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sabato 16 aprile 2016

Ombre - 312

Prima l’Italia non controlla bene gli immigrati. Poi ci sarà un’ondata di immigrati dalla Libia. Ora c’è il rischio infiltrazione terroristi. L’Austria ogni paio di giorni si dà una ragione per la chiusura del Brennero. Nessuna valida, ma tutte buone a molcire l’opinione pubblica. L’opinione pubblica austriaca.
L’opinione teutonica crede volentieri quello che le si dice di credere, quantum immutata ab illo.
È il sentimento del gregge.

Ogni giorno una sorpresa dalla Procura di Potenza, il petrolio è infetto. L’ultima ieri. Oggi il meritato riposo, siamo inglesi.  E per il referendum di domani nulla? Ancora uno sforzo.  

Il presidente ucraino Poroshenko è rimasto solo: si sono dimessi il ministro dell’Economia, il Procuratore generale, il Primo ministro. A ruota, l’uno indipendente dall’altro. Ma tutti per non poterne più della corruzione. Una “democrazia” per la quale noi paghiamo carissime sanzioni contro la Russia, imposte da Obama. Incautamente?

Scrive Franco Venturini sul “Corriere della sera” che gli Stati Uniti, di fronte al fallimento di Poroshenko, gradirebbero un primo ministro americano, Natalie Jaresco, una con la doppia cittadinanza. Qui almeno un disegno c’è: una pax americana governata da oriundi. Jaresco non sarebbe il primo caso,  dopo Karzai, Tusk e altri minori.
Non che questa signora, come già Karzai o Tusk, abbia speciali qualità, ma è americana.

Si parli della politica monetaria, degli scontri Germania-Draghi, della deflazione, il rinvio è inevitabile alla “drammatica inflazione tedesca della fine degli anni Venti”. Cosa che nessun tedesco ricorda e teme – è come quando ci dicevano che gli Stati Uniti sono isolazionisti. Non si potrebbe aggiornare l’informazione ? Lo scontro è per chi comanda nella Ue.

Don Ciotti è contro la riforma del Senato. Ha pubblicato un libro contro e lo propaganda. Su “Repubblica” però dice che non è contro la riforma, che la riforma è necessaria, la modernità, etc. Ma che bisogna votare contro.

Don Ciotti dhe questa riforma è contro la Costituzione e a favore dei ricchi e potenti, etc. – anche se sullo stesso giornale Napolitano assicura il contrario. Dice anche che questo l’ha detto il papa. Un prete bugiardo?

O Ciotti è un gesuita, che argomenta una cosa e il suo contrario? Anche il papa lo è, e dunque tutto è possibile. O se non lo è, è questione di metodo: la verità piace ora double face.

Don Ciotti dunque a sinistra di Napolitano. Non è il primo prete che fa la morale sociale e civile ai comunisti. Ma Ciotti non è un prete operaio, né uno di base, è il maggior appaltatore del terzo settore, degli aiuti di Stato a perdere, senza rendicontazione e nemmeno obbligo di bilancio.

Ciotti non è solo, i vescovi intervengono e dicono che bisogna assolutamente andare a votare al referendum sulle trivelle. Dicono anche che bisogna votare sì, bloccare la ricerca del petrolio. E mai intervento è stato tanto benedetto, da chi ne ha sempre lamentato le ingerenze.

Il petrolio puzza, le onlus salvifiche no?

Il presidente della Corte Costituzionale ritiene doveroso dire che “bisogna” votare al referendum.  Farà lo stesso con le vertenze su cui deve pronunciarsi come giudice?

La Costituzione all’art. 48 invita a votare: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. Ma anche il rifiuto, motivato, di votare è un dovere civico – metà degli italiani se ne avvale da qualche anno. Possibile che il presidente della Corte costituzionale non sappia queste cose?

Paolo Grossi sa bene come tutti che l’esito del referendum sarà deciso dalle astensioni – al voto prevarranno i sì, anche se pochi. E dunque fa il furbo, contro il partito Democratico, che ha dato indicazione di astenersi, contro il presidente del consiglio, e contro il presidente emerito della Repubblica Napolitano. O non è nemmeno furbo?

Questo Grossi è un buon cattolico. Non si può dirlo – non si dice – ma lui lo è: uno che si tiene il posto e si salva l’anima. Un altro dei lasciti di Napolitano, come lui eletto presidente un mese fa in tarda età, a 83 anni. Lasciti che non si possono nemmeno imputare al vecchio Pci, il partito di Napolitano: Monti, Letta, Renzi e Grossi sono (in teoria) buoni fedeli, all’orecchio dei vescovi se non praticanti.

Grossi è uno storico del diritto, non è mai stato giudice. O sì, è stato a lungo giudice del Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco, o della Maremma. Di manica larga, pare – per annullamenti perfino non prezzolati.

Milano è passata da zero addizionale Irpef con la Moratti (destra) nel 2010 a 143 euro pro capite con Pisapia (sinistra). Mentre i servizi diminuivano (per colpa del governo, etc.). E non  sembra scontenta. Aumentare le tasse è dunque un merito?

L’idea di più tasse è effettivamente milanese. Insieme con quella del massimo liberismo. La libertà è per i ricchi e ricchissimi.

C’è il Giubileo e a Roma il turismo diminuisce – caso unico in Italia, caso unico in Italia, dove invece il turismo aumenta di oltre il 5 per cento. Ma non si dice. Per non dispiacere al papa?

