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sabato 4 giugno 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (288)

Giuseppe Leuzzi

Pino Aprile insiste: da un lustro, da “Terroni”, ha scoperto le tragedie dell’unità e non smette di denunciarle. Ora – “Carnefici” – parla di genocidio delle popolazioni meridionali. È la reazione del mite – non ce n’è più di Pino.
Il Sud è mite. Ha cattiva fama, ma è mite. Troppo. Per questo sbaglia quando s’arrabbia, sembra don Chisciotte.

Nell’ultimo Camilleri, “L’altro capo del filo”, Montalbano va al Nord come in terra incognita.  Un posto vicino Udine che s’inventa, Bellosguardo, ma remotissimo, confuso col ghiacciaio di Ötzi, al gelo, di lingua estranea. Vado “nella nebbia”, dice. Metaforico?

Severgnini, invitato sulla corazzata “Andrea Doria” a caccia di immigrati da salvare, scopre che alcuni ufficiali sono donne, e che quasi tutte sono donne del Sud. Che lo impressionano favorevolmente, con sua grande sorpresa. Questo  è il personaggio meno provinciale del “Corriere della sera”.

Corrado Zunino dice sulla “Repubblica” che la Calabria è la Colombia d’Italia, in fatto di cannabis. Specie nell’Aspromonte: “In Aspromonte si è creata una collaudata economia di scala”. Che non può essere vero: l’Aspromonte è una montagna molto frequentata, e nessuno vive di cannabis. Poi dà le cifre dei sequestri – che danno l’entità della produzione: irrisorie sul mercato. Ma dice una cosa giusta: “L’esplosione dei sequestri giudiziari del 2012 – oltre quattro milioni di piante – si è fortemente ridimensionata scendendo a 122 mila nel 2014 e collocandosi a quota 138 mila l’anno scorso”. Basta sradicare le piantagioni, che non sono inaccessibili.

Arrestateli tutti, subito!
Una proposta modesta non una modesta proposta. Seria insomma, benché non  conformista. Anzi  rivoluzionaria: prendere i mafiosi subito. Quelli che minacciano, perseguitano, rubano, sparano, incendiano, e trafficano droga e armi. Subito, appena cominciano, alla prima minaccia o pistolettata, in genere ai 17-18 anni. Quando sono anche spavaldi, non si nascondono e non si negano, e quindi sono sulla bocca di tutti. Che però non possono farsi giustizia da soli.
Si vogliono le mafie organizzate. E come tali ci vengono presentate, clan, famiglie, locali, ‘ndrine. Avvolte in una terminologia simbolica, rituale. E ordinate secondo statuti feudali, con divisioni territoriali e merceologiche. Non è vero, non è così. Siccome piace agli inquirenti, pazienza, ce lo facciamo piacere anche noi. Fatto sta però che, prima di congregarsi e giurare, i mafiosi sono conosciuti e indigesti a tutti, come canaglie.
Simboli e riti vengono elevati, nel caso della Calabria, a modelli elaborati di “giuramento” e di gerarchia. Con formule e modalità strambe (assurde). I mafiosi non ci tengono, figurarsi, e anzi ne ridono. Ma ci tengono i giudici, e quindi va bene così. I mafiosi che si conoscono se ne fregano delle immaginette e di Dio, processioni comprese. Ma sarà pure così: i giudici ci credono e noi pure.
Però. Se uno vuole soldi, un appalto, un posto, una qualsiasi soperchieria. E per questo minaccia, incendia, spara. Perché non si arresta subito? Perché non si intercetta subito, e subito dopo si rende innocuo? Perché il singolo, o l’amministratore pubblico, o il funzionario, privato o pubblico, che subisce una grassazione e la denuncia non viene protetto, con intercettazioni, pedinamenti, testimonianze incrociate, ma deve fare tutto da solo, denunciare, proteggersi e cercare le prove – che in Italia non può cercare, le intercettazioni sono proibite – delle violenze che subisce?
Lo stesso fuori dal Sud, dove i giudici stanno seminando ora le mafie.
Le mafie saranno oscure e gerarchizzate ma si manifestano, eccome, attraverso mafiosi in carne e ossa. Che obbediranno pure a oscure strategie e gerarchie, ma talvolta anche no. E sempre sono figuri identificati, per lo più giovinastri – come usava dire – irridenti. Più spesso che no nemmeno drogati: vogliono tutto e subito, sennò terrorizzano. Tutti lo sanno, i Carabinieri no.
Cioè, non è detto che non sappiano. I Carabinieri da tempo vivono in caserme recintate, invece che all’interno delle comunità che presidiano, come usavano. Comandati da ufficiali e sottufficiali giovani o giovanili, formati in apposite accademie e non più sul campo, nelle attività di indagine e contrasto. Che fanno un vangelo del “controllo del territorio” ma in questo senso: ragazzi in macchina senza patente, o in motorino senza casco, macchine non revisionate, e qualche assicurazione finta. Se li chiamate perché minacciati, vi guardano perplessi – indagatori?
Però, non è che non sappiano, perché in effetti producono bellissime monografie sulle famiglie mafiose. Con cronologie dettagliate di quanti e quali delitti hanno perpetrato. E tavole genealogiche plissettate, estese ai matrimoni e alle cuginanze di quarto grado. Con diramazioni in tutta Italia e all’estero - limitatamente alla Francia e all’Australia, dove le polizie locali fanno lo stesso (Usa, Canada e Sud America sono muti). In genere con patrimoni ingenti, per centinaia di milioni. Ma ne operano lo sradicamento quaranta o cinquant’anni dopo. Quando l’operazione è più difficile, i patrimoni illegali essendo ormai ramificati.
Le monografie quasi sempre sono precise, i Carabinieri hanno buoni informatori. Delle stesse famiglie mafiose, pentiti e non, oppure di famiglie rivali. Nonché decenni di intercettazioni. Forse per questo non intervengono prima, per poter compilare quelle ottime monografie. Ma è così, non intervenendo subito, che si è distrutto il Sud, il ceto intermedio o borghesia produttiva che lega l’economia e la società. Producendo la ricchezza e non bruciandola.
È così che la Repubblica delle monografie, di cui celebrano i settant’anni, sarà stata quella che ha moltiplicato le mafie, e le ha create dove non c’erano. Non per un difetto congenito, non è possibile – anche se “è roba della repubblica” è nei dialetti meridionali un free for all: chi può se ne approfitti.  Ma per non arrestare i delinquenti quando delinquono.
Non sarà che la Repubblica voglia alimentare un  saga meridionale all’insegna della violenza – tutte le saghe sono “poemi della forza” (Simone Weil)? Prima Cosa Nostra, poi la ‘Ndrangheta, ora Gomorra. Com’è on demand sui media e in tv. E quindi in un certo senso è provvida.
Oppure si può ipotizzare che li lasciano liberi, i Carabinieri, per recuperarli. Sono specialisti, i Carabinieri nella nuova veste, di recupero sociale. Poi, certo, se dopo una vita ancora perseverano, la giustizia interviene e fa il suo corso.
Ma, ogni tanto, arrestarne qualcuno non guasterebbe. Arrestarlo in flagrante. Anche per tenere in esercizio i Carabinieri.
Senza contare il grosso risparmio. Proprio contabile, di spesa pubblica: le monografie sono carissime. Nel senso del costo.

