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sabato 15 marzo 2014

L’Europa non vuole pagare il conto di Obama

Obama fa la (finta) guerra, il conto lo manda all’Europa. C’è un jeu de dupes attorno ai “negoziati” con la Russia sull’Ucraina. Nella quale gli Usa pretendono ritorsioni che l’Europa pagherebbe. Sarà questo il vero nodo da sciogliere dopo il “referendum” domenica sulla Crimea: l’improbabile segretario di Stato Kerry non ha convinto i colleghi europei.
In particolare, cosa curiosa, Kerry non ha convinto il Foreign Office. Che invece è sempre stato finora in prima linea contro la Russia, anche dopo la caduta del sovietismo.
“La prova di una politica è come finisce, non come comincia”, Kissinger burbero aveva ammonito dieci giorni fa un sornione Obama. Che ora ha pronta la fine. Il conto è enorme degli interessi europei a rischio per non si sa bene che cosa – a Londra, a Forte dei marmi, in Svizzera naturalmente, e nella Germania tutta, dall’ex cancelliere Schröder in giù. Mentre l’integrità territoriale dell’Ucraina non è (formalmente) minacciata. E a Kiev c’è un regime di non si sa chi per non si sa che cosa.

Ferire col cuore

Un racconto che si rilegge perché a tema mai abbastanza esplorato: il bisogno di verità in amore, o il rischio delle illusioni. Di romanticismo ancora Settecento, molto ragionato: il giovane Adolphe innamora tragicamente di sé una donna di cui non è innamorato - “Disgrazia all’uomo che, al momento di allacciare un legame amoroso, non crede che il legame possa essere eterno”. Sul pericolo di usare il linguaggio amoroso, dandosi o ispirando affezioni di cuore (che non sono) passeggere. In una delle prefazione cui Constant fu costretto dalle letture che del racconto furono fatte a chiave, riferendolo a fatti e personaggi reali, precisa di aver “voluto provare il rischio di questi legami irregolari, in cui si è di solito tanto più incatenati quanto più ci si crede liberi”.
Romanzo di formazione scritto a cinquant’anni, “Adolphe” contiene nella conclusione anche la lezione: “La grande questione nella vita è il dolore che si causa; la metafisica più ingegnosa non giustifica chi ha lacerato il cuore che l’amava”. Uno dei primi casi di autofiction – se non il primo (ma già Goethe con Werther…). Non a chiave - i pettegolezzi erano che Adolphe fosse l’autore in amore-lite con Madame de Staël - ma riferito alla prima giovinezza di Constant a Brunswick.
Benjamin Constant, Adolphe, Edizioni Clandestine, pp. 92 € 7

venerdì 14 marzo 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (200)

Giuseppe Leuzzi

Gimigliano è remoto nelle cronache dell’incidente ferroviario giovedì 6. I tg non ne danno nemmeno un’immagine. Il paese e la ferrovia per Catanzaro sono invece protagonisti dei ricordi e delle narrative di Mark Rotella, scrittore americano di nome, e del padre, scultore, che a Gimigliano è nato e cresciuto.
Le radici si mettono meglio fuori d’Italia?
Benjamin Constant fa partire il suo tardivo – a cinquant’anni - romanzo di formazione “Adolfo” dalla Calabria. Di cui dà le coordinate con esattezza, benché non ci fosse mai stato - era uno che viaggiava molto, ma solo al Nord, in Germania, in Inghilterra. Il suo alter ego narratore si trova a Cerenza isolato per una minaccia di alluvione del fiume Neto, insieme con uno “straniero” che poi si ammalerà, morirà, e lo lascerà destinatario di un pacchetto di lettere che faranno la storia.
Cerenza esiste (Cerenzia, dall’antica Akerentia), ha tuttora un parco archeologico che attira visitatori, sta presso il Neto, e oggi come ieri i tentativo di far curare l’occasionale amico meglio a Cosenza sarebbe difficile da attuare, essendoci la Sila di mezzo.
Constant faceva bene i compiti? La Calabria non era terra incognita, nel 1816.

Una colonna del “Corriere della sera”. G.A.Stella, tiene desto il Sud (quasi) giornalmente con malefatte piccole e grandi, tra notizie, reportages, corrispondenze, fondi, commenti, opinioni, lettere al direttore. La materia non gli manca, ma gli piace inventarsela. Qualche anno fa ha puntato Pompei, che da allora ha cominciato a crollare. Da qualche tempo punta Agrigento, i templi scricchiolano, dice. Non sarebbe bene puntellarli?
La cucina svedese
Il forno da cucina di una nota ditta svedese di elettrodomestici, che vanta la A della protezione ambientale per i bassi consumi di energia, prevede questi tempi di cottura: fagioli 8 ore, peperoni 6, funghi 8, prugne e albicocche 10 – le mele 6, ma a fette.
Può darsi che la traduzione sia difettosa del libretto delle istruzioni - la solita imprevidenza del management italiano della multinazionale. Ma poi i tempi di cottura sono quelli. Non che si tenti di cuocere al forno i fagioli, converrebbe uscire e mangiare fuori, magari da uno chef rinomato, a 100 euro a cranio converrebbe ancora. Ma è che i tempi di cottura normali, delle vivande normali, un dolce, un arrosto, un pesce, sono perlomeno il doppio di quello che le ricette prescrivono. Un branzino medio quaranta minuti invece di venti, e così via.
Può anche darsi che in Svezia, con l’ambiente e tutto, si faccia spreco di elettricità. O l’elettricità sia gratis – chissà, al Nord tutto è possibile.
È un acquisto incauto. Non è il primo, non sarà l’ultimo, la globalizzazione induce allo spreco, non c’è più l’affidamento – il marchio, il fornitore. Ma sarebbe stato possibile a una ditta italiana vendere in Europa un forno da cucina che ha tempi doppi di cottura fregiandosi della A di ambiente?

Il sottogoverno è al Nord
Il controllo politico del territorio si fa attraverso le “partecipate” pubbliche: aziende (municipali, regionali), consorzi, fondazioni. Ce ne sono 7.712 in Italia – ce n’erano nel 2012 (il censimento è opera del Centro Studi Confindustria). Sono organi di rappresentanza e mediazione politica, di appannaggi piccoli e grandi, e di trasferimenti politici (sovvenzioni, posti di lavoro, consulenze). Tutte insieme, le partecipazioni pubbliche assommavano nel 2012 a 40 mila (39.997 per l’esattezza), e assorbivano una spesa di 22,7 miliardi. Una cifra enorme.
Per oltre la metà, 12,8 miliardi, questa spesa andava a partecipazioni del tutto improduttive. Perlomeno ai fini dell’interesse pubblico: senza rendere cioè alcun servizio, se non quello alla perpetuazione degli stessi enti. Gli enti improduttivi erano il 63,9 per cento del totale.
Cinque sesti delle “partecipazioni” si registravano al Nord: Lombardia 7.496, Piemonte 7.061, Veneto 4.123, Toscana, 3.606, Emilia Romagna 3.479, Trentino Alto Adige 2.610, Marche 1.620, Friuli Venezia Giulia 1.548. Il Lazio, con 1.021 partecipazioni, deteneva il record della spesa, 9,5 miliardi. Seguito dalla Lombardia, con 5,5 miliardi.