Diderot pre-conciliare

Le passioni vengono da Dio. Sembra di leggere in anteprima l’Esortazione Apostolica del papa un mese fa, “Amoris Laetitia”. Con l’assicurazione – dopo questa premessa: “Io sono cristiano”. Diderot può dire anche questo, nel senso: io lo sono, altri “cristiani” no, i superstiziosi - “la superstizione è più ingiusta a Dio dell’ateismo”, la fede ha un fondamento nella ragione. E non è finita: da ultimo anticipa pure il dialogo delle fedi – delle religioni monoteiste, beninteso, quelle che sempre si sono combattute per l’esclusività. Di più, trova al dialogo un fondamento, che oggi ancora non ha.
E dunque, Diderot polemista cristiano? No, ma è come se. “Non ci sono che le passioni, le grandi passioni che possano sollevare l’animale a grandi cose”. Compresa la fede, che non nomina, la chiama ragione. “Le passioni spente degradano gli uomini” – gli uomini “straordinari”, Diderot non era egualitario, ma insomma il genus uomo. E: “È il colmo della follia proporsi di spegnere le passioni”: più o meno non si propone lo stesso il papa nell’Esortazione? Una sequenza di rivendicazioni segue, di una qualche fede. Su principi anche teologici: “Non bisogna immaginare Dio  né troppo buono né cattivo”.
Le sorprese non sono finite. Diderot polemizza contro l’ateismo: “Solo il deista può far fronte all’ateo”, e dunque il compito se lo assume lui. Non da Pascal, da polemista cristiano – il proprio Pascal era “scrittore eloquente e ragionatore profondo”, ma era “timoroso e credulo”, anche lui. E giù una serie di confutazioni dell’ateismo. E poi dello scetticismo: “Prego Dio per gli scettici: manca loro la luce”. Assicurando: “Attesto Dio con la mia sincerità”. E aggiungendo: “Il cristianesimo è la più santa e la più dolce delle religioni”.
I “Pensieri filosofici” sono una vecchia argomentazione deista, contro l’ateismo e lo scetticismo, 1746. Trascurati in Italia, sono bizzarramente attuale. Marcano il debutto di Diderot in filosofia, a 32 anni. Ispirati a Shaftesbury, “Ricerca sulla virtù e il merito”, 1699, che aveva appena tradotto. Ma il Parlamento di Parigi, preti e laici insieme, non si fece incantare, e censurò l’opera. Diderot dissimulatore, dunque? Probabilmente no. Ma pochi anni, e nell’“Aggiunta” contesterà tutto, più  meno, della religione. L’interesse oggi non è a un “altro” Diderot, che non c’è, ma a quanto le sue critiche hanno penetrato le religioni, specie il cattolicesimo, a partire dal Concilio Vaticano II.
Questi “Pensieri” sono l’apologia di un deismo distinto dal teismo dei teologi, spiegherà altrove. Il deista si ispira alla religione naturale – quella, si può aggiungere, di Newton, Galileo, Cartesio, Bacone, la magia naturale di  Campanella. Che la chiesa ha tenuto per nemica e ora in parte condivide: sulla sensualità, sull’ateismo e lo scetticismo (il pirronismo di Scalfari), sulla stessa Rivelazione.
La religione naturale è molte cose diverse – per Campanella, Bacone, Cartesio, Galileo. Per  certo è qualcosa che somiglia molto al dialogo delle fedi, altra anticipazione sorprendente. Al pensiero LXII, l’ultimo, con un ragionamento che Diderot dice ciceroniano (Cicerone si faceva dire la grandezza di Roma dai nemici di Roma), le fedi che si ritengono l’una migliore dell’altra concordano che, a una seconda scelta, la religione naturale sarebbe preferibile. “Cinesi, quale religione sarebbe la migliore se non fosse la vostra? “La religione naturale”, “Mussulmani”, etc,, cristiani, ebrei? Sempre il naturalismo – i cristiani dicono “la religione degli ebrei”, ma gli ebrei dicono “il naturalismo”.
Risolutamente atea quindici anni più tardi, nel 1762, l’“Aggiunta”, una settantinadi brevi e brevissime argomentazioni, in chiave aforistica, che fanno proprie le sopraggiunte professioni aperte di ateismo di Voltaire, “Sermone dei Cinquanta”, e d’Holbach, “Cristianesimo rivelato”. A disprezzo di ogni dogma, non solo, ma anche di martiri, miracoli, profezie, scritture, e comprese l’Incarnazione e la Resurrezione. Con accenti anche di irrisione. Rasentando la blasfemia.
Questa riedizione tascabile è arricchita, per due terzi dei contenuti, da dettagliate tavole delle materie, apparati estesi di note, e un’articolata appendice, “La sovversione deista”, con testi dello stesso Diderot, “De la sufficence de la réligion naturelle”, di Bayle, di La Mettrie, e alcune voci dell’ “Enciclopedia”: “Deisti”, “Sociniani Unitari”, “Empio”.
Denis Diderot, Pensées philosophiques – Addition aux Pensées philosophiques, GF Flammarion, pp. 225 € 8,50
Free online

venerdì 15 aprile 2016

Lo specialista, di impresentabili – Berlusconi 20

Ha candidato Bertolaso sapendo che Rosy Bindi lo avrebbe impallinato. Cercava l’effetto De Luca, che vinse sfruttando l’impresentabilità dell’onorevole senese, eletta in Calabria dal voto sicuro, onorato? No, Berlusconi ha perso il fiuto,  il polso.
Bertolaso è come tutti i suoi delfini. Anzi, come tutti i suoi candidati. Nessuno dei quali gli ha portato un voto, tutti si sono anzi avvantaggiati dei suoi voti, compresi i leghisti e i finiani ex Msi, mentre andavano in giro a sparlarne e ridicolizzarlo. Oppure fallivano, senza residui – il cimitero dei suoi anonimi è impressionante, a volerlo ripercorrere.
Guardandola in spaccato, la meteora politica di Berlusconi è in effetti una forma plebiscitaria. Accesa attorno al suo nome, al successo della sua industria di idee e intuito. Un credito che lui via via ha dilapidato con persone e decisioni sbagliate. Esce di scena per la protervia della Milano più corrotta. Ma senza un successore per colpa sua.
Non un fascista, non un dittatore. Semmai, al contrario, un debole – non solo con le donnette in carriera senza scrupoli. Ma la sindrome dell’uomo solo sì.
L’uomo della Provvidenza? Sì e no. Soprattutto è uno che in politica non ha saputo scegliere un collaboratore capace, uno solo. In azienda sì, anche nel Milan, in politica niente, zero totale, lascia un deserto.
Ha saputo addomesticare i fascisti, Fini, Bossi, Storace, Santanché, e altre bestie selvagge. Ma non dare loro un avviamento, o sostituirli. Come in famiglia, ha saputo rendere intelligenti e operosi tre figli disappetenti, ma non autonomizzarli. Non è come Dio, che creò l’uomo con un suo proprio destino, o volontà. Creare non è il suo forte, o non vi si è applicato – gli imprenditori e i grandi manager hanno più o meno tutti questo limite, che sono prigionieri si se stessi, rintontiti dai rimbombi del proprio successo. 