leuzzi@antiit.eu

Ciaone alla morte

Viene prima Ernesto Carbone, da Cosenza, o prima Guerrera? Forse viene prima la figlia di Carbone, che probabilmente frequenta il social di Guerrera, e quindi il problema dell’uovo e la gallina viene a un capo. Anche perché è irrilevante, malgrado tanti fingano scandalo – niente di male a irridere i perdenti delle trivelle: il libro di Guerrera era già stampato quando Carbone dixit, e la parola che fa male è da tempo nell’uso di Sabina Guzzanti e Emma Marrone tra i tanti.
Questa è la seconda raccolta, dopo “Mai ‘na gioia”, della pagina facebook “Se i quadri potessero parlare”. Lo dice “La morte sposa” di Thomas Cooper Gotch, e quindi si capisce che non piaccia. Ma il malocchio si disperde attraverso 80 quadri, un scelta raffinatissima, anche a far meno delle vignette dissacranti del romanesco esteta.
Stefano Guerrera, Ciaone, Bur, pp. 162, ill., ril. € 10,90 

venerdì 3 giugno 2016

La Sicilia alla scoperta della Spagna

“Secoli di dominazione, in Sicilia,: ma di libri spagnoli, nelle grandi biblioteche pubbliche e private dell’isola, pochissimi se ne trovano…. E tanta estraneità trova rispondenza in Spagna: non un solo spagnolo che, nei secoli in cui la Spagna ne fu padrona, abbia scritto un libro sulla Sicilia”. Né su Napoli, né su Milano, non c’è in Spagna l’analogo di Chabod. Sciascia no, dichiara anzi di avere “imparato tutto” nel 1938, o 1939, “la guerra di Spagna era da qualche mese finita”, sulle “Obras” di Ortega y Gasset, un volumone trovato su una bancarella, probabile preda di guerra di qualche “volontario” mussoliniano, col timbro di un circolo socialista di Saragozza. Ma lui steso poi non vi si è in alcun modo applicato.
Queste sono note di viaggio. Ma con riserva – sono le prime righe: “Il giusto viaggiare è quello di non conoscere, nei luoghi in cui si va, nessuna persona o pochissime; di non avere commendatizie da consegnare e appuntamenti cui consegnarsi; di non avere impegni che con se stessi”. Note turistiche. Gustose - infiorettate purtroppo dalle agudezas siciliane: Queipo de Llano che s’impadronisce di Siviglia, e dell’Andalusia, facendo girare vorticosamente, la notte della ribellione franchista, i pochi carri armati di cui disponeva per la città; il “diffuso lorchismo meridionale”, riscontrabile “in Quasimodo o in Mario Farinella”…
È il volume pubblicato nel 1989 da Natale Tedesco, con le foto di Ferdinando Scianna.
Leonardo Sciascia, Ore di Spagna, Contrasto, ill., ril., € 19,90 

La visita

L’attesa è sempre di oppressione, ma il dottore c’è all’orario, le visite procedono secondo gli appuntamenti, una ogni quarto d’ora. Vanno anzi più spedite, questa è l’impressione, si entra all’ora prevista dell’appuntamento, anche prima, la sala d’attesa sembra vasta tanto è vuota, con uno-due pazienti dell’altro dottore, che condivide lo studio, e chi si limita a ordinare o ritirare una ricetta
L’attesa, ogni volta che bisogna ricorrere al dottore di famiglia, è sempre di oppressione per un motivo: la tradizione è dura a morire. La stanzetta dell’attesa strapiena, quasi fumosa, di gente in piedi e in agitazione, vociante, rumorosa, di donne soprattutto che vanno di fretta e in qualche modo vi passano davanti, per i buoni  uffici di F., la segretaria tuttofare che dirige il traffico. Che anche voi vi ha fatto venire di straforo, “tra un appuntamento e l’altro”, ma inevitabilmente privilegia le conoscenze con cui ha confidenza, per sesso, età e pratica sociale, di linguaggio se non di mestiere. Ma questo è preistoria,
Ora sembra un altro mondo. I pazienti non siamo diminuiti. “Oh no, siete sempre in tanti”, sorride la segretaria: “Il dottor ha il massimo dei pazienti consentiti, purtroppo dobbiamo dirottare le nuove iscrizioni”. Forse ci ammaliamo di meno? Compriamo meno medicine? Sarà la crisi: spendiamo di meno, ci curiamo anche di meno. Il dottore non sembra convinto: “Le medicine le ordino io, non è che le ordino in base alla crisi!” E azzarda: “È un problema di linguaggio”.
Il dottore aveva ambizioni, mantiene gli interessi, gli piace divagare col paziente, immagino con ognuno secondo la sua specialità. Il fatto è semplice: F. era in età e andava sostituita. Al suo posto c’è ora, la mattina, la moglie dell’altro dottore, la sera una studentessa di medicina. Due persone che, per motivi diversi, hanno cognizione delle tipologie e le sigle degli accertamenti diagnostici, nonché dei medicinali caratteristici: con loro si parla breve. Possono così essere inflessibili sugli orari: hanno un’autorevolezza che dà fiducia e libera la sala d’attesa dalle ansie, che si concentrano su quella di passare per primi – è l’impazienza che trasforma le code in ingorghi.

giovedì 2 giugno 2016

Letture - 260

letterautore

Alice – Personaggio e racconto metafisico? Camilleri, grande lettore da bambino, l’ha vista sempre di un altro mondo: “Il romanzo di Carroll non è neppure un romanzo, è un trattato di metafisica”.
E non un racconto, dunque, fiabesco: un romanzo. Anche questa è da vedere.