La donna del Nord - Storia di Franca
Franca è giovane, piacente, attivissima. Viene ogni tanto  a fare le pulizie in casa, ma sa cucinare, fare il caffè, servirlo al giusto modo. Lo sa fare anche come al Sant’Eustachio  a Roma, e senza troppi trucchi: il segreto del sant’Eustachio… non lo diremo. Lavora rapida e precisa, senza servilismo e senza intromettenza. Prima di prendere i lavori in casa cuciva jeans per un appaltatore, che lavorava per ditte napoletane. Poi l’appalto è finito, il famoso lavoro à façon. O l’appaltatore non sapeva garantire le asole e le cuciture come da capitolato. O semplicemente le-a ditte-a sono-è fallite-a: non è difficile fare l’imprenditore oggi con le lavorazioni esterne, basta un piccolo capitale per fornire le stoffe, e poi, se il prodotto si vende, i lavoranti à façon vengono pagati, altrimenti si chiude lì – e forse nemmeno le stoffe si pagano, si ritirano a credito.
Franca viene spesso accompagnata da un ragazzo di una diecina d’anni, che gioca da solo in giardino, e non le somiglia per nulla, rosso di pelo, massiccio, il viso largo e simpatico. Non parla, al contrario di Franca che è ciarliera, se interpellata, ma è suo figlio. Giovane e tutto, Franca ha già avuto un matrimonio, una dozzina d’anni fa. Un matrimonio da fiaba, dice ridendo, e infelice.
Era andata sposa su nelle Alpi, nel Trentino. Come? Attraverso una commare. Una mezzana: fino a qualche anno fa era una professione, combinare i matrimoni. Che cercava spose giovani e feconde per contadini di montagna che nessuno al loro paese voleva:
- Diventi padrona. Avrai terreni, animali. Lui è un brav’uomo, non lo sposano perché ha qualche anno – Col sottinteso che lassù si vive meglio, la donna è rispettata, eccetera.
E così Francia andò sposa - una di quattro giovani mogli procurate in Calabria dalla commare per montanari delle Alpi. A uno che invece, dice ora:
- Era un nano – un tipo dal tronco forte. Ma la decisione era presa, Franca è una che si governa da sola, fin da ragazza, non ha potuto fare affidamento sui genitori e la famiglia, tutti per un motivo o per l’altro incapacitati, e ci si è messa con perseveranza. Dopo i lavoretti nelle case troverà un’altra sua strada e farà diplomare il figlio. Ma nel primo matrimonio non ce l’ha fatta.
Lavorava praticamente senza interruzioni, dalle cinque del mattino, d’inverno un gelo da levare il fiato, nella puzza delle bestie e del letame. Sarchiare, seminare, falciare, legare, erba, paglia, caricare, scaricare, lavare, mungere, separare, trasportare, lavare di nuovo, spazzare il letame, lavare… Tutto il giorno. Tutti i giorni. Fino alla conclusione inevitabile:
- Quello non voleva una moglie, voleva una lavorante gratis. Che gli facesse qualche figlio. – Ha preso e se ne è andata. Non avendo una casa, è tornata in paese, dai suoi. Ma si sta riorganizzando.
Non se ne può fare una colpa a Franca, che non è sciocca. Vive anche lei, come tutti, tra credenze assunte come ovvie anche se irrelate ai fatti, e dure a morire. C’è questa credenza al Sud, che al Sud la donna sia sfruttata, e al Nord rispettata. Mentre al Nord si è sempre saputo e detto. Nelle parole di Simenon, che come si sa era belga, e ne parla a proposito di sua madre (“Elisa”) e di una sua amica: “La madre van de Waele, le cui gonne pendono sul corpo come attorno a un manico di scopa, ha, come Elisa, un viso impaurito di schiava. Solo gli uomini contano in casa; un solo uomo, il padrone”.

leuzzi@antiit.eu

La vita viene con la morte

Si dice scomparire per morire. È anche l’esito del poeta Montale, “svanire\ è dunque la ventura delle venture” (“Tendono alla chiarità le cose oscure\ si esauriscono i corpi in un fluire\ di tinte: queste in musiche. Svanire…”). Fechner, il creatore della psicofisica, la psicologia fisiologica, dice di no, al contrario: si nasce morendo. Non dunque nascendo morimur ma al contrario morendo nascimur. Non un paralogismo, è una verità - Borges, “La rosa profonda”, ha questo esito: “Le voci\ dei morti mi diranno eternamente”.
“L’imponderabile finisce per avere un ruolo più rilevate del ponderabile”. “Nessun effetto si esaurisce in se stesso, anzi ognuno produce in eterno nuovi consimili effetti”. Una vita vissuta su un’isola deserta, oppure un solo attimo alla nascita, “non potrebbe più morire eternamente”. È così che la vita “comincia” con la morte. È un paradosso, vivere nella morte, ma il padre della psicofisica lo argomenta persuasivamente. Con la morte si accede a “un corpo collettivo… immedesimato con la natura terrena”.
Se ne può ridere, ma non senza turbamento – e non per il fascino dell’illusione. La similitudine è con le “innumerevoli onde concentriche tangenti nello stesso lago”, le innumerevoli onde sonore e luminose nell’etere, le innumerevoli onde di memoria nel cervello. Vivere oltre la morte sconfina nell’esoterico, la morte come passo risolutivo del nostro mistero no. Wiliam James apprezzò il “Libretto”, che fece tradurre, per la prospettazione del mondo come entità viva, al cui miglioramento (evoluzione) l’uomo contribuisce con la propria sensibilità. Col proprio corpo, che la sensibilità anima. La coscienza è eterna, superindividual. E prospera oltre la morte dell’individuo, anzi della sua stessa morte, nella memoria.
“La morte è soltanto una seconda nascita verso un’esistenza più libera”, come il bambino fece “alla sua prima nascita”. Ritrovando “chiaro come la luce del giorno” tutto quello che già in vita “rinvia, attraverso il presentimento, la fede, il sentimento e l’istinto del genio” alla vita aldilà. Nella “unità organica con il mondo” che è stata la vita e ora si manifesta: “L’opera con cui ciascuno durante la vita ha contribuito a creare, formare, o conservare le idee che pervadono l’umanità e la natura, è la sua parte immortale, quella che continuerà ad agire al terzo livello, anche se il corpo, a cui la forza attiva era legata al secondo livello, sarà da tempo decomposto”. Cristo ne è un esempio: “Non è parola vana che Cristo viva nei fedeli”. Così “ogni uomo valente”. Così ogni uomo.
La vita oltre la morte è la memoria, nulla di scandaloso. È anche tema letterario. Valga Proust per tutti, “La prigioniera”: “Quando superiamo una certa età, l’animo del bambino che fummo e l’anima dei morti da cui siamo usciti vengono a gettare a manciate le loro ricchezze e i loro sortilegi…”. Ma non solo quelli da cui “uscimmo” biologicamente, aggiunge Fechner. Né in moto unidirezionale, dei vivi nei confronti dei morti. La relazione è biunivoca: come l’urto fisico è avvertito dalle due parti, chi urta e chi è urtato, Fechner immagina che il ricordo di un defunto sia “un unico urto di coscienza avvertito da due parti”.   
Fechner è uno scienziato dell’anima, l’Einstein dei sentimenti. Per la legge di Fechner, la formula con cui nel 1860 regolò il rapporto “tra anima e materia”, tra stimolo fisico e sensazione:
S = c · log R  
di cui non staremo a spiegare i simboli. Elaborò anche un più pratico “paradosso di Fechner”: uno stimolo visto monocularmente appare più brillante dopo che sia stato visto binocularmente. Il giorno in cui, svegliandosi, ebbe l’intuizione della “scala psicofisica” o legge di Fechner, il 22 ottobre (del 1850 o del 1860) è giorno celebrativo da alcuni gruppi di psicologi. La sua opera è un misto di filosofia della natura e positivismo, tra una metafisica perfino bizzarra, radicalmente speculativa, e il calcolo. Ma aveva debuttato con una serie di opere alla Jean Paul, sul grottesco del reale, o la sua verità nascosta.Dopo aver studiato medicina a Lipsia, e aver letto “La filosofia della natura” di Oken, discepolo e amico di Schelling, scrisse con lo pseudonimo Dr. Moses una serie di libelli di spirito jeanpauliano, una sorta di “umorismo scientifico”: la “Dimostrazione che la luna è fatta di iodio”, un “Panegirico della medicina e della storia naturale odierne”, e nel 1825 una “Anatomia comparata degli angeli. Uno schizzo”. Questo “Libretto”, scritto dieci anni dopo l’“Anatomia degli angeli”, e pubblicato nel 1836, sempre come Dr.Moses, collega le due fasi. Il “Libretto” si ebbe le lodi entusiaste di Bettina von Arnim, e divenne il libro più popolare di Fechner. Prospetta una sorta di evoluzionismo: la trasformazione dell’uomo attraverso tre stadi dell’esistenza, prenatale, postnatale e dopo morte, e due “nascite”, quella propriamente detta e la stessa morte. Fechner lo riesumerà come terza parte della sua opera scientifica sistematica, lo “Zend-Avesta”.
È un testo evocativo più che filosofico. Con un’avvertenza: “Invano sognerai di una vita dopo di te, se non sai riconoscere la vita intorno a te”.
Gustav Theodor Fechner, Il libretto della mia vita dopo la morte, Adelphi, pp. 106 € 10