Colpevoli sono solo i politici

Ci sono ancora storie appassionanti in cronaca nera. Oggi di una russa che fece svaligiare Villa Giulia, il grande museo etrusco a Roma. Ma non si possono più delibare. Di quella di oggi nessuna informazione viene data della ladra, se non che è una “ricca russa”, età provenienza, origine della ricchezza, amicizie, costumi. Né dei suoi scherani, russi e italiani, eccetto un “noto antiquario”.. Un nugolo di arresti e imputazioni è stato predisposto ma tutto anonimo.
Non è un caso isolato: la nera ora viene con sigle o nomi fasulli, al più l’età. Più spesso senza provenienza. Niente dei motivi, del contesto, della personalità dei delinquenti, o anche solo dei precedenti. Niente immagini, malgrado adesso siano social. Anche dei femminicidi, e dei peggiori, il più delle volte non si sa nulla, nel senso che nulla viene mostrato.
Si potrebbero pensare queste mancate personificazioni un omaggio alla privacy. Che anche i delinquenti – o comunque accusati – abbiano diritto a una privacy. Ma questo non è il caso per i politici e i mafiosi. Dei politici più che dei mafiosi. Di essi siamo anzi bombardati, di dati e di foto, dell’arresto, dell’infanzia, del matrimonio, della fidanzata o amante, e degli amici, politici e non. Dei detti e dei non detti, allusioni, anacoluti, anadiplosi, tutto il repertorio della stilistica. Specie al telefono. E dunque l’informazione è politica, anche la cronaca nera.
Solo che questi delinquenti sono anonimi malgrado l’esibizione: rotondetti e un po’ gonfi. Anche quando hanno la compagna, anche quella è più da mani in pasta. Non si potrebbe variare?

La poesia del nulla

Un’antologia storica, dalle origini a fine Novecento. Di una forma peraltro che si è poco o nulla evoluta, se non, nel primo Novecento, col verso libero invece della rigida prosodia sillabica 5-7-5. Con translitterazione e ideogrammi a fronte, e una considerevole bibliografia.
Barthes, “L’impero dei segni”, voleva la forma non evolutiva. Arena ci trova invece, da esperto della letteratura giapponese, più di un innesto di novità, soprattutto nelle tematiche. Barthes la dice anche una forma facile, e per questo diffusa: “Avete il diritto, suggerisce l’haiku, di essere futile, breve, ordinario”. L’economia non è arte facile – “si ritrova in tutte le altre sfere del’arte giapponese” - e non è dismissibile, obietta Arena.
Il limite è forse che non se ne può dire nulla, secondo il curatore, seppure gustandola:  esprime lo yugen, un misto di “indistinto” e “misterioso”, una “vaghezza misteriosa”. Esito “d’una cultura intrisa di buddhismo, per cui non sono le cose a essere importanti, ma lo sfondo «vuoto» in cui si iscrivono”. Lo stesso curatore non sa che dirne: “Ogni commento tradirebbe l’immediatezza dell’immagine”. Anche perché “l’haiku rivela uno specchio vuoto. Si iscrive nello spazio senza simboleggiare nulla, e senza la pretesa di avere un significato. È un’immagine opaca, priva di riflessi”.
Ma dire l’ineffabile, cogliere l’imponderabile - senza tuttavia adagiarsi nell’ossimoro, il gioco di parole che la cosa dice col suo contrario – è ben dire. Una poesia che si forma e si percepisce per immedesimazione. Col tratto semplice, evocativo, di immagini accostate. Di logica certo paradossale: ogni cosa è un’altra. Ma semplice e accessibile, esercitandosi sul quotidiano: dapprima sulla natura, negli ultimi suoi praticanti anche sull’uomo (nascita, età, malattia).
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), Haiku, Bur, pp. 110 € 5,90

giovedì 14 aprile 2016

Lo butteranno giù i preti

Ci provano. Domenica sarà solo la prova generale – con o senza referendum, le trivelle continueranno a perforare, gli amici degli amici non diventeranno nemici, e lunedì sarà un altro giorno. L’appuntamento è al referendum in autunno sulla riforma del Senato: dovrà essere una trappola letale per Renzi. Da mons. Galantino, e quindi la Cei, intimo del papa, e quindi il Vaticano, alle ex comunità di base – ora indaffaratissimo terzo settore, monopolista ingordo degli appalti pubblici - le batterie si stanno caricando. Con omelie, articoli, libri, flashmob, comparsate, interviste, ponderose lezioni, il “non possumus” torna attivo e insidioso.
Non la destra naturalmente, che sta solo prona a saltare sul carrozzone, per qualche posto o beneficio. Né la sinistra, radicale o protestataria, da Bersani e Vendola ai centri sociali. Renzi sarà buttato giù - perché di questo si tratta, del Senato nessuna sa nulla e a nessuno frega – dai preti. Se ci riusciranno.
L’impegno ce lo stanno mettendo tutto. Il loro si può dirlo anzi una sorta di Movimento di Liberazione Ecclesiale. Se non da teologia della liberazione. Non per nulla il papa è sudamericano. Con la stessa indefinitezza dei movimenti latini: non si capisce per cosa i preti combattano – un Senato non riformato? un Senato riformato in altro modo? l’abolizione del Parlamento? Ma con la stessa determinazione dei capataz di repertorio: alla morte. Con un risvolto molto curioso. Con due, anzi.
Uno è che il piccolo grande democristiano Renzi, che tutto il potere ha messo in cascina in sacrestia più rapido di Napoleone, viene sfidato dai preti. Non era inconsueto nella vecchia Dc, che è finita più che altro per le guerre intestine, da ultimo col muoia Sansone con tutti gli altri di Andreotti e il fido Borrelli. Ma è la prima volta che il pugnale lo maneggiano i preti.
L’altro è il silenzio dei mangiapreti. Sempre allarmisti su ogni colpo di tosse clericale, questa volta, di fronte a un impegno tanto massiccio e dichiarato, tacciono. La ragione può essere che i mangiapreti sono generalmente affaristi o legati agli affaristi (pardon, al mercato), e gli affari non gradiscono un governo che governi: i governi devono essere deboli, ineffettivi, e durare poco. Ma potrebbe anche esserci qualcosa di più solido - un’alleanza laico-clericale, perché no: Rodotà con Zagrebelsky, Scalfari con Bergoglio, etc.?
Questo è più che probabile: il papa lo dice, che si preoccupa molto per i laici anticlericali, per salvarli anche in questa vita. E quindi, siamo fritti. Solo, resta da sperare che ci spieghino perché la riforma del Senato è da buttare, dopo trent’anni di tentativi. E in mancanza confidare nel robusto anticlericalismo di molti praticanti. Se anche i preti sono per il tanto peggio tanto meglio. 