Giornalista-scrittore – Figura contestata (“pubblicate solo romanzi di giornalisti”, lamentano gli editori tedeschi alle fiere), ma, si può dire, tradizionale. Dacché esiste il giornalismo, che si può riportare all’Enciclopedia, a Diderot su tutti. Incluso Voltaire, che scrisse molto sui casi del giorno, i libri, i personaggi. Vi si esercitò Stendhal, con varie corrispondenze, culturali e di viaggio. Poi Nerval, Baudelaire con costanza, Zola e tutti gli altri, fino a Proust. Ora Houellebecq, dopo gli eponimi contemporanei del genere, Camus e Sartre.
È tradizione francese. Più spesso elevata a esercizio filosofico – il genere che ora pratica il francesista Scalfari: da Diderot e Voltaire a Camus e Sartre, appunto, e ai “nuovi filosofi”, fino a Houellebecq. Dostoevskij, Tolsòj, Thomas Mann, che pure soffrirono molto dell’attualità e l’hanno in vario modo romanzata, non hanno fatto i giornalisti. Né gli americani, che pure sono scrittori che tipicamente vivono del mercato: il mercato è talmente ampio che consente loro di vivere come scrittori, dei diritti d’autore, senza il bisogno alimentare di fare giornalismo.
Ma più che di mercato, è un fatto di passione politica. Del fatto pubblico vissuto come passione, personale, alta. È il caso dell’Inghilterra, di uno scrittore come Orwell. Non degli anglo-indiani. Sì degli anglo-africani, e anglo-caraibici: i neri vivono l’inglese come arma di combattimento.

Goethe – Si celebrano i duecento anni del “Viaggio in Italia”, libro ripensato, pubblicato a trent’anni dal viaggio vero, intrapreso nel 1786 alla soglia dei quarant’anni, e tuttavia sempre fresco: “giovanile”, come di scoperta. Perché non è tanto una guida, ma la fioritura giovanile, benché tardiva, di una personalità O della personalità come scelta (formazione).

Guerra – Quindici “grandi opere” del “Corriere della sera” sulla grande guerra, da Lussu a Jünger, senza il più sincero e veritiero, a suo modo nuovo anche, di tutti, il Corrado Tumiati di “Zaino di sanità”. Un medico scrittore che fu tra l’altro apprezzato collaboratore e dirigente del “Corriere della sera”.
Riedita cinque anni fa dall’editore Gaspari di Udine,  la raccolta è un piccolo capolavoro e quasi un inedito: del genere la guerra come non l’avete mai vista.
Manca pure Hemingway, la sconcertante cronaca di Caporetto. La guerra si vuole già celebrata, mentre c’è tanto ancora da (ri)scoprire: la sua ordinaria crudeltà. Soprattutto degli ufficiali superiori e generali.

Rifiuto –  Si fa grande caso dell’integrale della lettera di rifiuto di T.S.Eliot a George Orwell per “La fattoria degli animali”, messa in rete dalla British Library e ripresa dal “Guardian”. Un inno di gloria: “Qualcosa in cui pochissimi autori sono riusciti dopo Gulliver”. Il rifiuto, il 13 luglio 1944, era motivato dall’opportunità di non insolentire un alleato nella guerra contro Hitler nel momento decisivo. Tanto più, aggiungeva Eliot sornione, che “i tuoi animali sono molto più intelligenti degli altri animali, e quindi i più qualificati a gestire la Fattoria – di fato, non ci potrebbe essere stata nessuna Fattoria degli Animali senza di loro”.
E che c’è da obiettare al rifiuto di Virginia Woolf – altra pubblicazione della British Library - del primo “Ulisse” di Joyce perché “troppo lungo”? Benché fosse meno della metà dell’“Ulisse  definitivo.
Il rifiuto redazionale che dovrebbe fare statistica è quello anonimo, come è l’uso. Quello motivato è sempre positivo: un segno di rispetto..

Scrivere – Divide più che unire, e anzi isola. Un tempo gli scrittori si conoscevano e gradivano frequentarsi, entusiasti o critici che fossero. Non un tempo remoto, ancora negli anni 1969, 1970, se ne incontravano tavolate ai caffè in piazza Navona o piazza del Pantheon a Roma. Ora, probabilmente, nessuno legge più, non le opere dei conoscenti, e tutti si evitano, quando non si demoliscono. Eccetto le compagnie di scuola, di scrittura. Forzatamente piccole, e come in ogni scuola imbevute di preconcetti – falsi teoremi.
La pratica veniva allora risentita come elitistica, e anzi di (piccolo) potere. Ma comunicava, anche a chi ne era escluso, un senso di identità. Di cui ora, dopo che si è voluto dissolverla, è forte la mancanza – la congrega degli idraulici si sentirà più al coperto, se non altro dal mestiere? 

Shakespeare –  È il primo, uno dei primi, autori à la page, al gusto del pubblico. Scrive i nove drammi storici, di seguito e in fretta, con contributi anche di coautori, nei patriottici anni 1590. Sugli eroici sovrani del Tre-Quatroceno: Eduardo III, tra Scozia e Francia a metà Trecento, il principe Nero figlio di Edoardo III, Riccardo II, fratello minore del Principe Nero, vittima della congiura dei nobili a fine Trecento,  Enrico IV, l’usurpatore di Riccardo II, tra i rimorsi e il progetto di penitenza in Terrasanta, Enrico V, il conquistatore della Francia a Azincourt, Enrico VI, il successore, sfidato da Giovanna d’Arco. Inframezzati da commedie giocose, come è ancora l’uso nelle stagioni teatrali.
Si faceva teatro in Inghilterra allora come l’industria del cinema a Hollywood, con attenzione al pubblico.
Nella terza decade, forse con l’età, a partire da “Amleto”, 1600, i grandi temi quasi metafisici: “Otello”, “Lear”, “Macbeth”, infine “La tempesta”. E la storia classica rivisitata: “Antonio e Cleopatra, “Coriolano”, “Timone”, “Pericle”.