giovedì 13 marzo 2014

Secondi pensieri - 168

zeulig

Erasmo – Un sornione patito dell’ordine, tutto sommato, nella leva sterminata degli “Adagia”, nella stessa discussione con Lutero sul libero arbitrio, e nel “Ciceronianus” che più non si cita. È forse il destino di ogni rivoluzionario di farsi reazionario – pena l’estinzione certo, propria.
Nel “Ciceronianus”, in polemica con i classicisti formalisti, e poi con Pietro Bembo, vuole la mitologia classica eliminata dalle lettere e il pensiero contemporanei in quanto germe di paganesimo e nemica delle fede – che, arriva a dire, vive in virtù della sua propria verità.

Heidegger – Sarà il filosofo “bruciato”, che s’è combusto? Ha pubblicato nel 1927 “Essere e tempo” incompleto rispetto al progetto: le prime due parti della prima sezione, la quale si sarebbe dovuta completare con una terza parte, “Tempo e essere”. Nel 1976, nella nota critica a “Essere e tempo” della Opere complete, von Herrmann scrive che il “vero” “Tempo e essere”  era stato bruciato: “Heidegger mi ha confidato a voce”, scrive pressappoco il curatore, “che il vero «Essere e tempo» era stato scritto e poi bruciato”.   

Potrebbe essere un filosofo di “Wired”, del pensiero branché, la contemporaneità che non si contesta. Nel suo “secondo periodo”, con la Kehre, la svolta, filosofò il linguaggio. “Il linguaggio è la casa dell’essere, nella sua dimora abita l’uomo”, dirà più tardi, 1947, nella “Lettera sul’umanismo”. Ma con singolare insight individuando contemporaneamente, ne “L’amico di casa”, 1957, e nel successivo “Linguaggio e terra natia”, 1962, la debolezza della contemporaneità (la crisi dell’Europa, la fine dell’umanesimo, la “fine della storia”….). Per l’abuso linguistico, ancorché normativo, e l’usura delle parole: “Nell’epoca attuale si porta al predominio sempre più decisivo un altro rapporto con la lingua a causa della fretta e della grossolanità del parlare e dello scrivere quotidiano. Perché noi crediamo che anche la lingua, come tutte le altre cose quotidiane con cui abbiamo a che fare, sia solo uno strumento e più precisamente lo strumento della comunicazione e dell’informazione […]. L’idea della lingua come strumento di informazione si spinge oggi fino all’estremo. Si ha una conoscenza di questo processo ma non si pensa al suo senso […]. Il rapporto dell’uomo con la lingua si sta trasformando in un modo la cui portata non possiamo comprendere ancora. Il percorso di questa trasformazione non si può arrestare immediatamente ed inoltre si svolge nel silenzio assoluto” (“L’amico di casa”, nella traduzione di Francesca Sbrencia).
Il linguaggio non è più niente: “È trattato come un oggetto manipolabile a cui la forma del pensiero deve adeguarsi”, dirà in appendice a “Fenomenologia e Teologia”, 1964”.

Natura – È probabilmente letteraria la sua lettura più propria. Si prenda la contesa a distanza tra Boileau e Chateaubriand, apparentemente a proposito di retorica e romanticismo, di maniere e volontarismo. Il genio del cristianesimo non gradiva la favolistica, la mitologia, la poesia, se non quella estratta dal Vecchio Testamento - che s’ingegnò a trovare e non trovò, eccetto il “Paradiso perduto” di Milton, che gravò di un’introduzione più vasta del lunghissimo poema, e personalmente non vi si applicò. E la natura diceva invece grande, grave, solitaria: “Bisogna compiangere gli antichi, che non avevano trovato nell’Oceano nient’altro che il palazzo d Nettuno e la grotta di Proteo; era duro non vedere altro se non le avventure dei Tritoni e delle Nereidi nell’immensità dei mari, che a noi sembra dare una misura confusa della grandezza  della nostra anima”. Boileau nell’“Arte poetica” aveva avuto ben altri argomenti, più resistenti a distanza di tempo: nella favola “tutto assume un corpo, un’anima, uno spirito, un volto,\ ogni Virtù diviene una Divinità…”

Riforme – Sono ora conservatrici se non reazionarie, il concetto di è ribaltato. È l’equivoco indotto dalla liberalizzazione – che è invece statalizzazione senza Stato”, ossia finanziamento pubblico a piè di lista e senza corrispettivo della finanza privata. Riforma s’intende la realizzazione pratica della rivoluzione, un moto progressista, la realizzazione di una qualche forma di giustizia redistributiva, e in questo senso innovativa. Ora s’intende l’efficienza, con implicita una serie di valori e condizioni regressive. Una redistribuzione regressiva allinsegna del merito, la produttività, l’impegno (cottimo), il tempo lavoro incalcolato.

Suicidio - Quando Socrate fu suicidato, gli allievi gli chiesero: “Che dobbiamo dire agli dei?” “Sacrificate un galletto ad Asclepio”, rispose Socrate. Come a dire: muoio sereno. Ma era stanco d’essere solo. O era, malgrado il witz, innamorato infelice: il suicidio può essere estrema offerta d’amore, un sacrificio all’unione e alla pace - la storia si rinnova con la fame e l’amore, dice Schiller.

Ma poi tutto ha una fine, non si può complicare troppo la storia: il suicidio è pratica antica, non dispiaccia a Durkheim e Morselli, di prima dell’età industriale. C’era in Oriente, rituale, e c’è: a maggior gloria di sé, di vedove indiane o martiri d’Allah. E in Occidente quando finì la sicurezza feudale, e la certezza della fede.
Per non dire del motivo contemporaneo generalizzato: la depressione, la vecchia malinconia. Che è una forma di follia, ma introiettata, non aggressiva: ognuno è il suo proprio manicomio.

Il suicida, Emma Bovary per esempio, che è morta donna ma poteva essere un uomo, poco prima di morire si dichiara santo, orfano e vittima anche se non lo è.