Il mondo com'è (257)

astolfo

Corruzione - È specialmente legata alla politica locale, di Regioni, Province e Comuni, nei settori delocalizzati della sanità e dell’ambiente, che sono anche quelli a maggiore impegno di risorse pubbliche.
La corruzione è resa possibile, e anzi genetica, come usa dire, per la commistione di pubblico e privato: la concorrenza tra i privati, senza alcun criterio regolatore (capacità, qualità, mezzi economici, competenze), per gli appalti pubblici. In un ambiente economico e politico che dice il mercato - cioè la corruzione stessa - inattaccabile. Il mercato per il politico e il funzionario pubblico è la corruzione.

Giornalismo – È una professione sopravvalutata in Italia, soprattutto dopo la dequalificazione. Inviati e corrispondenti esteri sono sempre sorpresi di tanto credito, americani, inglesi, tedeschi, francesi. Per le condizioni statutarie della professione, la contrattualistica, la previdenza, l’assistenza sanitaria, relativamente privilegiate, e soprattutto per il credito politico. Che va alla professione, senza distinzione di merito. Anche se la stessa si è dilatata, senza più alcun riscontro o controllo, seppure rinunciando alle prerogative contrattuali: online, con la “disintermediazione digitale”, e nell’emittenza.
La stessa proliferazione dei media è all’origine dell’influenza generalizzata che si lega alla qualifica di giornalista, indipendentemente dalla qualità. Insieme con la nascita di “Repubblica” quarant’anni fa, che un paio d’anni dopo ribaltò la selettività della professione che era la regola. Non più poche firme, selezionate, per applicazione, giudizio, cultura, scrittura, che scrivevano di cose che sapevano, e la macchina al desk, ma la non specializzazione: Scalfari a un certo punto teorizzò che lo specialista era illeggibile, e si ebbero inviati all’estero della massima improntitudine, senza cognizioni linguistiche, geografiche, storiche, giusto per fare colore. E analogamente per l’economia e la politica, terreni specialistici: bastava fare rigaggio colorito. La non specializzazione si accompagnò a una democratizzazione che portò in prima qualsiasi cronista, anche novello e inesperto  – la democratizzazione Scalfari promosse per favorire l’inserimento nel giornale dei suoi nuovi dirigenti ex Pci (“Paese sera”, “l’Unità”), al posto del  vecchio gruppo di firme riconosciute liberalradicali che l’aveva accompagnato dall’avvio.
La democratizzazione si è inquinata ulteriormente a partire da Mani Pulite, portando alla ribalta i cronisti giudiziari, che erano, e sono ancora, dopo venticinque anni di predominio nei giornali, i giornalisti più sprovveduti, politicamente, culturalmente: sono segugi, da angiporti di polizie, procure della Repubblica, e servizi più o meno segreti. Ma sono indispensabili per fare il giornalismo scandalistico, quello che una volta si diceva con disprezzo dei tabloid  inglesi.
La rete e la proliferazione televisiva hanno ridotto la lettura del giornale, che ora viene comprato solo generazionalmente, diciamo dai cinquanta in su. E hanno in aggiunta moltiplicato la banalizzazione: perché i new media vogliono essere brevi e non elaborati, e più che giornalismo richiedono presenza scenica - dizione, fotogenia, voce, movimento, linguaggio grasso. Il giudizio si forma superficiale e mobile, e basta ora al giornalista essere giovane e di bell’aspetto, ridire le cose che tutti sanno, avere in canna la parolaccia killer. Godendo – fino a quando? - del vecchio credito.

La disintermediazione digitale, che doveva segnare la fine della professione, ne è invece la celebrazione: tutti giornalisti. Senza studi, senza ricerca, senza approfondimenti, ma tutti opinionisti. Svelti. Il giornalismo che era reportage e inchiesta, è ora solo una leva per apparire. Sia pure fugacemente. Senza retribuzione anche, ma non per eroismo: per godere dell’alea di rispetto.

Italia guelfa – Fu mancata ancora prima dell’unità per un niente - si rifarà con la Repubblica, una lunga storia ormai, di tre quarti di secolo. Nel maggio del 1949, mentre Pio IX , incapace di fronteggiare  il moto liberale che aveva innescato, si rifugiava a Gaeta dai Borboni di Napoli, a Torino veniva nominato primo ministro Gioberti. Riconciliato col re Carlo Alberto di Savoia di cui era stato cappellano, che l’aveva costretto a quindici anni di esilio, ma sempre dell’idea di un’Italia unita sotto il papa. Appena nominato, Gioberti si propose di riconciliare il papa col Risorgimento. Si offrì di trattare con i rivoltosi romani e di presidiare i confini pontifici con proprie truppe. Pio IX gli preferì l’Austria, la Francia e i Borbone. Ovvero, gli obiettò l’ambasciatore di Gioberti, “le baionette barbare e inimiche”.

Italia-Germania – Hanno avuto un processo e un iter nazionalistico parallelo, e per più aspetti simile. Ma le guerre condotte insieme non hanno portato buono alla Germania, l’Italia ha sempre fatto male e malissimo. Nel 1866 e nel 1940. Fu anche per un successo tedesco, contro la Francia nel 18670, che l’Italia ebbe Roma, altrimenti chissà.
Meglio invece l’esercito italiano è andato con gli Alleati. Con gli inglesi nel 1915-1918, e con gli americani in questo lungo dopoguerra, su tutti i fronti dove l’hanno richiesto, dal Libano in poi.

