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sabato 12 ottobre 2019

Democrazia debole, Nato morta

L’atlantismo era finito da un pezzo. Trump che presenta il conto agli europei è l’ultimo tratto di un cammino avviato con la fine della guerra fredda, negli anni 1980. In Italia, che più di tutti, dopo gli Stati Uniti, contribuisce in uomini e fondi alla alleanza, la cosa è tabù, ma è un fatto. La Turchia in Siria che, invece che aiuto dai paesi Nato, come da statuti dell’alleanza, ne riceve ammonizioni e sanzioni, è la dissoluzione anche del referente pratico dell’atlantismo: l’alleanza militare, la Nato.
La Turchia in Siria non è il primo caso di scoordinamento. Nella stessa Siria la Francia ha agito in accordo col Qatar, e non con gli Stati Uniti. Che sono intervenuti autonomamente, ma in collegamento con l’Arabia Saudita, che ha alimentato, finanziato e armato al rivolta. In Libia Francia e Inghilterra, col sostegno di Obama, hanno agito contro gli interessi dell’Italia – e della stessa Libia, cui hanno tolto la pace e il benessere. In nessun modo la Nato, dopo la faccia feroce, ha difeso l’Ucraina, o la Georgia.    
L’avventurismo incontrollato di Erdogan, che è peraltro per ogni aspetto un dittatore, sia pure plebiscitato, che passa disinvolto dall’Europa all’impero ottomano, poi a capofila dei sunniti nel mondo islamico, e a cliente della Russia per i missili, fuori dai sistemi d’arma alleati, sottolinea l’aspetto probabilmente fondamentale della Nato: la libertà e la democrazia. Una precondizione mai fatta valere, nemmeno con la stessa Turchia quando era governata dai militari, e tuttavia al fondo attiva: non si accettavano regimi dichiaratamente monocratici, la Spagna e, fino alla rivolta dei colonnelli, il Portogallo, e si tolleravano i militari in Turchia in funzione anticomunista, antidittatura.
Ma non si arriva allespulsione, non è prevista, sarebbe ridicola - una alleanza è pur sempre tra eguali. Se non che così la Nato, pur continuando a celebrarsi, va all’estinzione. Per automatismo. Nel presupposto che, qualora una minaccia esterna si manifestasse, gli Stati Uniti avranno tutto l’interesse a salvare l’Europa – e l’Europa eventualmente ad aiutare o salvare gli Usa, anche se non si vede con che mezzi. Ma il “presupposto” non ha bisogno dell’alleanza. Che poi sono le basi americane in Italia, in Germania, in Grecia e altrove.
In questo senso ha ragione Trump. Cioè, nel suo isolazionismo, individua e denuncia il completo disinteresse europeo all’atlantismo. Il cerchio si è rigirato: allentata, se non abbandonata, dagli Usa, da Reagan e poi da Clinton, la pregiudiziale atlantica, nella difesa come negli affari, è stata dopo la crisi del 2007, coincidente col cancellierato Merkel, attenta ai rapporti con la Cina e con la Russia, abbandonata dall’Europa. Che ora si ritrova sola e inetta. E senza una politica di difesa, o militare.
Non indifesa, perché vale “nel caso” il “presupposto” atlantico. Ma una che non sa che fare. Ed è come se non ci fosse, anche se tutto attorno, in Turchia come nellEgeo o in Libia, la danneggiano.
Resta da vedere se il fondamento della Nato, la democrazia, in questa eclisse dell’alleanza non  allenterà la sua presa anche sull’Europa. Oggi non si vede come, ma nessun futuro è già stato deciso, a partire dalle elezioni in Polonia domani. Dalla crisi del gabinetto von der Leyen, così trionfalmente nominato, prima ancora del suo insediamento. Dall’incertezza economica e politica in Germania.

Più evidente è la crisi da quel che resta della Nato, che si propone unicamente al contenimento della Russia di Putin,  che è inutile e anche dannoso. La Russia di Putin era meglio cooptarla nel sistema occidentale di sicurezza, come si era provato a fare con ottimi risultati fin a qualche anno fa nel G 8. Ha prevalso la politica revanscista, o della sfida, in Polonia, in Georgia, in Ucraina, con gli embarghi, e con la riapertura del riarmo missilistico, con esito finora perdente.

Niente difesa, la Germania non ama i militari

Merkel non ha mai risposto a Trump che presentava il conto della Nato, con gli arretrati. Si è mossa contro la minaccia dei dazi, anche se per ora solo con cenni da ammuìna, senza proposte precise. Ma mai un cenno allo scarso impegno finanziario della Germania per la difesa comune.
Non potrebbe. È un tema di cui non si parla, e forse tabù – un dei tanti che l’infomazione si autoinfligge. Ma la Germania è molto lontana, a sinistra e anche a destra, e nel suo intimo contraria, alle spese militari. Per timore più che per avarizia. A settanta e più anni dalla guerra persa, con vergogna, il ceto militare è sempre disprezzato in Germania, si riempiono i ranghi con difficoltà specie dei graduati, e le spese per la difesa sono contenute al minimo indispensabile.
I tre paesi dell’Asse hanno reagito in modo estremamente difforme alla sconfitta. Non se ne parla, ma è un fatto. L’Italia con l’armistizio e la Resistenza. In Giappone il premier Abe non ha ottenuto a fine luglio i due terzi dei deputati necessari per cambiare la Costituzione, sul punto in cui proibisce l’uso della forza militare fuori dell’arcipelago, ma di misura. E comunque con una larga maggioranza in un eventuale referendum sullo stesso punto, suppletivo al voto parlamentare. La Germania considera l’impegno militare, anche soltanto in funzione di difesa, inutile e dannoso – da mantenere giusto per gli impegni Nato.
I cancellieri del dopo riunificazione hanno cercato per la Germania più visibilità internazionale. Più per la Germania, e non per l’Europa. Un posto al Consiglio di sicurezza dell’Onu.  L’interfaccia della Russia postsovietica, in Ucraina e nella questione energetica. Una “rappresentanza europea” in automatico, in Turchia per i migranti, a Pechino per le tecnologie, e ora con Washington per i dazi. Ma evitando di proposito il tema militare, della forza.    
Un pacifismo, quello tedesco, doppiato dal calcolo:  si vive meglio senza spendere troppo per le armi. Già nella Repubblica di Bonn, nella guerra fredda, con i russi a Berlino, era forte la tendenza neutralista.
È questo il motivo per cui i progetti europei di difesa comune non hanno mai demarrato. È un dato di fatto, compatto, di cui non si manifestano incrinature. Con un rischio: che il militarismo non risorga in funzione sovversiva,  nazionalista.