Sherlock Holmes – È calco, se non copia, di Dupin, è noto. Watson, si po’ aggiungere, è Poe stesso, che si finge coinquilino di Dupin, e quindi lo controlla senza tutti le spiegazioni cui deve riscorrere l’amico assente-onnipresente di Sherlock. In più, Sherlock Holmes ha il vezzo Fine Secolo delle droghe. Ma ne è tutto un remake: le eccentricità, che in Poe erano personali e anche caratteriali, in Conan Doyle sono un modo d’essere quasi ininfluente. Le paure idem. C’è l’affettazione della copia.
Identico il meccanismo cerebrale, induttivo-deduttivo. Un codice che Umberto Eco ha tentato più volte e a lungo di decrittare ma non ha decifrato, anzi ha agghiommerato. Baudelaire ne sapeva di più, che disse Dupin “congetturale e probabilistico”. Più adatto all’inafferrabile stocastica che alla semiologia, o allora a una di invenzione.
Però è personaggio immortale, mentre Dupin è per lettori particolari. Il personaggio immortale è stato creato da Conan Doyle. Un medico di scarso occhio clinico, uno che finirà per vedere i fantasmi, dopo una vita di corrispondente stolido dei quotidiani, per cause anche onorevoli, qualche volta.

letterautore@antiit.eu

Il selfie tutto sesso

Alice in salsa sadiana. Col graal dei tanti “Codice da Vinci” in chiave porno. L’elezione di un presidente americano si prepara così – e il sospetto sembra oggi vero.
Un libro ambizioso. Anche per le fortune della casa editrice, un spin-off Rizzoli, che ha tenuto a battesimo, con Odifreddi e Serena Dandini. E per l’obiettivo dichiarato di fare il Frank Harris al femminile: un selfie tutto sesso, e un prontuario di pratiche erotiche che si vorrebbero immaginarie, come suole – soleva – coi libri pornografici. Con molte scene ricavate dai migliori film, da cinefilia di gusto: di genere - “Bella di giorno” soprattutto, “Ultimo Tango a Parigi”, “Eyes wide shut” - e non - “Citizen Kane” soprattutto, per il doppio senso che si vuole giocato sulla vera Rosebud del vero “Citizen”, William Randolph Hearst, e tanti altri, Argento, Leone, “The Italian Job”. Non fosse che il nome dell’autrice, Sasha Grey, riempie internet di sesso interminabile, poco immaginario, dei tempi, dice, in cui “era una delle stelle di maggior successo dell’industria porno di Hollywood”. E “internet è per sempre”, decreta la stessa autrice.
Nume della narrazione, invidiata, è Kim Kardashian, la Belèn americana protagonista del matrimonio show due anni fa al Forte Belvedere a Firenze. Che prospera borderline del porno, ma per essere appunto sfuggita all’“industria porno”.
Non manca, come di consueto ultimamente in America, la teoria compositiva o scritturale. Molto filosofica, da scuola di scrittura. Con le ultime frasi di rito: “La vita non è che una serie di nodi da sciogliere”, etc.
Una sola curiosità l’autrice lascia inappagata, e questa effettivamente mozzafiato. Se “ha lasciato”, come dice. “l’industria cinematografica per adulti” a 21 anni, come ha fatto in tre anni, dai 18 ai 21, a prodursi infaticabile, sorridente sempre e bavosa, in tutti quei suoi filmati per adulti che ingolfano la rete, non dormiva la notte?
Sasha Grey, The Juliette Society, Rizzoli Controtempo, pp. 282 € 15

mercoledì 1 giugno 2016

La verità dei magnati

Inter e Milan passano ai cinesi. Che vengono chiamati magnati ma sono affaristi: comprano per rivendere. L’indonesiano Thohir, che aveva rilevato l’80 per cento dell’Inter da Moratti tre anni fa, ne vende il 50 per cento, per 375 milioni, con una plusvalenza di 100 milioni, anche se l’Inter non ha vinto nulla in questi tre anni e sia anzi entrata in default finanziario. L’ex patron Moratti vende ai cinesi il suo residuo 20 per cento per 157 milioni, di cui 100 netti.
Analoga operazione sta tentando da un anno Berlusconi per il Milan, sempre con affaristi cinesi. Dapprima tramite un fantasioso intermediario (forse) thailandese, ora direttamente on gli acquirenti. Una trattativa a cui pone sempre nuovi paletti, ma col solo obiettivo d’incassare almeno 400 milioni al netto dei debiti e altre pendenze– l’Inter è stata valutata 750 milioni, il Milan non può valere meno.
Alla fine né Moratti né Berlusconi ci avranno rimesso, pur avendo beneficato enormemente, per vent’anni l’uno e per trent’anni l’altro, della popolarità e anche della passione legata ai due club. Il 15 ottobre 2013, cedendo la maggioranza dell’Inter a Thohir, per una valutazione complessiva di 400 milioni, Moratti aveva incassato 250 milioni, quasi tutti al netto, poiché i debiti restavano in capo alla società. Il disimpegno dei “magnati” italiani è cominciato con la restrizione imposte dalle Entrate, alla comodità di considerare i club delle bare fiscali, portandone le perdite a sgravio delle tasse: i club venivano finanziati dal fisco, dai cittadini.

Il calcio è fiscale, con interessi

La valutazione di 750 milioni per l’Inter di oggi è sopravalutata rispetto a quella del 2013. È più o meno il doppio, senza che nessun indice di redditività in questi tre anni sia migliorato, anzi. Allora il club era al top, reduce dal triplete, anche se con tropi debiti. Oggi i debiti sono quasi raddoppiati e senza titoli. Ma non c’è valore di mercato, ci sono valutazioni: calcoli che dipendono solo in parte dallo stato patrimoniale e di brand di un’azienda.
Molti investimenti cinesi all’estero, anche in perdita, sono favoriti dal fisco di Pechino. Dove il  governo favorisce in tutti i modi l’espansione del brand Cina. Per motivi economici e anche politici, d’influenza.  Tra questi c’è la promozione nella stessa Cina del calcio come disciplina sportiva. Anche all’interno, i club esistenti sono stati incoraggiati fiscalmente a spendere molto per creare squadre presto competitive a livello internazionale.
Un’altra fonte di rientro di questi investimenti apparentemente eccessivi è il finanziamento del debito. Thohir, oltre alla notevole plusvalenza di oggi, ha incassato nei tre anni un comodo 8 per cento come interesse sui debiti dell’Inter con le sue fiduciarie.

