la mano davanti alla bocca. Gli stadi, le banche, le piazze, le stazioni, i musei, molte chiese, e in alcune città i marciapiedi, sono sotto controllo video. La videosorveglianza è il “piccolo business” della piccola corruzione di Comuni governati da sindaci (ex) democristiani, di destra o di sinistra – ha sostituito il campetto di calcio sintetico, che aveva sostituito l’illuminazione e il decoro urbani con chioschi e pilastri di ghisa.

astolfo@antiit.eu


Dc, di più, di prima

“Non è ancora chiaro se i nuovi attacchi a Letta da parte dei luogotenenti di Renzi siano il frutto di una strategia preordinata oppure se, al contrario, esprimano l’assenza di qualsiasi strategia”. L’attacco di Stefano Folli è inappuntabile, oggi sul “Sole 24 Ore”. Ma.
Ma non si prende atto che, tra le novità dell’anno, i trenta-quarantenni, i toscani al timone invece de lombardi, e il Pd democratico-cristiano, quest’ultima è una realtà solida. Consolidata. Allargata.
Ci sono sempre la Rai, la scuola, la ricerca scientifica (dove c'è il business: acceleratori, spazio, carriere), e l’energia (Eni, Enel, etc.) in portafoglio alla Dc – ora Pd, con le frange montiane e casiniane. Oggi come prima. Ma in più ci sono le banche, anzi la banca, non ce ne sono altre, l’enorme terzo settore, col volontariato, e le Autorità di settore, create da Prodi per vigilare sui mercati ma in realtà strumenti efficacissimi e discreti di potere.

La ricerca di Crocetta

Non c’è solo Zichichi, il balordo ultraottantenne scelto a governare la Ricerca Sscientifica – alla Crozza - nell’isola. Uno che per fortuna mai se ne occupò. O Crocetta lo scelse per questo, il presidente della Regione Sicilia?
La domanda viene al secondo atto di Crocetta scienziato. Il dirottamento dei fondi della Regione per la ricerca matematico-fisica da Catania a Messina. Non un’inezia: venti milioni. Da un laboratorio avanzato e accreditato di ricerca nelle nanotecnologie, collegato al Distretto tecnologico della città e al sempre più affermato Laboratorio di microfisica dell’università di Lecce, a un Istituto per i Processi Chimico-Fisici. Il dirottamente non appare scandaloso: in fondo anche questo Istituto fa ricerca, o meglio la farà, si spera che la farà. Ma lo è: il polo di Catania non è governato politicamente da Crocetta, mentre l’Istituto di Messina si. È al suo amico – amico di partito Popolare - Cirino Salvatore Vasi, dottore in Fisica e direttore f.f. dell’Istituto, che Crocetta più che altro vuole dirottare i fondi.