Cronache dell’altro mondo (40)

La Pacific and Gas, che fornisce l’elettricità al Nord California, Los Angeles e San Francisco comprese, ha interrotto l’erogazione di elettricità diurna per evitare gli incendi che le sue linee ad alta tensione, obsolete, possono provocare con le scintille. Lasciando senza elettricità due milioni e mezzo di persone. Ma questo non ha prevenuto gli incendi devastanti. Che si ripetono ormai da alcuni anni, alla fine dell’estate, quando la stagione è più secca e riprendono gli alisei. Senza investire nel rinnovo delle linee di trasmissione.
Si procede all’impeachment di Trump, il presidente eletto, pur sapendo che non si potrà fare, perché devono votarlo i due terzi del Senato – dove il partito del presidente è invece maggioranza. Si fa per scandalismo, per indebolire la presidenza eletta, e impedirle possibilmente di governare. A beneficio dei media, che così si prospettano più audience. Con l’aiuto delle polizie segrete, la Cia e l’Fbi le più note.
Il governo americano indaga per conto proprio sui comportamenti di Cia e Fbi. Che lavorano contro la presidenza: nella campagna elettorale del 2016 contro Hillary Clinton e poi contro il presidente eletto Trump.
Trump vinse le primarie repubblicane col voto di molti giovani democratici, che si iscrissero nelle liste repubblicane per farlo vincere. Pensando: che candidato migliore per il partito Democratico? Questo è un fatto. Ora la vicenda di ripete con l’incriminazione di Trump a opera della Cia, di un agente segreto della Cia? È possibile.

La dittatura era dei media

Si rilegge come il romanzo della dittatura dei mass-media. Senza dubbio, benché risalga a settant’anni fa. Di un potere dittatoriale che si basa sull’opinione pubblica. Un’opinione imposta ma non col manganello, se non come retropensiero di ognuno, interiorizzato. Per un dominio più compiutamente dittatoriale: senza senza piegche, anfratti, buchi, rammendi o rattoppi, senza spazi nemmeno per respirare. Tradibile, forse, solo col pensiero, inespresso.
Si presenta – fu presentato nel 1949 – come un sequel alla “Fattoria degli animali”, il pamphlet antisovietico. Un romanzo di Resistenza a poteri occulti. Ma è la cronaca di una Mano Nera dichiarata e opprimente. Vasta come l’aria che si respira: le parole che si dicono, che si intendono, il senso delle cose, il senso politico e alla fine anche psicologico. Non libero, come oggi i social, ma ugualmente invasivo. Uguale anche l’esito: disseccante.
George Orwell, 1984

venerdì 11 ottobre 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (405)

Giuseppe Leuzzi


La Corte Europea dei diritti umani dice che l’ergastolo ai mafiosi non è umano. È un problema di lettura dei diritti umani, che pure dovrebbero essere indivisibili. Di una civiltà giuridica europea scesa a livelli da basso popolo, social. Dice bene al contrario Rosaria Schifani, la vedova di una delle vittime delle stragi di mafia: “Ci hanno condannato all’ergastolo del dolore”.
I giuristi europei non sono equanimi: gente con cento omicidi esce dal carcere dopo venti e quindici anni, senza pentirsi. Dice: è redenta. Da che cosa? I giudici non hanno senso del reale.

Il “papello” di Riina, che i giudici tanto denunciano, non prevedeva esattamente quello che la Corte Europea dei diritti umani impone, l’abolizione dell’ergastolo? Sì. Ma celebreremo mai un processo alla Corte Europea per mafia? No, giudice non morde giudice.

Catanzaro ha il record della raccolta differenziata, col 67 per cento. Bari ha fatto meglio in uno dei quartieri, con l’80 per ceto. Cosenza è passata in sei ani dal 22 al 66 per cento. In paese, si può testimoniare, la differenziata è stata al 100 per cento appena promossa, senza nemmeno tante spiegazioni, dal Comune. Il Sud è legalitario Sarebbe, se i Carabinieri gliene dessero lo spazio. Debellando la mafia, per esempio, invece di coltivarla ingigantendola.  

Ma il Sud ha un solo impianto per il trattamento dei rifiuti, quello di Acerra in Campania. Voluto e realizzato peraltro dal governo screditato di Berlusconi. Purtroppo il Sud è materia di chiacchiere, nella chiacchiera generale che è la politica italiana.
Il Sud dovrebbe emanciparsi dall’Italia: tutti i discorsi sull’unità sono terribili, e inutili, perché confluiscono sul vincolo territoriale. No, il Sud deve liberarsi dalle chiacchiere italiane, tornare fattivo.

Il Cavazzoni mafioso
“C’è stata un’epoca in cui vincevo continuamente dei premi (letterari) specie nel sud d’Italia, ho vinto a Palmi in Calabria, a Cosenza, a Catania, a Roma, a Barletta, in Lucania, a Bari, e in altri posti minori che non ricordo”: Ermanno Cavazzoni, “Quando vincevo i premi letterari”, “Sole 24 Ore” di domenica. A  parte Roma confinata al Sud, il beffardo Cavazzoni non è contento di essere confinato al Sud nella critica letteraria e non ha torto: al Sud non si vendono libri, e se se ne vende qualcuno non lo si paga al distributore. Ma conferma che il cazzeggio ha corso al Sud, l’ironia dissolvente, e un po’ amara.
Lo scrittore emiliano approfitta delle congiuntura, nel racconto che pubblica nella raccolta “Storie vere e verissime”, per satireggiare l’illustrazione della mafia, l’esercizio prediletto dell’Italia. “Mi sono convinto a posteriori che mi appoggiava la ‘ndrangheta: frequentavo a quel tempo dei calabresi…”. Dev’essere così: “La mafia spazia, ragiona in grande, usa a loro insaputa le grandi personalità della storia”. E organizza premi letterari. 
I premi letterari mafiosi non è male.
I penultimi che avevano “capito” il Sud e le mafie sono Fruttero e Lucentini, che sono morti da tempo.

Gesuiti e cappuccini
Due ordini di Cappuccini si sono formati attorno al 1552, uno in Calabria e uno nelle Marche - Silvestro Morabito, “Cappuccini calabresi nel mondo”. Il primo “movimento di riforma” fu calabrese, 1518, a opera di due francescani di Reggio, Ludovico Comi e Bernardino Morlizzi, cui furono confidati i conventi di Terranova, Cinquefrondi e Tropea per esercitarvi con altri confratelli la “genuina” regola francescana. Matteo da Bascio, in Ancona, seguiva. Ma nel 1525 richiese e ottenne da papa Clemente VII il placet per ritirarsi a vita eremitica. Una iniziativa che altri due frati, i fratelli Ludovico e Raffaele da Fossombrone, trasformarono in movimento di riforma. Ottenendo dallo stsso Clemente VII il 3 luglio 1528 il breve “Religionis zelus” per il riconoscimento di una nuova congregazione francescana, i Frati minori della vita eremitica.
Anche i frati calabresi, spiega padre Morabito, avevano ottenuto nel 1525, in occasione del pellegrinaggio a Roma per l’Anno Santo, un breve papale di riconoscimento, che consentiva loro, insieme con altri dodici fratelli, di ritirarsi nell’eremo di Valletuccio. Ma questo breve è andato perduto: nel 1544 arrivò in visita a Mileto, dove il documento si conservava, il Generale del nuovo ordine, un marchigiano, padre Eusebio di Ancona, che se lo prese per portarlo alla sede centrale a Roma, dove non si è più trovato.
Padre Silvestro Morabito, nome arabo, professione cappuccino, tratta nella sua storia dei Cappuccini missionari. Con orgoglio. Ma c’erano missionari e missionari.
I cappuccini, i barbadinhos, erano la causa del ritardo dell’Angola, secondo José Eduardo dos Santos, scherzoso ma non del tutto, un ingegnere di Mosca, incontrato ad Algeri, compagno di Agostinho Neto nella guerra contro il Portogallo per l’indipendenza dell’allora colonia – di cui poi sarà il “presidente” ininterrotto per quarant’anni, fino all’anno scorso. Ma, poi, senza loro colpa.
Il fatto è narrato nel romanzo di Astolfo, “La gioia del giorno”:
“È scettico José Eduardo dos Santos, un ingegnere, coetaneo:
“- Tutta l’Africa è indipendente, eccetto le colonie portoghesi: per quale peccato? – E si risponde: - C’è chi ha avuto i francesi, chi gli inglesi, chi i gesuiti. Noi abbiamo avuto i portoghesi e i cappuccini, i poveri di Europa, che dopo due settimane montavano come conigli, insabbiati nella brousse. Siamo la loro carne.
“I cappuccini accatastano teschi in chiesa, a Palermo, a via Veneto, al Kreuzberg, ma fuori, si vede, se la godono. Sono bizzarri i destini della storia. L’Africa subì i cappuccini, ma i guaranì e gli altri nativi americani, che i gesuiti protessero dalla stupidità coloniale, non ne furono salvati. Né si può dire negativo l’ardore dei cappuccini. Il progressista marchese di Pombal, che perseguitò i gesuiti, impose agli angolani l’emigrazione in Brasile. Ne nacquero il samba e tanti brasiliani. Il marchese, riponendo la prosperità nella demografia, fece del Brasile un fottisterio: “L’estrema voluttà dei portoghesi li portava a integrarsi senza difficoltà ai tropici”, così Freyre spiega il lusotropicalismo, prima della squalifica del negro, e delle negre.”