L’Africa è immaginazione

Il romanzesco c’è. Non sembra, la vicenda è di un mal di denti e della ricerca di un dentista. O dell’amore breve di un ingegnere di leva e un’indigena, sui toni del “mal d’Africa”. Scritta in venti giorni, secondo la “mitologia flaianea” (Sergio Pautasso), su pressione di Leo Longanesi, per vincere lo Strega 1947. Invece si rilegge come un quasi capolavoro, come ogni cosa del dispersivo battutista.
È il quadro di una gioventù senza spessore, quella dei ventenni degli anni 1930, che nemmeno in Africa e nemmeno in guerra esce dal torpore: non si entusiasma, e non si ribella, non chiede perché non ha interesse a capire. E probabilmente ha ragione Spadolini, in un ricordo di Flaiano su “La Stampa” il 26 agosto 1986, a dirlo “l’unico libro d’autore” di Flaiano, se non altro perché l’unico da lui “licenziato come opera definitiva, ne varietur”.    
Originale anche la lettura dell’Africa. Niente in realtà da spartire col “mal d’Africa”, cioè godersi le indigene remissive, alla Montanelli. O meglio sì: lei è una Mariam tra le tante - “(tutte si chiamano Mariam, quaggiù)” - e le “ragazze indigene” sono “semplici come colombe, dolci, disinteressate, incluse nella natura; non restava che coglierle”. Ma è la critica del “mal d’Africa”, di commilitoni e compatrioti che vivono l’Africa come “lo sgabuzzino delle porcherie”. Questa Mariam fra le tante è per l’autore-milite molto più che un nome e un oggetto. Di “profonda bellezza nel sonno”, che dorme come l’Africa: “Dormiva, proprio come l’Africa, il sonno caldo e greve della decadenza, il sonno dei grandi imperi mancati che non sorgeranno finché il «signore» non sarà sfinito dalla sua stessa immaginazione”.
Il colonialismo, una storia ora trascurata, raramente è stato definito con tanto spessore. Non dai Montanelli o Malaparte, che la stessa guerra di Flaiano avevano fatto come osservatori speciali. L’Africa è anche la paura , la paura della lebbra. E la libertà di uccidere, ma in colpa: “L’imperialismo, come la lebbra, si cura con la morte”.
“Ciao Africa” è il saluto del giovane di leva che rientra.
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Bur, pp. 312 € 10,50

martedì 31 maggio 2016

Secondi pensieri - 264

zeulig

Caratteri originari – Un misto d’innatismo e d’esperienza passiva che si rivela una gabbia anche nelle vite più rivoltate. È la potenza della funzione pedagogica, passiva – “oggettiva” – più che attiva. Dicono che i polli, o l’anatra, se attorno gli si disegna un cerchio, si mettono a sbattere le ali e starnazzare, impietriti, incapaci di uscire dalla curva. Per gli esseri umani la curva non è così decisiva, ma c’è e pesa. Si possono fare le esperienze più remote o rivoluzionarie, ma qualcosa del pre-natale, natale e post-natale peserà sempre. L’uomo nasce “imparato”, più che ricercatore.

Costanza – Kant non la vuole dote umana, che beffardo nota (“La fine di tutte le cose”): “Poveri mortali, nulla in voi è costante fuorché l’incostanza”. È per questo in armonia coi tempi – oggi come prima, come sempre. Ma era personale testimone dell’opposto, la metodicità è costanza.
Era virtù peraltro fino a non molto tempo fa apprezzata, e più all’epoca di Kant. Fondamento di lealtà e verità, che anch’esse si apprezzavano. E tutt’oggi, che la novità, varietà, flessibilità, la novità in genere e l’adattabilità, si premiano, non è irrisa – perlomeno, si cita con riverenza.
Da non confondere con la coerenza, che invece si spregia. La coerenza è delle idee, la costanza della volontà.

Freud-Kinsey – A leggerli fuori contesto sono “vecchi” pervertiti, con bizzarre (pervertite) idee sulla sessualità femminile. Complesso di castrazione? Invidia del pene? Gli stimoli erotici, visivi, tattili, sono diversi per l’uomo e la donna?

Identità – Svanisce con la morte dell’io. Lasciando esperienze frantumate, testine ritte ma idiote, confuse benché appassionate - l’Io Misirizzi di Moravia. Si riprende il filo, si snoda, ricostituendo le personalità slegate, ormai esangui, di cui restano echi nelle incertezze, le ansie, le cadute degli ideali e gli ideali della caduta. Roba per i romanzi, il frillo dell’insolvenza.
Si è frantumato l’io abbattendone il piedistallo: l’identità di gruppo, degli studi, degli ideali. Perché si pensava finita la paura, e anche per i contraccolpi dell’io liberato. Un errore di manovra, ma elaborato e insistito.

Male A volte lo crea il bene, e allora è imbattibile.
In questo senso va la creazione del diavolo.

Ragione – Deve saper essere irragionevole.
“La ragione ha anche i suoi misteri”, Kant, “La fine di tutte le cose”.

Scandalo – È evangelico, ma è velenoso più che benefico. È un’arma. Solitamente anonima, e dunque per fini inconfessabili. Con effetti collaterali sempre vasti, anche quando è mirato a un obiettivo preciso e delimitato. Il male necessita un’azione chirurgica: punitiva ma con puntamento preciso.
Lo scandalo diffonde il senso e la invadenza del male. E a questo è anche inteso.

Sincerità – Non c’è dopo Freud. C’era prima? Sì, come atto di volontà: si vuole essere sinceri – dire quello che si pensa, che si fa, che si vorrebbe fare.

Non è il contrario della bugia – quella sarebbe la verità – ma una rispondenza tra il dentro e il fuori, la cancellazione della riserva mentale. È una buona cosa?

Stupidità - Si riproduce per inarrestabile partenogenesi, come la farsa. Di teste semplici. O di teste vuote che s’immaginano di accelerare la storia, o disporla a loro capriccio. Come il bisogno di possedere due automobili.

Subcosciente - Albertazzi, attore non tormentato, disinvolto anzi e solare, aveva un omicidio alle spalle. Quasi – ma è peggio: l’esecuzione di una recluta diciottenne di Salò, riconosciuto disertore e fucilato dopo un “processo” sommario del suo comandante. Del comandante di Albertazzi, non della recluta presunto disertore. Albertazzi, sottotenente, comandò il plotone di esecuzione, e sparò al ragazzo il “colpo di grazia”, il colpo di pistola alla testa ravvicinato, dopo che il tenente si era rifiutato, in base ai regolamenti militari (“Nella sua qualità di soldato, il diciottenne doveva essere rinviato al suo reparto e giudicato da un Tribunale militare”). Si può uccidere senza motivo. Si può vivere senza rimorsi, senza subcosciente.
Senza rimozione anche. “Di cosa dovrei pentirmi?”, diceva Albertazzi: “Non amo il pentimento. Sentimento cattolico che disprezzo”. Ma il pentimento rifiutato era per l’arruolamento volontario nelle truppe di Mussolini, non per l’esecuzione. Per l’opportunità politica -  il tardo mussolinismo, mentre c’era una Resistenza in atto.