Mani Pulite – In “operazioni pulizia” eccelleva Mussolini, anche se il suo fascismo è rimasto nella storia come corrotto. Erano uno dei suoi modi di governo diretto, monocratico. Contro dirigenti pubblici e imprenditori. Senza distinzione di fede politica, diceva, ma colpiva solo chi lo avversava, o anche solo non lo appoggiava. Incarcerò Gualino e minacciò Agnelli.
Le operazioni Mani Pulite in regime democratico sono naturalmente un’altra cosa. Ci sono processi veri, e più gradi di giurisdizione. Ma i processi in realtà raramente sono “veri”: la maggior parte dei giudici sono pregiudiziati e non lo nascondono, se ne fanno un merito. A tutti i livelli, in Tribunale, in Appello e in Cassazione: il partito preso (politico, economico, tribale, di casta, di parentela – c’è anche la parentela, in tutto il resto del mercato pubblico proibita, ed è rivendicata come patente di nobiltà) è dominante. E comunque l’imputato è “condannato” prima del processo. Con vari artifici: indiscrezioni, anticipazioni, intercettazioni, anche dossier, anonimi ma non poi tanto.
L’equiparazione è peraltro nei fatti: com’era corrotto il fascismo malgrado Mussolini, così resta corrotta la Repubblica dopo Mani Pulite. La sensazione comune è anzi che la corruzione dopo Mani Pulite sia diventata endemica – come se fosse stata liberata: è diffusa, quotidiana, ordinaria. Moltiplicata, per di più, dal Csm in giù, dalla diverse bande giudiziarie, in armi l’una contro l’altra.

Nazismo – Fu anche una banda di profittatori, un aspetto che sempre si tace nelle storie di Hitler. Di cacciatori di patrimoni molto disinvolti. Quelli delle tante famiglie che per ragioni diverse, razziali, culturali, politiche, il nazismo costringeva all’esilio. Perseguite per lo più per delazione, di parte interessata. I casi sono numerosissimi. Normalmente consistenti, ma anche di patrimoni piccoli e piccolissimi: negozi, privative, studi professionali.

La storia del nazismo, che pure è tema preferito degli storici, è stranamente lacunosa. Un altro aspetto sottaciuto è che non molti fiutarono il pericolo Hitler, benché manifesto da tempo. Il rigetto fu istantaneo in sede politica, dei partiti socialista e comunista. Ma lento nell’opinione, per motivi culturali - presso le stesse famiglie ebraiche. Opporsi non era possibile, si subiva la carcerazione o bisognava esiliarsi. Ma molti continuarono a vivere in Germania in condizioni quasi normali, anche gli intellettuali, benché sottoposti a censura e alcuni all’ostracismo. Adorno per esempio per un paio d’anni. Anna Seghers e Lion Feuchtwanger per alcuni mesi – Seghers emigrò dopo essere stata arrestata per appartenenza al partito Comunista. Dei fratelli Mann, entrambi esiliati volontari contro  Hitler, Heinrich fu privato subito della cittadinanza tedesca, Thomas solo nel 1936, quando prese posizione pubblica contro il regime.

Volontari – Sono stati sbandati e avventurosi per lo più. Anche nella guerra civile spagnola, dove più il loro ruolo è celebrato, tanto numerosi e confusionari a difesa della Repubblica – contro l’intervento militare organizzato dei “volontari” del fascismo e del nazismo. Anche nelle rivoluzioni riuscite, in Francia nel 1789, con Garibaldi ovunque, e con i Mille. Dopo l’unità furono con i briganti, numerosi e di qualità, perlomeno di nome. Non si conoscono perché la storia del brigantaggio non si può fare, e comunque non sarebbero celebrati come i garibaldini nella memorialistica e nella toponomastica, e tra i busti del Gianicolo. Ma quelli del brigantaggio non sono da meno, anche se misconosciuti, e anzi hanno nomi e qualifiche altisonanti: il generale e scrittore José Borjes, Alfred de Trazegnies de Namur, Edwin Kalckreuth di Gothe, “conte Edvino”, il colonnello francese de Rivière, il colonnello prussiano Mesorat, il nobiluomo austriaco Ludwig Richard Zimmermann, Olivier de Langlais (Langlois), il maggiore Théodule Émile de Christen, e molti altri. 

astolfo@antiit.eu

L’architetto del riciclo

“Le obbligazioni del contesto sono l’essenza dell’architettura”, Renzo Piano. Non il monumento, dunque, ma il riuso pratico-estetico degli spazi. Meglio ancora l’uno e l’altro, “l’icona monumentale e il recupero appena visibile”, il rammendo, nota Richard Ingersoll, lo storico del’architettura naturalizzato aretino, a Montevarchi. Accoppiata che a Parigi a Piano è riuscita al debutto, col Beaubourg, un mostro di tubi e trasparenze al centro del venerando Marais, e a Roma al Parco della musica, i tre coleotteroni che sono tre casse armoniche, di fuori e di dentro, più un quarto teatro all’aperto, una larga cavea che li raccorda – un capolavoro anche di riuso degli spazi, persi fra sopraelevate e strade veloci di scorrimento.
Ora, senatore a vita, Piano privilegia col progetto G 124 “il rammendo delle periferie”. Che fu la sua prima impresa: il recupero urbano. A Otranto nei primi anni 1970, in contemporanea con la realizzazione del Beaubourg, e a Burano. L’architettura come workshop, al recupero e alla riqualificazione – “Ricuciture urbane e periferiche” è il sottotiolo della monografia.
Padre non menzionato, sullo sfondo di questo primo volume di una serie sull’architettura oggi, è sempre Le Corbusier, dell’architetto che è anche urbanista, o comunque regolatore degli spazi più che creatore. Dei vuoti più che dei pieni. E dell’ambiente esistente, storicizzato o “naturale” (abbandonato). All’insegna della sostenibilità e di ogni altra esigenza contemporanea, il risparmio energetico, l’ecosostenibilità - il verde, l’aria, l’acqua, i suoni. E dei caratteri acquisiti dai luoghi: le abitudini dei residenti, le destinazioni d’uso consolidate. Così a Otranto come al porto di Genova, per i 500 anni della scoperta dell’America, e per lo stesso Potsdamer Platz di Berlino, anche se interamente rifatto dopo gli sventramenti della guerra.
Alessandra Coppa (a cura di), Renzo Piano, Corriere della sera-Abitare, pp. 135, ill, € 7,90