I Versace carbonai
Se è vero quanto racconta Donatella Versace a “Io Donna”il 14 settembre, i Versace vengono da una famiglia importante di Reggio Calabria. Santo, il fratello maggiore, laureato (con 110 e lode) in giurisprudenza a Messina. Donatella con studi universitari a Firenze. La madre stilista, e non una sartina. Il padre un ricco proprietario terriero: “Mia madre era una donna molto forte e autonoma. Veniva da una famiglia povera, si era fatta da sola: aveva sposato un uomo ricco, perché i Versace possedevano miniere di carbone, ma lei non gli ha ma chiesto un soldo. Aveva una grande sartoria, lavorava tantissimo e io la vedevo davvero poco. Siamo cresciuti con una specie di zia che stava con noi”
 “Miniere di carbone” è inesatto, non ce ne sono mai state, né in Calabria né in Italia. Si produceva carbone di legna, che allora era richiesto, nelle carbonaie, in primavera, nei grandi boschi dell’Aspromonte. E attorno a Carmelia, in territorio del comune di Delianuova, di cui i Versace erano proprietari per larghe superfici – la parte del Demanio che con l’Unità era sta ceduta ai patrioti e agli amici degli amici.
Ercole Versace, che per la famiglia curava gli interessi in montagna, fu il primo dei sequestrati dell’Aspromonte, il 3 luglio del 1963.

Delocalizzazioni
Si commissaria l’Asp di Reggio Calabra, con grave scandalo: ha accumulato 240 milioni di deficit. E lo scandalo continua dopo tre mesi. A Massa, per una popolazione che è un terzo della provincia calabrese, l’Asp ha fatto un crac di 400 milioni. Non ora, dieci anni fa. E nulla: la Regione Toscana l’ha commissariata e risanata senza storie. Con la pretesa di avere la migliore sanità d’Italia. Anche se ha il record di morti quest’anno per il virus New Delhi, dopo avere avuto per alcuni anni quello dei morti per meningite.
Avviene di passare un mese in Toscana e un mese in Calabria, oltre a vari soggiorni alternati nelle due regioni. Tra il più augusto compiacimento, cioè, e la celebrazione costante, e il continuo disprezzo, una geremiade costante.
D’estate il mare di Massa è molto celebrato, Riviera Apuana e Versilia. Molto caro. Con molte bandiere blu - Legambiente è sempre legata alla Toscana, benché la Toscana non sia più “rossa”. Anche se dopo ogni temporale, anche di pochi minuti, la sporcizia galleggia sulle acque e l’Arpat deve dichiararle non balneabili, per almeno 5-7 giorni - i torrenti che vanno a mare dalle Apuane sono neri di sporcizia. Come dire che si può passare la stagione senza mare. Nella Costa Viola, tra Palmi e Scilla, il mare è trasparente in proporzione inversa, nove giorni su dieci. Ma senza bandiere blu. E con titoli che campeggiano sui giornali allarmistici per più giorni se una macchia qua o là appare.
Anche i servizi lasciano a desiderare, a Massa e dintorni. Specie quelli essenziali, alla “navigazione”. Il segnale è scarso in tutta la riviera, nelle residenze – bisogna andare sulla spiaggia, dove i bagni si sono organizzati un wi-fi. Ed è assente in molti paesi, anche popolosi, delle Alpi retrostanti - che pure sono tutti vista mare, quindi sarebbero facili da servire, non fosse l’incuria. Si telefona dovunque negli anfratti dell’“area metropolitana” di Reggio Calabria.
C’è una evidente percezione diversa degli stessi fatti, in dipendenza dalla localizzazione. È positiva e convinta a Nord, pessimista e perfino disfattista a Sud - anche a Roma (a Roma si vede ogni giorno leggendo la cronaca di Milano sul “Corriere della sera” e la cronaca di Roma sullo stesso giornale: semplice e osannante quella, corrucciata e disperante questa).
Ma è pur vero che la storia dice, nella fattispecie, che i Romani, per punitre gli Apuani e i Sanniti, irriducibili, li delocalizzarono: gli Apiuanid deportarono nel Sannio e i Sanniti nelle Apuane.