Virtù – Non è compartibile perché non è scienza. Ci sono persone virtuose di cui non si conoscono maestri né allievi, mentre si può essere cattivi senza ragione.
Lo stesso Aristotele ne converrebbe, lui che stabilì che “una rondine non fa primavera”: non basta un atto giusto, un gesto, un detto, neppure dieci insieme, non fanno gruppo né scuola.

Gli animali, ce ne sono di buoni di e cattivi, con e senza la coscienza, ma ci sono strumenti per riconoscerli e migliorarli. Per gli uomini, invece, non c’è scuola né natura che valga a riscattarli - secondo Socrate ciò avviene solo per grazia divina. La virtù, la salvezza, anche il sacrificio, non s’insegnano, e quindi non s’imparano. Solo i tartari selvaggi andavano a caccia degli uomini più notevoli per assorbirne, uccidendoli, le virtù.
Per i sofisti ci sono tante virtù quante sono le specie: c’è una virtù per gli uomini, un’altra per le donne, una per i bambini, una per gli adulti. Una moltiplicazione che la psicologia non vorrebbe delimitare.

zeulig@antiit.eu

I riformatori bolliti

Si sono eletti a vestali della Costituzione, Zagrebelsky, De Siervo & co., vecchi democristiani,  gente di malafede spessa. Non sarebbe uno scandalo – se non forse per il sostegno sparato di “Repubblica”, che De Benedetti già con Scalfari ha voluto pilastro della ex sinistra di Base, la più ambigua e corrotta delle Dc. Ma con la ditta Zagrebelsky-De Siervo si accomunano riformatori di una vita, e questo sconcerta. Anche perché si schierano senza motivo – l’antirenzismo non è un motivo.
Che pensarne? Zagrebelsky, come ogni buon democristiano, riformatore non è mai stato. Era un giudice costituzionale di Scalfaro che ha molto demeritato. Per esempio in materia di fondazioni ex bancarie, le padrone del terzo settore, che ha impedito da giudice di depoliticizzare, dall’eredità democristiana e di sacrestia. Dei riformatori di una vita si può solo ipotizzarli ipnotizzati in vecchiaia, anziché dalla saggezza, dal protagonismo da talk-show, da intervista, da Padre Contestatore. Tutti si vogliono infatti presidenti della Repubblica in petto.
Si chiede il no per nessun motivo specifico: questo è il problema. Giusto per fare casino. È ineguagliabile, ma nel senso della gagliofferia, l’intervista robusta di Zagrebelsky a “Repubblica” l’altra settimana, il primo firmatario del no: due pagine senza un solo argomento, tutte furbizia. Senza, anche, una sola contestazione dell’intervistatore – l’ex direttore Mauro, non un pivello.

Lo scandalo degli scandali

Grande scandalo in tutta Italia perché i passanti a Roma hanno visto una ragazza bruciare e non sono intervenuti. I passanti potevano salvare la ragazza. Alcuni si sono fermati per guardare ma non sono intervenuti. Etc., tutte le elucubrazioni del caso. Spreco di pagine e di prefiche – per lo più prefichi. Con tutti i precedenti dell’imbarbarimento italico, spruzzi di sociologia del Millennio, richiami di antropologia: virtuismo sfrenato.
Mentre la verità è che “i passanti” erano due ragazzi in scooter. Che non hanno visto una ragazza in fiamme ma solo due che litigavano. E la mattina dopo, saputo dell’assassinio, sono andati spontaneamente a denunciare quello che avevano visto.
Ma la notizia non era infondata. L’ha data la giudice del caso, Maria Monteleone. A che fine? Tanto per dire una cosa? Ma è vero che non c’è valore che non sia epidermico – virale: non si apprezza altro. Meglio se infame.

Sesso al posto dei pasti

“Signore, pensavo, perché non ritorni da noi?”, prega alla fine il signor Bianchi il Signore dei Vangeli. L’Ultima Cena fu una cena, non per nulla il Signore disse: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo”. Perché si tratta di poter mangiare, in un’epoca di proibizionismo. Il sesso è libero, e anzi imposto, tre volte al giorno, con caffè e stuzzichini vari nel mezzo, in mancanza di meglio per autoerotismo, il tabù è il cibo, il semolino domestico, la bistecca in appositi lupanari. Avviene in un’epoca imprecisata, magari oggi, il signor Bianchi è uno di noi. Anzi senz’altro oggi, nel racconto del titolo: solo a tabù rovesciati.  
Sei prose dell’ultima collettanea pubblicata di Bianciardi, postumo, che risale a venticinque anni fa. Un autore poi dimenticato. Esemplari delle due chiavi dello scrittore maremmano: l’irrisione, alla Boris Vian, sociale e insieme surreale, e il paese.
Il protagonista del primo racconto, che si chiama “il Chelli”, rimanda, involontariamente?, a Gaetano Carlo Chelli, l’autore de “L’eredità Ferramonti”. Lo scrittore toscano che traghettò nel secondo Ottocento il genere locale - fino a Pea, Viani, etc, anni 1930 - del bozzettismo. Verso le due punte di metà Novecento: Cassola, compiaciuto, e Bianciardi,  irriguardoso. Riconosciuta la prima, benché fra contrasti, trascurata e dispersa la seconda. In tono col personaggio, che peraltro ebbe vita creativa breve.
La chiave prorompente è ironica. Il racconto del titolo mima il proibizionismo alimentare, partendo dalla “fiorentina” da bisca, da casa chiusa. Non per preveggenza – oggi il culto culinario si appaia a numerose interdizioni – ma per un rovesciamento sarcastico: sesso libero, proibizionismo alimentare. Una satira del permissivismo\proibizionismo. Sferzante col vizio intellettuale delle mode, e con le mode stesse. Culmine il dibattito serale all’Umanitaria di Milano, come sempre “promosso da Umberto Eco”, “a livello marxiano-adorniano-weiliano”.
L’ultimo racconto, “Il peripatetico”, è di un promotore della contraccezione, difensore della legge Merlin, che è padre di quattro figli, di cui non si occupa, perché deve “andare a puttane”. E ne fa l’inventario, in ogni sua forma. La parabola dell’uomo, si direbbe oggi, della società civile.
Luciano Bianciardi, La solita zuppa e altre storie, Il Sole 24 Ore, pp. 78 € 0,50 