mercoledì 13 aprile 2016

Secondi pensieri - 258

zeulig

Analogia – È il flusso anonimo, sotterraneo, che collega (compartecipa) la conoscenza e il mondo – non un oceano dentro il quale le cose nuotano, ma le cose stesse in forma di oceano. Era “l’amore immenso che che coolega le cose distanti, apparentemente diverse e ostili”, nella sintesi che Marinetti fece un secolo fa, “Distruzione della sintassi”, 1912 a Milano, quando la nozione si indagava. E l’avvicinava allo “Stile orchestrale, insieme policromo, polifonico e polimorfo”. Anche se non limitatamente, come lui voleva, alla “vita della materia”: l’analogia, come la musica, è cosa mentale.

Femminismo – Più si è scavato più si è scoperto che la donna c’era anche prima. Le donne della bibbia. Quelle dell’Incarnazione. La successione matrilineare in Egitto. La donna a Atene. La donna a Roma, da Rea Silvia a Cornelia, madre dei Gracchi, Lesbia, Messalina, sant’Elena. La donna a Alessandria. Le badesse. Le sante. La donna nelle campagne. La donna nell’emigrazione degli uomini – ora, per esempio, nel “patriarcato” indo-arabo-mussulmano. Non facevano la guerra, e con la guerra non facevano i re, se non per difetto. Ma anche ora, fanno poco la guerra, e poco volentieri. E per governare vogliono le quote rosa - che però non riguardano la “condizione” della donna, legale, sociale, antropologica. Si parla della donna “occidentale”, in carriera.

Marx - Ha toppato Marx fin dall’inizio, nella “Lotta delle classi in Francia”: “Il trionfo della borghesia ha soffocato i fremiti sacri delle estasi religiose, dell’entusiasmo cavalleresco e della sentimentalità da quattro soldi nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”. Mentre li aveva allargati  al pubblico delle sue signore con servitù, che ne erano vergini – e in parte resteranno loro immuni. E semmai col calcolo, cioè con la razionalità, li ha arricchiti di una altra forza di contrasto, nonché di situazioni. Ma si sapeva già che il romanticismo viene mano nella mano con la borghesia.
Marx la notte dormiva, quando si pensano le cose invereconde, soprattutto i capolavori? Di poesia e, pare, di musica - la tonalità in mi bemolle è stata a lungo, da metà Settecento, la tonalità della notte, intesa come meditazione.

Nietzsche – È nostalgico più che eversivo – eversivo per essere nostalgico. È anti-“passeista”, nella “Seconda considerazione” e altrove,  ma per un ritorno più radicale (“profondo”, “autentico”). Un classicista, non per caso un filologo agli esordi. Anzi un grecista. Per i referenti, Apollo, Dioniso, Marte. Per le tematiche e il linguaggio. L’altrimenti introvabile Superuomo è ben ellenico, uno che pensa tutto daccapo originale, rifondatore). Fu considerato in vita, e si considerava, un buon interprete e non un visionario: un professore, seppure senza più cattedra.

Non luogo - Nozione di Marc Augé, quindi recente, del luogo privo di identità, anonimo benché affollato: duty free, aeroporti, stazioni di servizio, stazioni. Che però non si possono dire luoghi privi di carattere né di scopo, anzi sono utilitaristi al massimo, mirati a uno scopo preciso. Che si può non apprezzare, essendo commerciale e affaristico, ma c’è. In realtà sono anche (inevitabilmente) caratterizzati – nazionalmente localmente. Se non altro ai loro stessi fini commerciali, e quindi luoghi a tutti gi effetti.
Non luogo poteva essere la città americana degli ani 1950-1960, di sopraelevate  e incroci autostradali, senza un centro urbano, nemmeno il vecchio foro istituzionale, degli uffici pubblici, tribunali, caserme, chiese, anch’essi disseminati nell’anonimato - un non luogo che (bizzarramente?) entusiasmava Italo Calvino in viaggio in America nel 1960, della città come un intreccio e una selva di sopraelevate: “Uno degli elementi unificatori” dell’America, scriveva nelle note ora pubblicate col titolo “Un ottimista in America”, “il più bello come fatto visivo e formale, tutto esattezza e slancio, è il nodo di autostrade…”. 

Scuola di Francoforte – Fu l’antimassa borghese, non c’è dubbio, anche nella pretesa all’aristocrazia. Dello spirito ma non senza riflessi nei comportamenti. Specie nella prudenza: se Horkheimer e Adorno avessero osato, con la loro teoria che l’irrazionale si nasconde nella società borghese, nella razionalità dello scambio e della concorrenza, molte luci avrebbero spento - e forse non avremmo avuto l’asfissiante mercato libero.

Nacque americana. Anzi californiana, con fondi californiani. Fu elitista, e solo formalmente marxista, in sostanza reazionaria. Fu illuminista anti-illuminista ma nel senso che con la “Dialettica dell’illuminismo” tentò di portare alla democrazia la filosofia totalitaria tedesca, Hegel e Marx. Fu poi dotatissima nella Germania Federale di Bonn, tra contributi pubblici e donazioni private (capitalistiche). Horkheimer era della famiglia degli industriali della lana sintetica, Adorno di una famiglia di grandi importatori di vini, nonché di docenti e musicisti. Lukáks, che li ha ispirati, è mente superiore, ma è anche quello che, da commissario del Popolo di Bela Kùn, firmò nel 1920 le condanne a morte di molti intellettuali “reazionari”.
L’Istituto fece ricerche sociologiche che non hanno lasciato alcuna traccia. Se non, forse, quella coordinata da Adorno sul totalitarismo, di cui molte tracce sono ancora percorribili, più di quelle snidate da Hannah Arendt. Qualcuna anche ridicola - il Questionario F, per rilevare il quoziente di fascismo dell’intervistato, non è il solo caso.