leuzzi@antiit.eu

Berlioz, o l’effetto Boullée in musica

La celebrazione quest’anno di Berlioz Pappano ha voluto aprire con una delle sue opere grandiloquenti, un lungo Requiem detto Grande Messe, anche se giocato sui versetti del “Dies irae, dies illa”. Grandioso è l’aggettivo preferito di Berlioz - che per la Grande Messe usa nelle memorie gli aggettivi gigantesca e colossale. E un Requiem era stata la prima esecuzione musicale dal vivo che lo aveva colpito ventenne nel 1824, studente di medicina: quello di Cherubini per i funerali del duca di Berry nel 1820, ripresi per Luigi XVIII, nella chiesa di Saint-Denis. Una Messa solenne di cui lo aveva colpito “lo scarso effetto”, scriverà: gli addobbi avevano soffocato i suoni, e “il capoalvoro di Cherubini, eseguito da duecentocinquanta eccellenti musicisti, non produsse che uno scarso effetto”. L’effetto Berlioz sarà la grandiosità, la sonorità. Una sorta di trasposizione in note del grandioso di Boullée, l’architetto, un secolo prima.
Quindici anni più tardi, già celebre per la spettacolare “Symphonie phantastique” del 1830, briga e riceve l’incarico per la Grande messe des morts, in attesa che muoia qualcuno d’importante. Con la clausola contrattuale che gli siano assicurati cinquecento esecutori. Ne avrà quattrocentocinquanta, per il funerale il 5 dicembre 1837 agli Invalides di un generale morto nell’occupazione di Costantina in Algeria: la Grande Messe viene a coronamento di una kermesse nazionalistica. De Vigny, che aveva assistito alla generale il giorno prima, la ricorda così: “Tutte le bandiere prese al nemico erano sistemate in alto nella chiesa e pendevano in giù, sforacchiate dalle pallottole. La musica era bella, bizzarra, selvaggia, convulsiva e dolorosa”.
Colossale comunque. È la sensazione che se ne ricava, non ricordandosi nota o movimento, o un tono, generale o particolare, ai dieci movimenti-momenti della messa. Niente tensione drammatica, e nemmeno afflato religioso - Berlioz si professava empio: “Sono un empio, pieno di rispetto per i pii”.
Per rispetto alla Francia, potenza allora dominante benché sconfitta a Waterloo, Berlioz confluì nella Grande Musica francese, e la “Grande Messe”  fu avvicinata alla “Divina Commedia” e al “Giudizio Universale”, ma Berlioz non conosceva Dante e Michelangelo non gli piaceva. Tra la Sinfonia e la Grande Messe era stato pensionante distratto a Roma, benché ospite a Villa Medici, e in città incontrasse il più giovane e promettente Mendelssohn-Bartholdy.
Nelle memorie dirà di Cherubini che aveva tentato di sabotare la Grande Messe, pretendendo che si eseguisse per la cerimoniacaglibInvalides uno dei suoi due Requiem. Ma Berlioz era all’Accademia a Roma per non avere avuto un posto a Parigi, rifiutato da Cherubini. “Non sapete suonare il pianoforte”, aveva risposto Luigi Cherubini, direttore del Conservatorio, al compositore che si candidava a insegnare l’armonia, “non si può insegnare l’armonia se non si padroneggia il piano”. Orchestrava schitarrando, e scriverà un “Trattato di strumentazione” con l’elogio del trombone, dei timpani e dei mazzuoli.
Grande sforzo di Pappano, che ha voluto variare il repertorio di Santa Cecilia con questa apertura grandiosa - specie se vista dall’alto: concertare e dirigere due cori, il Santa Cecilia e il San Carlo di Napoli, l’orchestra di Santa Cecilia, rinforzata da venti ottoni della Polizia, e da venti timpani, e il tenore Javier Camarena (il tenore, che canta il Sanctus, è sostituibile, nelle note di regia di Berlioz, con dieci tenori). Un impegno eccezionale, novanta minuti senza intervallo, per i cori.   
Hector Berlioz, Grande messe des morts, Antonio Pappano, orchestra e coro dell’Accademia Santa Cecilia, Roma

giovedì 10 ottobre 2019

Il calcio degli arbitri

Ventidue punizioni fischiate, su una trentina, dell’Inter che “gioca” a non far giocare la Juventus. Senza un’ammonizione – la prima arriva al minuto 87. Anche se alcuni erano da espulsione.  Ammonizione subito invece, senza motivo, a uno juventino, uno della difesa - che, si sa, è l’organico debole della squadra torinese. Doppiata dall’annullamento di un gol spettacolare, da calcio vero, per un fuorigioco “centimetrico” come dicono i giornalisti, cioè inesistente – il fuorigioco si dà nel calcio non per i centimetri. Lodi sperticate all’arbitro della partita, Rocchi, da tutti gli arbitri commentatori dei media.
È tornato l’arbitro che decide lui la partita. Il complesso Collina, l’arbitro di Galliani e Berlusconi, e il Var hanno dato il calcio, in Italia, in mano agli arbitri. Che per questo è asfittico, non giocato bene - se non a sorpresa, da squadre contro cui gli arbitri non hanno potuto pianificare il loro potere, oggi Atalanta e Cagliari, ieri Lazio.
Si dice: è l’Uefa, sono  regolamenti. E in parte è vero – non per nulla Collina è stato a capo degli arbitri Uefa. Ma non del tutto, c’è ancora il calcio giocato in Europa. L’arbitro scozzese di qualche giorno prima, di Juventus-Borussia, era un arbitro e basta. Arbitri tranquilli si vedono nel campionato inglese, in quello tedesco, in quello francese – qui si gioca anche a grandissima velocità. I regolamenti c’entrano poco. C’entrano, come dappertutto in Italia, paese senza potere, i giochi di di corridoio, di cortile, di potere.

Letture - 399

letterautore


Brecht – Morì suicida. Non per un gesto violento, ma per essersi voluto lasciar morire. Lo rivela Wolf Biermann a Tonia Mastrobuoni sul “Venerdì di Repubblica”. Non si uccise, ma volle morire, per una sorta di “complesso di Galileo”. Biermann lo spiega bene: “ “Fu un italiano a ucciderlo.  Galileo Galilei”. Di cui Brecht aveva scritto la “Vita” nel 1938. Quando era già in esilio, ma “tipicamente, scrisse un elogio della vigliaccheria, della furbizia e dell’inganno. L’abiura è stata un bene, questa la tesi”. Poi ci fu la California, la distruzione della Germania, e la bomba atomica. “E Brecht si spaventò a morte. Decise di riscrivere l’opera, condannando Galileo per la sua vigliaccheria dinanzi all’Inquisizione. Ma siccome era un genio pigro, non riscrisse tutto. solo la scena finale”. E qui, dice, “viene la parte complicata”: a Berlino nel 1956 il “Galileo” non funziona: “Non convinceva nell’improvvisa svolta dell’ultima scena”. Brecht stava male: “Era scioccato, come tutti noi, per i crimini di Stalin svelati a Mosca”.  Ma “si intestardì: passò ore e ore alle prove”, Biermann era allievo del Berliner Ensemble, “anche se era già malato. Capì che avrebbe avuto bisogno di molta forza per rinnegare se stesso”. E scelse di dileguarsi: “Disertò nella morte”. Era malato, ma non tanto: “Il dottor Tsouloukidse, un medico mio amico, lo esaminò. Brecht aveva appena 58 anni, avrebbe potuto vivere ancora per decenni”.
I tempi sono giusti. Krusciov denuncia Stalin a fine febbraio. A maggio Brecht si ricovera in ospedale, ma ha solo un’influenza. A Ferragosto muore d’infarto. Certificato ma non accertato. 

Brexit – Riprende una tradizione vecchia. Sempre in Europa si è parlato male degli inglesi, parlar male degli inglesi era un invito alla connivenza, poiché su questo tutti erano concordi. “La corte inglese era un inferno dell’odio”, spiega il pur simpatetico Huizinga, “L’au­tunno del Medioevo”, dei secoli prima, durante e dopo il Rinascimento. Sentimenti analoghi si nutrivano nell’isola verso il continente: “Di là egli (il viaggiatore) porta l’arte dell’ateismo, l’arte di gozzovigliare, l’arte di fornicare, l’arte di avvelenare, l’arte della sodo­mia”, stabilisce “II viaggiatore sfortunato” di Thomas Nashe, classico del grand tour nel ‘500. Secondo Pirandello, “gli inglesi parlano come se avessero una patata calda in bocca” - da qui la forma della bocca?

Casalingo – Si può dire di molti scrittori, anche quando hanno esperienza di mondo. Il più importante è Manzoni, che era anche il più “viaggiato”, quello con maggiore esperienza e cultura internazionali – amava parlare in dialetto. Lo è Lampedusa, altro cosmopolita. Alvaro, id.. Calvino è invece scrittore cosmopolita di programma, benché molto (variamente) “impegnato” in Italia. E Soldati, malgrado lo strapaesismo professato, per i cibi, i vini, i visi, il com’eravamo. Michelet è uno scrittore casalingo, malgrado i viaggi all’estero programmati ogni anno, e i due traslochi in Italia, a Firenze e a Nervi. A differenza di Flaubert e di Baudelaire, che si sarebbe tentati di dire molto francesi, mentre invece dalle esperienza all’estero derivarono molte idee, e anche scritture. O Dumas, che fece tesoro delle esperienze in Germania, Italia e Russia.