lunedì 30 maggio 2016

Obama non cancella i torti

L’ultimo anno di presidenza Obama lo avrà dedicato al recupero dei torti: Cuba, Vietnam, Bomba atomica, in parte anche l’Iran. Il progetto è chiaro, l’esito minimo: la pacificazione è nei fatti ma non negli animi. In parte, forse, per l’incapacità di Obama di comunicare: il presidente della rete è un freddo. Non è un demagogo, e questo è ottimo, ma non eccita gli animi nemmeno per il bene.
Sicuramente, il mancato effetto “storico” dei suoi atti di riconciliazione è dovuto alla prudenza diplomatica che ha accettato di praticare – se non ha deciso lui stesso di praticarla. I papi, che hanno inaugurato questo genere di diplomazia, hanno riconosciuto i torti della chiesa, gli Usa no. Da qui l’insoddisfazione dei molti, soprattutto nei paesi vittime. Mentre l’effetto è stato nullo sull’opinione negli Usa, in questi stessi mesi probabilmente più sciovinista che mai.

Ombre - 318

L’esercito iracheno ha fatto 60 km. in un giorno – record per i cingolati – e ha “conquistato” Falluja, l’imprendibile – vi s’è installato. Perché non c’è stata finora guerra contro l’Is: non c’è guerra tra e aerei, cannoni e carri armati da una parte, e cavalieri in pick-up dall’altra, seppure con la scimitarra. La verità è che l’Is eravamo noi: ci faceva comodo, finché non è si è rivoltato contro.
Putin in Siria forse non ha vinto niente, ma ha detto che il re è nudo.

Renzi sempre più Mandrake, non se ne perde una. Di ritorno da Tokyo, tredici ore di volo, tutta la notte di venerdì e oltre, sabato mattina è a Venezia, per inaugurare la Biennale, il pomeriggio a Favazzina sullo Stretto, per inaugurare un cavo della luce con la Sicilia, e nel mezzo a Trieste – un percorso più lungo, il Venezia-Trieste, che il Trieste-Reggio Calabria. Più un’intervista di due pagine, un’ora abbondante, con “Avvenire”. Ma dappertutto si è visto poco, eccetto che sui media. Non è che è predente solo in immagine?

Il direttore degli Uffizi fa invitare i turisti in coda alla biglietteria a diffidare dei bagarini. Pronti i vigili urbani di Firenze lo multano: non ha il permesso del Comune per dare l’avviso.  Trecento euro di multa. I bagarini evidentemente pagano di più.
La Toscana è propria esosa, terra di banditi di passo.

Il cortile esterno degli Uffizi e la stessa piazza della Signoria sono invasi, otre che dai bagarini, da ambulanti di ogni specie e artisti di strada. Per loro i vigili urbani non ci sono. Perché non hanno da pagare. Una città di “cravattari”?

“L’elezione della prima donna, nera e mussulmana, alla presidenza della National Union of Students” inglese, un successo del multiculturalismo, inciampa nel radicalismo della  neo eletta, anti-Israele e filo palestinese, riferisce deluso Enrico Franceschini sul “Venerdì di Repubblica”. La “prima donna, nera e mussulmana” è Malia Bouattia, “originaria dell’Algeria”. Lo sapessero in Algeria che “Repubblica” li considera neri…

In morte di mons. Capovilla, a 100 anni, si scopre che “ebbe la porpora solo nel 2014”, a 98 compiuti. In articulo mortis? Anche papa Bergoglio ogni tanto scherza.

Enrico Ioculano che lascia il Pd perché il partito non lo sostiene nell’emergenza profughi a Ventimiglia, la città di cui è sindaco, non si illude? C’è un partito Democratico? Un’organizzazione, una direzione.

Ioculano stesso, che fa appello al partito come al principio di autorità, non  è egli stesso espressione di questo partito “liquido” – informe?

La critica di Saviano a Renzi pe l’accordo con Verdini fa la “prima” politica di “Repubblica”. Ruolo preminente dell’intellettuale nella politica? Piacerebbe crederlo – un premio. Ma non è piuttosto irrilevanza degli argomenti politici a sinistra, e nella sinistra, di cui il giornale si vuole l’anima?

Saviano distingue, dal’altro lato della prima di “Repubblica”  fra corruzione e corruzione percepita. Quale paese pensereste più corrotto, chiede? Il Messico?L’Africa? Il Medio Oriente? L’Italia? No, è l’Inghilterra, Per una corruzione “consustanziale al sistema economico”. Come l’ostia? “Il sistema economico inglese si alimenta di corruzione”.

Sprofonda un lungarno a Firenze, allagato dall’acqua dell’acquedotto. Titola “la Repubblica”: “Le città d’Italia abbandonate”. Da chi, da Dio? Chiudere il rubinetto dell’acqua no, che veniva fuori come un torrente – normalmente basta una telefonata?

Sempre in tema, “la Repubblica” documenta con una serie di foto le voragini che si sono aperte nei marciapiedi. Sei in quindici ani. Sono troppe?

Dire che il sistema idrico è un colabrodo, no? Che gli acquedotti rimontano al “ventennio”. Che l’acqua pubblica è uno degli strumenti più diffusi di corruzione.
Questo non si po’ dire perché l’acqua è pubblica per unzione divina, si son fati referendum per affermare questa origine. Poi dice che la corruzione è troppa.

Bianca Berlinguer difende il padre Enrico contro “l’Unità”. Confinata alla rubrica delle lettere. Come Pietro Mancini, che a ogni evento evoca il padre Giacomo, e lo pubblicano, ma nelle lettere. Insistono per esercitare la memoria? Non ne esce bene, i direttori che li confinano lo sanno. Per masochismo, allora? E perché i figli sarebbero inconsolabili?

L’Eritrea è diventata indipendente giuridicamente con le carte italiane, dell’occupazione. Jugulata da allora dal solito ras, all’origine sovietizzante, della guerra d’indipendenza. Ma con uno strano rispetto dei resti dell’Italia, che ormai risalgono a tre quarti di secolo fa – mentre altrove, in Somalia, in Etiopia e nella stessa Libia, sono stati picconati, con grande spreco di energie.
La storia è a volte strana. Ma per saperlo bisogna andare a vedere la mostra di Toby Binder.
Tanti gli inviati, ma l’Italia scopre l’Eritrea con Binder, fotografo tedesco.