Enrico (VII) Hohenstaufen si lasciò morire a Martirano, dove Casanova sarebbe andato garzone, in provincia di Catanzaro, lanciandosi da un dirupo, massiccio com’era, dopo avere combattuto una vita il padre Federico II nel nome della libertà, alleato della Lega Lombarda, dei principi tedeschi e di ogni altro ribelle, un padre che aveva una ventina di figli, da tredici madre diverse, di cui sei anonime – Enrico lo Sciancato, anche gli epiteti hanno una ragione, per distinguerlo da Enrico lo Zoppo, che fu imperatore e santo. Otto Rahn, entrato in guerra contro cristiani ed ebrei insieme, dopo aver scoperto i Catari, il Graal, e con essi e Hitler i campi di concentramento, che diresse a Dachau e Buchenwald, s’inoltrò a marzo del ‘39 per un sentiero alpino al sopravvenire di una tempesta, e lì fu trovato congelato, tenuto su dal mantello contro un albero. In Cecoslovacchia invece s’impiccavano, nel bosco. Generali, giudici, alti funzionari, tutti in età, con l’incomodo di portarsi dietro una scala, o ascendere alcuni metri un grosso albero per arrivare a un ramo abbastanza alto, e nella scomoda posizione preparare il nodo scorsoio, prima d’infilarvi dentro la testa e tuffarsi. Ma quello è un altro genere di suicidio, rivoluzionario: veniva più comodo dell’omicidio – senza contare che qualcuno ci credeva.

zeulig@antiit.eu

Contro il profit non profit

“Che cosa hanno in comune un'università non statale e un doposcuola in quartieri degradati? Un centro fitness e un'organizzazione sportiva per disabili? Un pub e una mensa per i poveri? Una clinica religiosa e un'associazione di volontariato sanitario?” Nulla, se non che possono confluire nel non profit e beneficiare delle provvidenze pubbliche, sgravi e sussidi.
Faccio qualcosa del “genere turpe”, si giustifica l’autore, ma a fini di verità. E anche di efficienza, va detto: il terzo settore dei servizi pubblici, la novità degli ultimi vent’anni, ha creato lavoro e attività a basso costo, molto più contenuto di quanto al Funzione Pubblica spendeva per gli stessi servizi – ha “salvato” l’Italia, si può dire – ma si presta a pratiche truffaldine. Sono queste che Moro denuncia - genus turpe usava dire gli scritti che criticavano ciò che rappresentavano.
Giovanni Moro, il sociologo politico che non le manda a dire, uno dei pochi ancora liberi, che si tratti del Vaticano, del Pci, della Dc, delle Br e della morte del padre, spiega che molta spesa sociale per il non profit va ad attività commerciali. Lo dice dall’interno, essendo impegnato nel volontariato, e quindi a buon diritto.
Lo studio Moro pone idealmente sotto il segno di Italo Mancini, un prete che si voleva presbitero, come a riaffermare il suo non clericalismo, e insegnò da laico all’università di Urbino.
Giovanni Moro, Contro il non profit, Laterza, pp. 181 € 12

mercoledì 12 marzo 2014

Col mercato più debito e meno servizi

L’orologio del debito pubblico dell’“Economist” galoppa, a ogni secondo diecine di milioni di dollari si aggiungono alla montagna. Che oggi è di circa 53 mila miliardi di dollari. Due volte e mezzo l’ammontare di dieci anni fa.
Fra un anno il debito è previsto dall’orologio a 55.600 miliardi, fra due anni a poco meno di 60 mila. In una dozzina d’anni il debito si sarà triplicato, il debito pubblico. Mentre i servizi si contraggono, o scadono di qualità, o ci cancellano semplicemente, i servizi pubblici.
Il debito italiano è quello che è aumentato meno nel decennio, da 1.500 a 2.400 miliardi di dollari. Quello tedesco è raddoppiato, e così pure quello giapponese: la Germania passa da 1.430 a 2.800 miliardi, pur avendo dimezzato i servizi sanitari e ridotto considerevolmente i trattamenti pensionistici, il Giappone da 6.540 a 12.400 miliardi. La Francia ha più che raddoppiato il debito, da 1.015 a 2.400 miliardi. Gli Usa l’hanno più che triplicato, da 3.600 a 13.300 miliardi. La Gran Bretagna quasi quadruplicato, malgrado abbia smantellato, letteralmente anch’essa, lo Stato sociale, da 680 a 2.500 miliardi.
È un debito che serve a pagare il debito. E cioè i creditori: una miniera sicura per chi ha capitali. E per chi non ne ha ma sa come “far girare” il denaro. Il fatto è anche sperequativo: lo Stato fiscale (sociale) riduceva la ricchezza con la tassazione progressiva, lo Stato debitore la incrementa pagando interessi a chi può finanziarlo, cioè ai ricchi. Che sono in grande misura, fra l’80 e il 90 per cento, gli operatori del mercato, i “manovratori”. Il più massiccio trasferimento di ricchezza della storia, probabilmente, dai poveri ai ricchi

Cave signatos – il partito del contagio

Togliatti avrebbe fatto la riforma costituzionale? Si.L’avrebbe fatta con Berlusconi? Si.Qual è il problema allora? Che Bersani non è Togliatti, certo: uno che ha perso elezioni già vinte, e poi si è messo a fare il governo con due parlamentari ignoti, forse due burloni – nemmeno con Grillo, con due provinciali mal assortiti. Ma è anche vero che Togliatti non sarebbe stato Togliatti dopo il Muro. Anzi molto prima: Togliatti era un ipocrita ma non quanto Berlinguer, che fingeva di criticare l’Urss mentre se ne approvvigionava nei conti cifrati in Svizzera.E insomma ognuno porta colpe non sue. Ma il risultato è quello: non si può fare niente, si può solo disfare. E allora un altro approccio può aiutare: è la vendetta degli sconfitti, della storia e del partito. Il “muoia Sansone con tutti i filistei”. Ancorché un’opinione truffaldina, effettualmente filistea, li omaggi e li introni – per servirsene meglio: le mafie adorano lavorare per procura, dietro visi pallidi fegatosi. Anche a rischio di obliterare la storia, e la propria buona coscienza.
L’ex Pci ora Pd fa di tutto per dare ragione a chi lo critica ab imo, dagli inizi e dalle fondamenta: nel 1948 con la Costituzione e l’art. 7, nel 1946-1947 con la Repubblica e le larghe intese, nel 1945, alla Liberazione, e già prima nella Resistenza. Che lo liquida come un partito di doppiogiochisti, furbi, violenti. Che senza lo stigma del potere si aggirano quali montoni infuriati, menando testate in ogni direzione. Certo, la rapidità con cui fanno la festa a Renzi è impressionante, alla Rai, in Parlamento, nel partito. La protervia residua pure: non si può criticare il Pd, nemmeno in una burla di comici. E non se ne rendono conto – e nessuno glielo rimprovera, gli opportunisti già si lisciano furbeschi le mani.
Si veda alla Rai, su Rai 3. “Ballarò” fa tre ore contro una legge che il governo non ha ancora varato, nemmeno delineato, con smorfie e ghigni, e un fuoco di sbarramento di politici, giornalisti, manager, economisti, sindacalisti, opinionisti, sondaggisti (e comici: questo si può). Lo spettatore non sa di che si parla, ma sa che è tutto malvagio. Da Fazio Litizzetto inveisce per mezz’ora, insinua, ammicca, contro il film “La grande bellezza” di cui il presentatore si era appena fatto bandiera, contro Roma, contro il cinema italiano, contro i registi e contro i produttori. Gruber, Annunziata e ogni altro reduce moltiplicano i veleni - dopo aver beneficiato di incarichi e prebende.
Si discute se il “cave signatos” sia evangelico, ma alla larga dagli sfigati si può e si deve, perché no. Questo comunismo che ha fallito sembra il sangue di Nesso, corrode chi tocca. Più che un Dio che ha fallito, sembra il diavolo: ha liberato il male. 