Dialetto – “Quello che veramente ognun dice, ogni nato della sua molteplice terra, e non la roca trombazza d’un idioma impossibile, che nessuno parla”: così Gadda a plauso del “dire” di Manzoni  - “Apologia manzoniana” (in “Divagazioni e garbuglio”). Della “roca trombazza” continuando a dire: “Che nessuno parla (sarebbe il male minore), che nessuno pensa, né rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio”.

Editoria – “Fare libri è come giocare d’azzardo”, Gian Arturo Ferrari

Flaubert – Lavorò a “una codificazione gregoriana” della scrittura”, R.Barthes, “Il grado zero dela scrittura”.

Italiano – “Il difetto maggiore degli italiani è di parlare sempre dei loro difetti”, è detto noto di Flaiano, registrato nel “Frasario essenziale” collazionato da Manganelli e Maria Corti. Ma non è noto l’articolo di cui è l’incipit, una raccolta straordinaria di likes, due cartelle che sono un concentrato dell’italianità (reperibili ora solo nel volume “Opere. Scritti postumi” dei Classici Bompiani – non più reperibile, come del resto lo stesso “Frasario essenziale”).  “Mi piace, per esempio, che sia generalmente bugiardo”, eccetera, “che pensi sempre alle donne”, “che sia pigro”,”che sia gentile, sentimentale, cinico, spendaccione, imprudente, frivolo, fastoso”,“che non sia tanto patriottico” (“gli permette di essere uno dei popoli meno razzisti e intolleranti” – vero, il razzismo si misura), “che sia generalmente estroverso”, “che non abbia molto sviluppato il senso dei rapporti sociali”, “che l’italiano del nord se la pigli con l’italiano del sud”, “che l’italiano sia portato alla confusione”. Perché, in generale, riconosce i suoi difetti: “Evidentemente, quando si parla dei difetti dell’italiano si prende a confronto un popolo ideale che non esiste in nessuna parte del mondo ma che noi, sempre ottimisti (altro difetto!) crediamo che viva e prosperi realmente”.
La lunga lista non registra il difetto che Maria Corti illustra alla fine della lunga presentazione delle opere postume di Flaiano, a proposito della sua mancata popolarità, dello scarso seguito di critici e lettori  di Flaiano: “L’allarmante incapacità di cogliere e assimilare ironia e satira nei propri riguardi”.

Libro – “Ogni libro è un fallimento”, G. Orwell, “Perché scrivo” (in “Letteratura palestra di libertà”). Per il suo autore e in sé: “Tutti gli scrittori sono vanitosi, egoisti e indolenti, e al fondo dei loro motivi c’è un mistero”.

Mameli – Incontrava il gusto del patriottico Gadda, invece di Carducci, autoeletto “Vate d’Italia alla stagiona più bella!”: “Possiamo passarla al Carducci”, commenta Gadda, “anche se, come vate, le nostre preferenze le ha tutte Goffredo Mameli” – (in “Divagazioni e garbuglio”, 40).
Ma “vate” non è una buona parola per Gadda. Risponde alla “posa del profetismo”che non è buona, se non per due aspetti: “La posa del profetismo, così connaturata a tutto l’800…. aveva nell’800 un che di ingenuo, di rispettabile e anche di vero. C’erano due grandi aurore in fàbbrica: l’aurora sociale in Europa e, da noi, l’aurora vera e santa del Risorgimento”.

Michelet – Fu traduttore di Vico, della “Scienza nuova”. Con un saggio sulla vita e l’opera di Vico.- e alla seconda edizione della traduzione di una “Vie de Vico par lui-même”

Naturalismo – “Nessuna scrittura è più artificiale di quella che ha preteso di dipingere da presso la Natura”, R. Barthes, “Il grado zero della scrittura”: Maupassant, Zola, Daudet. Combinando l’“arte” flaubertiana con gerghi, parole forti, dialetti, “per una natura verbale francamente estranea al reale”.  

Poesia – Differisce dalla prosa per la cantabilità – la diversa “misura”: “La poesia classica non era sentita che come una variante ornamentale della Prosa, il frutto di un’arte”, R. Barthes, “Il grado zero della scrittura – “C’è una scrittura poetica?”

Romanzo – Una “masturbazione solitaria”, Michelet, “Diario”, lunedì 22 luglio 1861. Michelet, sempre felice sposo da una decina d’anni della giovane Aténaïs, aveva avuto l’idea di un romanzo, “Sylvine ou les Mémoires d’un jeune femme de chambre”, tema pruriginoso. Finché un giorno riflette: “Avendo avuto il 10 una felicità così completa, così ben condivisa il 17, mi dico il 19: perché fantasie bizzarre? Hai la poesia sotto mano. Riprendi il solito equilibrio”.

Scrivere – “Lasciare al senso la scelta delle parole, e non l’inverso”, G.Orwell, “La politica e la lingua inglese”: “In prosa la cosa peggiore che si può fare con le parole è arrendersi a esse”.

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La sbronza di Finnegan – o il racconto di Lucia