Non se ne parla più ora che la cultura è di massa – la cultura intellettuale, delle persone colte. La critica della Scuola di Francoforte, quando la polemica è nata, a metà del secolo sorso, ne avversava il tono elitistico, opponendole la cultura popolare. Ma Adorno non criticava la cultura di massa nel senso dell’alfabetizzazione generalizzata, e dell’accesso aperto all’istruzione superiore e alla cultura. Criticava proprio questo: la massificazione del gusto e dell’intelligenza.
E comunque resta quasi un ossimoro: la cultura non può essere di massa, riduttrice. Anche se lo studio critico è stato abbandonato dopo Adorno. Da una cultura che pretende anzi di avere realizzato la rivoluzione di Marx nella filosofia digitale, nella comunicazione aperta e libera. Come si articola la cultura nella civiltà dei consumi e della comunicazione di massa è tema irrisolto – anzi non è un tema, non si pone nemmeno, si vegeta: l’epoca è alla “demonetizzazione” del linguaggio, come sapeva il non citato Nietzsche.

Transnazionale – Come gli affari, la tecnologia, la ricerca scientifica, lo diventa in questi anni Duemila anche la scrittura, cioè la lingua. Ritenuta finora l’elemento nativo e nazionale più caratterizzante e quasi indelebile, accompagnandosi al più complesso linguaggio.

Verità – Dio (verità) è interpretazione anche secondo sant’Agostino, “De Doctrina christiana” – verità dunque non eretica. Confrontato ai libri sacri in versioni diverse, tutte traduzioni di traduzioni, e nell’impossibilità di ricostituire il testo ebraico originale, ormai definitivamente inquinato, il credente si industrierà a ricostruire il Verbo confrontando le versioni tra  di loro, l’una analizzando criticamente con l’ausilio dell’altra, per metterne in rilievo concordanze e contraddizioni, e quindi misurare i limiti della verità. Che è un metodo filologico, ma anche l’unico veicolo di verità. La verità è filologia. La verità è una lettura del mondo.

Simone Weil – Una panoramica degli amici e corrispondenti sarebbe utile: pensò molto in forma di corrispondenza, con interlocutori di cui sarebbe utile conoscere argomenti e qualità, spessore. Mentre restano altrimenti ignoti, specie per quanto concerne il radicamento - la fede, il Crocifisso. Anche i più noti, padre Perrin, Joë Bousquet. O allora non scriveva in forma di dialogo platonico,  dei soliloqui in forma di dialogo? Con destinatari che erano solo nomi, interlocutori di comodo -  il Socrate o l’Alcibiade di Platone.