La storia inaridisce senza il mito

Una rilettura filologica del mito, dopo quella narrativa di Calasso, “Le nozze di Cadmo e Armonia”: l’Italia, l’Europa, è all’ora del buon tempo che fu, si consola. I miti inventati dai greci, riprovevoli e tutto (Senofane), ridicoli (“illuministi ionici”), matti (Cicerone), scandalosi e corrotti (patristica, sant’Agostino), favolosi (Francesco Bacone), “pure, il loro culto defunto migrerà nella letteratura e nelle arti, e i miti diverranno trame, scene, teatri, musiche, affreschi, tele in tutto l’Occidente, cui a lungo non interesseranno molto, in genere, questi problemi”. Al punto anzi che, smettendoli, come farà a partire dal secondo Ottocento dopo un paio di millenni, si inaridirà.
Già Friedrich Max Müller (1823-1900) si impegnava a spiegare “ciò che nella mitologia greca c’è di stupido, di assurdo e di selvaggio, da far inorridire il più selvaggio dei pellirosse. Lo studioso era figlio di Wilhelm Müller, il modesto classicista che l’Italia aveva deluso, poiché non vi aveva trovato la musica – ma dove l’avrà cercata? il Müller-mugnaio autore della “Bella Mugnaia”, e del temibile “Viaggio d’inverno” di Schubert. Di suo fu inventore delle religioni comparate, e animatore del turanismo, “tutti turchi” – tutti quelli che parliamo lingue uralo-altaiche, cioè turche, nell’ambito del dimenticato panturchismo. Ma non importa: il mito s’imborghesisce, come la religione. È su questo terreno che l’Europa e l’Occidente sono al guado, la secolarizzazione, la piccola ragione.
La materia è vastissima, quasi inafferrabile – John Lemprière, che moriva quando Müller nasceva,  classifica nella “Bibliotheca classica”, che non si è più rifatta,  almeno 14 mila nomi propri, “di cui la metà di mitologici o comunque connessi con la mitologia (gli altri di storia, geografa, letteratura)”, nota Carena. I miti sono il “tronco metafisico poetico” di Vico, attraverso il quale la poesia diventa fisica, cosmografia, astronomia, cronologia e storia, geografia. E sempre vere al fondo, non oziose o oscene: “Non si può dare tradizione, quantunque favolosa, che non abbia da prima avuto alcun motivo di vero”.
La squalifica del mito è recente, di Platone. Fino ad allora, “«mito» è genericamente un racconto, come lo è il logos”, diventa una narrazione falsa con la Sofistica: “È con Platone che mythos diviene un racconto inverificabile e irrazionale opposto a logos, il discorso argomentativo” come poi verrà inteso. L’annuncio “il grande Pan è morto” Plutarco registra più tardi, all’età di Tiberio – omaggio dissimulato al cristianesimo? E tuttavia, per due millenni il mito ha continuato a “fare” la migliore poesia, le arti e anche la filosofia.
Lo studioso, filologo non accademico, se ne riempie ancora i sensi e lo spirito, “della natura genetica del mito; del suo genere misto fra popolare e cortese, teologico e letterario; della sua pregnanza creativa e creatrice nella piena libertà dell’ingegno e dell’animo; della beatitudine che suscita l’abbandonarsi all’ombra di queste fronde folte, estendentisi all’infinito”. Facendosi rivivere roba del calibro di Prometeo, gli Argonauti, Eracle, Edipo, roba che l’“Iliade”e l’”Odissea” sono a fronte quasi poca cosa, e Medea, Fedra, Ifigenia – e Andromaca, Antigone, Cassandra.
Carlo Carena, Il fascino del mito, Salerno, pp. 115 € 8,50

martedì 11 marzo 2014

Letture - 164

letterautore

Cattolico – È denominazione in disuso, dopo essere stata inalberata con orgoglio e anzi ostentata negli anni 1950, anche 1960. Di FrançoisMauriac come già di Bernanos, o di Graham Greene, Flannery O’Connor. In Italia invece restava confinata a Betocchi – Luzi, che ora vi si ascrive, ne rifuggiva, o Cristina Campo. La qualifica è in desuetudine dal Concilio, che lungi dall’avvicinare il mondo, lo ha allontanato: essere “cattolico” in generale non si dice più.

Croce – È Marx. Non lo è naturalmente, ma lo è stato, più e meglio di Labriola. Bobbio lo ha ricordato, più di una volta.
Croce è il nume del liberalismo italiano, ma lo è stato tardi. Si rilegge (viene rispoposto) per gli scritti di storia, brillanti d’intelligenza e aneddotica, ma non per gli scritti filosofici, soprattutto non i primi, anteriori alla polemica con lo “Stato etico” di Gentile.

Claudio Tuozzolo, studioso della trasposizione dello hegelismo in Italia, ci ha scritto sopra nel 2008 un saggio appuntito, “Marx possibile. Benedetto Croce teorico marxista 1896-97”. Più sul Marx crociano che su Croce marxista, ma ciò non toglie che al suo debutto a trent’anni nella pubblicistica filosofica, dopo l’apprendistato in Germania, Croce si può dire marxista. Con una certa coerenza anche, in tema di materialismo storico, che non è metafisico, e dei concetti chiave di valore, lavoro, e critica (scientificità) – seguendo le argomentazioni di Tuozzolo, non pretestuose, si resta folgorati.  Anche nella pubblicistica, Croce pendeva, oggi diremmo, a sinistra, verso Michels e Sorel, cioè si collocava in un ambito di letture e discussioni socialista. Con una  tarda deriva in guerra,  nel 1915 Croce aveva cinquant’anni, verso la realpolitik, compreso, prima del ripudio anti-Gentile, lo Stato-potenza del Treitschke, per esempio nelle “Pagine sulla guerra”.
Nelle “Note autobiografiche” aggiunte nel 1934 al “Contributo alla critica di me stesso” del 1915, Croce stesso lo dice: gli sconvolgimenti seguiti alla guerra, cioè le rivoluzioni, lo portarono da un lato a rifare la storia dell’Italia unita, con un insieme incredibilmente prolifico: “Storia d’Italia”, “Storia d’Europa”, “”Una famiglia di patrioti”, “Uomini e cose della vecchia Italia””Vite di avventura, di fede, di passione”, e i tantissimi saggi inutili sulle mediocrità letterarie della “Nuova Italia”. Contro l’“ignoranza delle nuove generazioni”, ma di più contro “l’obbrobrio, lo spregio e lo scherno”, che “per calcolata azione partigiana venivano gettati sulla modesta e onesta e solida opera dei nostri padri e nostra, onde l’Italia prese il suo posto nella moderna cultura e nella politica internazionale”. Per analoghi motivi, anche se Croce non lo dice, ma comunque in parallelo, andò la “curvatura” filosofica. Non più professorale e astrattamente speculativa, ma “subserviente alla storia”. E in questa prospettiva solo liberale: non c’è altra filosofia possibile.
In altra chiave, a proposito del “trascendente” non più possibile, sempre nella nota del 1934 Croce ha spiegato il suo marxismo e l’abiura. Intorno ai trent’anni ebbe una sorta di seconda crisi religiosa, scrive: “Il trascendente mi si ripresentò in veste terrena e laica, che ne celava l’interna contradizione con un’apparenza storicistica di carattere filosofico e dialettico; e prese forma di una generosa radicale liberazione dal male, dall’ingiustizia e dall’irrazionalità mercé di un uovo mondo da costruire che sarebbe stato l’unico, il vero «regno della libertà», dopo tanto secolare affanno di servitù”. Ma non durò: “Le dottrine del Marx non ressero alla critica coscienziosa e spregiudicata a cui fui a passo a passo condotto e costretto; e quel suo regno egualitario o comunistico mi si dimostrò incapace di realtà storica, e quasi meno fondato, direi, della «Città del sole»”. Della bonaccia al cuore della tempesta, o intermezzo, che Campanella diceva pausa o prodromo “alla fine del mondo che profetava imminente”: il Marx gli si rivelava più apocalittico.
Ancora in guerra, ricorda, Croce si ritenne impegnato “principalmente su due punti”. Il secondo era stato opporsi all’“odio e disprezzo del nemico”, alla costruzione del nemico. “Il primo punto era la difesa dell’autorità e forza dello Stato, contro le ideologie democratiche, e della politica in quanto politica contro la rettorica umanitaria”. Le rivoluzioni gli fecero cambiare idea, il sovietismo che non nomina e “il cosiddetto fascismo”.  Si diede allora il compito di contestare “i cosiddetti «stati totalitari»”, e cioè “l’asservimento dell’arte, del pensiero, della religione, del costume alla politica, la quale poi, in questa spasmodica sua prepotenza, invece di potenziarsi, perde la sua ragione di vita e la sua forza”. 
Ma nella stessa abbondante e appassionata sua pubblicistica degli ultimi suoi trent’anni si trova molto liberalismo, e nessuna apologia dell’individuo.  