Una follia, il testo, e la traduzione. Che ora si porta a termine, per gli ottant’anni della prima pubblicazione dell’originale. E a quasi quaranta dall’avvio, “all’inizio degli anni Ottanta”. A cura di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, al quale si deve una corposa introduzione. E di una lnghissima serie di referenti, compreso il presidente dell’Irlanda, il laburista poeta Michael D. Higgins.
Si dice “Finnegans” l’impossibilità della traduzione. E invece è il paradiso del traduttore, che deve senza più trucchi solo riscrivere il testo, reinventarlo. Magari dotandolo di glosse golose, come in questa edizione: quest’ultimo volume ha quattrocento pagine di varia filologia per 150 di testo. Un racconto dei traduttori, Luigi Schenoni fino al 2008, alla morte, per I libri I e II, poi Terrinoni e Pedone. Un racconto doppio, l’originale tradotto, e il racconto della traduzione. Una traduzione che soverchia l’originale -  necessariamente poiché è illeggibile, in nulla fruibile - la fantasia e gli umori sovraccaricando di filologia.
Come Joyce lo intendeva è stato già detto:
La concisa premessa di Bartezzaghi, “La Bella Addormentata nel Chaosmos”, dice anche tutto. Apparentando il “finneganese” alla lingua del Johan Padan di Dario Fo, un miscuglio di idiomi diversi – diverso dal grammelot, l’imitazione delle sonorità di una lingua che non si conosce. Il joyciano Nabokov disprezzava “Finnegans”: “Letteratura regionale, scritta in dialetto”. Che invece, da cultore in proprio dei giochi linguistici, avrebbe dovuto apprezzare.  “Finnegans Wake” è una parodia, spiega lo specialista dei giochi, ma di tipo particolare. Non beffarda, o non soltanto: “Non riguarda solo la ballata folk” su cui s’innesta, “La veglia di Finnegan”, “investe temi mitologici, storici, filosofici, antropologici”. Vasto disegno.
Si può dire “Finnegans” il Genesi e la Bibbia di un Joyce profeta ghignante. Il progetto c’è, ovvio: una storia universale, tra Vico e Mark Twain, le parole composte. Modellata su Vico, riferimento costante in Joyce: “Io non credo in nessuna scienza, ma quando leggo Vico la mia immaginazione fiorisce come non fa quando leggo Freud o Jung” – l“Old Vico Roundpoint”, la rotatoria Vico, l’ “Ordovico or viricordo”. La storia di una caduta – della Caduta, in continuo.
Una storia di cui però non si viene a capo. Nemmeno sotto l’aspetto del piacere linguistico, infantile, di lallazione, tra filastrocche e calembour. La traccia è minima. Un abbozzo, continuamente “estraniato” (ribaltato, denunciato), di epopea o leggenda irlandese, di cui una prima traccia è nei dieci racconti brevi raccolti nel 1923 sotto il titolo “Finn’s Hotel”. Una parodia – nel frammento la parodia si dichiara e non si dissimula. Che mette in burla, nel gioco di parole incontenibile, la storia patria, dopo la capitale Dublino nell’“Ulisse” - “il passato, il presente, l’assente e il futuro”, come in “Finn’s Hotel” si progetta.
Alla fine si conviene con Giorgio Melchiori, che benediceva l’avvio della traduzione nel 1982 con un “La banalità diviene memorabile” – ma l’inverso è più vero. Un testo che un suono più che una prosa, forse articolato ma senza prosodia, un rumore. Una scrittura sonora, e un suono inordinato. Della “scrittura” (sonorità) che una volta si diceva “in automatico”, o del “flusso”, perfino “di coscienza”. Un praticante di lingue che tutte storpia, anche la sua. Di sonorità più che di sensi o significati. Come si figura una conversazione fra sbronzi.
La chiave tecnica potrebbe essere Lucia. Lucia Joyce era psicotica, col padre James, amorevole, parlavano una lingua significante ma chiusa a loro due. La tematica è di un racconto zuzzurellone sulla morte. Per il senso della morte peculiare di Joyce, della ballata popolare di metà Ottocento dalla quale deriva il titolo, del suo celebre racconto “The Dead”, e dello stesso “Ulisse”, che ripercorre tra i vivi il “Finnegan’s Wake” della ballata popolare, la veglia e il lamento funebri. Che sono la recitazione di una vita, della vita.

Lui, Joyce,l’opera così licenziava scrivendo a Livia Svevo, la vedova, il 15 maggio 1939, in giocoso triestino: “Giovedì sarà publicado el mio libro a Londra e in Ameriga. Ze anca la festa de Santa Moniga se mi ricordo ben, al quatro. Moniga son stado mi forse (La mi scusi, siora) che go meso disdoto ani dela mia vita a finiri quel mostro de libro. Ma cossa La vol? Se nasse cussì”.
James Joyce,  Finnegans Wake, III (§§ 3 e 4), IV, Oscar, pp.687 € 24

mercoledì 9 ottobre 2019

Appalti, fisco, abusi (158)

“Bonus anti-contante sì, no a tasse verdi e aumenti Iva”, sondaggio Winpoll-Il S ole 24 Ore. Si può ironizzare sull’Italia di Greta e il no alle “tasse verdi”. Ma l’Italia paga già un’enormità di tasse verdi in bolletta. Gli “oneri di sistema” sono i contributi che ognuno deve pagare per le cosiddette fonti di energia rinnovabili (eolico, idraulico, eccetera): il 25 per cento circa della bolletta elettrica, e il 10 per cento di quella del gas.
Un furto colossale, di 6-7 miliardi l’anno. A beneficio di Enel Green Power, e di una miriade di piccoli operatori nati in funzione degli “oneri di sistema”, per appropriarsene.
Sugli “oneri di sistema”, che è una tassa, si paga anche l’Iva.

I siti delle maggiori utilities sono i meno servizievoli, e anzi indisponenti.  Accedere a Tim.it e My wind è un supplizio. Per fortuna devono solo far pagare la bolletta, il servizio va avanti da solo.
Altre utilities rendono l’accesso impossibile sul cellulare. Per esempio Nexi, senza motivo.

Denunciano le Iene quello che a Roma tutti sanno: che gli appaltatori dell’immondizia non raccolgono l’immondizia. Se non saltuariamente. Quella degli esercizi pubblici (bar e ristoranti) e carta e cartoni soprattutto: passano una volta ogni mese – o due. Hanno pochi mezzi e fanno un quartiere a notte.

Appaltatori dell’Ama, l’azienda municipale dei rifiuti a Roma, sono le quattro ditte che, avendo perso l’appalto nel 2013 a favore di Buzzi e le cooperative della 29 giugno, lo avevano denunciato per corruzione. I quattro potrebbero avere avuto gli appalti in modo pulito, ma semplicemente non erogano il servizio. Le cooperative di Buzzi l’immondizia la raccoglievano: la corruzione con loro si è pagata una volta sola, al momento dell’appalto. Con i denuncianti si paga ogni giorno.

Buzzi, si sa, corrompeva questo e quello – non li minacciava, li pagava, assessori e dirigenti. A Roma usa così. Anche semplicemente per avere l’allaccio del gas, della luce, del telefono – per averlo quando se ne ha bisogno, non dopo mesi: bisogna pagare, un “caffé” (10 euro), un “pranzo” (50), una cena” (20).

La lingua decade con la politica

Una raccolta di scritti vari con due saggi celebri: “Perché scrivo”, con i quattro motivi per cui si scrive, e “La politica e la lingua inglese”. I quattro motivi per cui si scrive non sono “orwelliani”, ma sono ben spiegati: “mero egoismo” (egotismo); “entusiasmo estetico”; “impulso storico”; “scopo politico”. E questo, lamenta Orwell, potrebbe essere il suo proprio destino: “Sono una persona in cui i primi tre motivi pesano più del quarto. In un mondo pacifico avrei potuto scrivere libri ornati oscuramente descritti”. Ma “così come vanno le cose, sono stato forzato a diventare un specie di pamflettista”. A partire dal 1936-37, dalla guerra di Spagna e la scoperta di Hitler, e di Stalin. Ha cercato di rimediare: “Quello che più ho cercato di fare negli ultimi dieci anni”, gli anni 1940, “è di convertire  la scrittura politica in arte”. Partendo sempre da “un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia”.
 “La politica e la lingua inglese” è pessimista, concludendo: “Il legame speciale tra la politica e lo svilimento del linguaggio è chiaro”. Ma per motivi che ben si comprendono oggi. “Oggi tutto è politica, e la politica stessa è un ammasso di bugie, inganni, follia, odio e schizofrenia”. Quando l’atmosfera generale è cattiva, il linguaggio non può non soffrirne.
Poi Orwell sbaglia, ma per generosità - il saggio è del 1946: “Dovrei aspettarmi di scoprire – è una supposizione, non ho abbastanza conoscenze per verificare - che la lingua in Germania, Russia e Italia si è deteriorata negli ultimi dieci o quindici anni, per effetto delle dittature”. E invece si è deteriorata nella democrazia, perlomeno in Italia. Lui stesso parte da disagio dell’inglese in Inghilterra, benché democraticamente il suo paese abbia resistito e vinto. Il decadimento è globale?   
Scrittore compulsivo da ragazzo e nell’adolescenza, Orwell ricorda anche che aveva le rime facili. A scuola compose una tragedia in rima in una settimana – non dice su che soggetto. Elaborò poi, solo di testa, un diario per una decina d’anni, fino ai venticinque, un diario mentale: gli serviva per fissare la memoria. Un lungo poema include per testimoniare l’indecisione politica, il no-commitment. Che dopo dieci anni di forte impegno non si rimprovera.
George Orwell, Letteratura palestra di libertà, Oscar, pp. 264 € 13

martedì 8 ottobre 2019

Ombre - 482

Il presidente Conte presenzia ovunque: fa cinque-sei interventi al giorno, in genere per cerimonie e incontri, o sennò con interviste, molto sedute, anzi sdraiate, perfino su Craxi. Sui Tg 1, e sul Corriere della sera” e “la Repubblica”. Uno che rappresenta solo se stesso - e forse Mattarella. E che non decide nulla.