Il primo a prendere la parola contro il referendum di Renzi è Ugo De Siervo, un costituzionalista fra i tanti, che si fa forte della qualifica di ex presidente della corte Costituzionale. La cui figlia Lucia è invece renziana doc, insieme col marito Filippo Vannoni, e per questo al top del Comune di Firenze, lei dirigente, lui presidente di Publiacqua, la società idrica consortile di mezza Toscana.
Padri e figli hanno libertà di professione politica, e non è detto che facciano carriera per motivi politici – in questo caso sì. Ma un po’ di discrezione? 

Il segreto di Montalbano rivelato

La terrazza è a Boccadasse. Sconcerto. Montalbano e Livia si parlano come due vecchi coniugi, litigiosi. Panico. Livia parla siciliano. Un errore, terribile. Il questore distinto Bonetti-Alderighi interloquisce con “cazzo!”. Allora è una trappola? Ma presto la cosa scorre come dice Salvatore Silvano Nigro nel risvolto: “Una pagina tira l’altra” – era il solito incubo (chiamato da Camilleri “sogno”) che apre gli ultimi Montalbano.
Un Montalbano stiracchiato, che fa la macchietta alla Fazio e alla Catarella con Fazio e Catarella. L’ennesima esercitazione politicamente corretta sull’attualità, un paio di articoli di giornale, del Camilleri neofita militante novantenne, su barconi e i femminicidi. Il racconto comincia dopo la centesima pagina, prima c’è un morto ma l’autore se lo dimentica. Il giallo anzi non c’è, o poco – Montalbano non fa la prima cosa che avrebbe dovuto fare: informarsi della vittima.
Anche il dialetto, qui accentuato con una dozzina di parole nuove, si conferma inventato. Si capisce perciò meglio il fascino di Montalbano: è tutto nelle immagini dei film di Sironi, di cui a ogni pagina si può dire Camilleri utilizza i cliché: la terrazza, la plaja, il mare, i palazzi, i personaggi di contorno fortemente caratterizzati, le ricette a pranzo e cena – queste del Montalbàn catalano.   
Andrea Camilleri, L’altro capo del filo, Sellerio, pp. 301 € 14

domenica 29 maggio 2016

Le sanzioni barbariche

Senza discutere, senza nemmeno annunziarle, e forse nemmeno notificarle, le potenze europee hanno rinnovato a Bruxelles le sanzioni contro la Siria. Varate nel 2011 su insistenza saudita e americana per indebolire il regime di Assad. Poi rinnovate, sempre tacitamente, nel 2014. . Colpiscono gli attivi finanziari in valuta della banca centrale e di tutte le compagnie di export, anche private. E le esportazioni di petrolio.
Il secondo rinnovo non è passato inosservato perché il clero cristiano, di tutte le confessioni, aveva ammonito a non rinnovarle, e poi ha protestato. A nessun fine. L’argomento delle gerarchie cristiane è: “Le sanzioni danneggiano solo la piccola gente”, per le merci che vengono rese rare e quindi fatte pagare care.
Una seconda critica si potrebbe fare per un rinnovo delle sanzioni giocato male nello scacchiere diplomatico, ora che per la Siria si preannuncia, a fronte della minaccia terroristica, un accordo col regime piuttosto che la sua evizione. L’Europa aveva l’occasione per entrare nel gioco mediorientale ma ha dato partita vinta.
Questo non è un modo di dire: è noto che le sanzioni sono solo un favore agli intermediari o affaristi, al ramo parassitario del mercato. Una dottrina vasta e acquisita sa che le sanzioni economiche servono solo al contrabbando: non isolano il Paese sotto pressione ma lo espongono al ricatto dei trafficanti, esterni e interni. Si veda la Siria.
Le sanzioni bloccano l’export del petrolio siriano, hanno argomentato i vescovi, mentre nelle zone siriane controllate dall’Is il petrolio viene venduto tramite la Turchia. Viene venduto di contrabbando, risponde Bruxelles, a un prezzo. Ma è questo il punto: lo stesso prezzo che la Siria deve pagare ai volenterosi intermediari del suo greggio, in virtù delle sanzioni. Non c’è molta logica a Bruxelles, a meno di non dire l’Europa una Unione di contrabbandieri.
Si può anche ipotizzare che Bruxelles ha rinnovato le sanzioni per anticlericalismo, in odio alle chiese. Ma è allora un laicismo abietto – si direbbe stupido ma è dannoso.

Prolemi di base - 278

spock

Perché le maestre sono cattive solo negli asili comunali?

Perché la malasanità occorre solo negli ospedali pubblici?

Perché la malasanità occorre solo negli ospedali pubblici meridionali?

E Salvini, lavora per far vincere o far perdere Meloni?

Allora, perché Meloni si fa patrocinare da Salvini?

Un leghista e una missina, come possono legare?

E a proposito di elezioni, che fine ha fatto il famoso giudice Ingroia? (difende i corrotti)

E l’incorruttibile Di Pietro?

spock@antiit.eu 

Un museo contro la barbarie

Non una pubblicazione speciale, è il n.15 di una serie, ma emozionante perché testimone di un museo non più visitabile. Non a noi, non ai turisti. Il museo forse più ricco del mondo. Certamente una delle poche cose che gli italiani, cresciuti con gli Uffizi e il Vaticano, possono visitare con diletto. Ora non più. Il museo non è chiuso ma vi si entra a rischio della vita: troppi lutti evoca l’antistante piazza Tahrir.
Si sfoglia il volume di ottime foto come celebrando un lutto. È una misura bizzarra – preziosa - della barbarie che si è abbattuta sull’Egitto, sul Cairo, su Ghezira, su piazza Tahrir. L’Egitto per millenni è stato considero avulso dal “mondo arabo”, El Misr, il “territorio di frontiera” degli antichi semiti, molto faraonico e un po’ cristiano. Nasser l’ha arabizzato per farne una potenza moderna. E l’islam gli si è rivoltato contro, dissolutore nella sua “liberazione”.
Il volume fa parte della ristampa delle guide Sala di Bagno a Ripoli, con una introduzione di Daverio.
Philippe Daverio, Museo Egizio al Cairo, Corriere della sera, pp. 127 ill., € 6,90