Dante - Era un prete albigese a Firenze, in incognito, nonché affiliato all’Ordine del Tempio. Così lo qualifica Eugène Aroux, che il ghibellino Dante voleva anche repubblicano e socialista. In un pamphlet del 1856, che le Edizioni Arktos di Carmagnola hanno pubblicato non tradotto nel 1981. Una “Clef de la Comédie anti-catholique de Dante Alighieri, pastore della chiesa albigese nella città di Firenze, affiliato al’Ordine del Tempio”.Una “chiave” che dà anche “la spiegazione del linguaggio simbolico dei fedeli d’amore, nelle composizioni liriche, i romanzi e le epopee cavalleresche dei trovatori”.

Ipocondria – Bandita dai dizionari psichiatrici e medici, è la normalità della narrativa (anche della poesia) italiana, europea, occidentale. Non tutta, ma al novanta per cento sicuro. Anche se nell’accezione poco scientifica di malinconia: la riflessione malinconica su sue stessi, la narrazione delle proprie minute evenienze.
L’etimologia è peraltro legata alla malinconia: ipocondria è, anatomicamente, la parte dell’addome che sta sotto le costole, e racchiude il fegato, la cistifellea, la milza, le visceri, la sorgente della “bile nera”. Ma non la narrazione vi era legata. Fino all’insorgere, negli epigoni flaubertiani, dello psicologismo, la tentazione e poi la pretesa di costruire personaggi psicologicamente coerenti e autodeterminati. E man mano - accorciando il raggio e restringendo la prospettiva, dopo l’irrompere dell’io nella narrazione senza vergogna - all’io stesso, in una sorta di onanismo.

Pedofilia – Dopo il diario di Conh-Bendit quando era maestro in Germania e amava i bambini, vanno le memorie erotiche più o meno vere di donne in età, a volte insegnanti, del loro bisogno quasi compulsivo di farsi i ragazzi. Necessariamente puberi, ma non di tanto, li vogliono “innocenti”. Non come lettura d’evasione ma d’impegno. Viene il dubbio che la pedofilia resti sotto tiro, nella liberazione sessuale generale, perché ci sono di mezzo i preti non sposati, i preti cattolici – con le cause milionarie in America (molto “reale” negli Usa è opera degli avvocati a percentuale). Per anticlericalismo insomma. Anche tra i “ragazzi di vita” di Pasolini, che ormai vano per i settanta, si moltiplicano a Monteverde, nei gruppi di lettura, nelle auto edizioni e al caffè, i ricordi affettuosi. Anche di cose che non ci sono state – piace pensare Pasolini orco, come si flagella nel postumo “Petrolio”, incontinente, insaziato, prepotente.

Sovietismo – Fausta Garavini, studiosa di eccellenti frequentazioni, dal suo maestro Contini in giù, e sicura democratica, è stata boicottata una vita all’università per avere scritto un saggio su Brasillach – ottimo scrittore francese, nazionalista, fascista, nazista, antisemita, fucilato alla Liberazione, a 35 anni. Benché l’avesse scritto da francesista, parte di un programma di ricerca di Contini, e senza condiscendenze politiche. Non è stata espulsa perché accidentalmente un giorno finì  fotografata sulla prima pagina de “L’Humanité”, il giornale del partito Comunista Francese, a una manifestazione di sostegno ai minatori. “Mi trovavo lì perché quello che poi sarebbe diventato mio marito era uno scrttore (Robert Lafont) ma anche un sostenitore della loro causa”, si giustifica. Ancora oggi, a 75 anni e garantita dalla pensione, è traumatizzata. Con Michele Neri, che la intervista per “Sette”, non ha pace, anche nella quiete della sua casa a Fiesole, finche non trova il giustificativo

letterautore@antiit.eu

Simenon dumasiano - ma sessanta pagine sono meglio di seicento

Singolare coincidenza, di rileggere due libri dello steso autore sullo stesso argomento in sequenza. Singolare “prova bianco”, di un testo di seicento dense pagine confrontato con uno che racconta le stesse cose trent’anni più tardi in sessanta pagine spaziate. Quello scritto, questo dettato. Quello pieno di figure e punti di vista, questo diritto al punto. E tanto più vero, accattivante, memorabile: la “Lettera a mia madre” non è la decima parte di questo “Pedigree”, e tuttavia dice tanto di più. Il tema è il rapporto di Simenon con la madre, una persona infelice che rende infelici tutti.
Questo “Pedigree” è anche di lunghezza insolita per Simenon, scrittore sveltissimo. Messo giù in due grossi tomi durante la guerra, nel 1941 e nel 1942. Senza condiscendenza per i tedeschi occupanti – Simenon sarà sospetto di collaborazionismo. E per i pregiudizi, contro l’ebreo, contro il fiammingo, contro il ricco, contro il povero: i pregiudizi sono rappresentati vivi, e poi tranquillamente cassati. È anche un racconto storico o di costume: pullula, attorno all’amore-odio per la madre, di personaggi e situazioni non memorabili, nonni, zie, zii, cugine, cugini, messe., sacrestie, collegi, preti, amoretti in vacanza, ragazzine che sanno tutto e fanno tutto. Una rappresentazione minuta della “gente minuta” che Simenon dirà nella “Lettera alla madre” essere la sua, quella nella quale si riconosce, con orgoglio.
Lo stesso Simenon dirà il lungo racconto non simenoniano, nella prefazione all’edizione 1957: “«Pedigree» non è stato scritto nello stesso modo, è nelle stesse circostanze, né nelle stesse intenzioni degli altri miei romanzi, ed è senza dubbio per questo che costituisce un isolotto nella mia produzione”. È invece una forte prova narrativa, la prova del nove che Simenon si legge perché sa scrivere. Nel solco di Dumas – di cui si rappresenta cultore a 17 anni in un dei ritratti più gustosi, il libraio che odiava il suo giovane commesso perché s’intendeva di libri.   
Georges Simenon, Pedigree

lunedì 10 marzo 2014

Problemi di base - 172

spock

Dopo Renzi il vuoto?

Dopo Renzi il voto: per chi?

Renzi dopo D’Alema: chi tocca Berlusconi muore?

O sono le riforme tossiche?

È per questo che il Pd non le vuole?

È più vanitoso Francesco o Ratzinger?

È la fede un atto di superbia?