Fa pena vedere otto-dieci microfono che inseguono un onorevole sconosciuto per avere la dichiarazione del giorno, con cui compilare il pastone politico, pesato percentualmente in base al peso parlamentare dei partiti. Una ventina di persone, compresi gli operatori, un centinaio se si ipotizzano quattro-cinque di queste squadre, perse a rincorrere personaggi inutili, che dicono farsi di circostanza, già pesate pr lo spazio che verrà loro concesso: dieci secondi, quindici, trenta. Non è giornalismo e non è nemmeno imbonimento. Ma non c’è altra politica.

“L’ergastolo ostativo va abolito”, l’ex giudice Colombo. “Non va abolito l’ergastolo ostativo”, l’ex giudice Grasso. Una questione forse giuridica. Ma che due giudici, seppure ex, si accapiglino sul diritto dei mafiosi (l’ergastolo per delitti di mafia non consente – “osta a” – la concessione dei “benefici di legge”, le riduzioni di pena), questo è una pena per gli innocenti.
  
80 miliardi di spesa pubblica in più all’anno, dal 2013. Dopo il governo virtuoso e tagliatutto di Monti. Con gli stipendi pubblici bloccati. Col turnover nel settore pubblico bloccato – negli ospedali, all’università, nelle scuole. Senza investimenti. Nemmeno in infrastrutture. Oltre ogni senso del ridicolo.
Il nemico non è l’Europa, è lo Stato. 

La vedova dell’ex presidente Leone spiega a Cazzullo sul “Corriere della sera” ampiamente, per due pagine, come suo marito fu sacrificato dai Dc a Berlinguer per Moro, che lui voleva salvare e il Pci assolutamente no. Silenzio.
Spiega anche che aveva ricevuto per lettera anonima l’indirizzo del covo Br dove Moro era detenuto, che l’aveva inviata, protocollata, all’Interno, e che niente si era mosso. Silenzio.
Anche del “Corriere della sera”.

Vittoria Leone spiega a Cazzullo che il libro di Camilla Cederna contro suo marito, che lo costrinse alle dimissioni, e alla depressione – 23 anni, una vita, di depressione – fu fatto con i bollettini di “OP”, l’agenzia di Mino Pecorelli, “agenzia” (di stampa) ricattatoria, con fonti dei servizi segreti e della P 2. Ed è vero.

Scalfari non gradiva Cederna, che pure aveva voluto a “L’Espresso”. Non la volle a “Repubblica”,  e la volta o due che, a Roma per il suo libro, passò a “Repubblica”, alla riunione mattutina della redazione, si mostrava insofferente. Però il gruppo Repubblica-L’Espresso poté passare con quella campagna stabilmente col Pci di Berlinguer.

“Alitalia perde mezzo milione al giorno”, un miliardo di lire.
La crisi Alitalia presenta “fin qui un conto da 10 miliardi”, di euro, ventimila miliardi dire. Senza risanamento. Ora si vuole una sorta di nazionalizzazione. Senza risanamento. Una follia. Ma Grillo è irremovibile, la vuole salva, che dieci anni fa voleva dichiarata fallita Telecom Italia.
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La sentenza Wto dice che l’Italia pagherà i dazi americani perché l’Airbus franco-tedesco, con la Spagna gregaria, si è venduto e si vende in dumping. Ma di questo non si tratta nei media, né nelle notizie né nei commenti. L’argomento è lasciato a Salvini e Meloni, come se fosse un pretesto polemico. Ma è su questi fatti che si forma l’opinione. A dispetto dei media.

L’arbitro Skomina di Barcellona-Inter è il migliore per “la Repubblica”, dopo i due centravanti: “Energico e preciso, dirige con personalità”. In una partita in cui tutti hanno potuto vedere che “non vedeva”. Compresi Gianni Mura e altri specialisti dello stesso giornale.  C’è un mafia degli arbitri,  una loggia?

Via il consiglio d’amministrazione dell’A ma, l’azienda dei rifiuti romana: il sesto cambio in tre anni. L’ultimo cda è durato appena 100 giorni, tra polemiche costanti. Tutti rigorosamente grillini, i membri di questi consigli, e i relativi assessori-e, scelti-e dalla sindaca Raggi, da Grillo personalmente e da Casaleggio. Mentre i marciapiedi sono intasati d’immondizia, e i cassonetti puzzano, anche ora col fresco d’autunno.
I siluramenti avvengono senza dare una ragione.

Alle sue ultime ore di governo, la Commissione di Bruxelles dà il via libera preventiva al governo italiano sul bilancio 2020, accordando “14 miliardi di flessibilità”. Non noccioline. Non ci sono vincoli e regolamenti rigidi, c’è solo la politica. Al governo di appena ieri non si concedeva alcuna “flessibilità”.

Delrio ai capi del Pd, Zingaretti e Franceschini: “Muoviamoci o detterà lui l’agenda”, lui Renzi; “conosco Matteo, chiamerà tutti i capi delle categorie per intestarsi il no agli aumenti Iva”. Come se i “capi delle categorie” fossero scemi.
Delrio, che deve tutto a Matteo, gli fa la spia. Non c’è pudore fra democristiani.

La verità, con giudizio

A cura e con una estesa e ferrata presentazione di Andrea Tagliapietra. Che mette insieme due scritti di Kant e uno di Constant. La parte della “Metafisica dei costume” in cui si argomenta l’obbligo di dire la verità, e il saggio breve, subito famoso, “Di un preteso diritto di mentire per il bene dell’umanità”. In risposta al terzo scritto, una breve nota, “Sulle ragioni politiche”, di Benjamin Constant al debutto, a trent’anni, nella Parigi dopo la rivoluzione, che contestava l’obbligo kantiano di dire la verità anche a costo della vita.
Il precetto di Kant, che bisogna dire la verità anche se può costare la vita a qualcuno, colpevole o innocente che sia, è ridicolizzata modernamente con garbo da Woody Allen quando scriveva libri: il padrone di casa di Anna Frank avrebbe dovuto denunciarla per un imperativo morale e non per razzismo, o per soldi? Tagliapietra mette in evidenza la contraddizione filosofica di Kant, con se stesso. Che in questo caso liquida la morale in un astratto diritto, quello codificato dalle leggi, mentre il fondamento della sua concezione della morale è l’autonomia del giudizio e non il vincolo esterno: si è morali se si è autonomi e non eteronomi, semplici esecutori, non liberi. Si è morali se si è introiettato il principio di legislazione universale – c’è un “principio di legislazione universale”. Morale è l’autonomia del giudizio.
Con o senza Woody Allen, l’obbligo per sé di conformarsi alla legge è quello che ha fatto molti “boia volenterosi” in Germania con Hitler. Specie quando sono stati chiamati a renderne conto in tribunale: quelli dell’“ho obbedito”.   
Immanuel Kant, Bisogna sempre dire la verità?, Raffaello Cortina, pp. 170 € 13

lunedì 7 ottobre 2019

Secondi pensieri - 397

zeulig


Durata – “Il nesso ineffabile dell’esistenza”, R.Barthes, “Il grado zero della scrittura” (“La scrittura del Romanzo”). La liaison, “che è anche legame sentimentale”.