Un gesuita francescano?

spock@antiit.eu

L’Europa “tedesca” in trappola

Impossibile andare avanti, impossibile tornare indietro, ma lo status quo è insostenibile: Claus Offe non va oltre il senso comune nei titoletti del suo pamphlet, non ne ha bisogno. Risapute sono anche le vie d’uscita dall’impasse: la “mutualizzazione del debito su larga scala e a lungo termine”, e la riduzione del costo del lavoro in alcuni paesi per una maggiore competitività. Non così scontate, però, per il Toni Negri tedesco, teorico orfano del marxismo: non c’è più Europa perché non c’è stato mercato, questa in sintesi la constatazione da cui muove Offe. Con una singolare doppia connotazione sorprendente: non solo il rimedio, anche la critica di Offe è, forse senza saperlo, quella dell’Italia.
Perché l’Europa è in trappola? Perché, argomenta Offe, invece che dal mercato, e cioè da condizioni più o meno uguali per tutti, l’Europa si è fatta guidare dagli interessi nazionali, e quindi dagli interessi prevalenti. Che hanno trovato comodo erigere un Nord operoso contro un Sud parassitario, e su questa linea divisoria, “noi e loro”, hanno messo l’Europa in trappola. E quindi, dice Offe, loro stessi – non dice la Germania, ma si sa. Nel corral internazionale della finanza, e quindi del debito, “alcuni partecipanti al gioco, come la Germania”, convivono prosperando, “mentre altri stati subiscono gli svantaggi di esternalità negative fuori controllo, ossia l’effetto «rubamazzo» dovuto agli stati membri che sono riusciti a combinare alta produttività e moderazione salariale, basso costo del lavoro e forti surplus delle esportazioni”. Una guerra. Senza “i mezzi militari” di cui in passato c’era bisogno e si faceva sfoggio: ora non è più necessario. Oggi uno stato può avere rapporti assolutamente pacifici con un altro e tuttavia letteralmente possederlo , semplicemente appropriandosi della sua economia tramite un surplus commerciale permanente e annientare la sua sovranità privandolo (attraverso condizioni di salvataggio ad hoc o addirittura attraverso la giurisdizione europea) della propria autonomia di bilancio e di legislazione”. La Germania, si può aggiungere, è già padrone di metà dell’Europa dell’Est.
La sintesi è ineccepibile e chiara - rapida, esatta - della crisi europea, economica e politica. Compresa la inabilitazione della politica stessa, che si è spesa per il salvataggio delle banche, della finanza, cioè dei responsabili della crisi. Impegnando col debito pubblico le popolazioni vittime della crisi stessa. Per il salvataggio delle banche del Nord Europa, andrebbe aggiunto - questo Offe non lo dice, ma è mancanza minore. L’analisi è meno congruente sul nazionalismo montante - o populismo, come si è convenuto chiamarlo. Che avrebbe indotto la singolare incapacitazione politica dell’Europa, o almeno dei governanti e dei partiti che la politica mediano e organizzano. Offe sembra ritenerlo un dato, in parte un esito della crisi economica. “Il codice dominante è sempre nazione «vs.» nazione”: la rappresentazione è singolarmente cruda del nazionalismo che ha retto e regge la crisi, il «noi» e «loro». Non è un’opinione minoritaria dei movimenti di protesta – lo stesso Offe le dà un formidabile contributo con la paginetta 81: «loro» cioè la corruzione, l’evasione fiscale, l’incompetenza, le mafie, la giustizia politica. In realtà è un effetto della politica nazionalistica dei governi. Specie in Germania: difficile immaginare un’opinione tedesca antigreca (e antimediterranea, antilatina, perfino antitaliana), non fosse stato il “caso greco” costruito, letteralmente, da Weidmann, Schaüble e la stessa cancelliera Merkel, con insistenza, con durezza. Dopo aver salvato con la stessa determinazione, e con tutti i fondi disponibili della Ue e della Bce, senza se e senza ma, le banche fallite della galassia tedesca, in Germania, Austria, Belgio, Olanda.
Questo è importante sapere per divisare il dopo, cui Offe non sa pensare che in termini di “buon europeo”. Dice correttamente: “La via da seguire non può essere tracciata in base al principio TINA professato dalla Thatcher (e dalla Merkel): There is no alternative, non c’è alternativa”. Ma poi chiama a una “costruzione democratica delle istituzioni”. Chi? Gli stessi che le istituzioni democratiche europee, che esistevano, insieme con una robusta prassi, hanno corrotto. No, il sociologo politico non può non essere realistico. La salvezza può solo venire dalla Germania. Che non è così semplice come sembra, che l’Europa diventi “tedesca” – la Germania dopo la riunificazione è tornata continentale e pensa tedesco. Offe lo sa, quando prospetta la via d’uscita nelle “responsabilità condivise” e “correttive”: chi più ha beneficiato, “(grazie a tassi d’interesse più bassi e tassi di cambio esterno più favorevoli) degli errori commessi collettivamente”, più dovrebbe concorrere a rimettere in moto la barca, compensando gli squilibri. E su questo chi “la risposta è ovvia: la Germania”. Che non lo farà.  
Claus Offe, L’Europa in trappola. Riuscirà l’Ue a superare la crisi?, Il Mulino, pp. 102 € 10

domenica 9 marzo 2014

Il mondo com'è (165)

astolfo

Concilio – Se ne celebrano i cinquant’anni in gloria. Uno dei suoi protagonisti, Yves Congar, ne aveva opinione diversa. “Mon Journal du Concile”, l’opera che volle postuma, da pubblicarsi, prescrisse, “dopo il Duemila”, annota a maggio del 1964: “La Congregazione degli Studi (al Vaticano), con l’imbecille Pizzardo, Staffa e Romeo, è la concentrazione di cretini più caratterizzata”.
Il cardinale Pizzardo era contrario ai preti operai. Mons. Staffa, che Paolo VI farà cardinale dopo la chiusura del concilio, si ricorda per aver fatto erigere una cattedrale in nome di un nipote, e essersi fatto erigere un monumento funebre al modo delle grandi famiglie del Rinascimento. Di Romeo c’è solo uno, che sarà cardinale di Palermo, e non molto gradito allo stesso Giovanni Paolo II che l’aveva ordinato – ma all’epoca di Congar, se era lui, era stato da poco ordinato sacerdote.
Yves Congar era un cardinale francese, molto modernista, e molto influente nei lavori del Concilio, come consultore anche di molti cardinali, e redattore di molti testi (lui stesso ne fa l’elenco nel “Diario”). Redasse il diario in forma molto faziosa, per nulla conciliare. Ma, a distanza, più veritiero che polemico.

Eurasia – È la rivista di Claudio Mutti, anti-israeliano, ex gheddafiano. Propugna le idee di un forte filone politico della cultura russa, che fa capo al filosofo Aleksandr Dugin. Un’idea che è, o avrebbe dovuto essere, il pilastro della terza presidenza Putin. Il quale, subito dopo l’elezione, aveva anche indicato nel 2015 il decollo pratico dell’idea, con un’unione doganale con i paesi del Centro-Asia. In armonia con la Cina da un lato, e l’Unione Europea dall’altro.
Dugin, già animatore venticinque anni fa di un Fronte di Salvezza Nazionale contro il liberismo di Yeltsin, quindi collaboratore di Zjuganov per il nuovo partito Comunista, e infine, nel 1994, fondatore di un partito Nazional-Bolscevico con Limonov, ha posto la sede del suo movimento a Astana, la capitale del Kazakistan, che il padre della patria Nazarbayev ha proclamato la capitale dell’Eurasia.