Immagini – La civiltà (contemporaneità) si dice delle immagini – da E. Jünger a Sonntag e ora all’opinione comune. Che però si manipolano – sono un artefatto. Si vede dove sono portate a prova: che affermano e sconfessano indifferentemente, le stesse immagini. Nei sogni come in foto, al cinema, in tv, sui social. Nel ricordo-ricostruzione come in tribunale e sui campi di gioco (la moviola, il Var). Non c’è solo la manipolazione, che presume un progetto. L’immagine è effetto di luci, e d’ombre. E di movimento, anche quella statica. Varia col posizionamento dell’occhio riflettente, anche video- o tele-camera, con l’illuminazione, con l’inquadratura, col movimento, al’interno di essa e all’esterno (rallentamento, anche minimo, accelerazione).
Forse la verità non fa un passo indietro con le immagini, ma nemmeno un passo avanti.

Lingua – Una difesa o una barriera? È l’una cosa e l’altra. Identificandosi con la nazione, di cui è anzi il fondamento, limita la qualità veicolare entro confini. Erige confini, nazionali e anche sociali – attraverso l’alfabetizzazione, l’apprendimento. La misura in cui diventa una piattaforma, oppure una prigione, un castello assediato, dipende dalla rigidità che (si) impone, dal grado di elasticità.
Resta il fattore primo dell’identità, comunitaria – nazionale e sociale: uno svizzero italiano è italiano prima che svizzero – lombardo sarebbe più giusto, ma sempre italiano. Ma sopravvive e si rinnova per innesti, endogeni e esogeni: è la comunicazione, e quindi si vuole curiosa, aperta.

Selfie – Va contro il romanzesco? Contro la terza persona, l’“egli” di R.Barthes che è il perno del romanzesco. Ma è l’appropriazione del romanzo, dell’“egli”, da parte dell’io. In una prospettiva dichiaratamente piatta, di orizzonte rivoltato sull’io che guarda. O anche: l’io si dichiara attore in proprio, senza più intermediazioni (finzioni). O si pretende di più, di “più verità”, per essere presuntivamente spontaneo e non riflesso, non costruito: la verità come spontaneità.
Il problema è – può essere – questo: che ambisce a verità. La confessione e il ricordo si erigono fondamenti di verità.

Oggi molto più che in ogni altro tempo, la storia è dei testimoni, di giustizia e non: ognuno recita la sua parte. I fili che s’intrecciano sono per sé veritieri, non si valutano. La civiltà del selfie, se c’è, è una civiltà del sé. Di tessitura inesistente, o debole – un narcisismo di bassa lega.
Si dice anche genere moderno, freudiano. È in effetti un prolungamento (volgarizzazione) dello storione familiare di freudiana memoria. Ma di fatto anti-freudiano, di maniera invece che di ricerca. Prodotto assemblando le due-tre nozioni freudiane di uso comune, non l’apertura all’inconscio\ignoto\indeterminato\ipotetico freudiano, un allargamento della sfera del’esperienza o avventura.

I Grandi Uomini ne rifuggono. Ne hanno rifuggito in passato, non ci sono più Grandi Uomini - è il motivo per cui oggi non ci sono più Grandi uomini, che le memorie sono articolo obbligatorio? Cesare lo praticò a fini politici: si scrisse gli annali delle proprie “imprese” da solo.

Storia – “È sempre e anzitutto una scelta e i limiti di questa scelta”, R .Barthes, “Il grado zero dela scrittura”( “Che cos’è la scrittura?”)
È rassicurante, un energetico. “Il passato narrativo fa parte di un sistema di sicurezza delle Belle Lettere. Immagine di un ordine”, id., “La scrittura del Romanzo” (“romanzo e storia hanno rapporti stretti nel secolo che ha visto il loro più grande sviluppo”). “Il passato semplice è… l’espressione di un ordine, e di conseguenza di un’euforia. Grazie a lui, la realtà non è né misteriosa né assurda, è chiara, quasi familiare, a ogni momento raccolta e contenuta nella mano di un creatore; subisce la pressione ingegnosa della sua libertà. Per tutti i grandi recitanti del XIXmo secolo, il mondo può essere patetico, ma non è abbandonato perché è un insieme di rapporti coerenti, perché non c’è sovrapposizione tra  fatti scritti, perché quello che lo racconta ha il potere di ricusare l’opacità e la solitudine delle esistenze che lo compongono, perché può testimoniare a ogni frase di una comunicazione e di una gerarchia degli atti, perché infine, è tutto dire, quegli stessi atti possono essere ridotti a segni”.

Tribù – Richiamata in Europa in chiave nazionale, dalla rivoluzione francese e poi nell’opinione del primo Ottocento, da Walter Scott, da Michelet. Nel mentre che il colonialismo la deprezzava in chiave etno- antropologica. Michelet, autore de “Il popolo”, in “La montagna” arriva a una sorta di protezionismo biologico. Guardando le efflorescenze effervescenti dei Caraibi o delle isole della Sonda: “Alla vera Flora francese, un po’ povera è vero ma affascinante, squisita, sposa legittima del nostro spirito nazionale, sono succedute queste concubine che la cultura spinge a ingrossare, a prendere i colori invadenti che la barbarie del tempo ama”. Le erbe e gli alberi sono “mondo amabile di mutualità, di ospitalità fraterna”. E ancora: “Com’erano degni e gravi i clan originari dei nostri alberi e le piante dei Galli! Erano parentele, erano amicizie. Parenti tra essi, lo erano con noi. Conoscevano e dicevano i nostri pensieri, ci parlavano secondo i nostri bisogni”.

L’invenzione della tradizione è opera piacevole, scovare un passato utile è pure facile –se limitato a sé, la famiglia, il clan. Il metodo è quello di Walter Scott, il genio che dei pastori scozzesi convertì i clan in casati, dotandoli di pedigree, armi in forma di tartan, stendardi, inni, miti, saghe, kilt, uniformi, e i corni ha doppiato di cornamuse berbere importate via Gibilterra, avendo per sé scelto, per nobilitarsi, l’Inghilterra.

“Ci sono realmente cose come le nazioni”, George Orwell chiede in “Il leone e l’unicorno”, il saggio che al tempo dell’attacco di Hitler dedicò all’Inghilterra madrepatria, “non solo 46 milioni di individui tutti differentissimi?” Ci sono, la risposta l’ha già data: “Col “bravo soldato che uccide alla cieca il “nemico”. Con la abitudini di vita. Con l’aspetto fisico – la cura, i modi. Con la lingua.


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