Il fondo culturale è la comunanza di destino delle popolazioni europee con la “grande madre” Asia. Per una sensibilità umana e sociale che si vuole non mercantilistica – non americana, non occidentale (non “semitica”?).
Il progetto politico è sempre stato russo, poiché vede la Russia come perno della sua proiezione.
La teorizzazione geopolitica dell’Eurasia è invece anglosassone. Opera di Halford Mackinder, studioso britannico (1861-1947) e Nicholas John Spykman (1893-1943). Americano, sociologo studioso di Simmel, e geopolitico, Spykman viene citato nelle storie della guerra fredda come il teorico che consentì la politica di containment. Aggiornò la teoria di Mackinder, dell’Eurasia come  heartland o “isola mondo”, ponendo in rilievo invece l’accesso allo heartland, e cioè il rimland, o bordo esterno di confine, la fascia marittima che delimita l’“isola mondo”. Come zona di scontro e insieme di mediazione. Forte della sua superiorità tecnico-culturale, per una maggiore agilità e apertura mentale, e per maggiori contatti con l’esterno, rispetto allo heartland continentale.
Al termine della guerra fredda Spykman è stato riciclato a tutore di una diversa strategia mondiale. Che avrebbe dovuto vedere ora gli Usa impegnati nel rimland per contenere le spinte egemoniche continentali, della Germania, della Russia, della Cina. Quindi nel Mediterraneo, nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano.
Resta da chiedersi chi è Mackinder. Alla prossima.

Italiano – Un “tipo” molto ricercato, con innumerevoli esiti nell’“introvabile”. Mentre sarebbe – è – ben caratterizzabile. Vittima, in parte, della pregiudiziale antilatina, anticattolica, forte in Europa e in Occidente. Ma più della propria opinione, la politica compresa, insieme ai media (le narrazioni, i commenti, e le stesse cronache, che sempre sono scelte e “tagliate”). Introvabile, quando non perverso, è l’italiano per se stesso – per coloro che gli fanno da specchio. Un’opinione che non ha eguali in Europa per indigenza, nelle lingue e nei paesi conosciuti. Nel bene (volemose bene) e nel male. Negli stereotipi e nelle frasi fatte.
Commentando l’Oscar alla “Grande bellezza”, Sorrentino ha notato che solo in Italia è stato visto come un film della decadenza, dell’Italia, di Roma. Altrove dove è stato proiettato ha invece colpito per la comune delusione delle situazioni e dei personaggi, tutti della cultura o dello spettacolo, per la precarietà del successo, per il vuoto di un certo modo di essere. In Italia forse ha toccato un nervo scoperto, ma più come dato “caratteriale”, per la voglia di piangersi addosso, che per la situazione di fatto. Per virulenza antinazionale l’opinione italiana se la batte con l’opinione tedesca. La quale però è un gioco, non intacca il forte senso della nazionalità che i tedeschi mantengono, mentre in Italia è insidiosissima – e vuole esserlo, dietro la faciloneria e la scarsa applicazione. Di Bossi coe ora di Grillo.
Si vedano gli stereotipi e le frasi fatte. L’italiano è statalista (il “posto”), maschilista, sessualmente represso, evasore fiscale, prepotente, disobbediente. Mentre tutto il contrario si repertoria. Molta iniziativa, molta più che altrove. Una condizione in tutti i sensi dominante della donna, in casa e fuori casa. La concezione di fatto meno repressa e deviata del sesso. Di pazienza infinita con gli infiniti soprusi del fisco. Di pazienza infinita con gli infiniti soprusi sbirreschi
L’italiano ha uno Stato che non esprime e che lo tormenta. Ma questo non è a lui imputabile, bensì a chi l’ha fatto – l’ha costruito e lo impone, in buona misura per forza d’inerzia (autopropulsione). L’italiano è vittima di uno Stato indigente, e di un’opinione a esso conforme, piena di pregiudizi e idiozie. Il problema semmai è che l’italiano è troppo mite per liberarsene, come dovrebbe.

Moneta – Quella virtuale subito riporta alla magia. Ora, nel caso di bitcoin, la moneta virtuale divisata e lanciata da un nippoamericano di famiglia samurai, riservato e devoto, Satoshi Nakamoto. Come già la moneta virtuale dell’“economista” del Credito Sociale, il maggiore Douglas, e di Alfred Orage (che molto influì su Pound, il poeta). Col “bisogno” di lavorare meno, e il “salario di cittadinanza”, la distribuzione del reddito disponibile in base ai bisogni e non al profitto. Le teorie di base del Credito Sociale erano all’epoca, tra le due guerre, fulcro anche di un pilastro della scienza economica, “L’economia del benessere” di Pigou. Al maggiore Douglas si deve anche una disamina molto contemporanea della finanziarizzazione.
La ricerca di un’economia sostenibile non è di oggi, anche se velleitaria. Era un’utopia esoterica, quella di Douglas e Orage, confinante con Uspensky e Gurdjieff, anche se Keynes dovette occuparsene. Ne saranno influenzati Pound e l’economia dei “Cantos”, estetica e scientifica. Orage anticipò anche di un secolo l’Età dell’Acquario e il New Age, con la rivista ”The New Age”, che fondò nel 1909 e diresse fino di 1922, potendo contare sulla collaborazione di Chesterston, Hilaire Belloc, G.B.Shaw, Katherine Mansfield, H.G.Wells, Ezra Pound. Nel 1932 fondò un’altra rivista, “The New English Weekly”, che gli sopravviverà di sei anni dopo la morte nel 1934, fino alla guerra, ricca anch’essa di collaboratori di prim’ordine, T.S.Eliot, Dylan Thomas, Orwell, Lawrence Durrell, e Pound, che vi pubblicò oltre 180 “pezzi”. Orage pagava i collaboratori, anche bene, fu il primo traduttore di Nietzsche in inglese, introdusse Freud nella pubblicistica inglese, nel 1912, fu teorico, prima di aderire al Credito Sociale, del Guild Socialism, il socialismo corporativo – “The New Age” fu finanziata per questo da Shaw.

Politica estera – “La discussione sull’Ucraina è tutta sullo scontro. Ma sappiamo dove stiamo andando? Nella mia vita, ho visto quattro guerre iniziate con grande entusiasmo e sostengo pubblico, le quali tutte non sapevamo come finirle e da tre delle quali ci ritirammo unilateralmente. La prova di una politica è come finisce, non come comincia”. Henry A. Kissinger, “How the Ukraine Crisis ends”, “The Washington Post”, 5 marzo.

astolfo@antiit.eu

Fisco, appalti, abusi (46)

L’ultimo atto di Monti è stato di aumentare di sette punti le ritenute sulle partite Iva, dal 26 al 33 per cento.
Indipendentemente dal fatturato: chi guadagna mille e chi guadagna diecimila paga il 33 per cento.


Con le ritenute al 33 per cento, le partite Iva pagano l’Iva al 2i per cento, e un 12 percento alla Gestione Separata Inps. Sulla cui gestione non sanno nulla, se non che non ne ricaveranno nulla. I precari debbono contribuire al risanamento dell’Inps: è un finto contributo previdenziale, in realtà un’altra tassa.


Tra aziende (comunali, provinciali, regionali), fondazioni, consorzi, la Pubblica Amministrazione detiene partecipazioni in 7.712 organismi. Con una spesa – nel 212 – di 22,7 miliardi. Per quote, contributi, ripianamento perdite. Una spesa improduttiva per oltre la metà: il 64 per cento di questi organismi non erogano servizi (non, comunque, servizi d’interesse generale), mentre assorbono oltre la metà della spesa, 12,8 miliardi nel 2012.


Una spending review che abolisse queste “partecipazioni” improduttive e asociali risolverebbe i problemi di bilancio e dei riduzione del debito: un risparmio di 13 miliardi costituisce una “manovra” robusta e e dagli effetti continuativi.


La “partecipazioni” pubbliche sono il principale snodo del sottogoverno, più delle spese per i consiglieri regionali e provinciali. Sono per questo spesso concorrenziali nello stesso ente: sempre nel 2012 si sono contate 40 mila (esattamente:39.997) partecipazioni pubbliche nei 7.712 organismi censiti. Per il 62,7 per cento in società, il 34,5 in consorzi, e il 2,8 in fondazioni.