zeulig@antiit.eu 

Il Sud nasce con l’unità

Settembrini, il giurista patriota casertano che i Borbone avevano condannato a morte, lascia questo testamento spirituale ai suoi allievi all’università nelle “Ricordanze della mia vita” che saranno pubblicate postume: “Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, perché è sua la colpa di questo”. Di questo, cioè: “Se egli avesse impiccato noialtri, oggi non si sarebbe a questo: fu clemente e noi facemmo peggio”. L’unità avendo precedentemente sintetizzato in “pane e libertà con la balestra”. Il tradimento delle buone intenzioni. Fino all’odio-di-sé, si fa presto a passare dal nemico esterno al nemico interno, se quello è forte. 
Il “Sud” nasce con l’unità. Molti elementi dello stereotipo già circolavano, ma l’unità ne fece uso sistematico e politico: il pregiudizio fu la sua politica. Non senza cinismo, anzi. I dati che Guerri elenca, seppure in breve, sono una storia inequivocabile – chiama la sua una “antistoria” ma di fatto fa una storia, senza inutili punte polemiche. Fu appropriata o altrimenti distrutta la ricchezza monetaria e industriale (manifatturiera, mineraria) Furono accantonati i garibaldini, eliminati i borbonici. Questi anche fisicamente: almeno seimila arresti seguirono l’annessione, con deportazioni, in Lombardia e in Piemonte – in una fortezza abbandonata a Fenestrelle, a duemila metri di altitudine. Le rivolte contro le tasse sui poveri e la leva militare iugulatoria furono affrontate - e irrobustite - con la militarizzazione: stato d’eccezione, esecuzioni sommarie, incendi, distruzioni, deportazioni. La corruzione s’impose in tutti gli ambiti, dalle forniture militari agli appalti pubblici, e privatizzati, alla manomorta. Nei plebisciti per l’unità ebbe parte attiva, mobilitata dai prefetti, la camorra – e non si esitò a proclamare più “sì” dei votanti.
Ancora nel 1855, l’Esposizione Universale di Parigi sanciva il Regno delle Due Sicilie il terzo paese per sviluppo industriale, dopo la Gran Bretagna e la Francia. Niente emigrazione. Novemila medici in attività. Riserve monetarie all’unità per 445 milioni di lire (una lira valeva 4,5 euro), contro i 27 del Piemonte (con Liguria e  Sardegna)- O i 195 del resto d’Italia, Piemonte compreso (ma 91 dei 195 milioni erano dello Stato pontificio).
I Borboni di Napoli erano legati alla parte vincente-perdente delle guerre napoleoniche, la Santa Alleanza dell’Austria-Ungheria e la Russia, e furono i primi a cadere sotto l’impulso rinnovato delle forze repubblicane e liberali. Ferdinando IV era stato salvato e protetto in Sicilia dagli inglesi, ma si volle reazionario poco dopo il ritorno a Napoli, e da allora il destino della sua dinastia fu segnato, come quello degli Asburgo. Manca questo aspetto nella ricostruzione di Guerri – latita in tutte le storie dell’unità – ma per il resto c’è tutto, un caso raso di onestà intellettuale.
Con l’unità il Sud è “Africa”, cioè una colonia. Un nemico, benché scodinzolante, da affrontare con disprezzo, e con libertà di bottino. Pieno di volenterosi, come avviene in ogni colonia: allora come oggi, tra i massimi spregiatori si trovavano le borghesie di regime del Sud: politicanti, affaristi (manomorta, appalti), camorristi. Fra i più convinti sostenitori della conquista come conquista  Guerri cita l’economista napoletano Antonio Scialoja – ma non era isolato – che a Cavour a Natale del 1860 Cavour argomenta “l’impossibilità di fondare un governo altrimenti che  sulla forza, almeno per un lungo tempo”. La legge Pica, che impose lo stato di guerra al Sud su pressione del capo del governo Minghetti, bolognese, fu opera di un solerte deputato abruzzese..
Il primo rapporto del generale Cialdini a Torino, il conquistatore di Gaeta, subito dopo la promulgazione dello stato d’eccezione, fa con orgoglio queste cifre: 8.968 fucilati, fra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7.112 prigionieri; 918 case e 6 paesi bruciati; 12 chiese saccheggiate; 2.905 famiglie perquisite; 13.629 deportati: 1.428 comuni in stato d’assedio. Tutto questo “soltanto nel Napoletano”.
Le cifre per la verità ballano. I giustiziati nella guerra civile o lotta a brigantaggio vanno dai cinquemila ai diecimila. Fino a 100 mila arriva il calcolo di chi ha perso comunque la vita, la casa, i campi, il lavoro, i risparmi. Ma Guerri ha indubitabile anche la testimonianza di Massimo D’Azeglio nell’agosto 1861, indirizzata a un amico e pubblicata sul giornale parigino “La Patrie”, in aggiunta al rapporto di Cialdini: “Ci vogliono, e pare che non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti e non briganti, tutti non ne vogliono sapere… Di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì. Dunque, deve essere corso qualche errore… A  chi volesse chiamar Tedeschi in Italia, credo che quegli Italiani che non li vogliono, hanno diritto di fare la guerra. Ma a Italiani che, rimanendo Italiani, non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibusate”.
Più specificamente, Guerri rianima i briganti, coi contributi di Pino Aprile e Franco Molfese. Di quest’ultimo soprattutto, l’unico storico che si sia applicato a ricostituire gli archivi della guerra civile postunitaria, dispersi, più spesso bruciati o sottratti - gli armadi Molfese ha trovato per lo più svuotati. L’inchiesta che il Parlamento svolse con la guerra civile in corso, del lombardo Antonio Mosca, un cavourriano, dunque di piena fiducia, relatore Giuseppe Massari di Bari altro liberale, è stata secretata e poi dispersa. Il barone Ricasoli, il capo del governo, giudicava del resto i briganti un’organizzazione terroristica del papa, di Pio IX..
Il ritratto di “Chiavone”, Luigi Alonzi, si legge come un romanzo d’avventure. Anche per i tanti volontari, molti variamente titolati, nobili, ufficiali, professori, che accorsero da ogni parte d’Europa al suo seguito. Lo stesso delle brigantesse, raccontate anche fotograficamente, starlette in posa con l’archibugio, giovani e proterve, capi militari capaci, spesso cattivissime. Le brigantesse Guerri disegna “sui giornali e le riviste del Nord”, e questo contribuisce molto al senso vero della guerra al brigantaggio. Il romanticismo del brigante meridionale era già stato celebrato da Berlioz in “Lélio”. Al Nord si fece di più, coi “pruriginosi resoconti sulla diabolica sessualità di queste messaline analfabete”, che nessuno in realtà conosceva. Di Maria Oliverio, di Casale Bruzio, che preferì farsi uccidere, Dumas avviò il romanzo, “Pietro Monaco, sua moglie Maria Oliverio e i loro complici”, abbandonandolo poi a metà, dopo sette capitoli. Filomena “Pennacchio” De Marco, che amava i cappellini, quando fu arrestata invece fu doppiamente crudele: denunciò i suoi compagni. Il cliché della donna del Sud naturalmente è da rivedere.
Commovente, per molti aspetti, è il ritratto di”Franceschiello”, o “Ciccillo”, l’ultimo re di Napoli, d grande dignità nella lunga serie di sconfitte, benché giovanissimo e inesperto. Un film, un serial, la storia della sua moglie tedesca, Maria Sofia, che gli sopravviverà sempre combattiva fino al fascismo solidamente impiantato.
Anche Borjes, il generale catalano fedele al papa, ne esce bene:  la sua esecuzioni fu esecrata in tutta Europa, ricorda Guerri, perfino dal rivoluzionario Victor Hugo. Borjes fu giustiziato sommariamente dalla pattuglia che lo incrociò, si disse, per impadronirsi del portafogli. Dopo Porta Pia iI generale Lamarmora ordinò che la salma fosse trasferita a Roma e tumulata nella Chiesa del Gesù, dopo esequie solenni.  
Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud, Oscar, pp. 297, ill. € 11,50

martedì 12 aprile 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (282)

Giuseppe Leuzzi

“Qui poi”, scriveva Calvino di ritorno dall’America nel 1961, “gli scrittori sono decine di migliaia, come i poeti nell’Italia meridionale”.Ce ne eravamo dimenticati.

Luigi Settembrini si pentì presto, il patriota casertano. Nelle “Ricordanze della mia vita”, che saranno pubblicate postume nel 1870, dice di aver detto ai suoi allievi: “Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, perché è sua la colpa di questo”. Perché, “se egli avesse impiccato noialtri, oggi non si sarebbe a questo: fu clemente e noi facemmo peggio”. Il tradimento delle buone intenzioni. Fino all’odio-di-sé: si fa presto a passare dal nemico esterno al nemico interno, se quello è forte. 

La paura non può dormire
“La paura non può dormire”, dice Herta Müller, la scrittrice rumeno-tedesca premio Nobel, ricordando gli anni bui nella Romania di Ceausescu, preda della polizia segreta – vai al lavoro e non sai se sei stata licenziata, cammini e non sai se ti seguono, torni a casa e ti aspetti di trovarla in disordine, rimestata. È lo stesso “sotto” le mafie. Il nemico c’è, tutti lo sanno, ma non si può liberarsene. È quello che si dice vivere nella paura.
Ci si può ribellare. Herta Müller lo ha fatto ed è stata premiata. Ma era protetta dalla Germania. Altra cosa che i Carabinieri – i quali il delitto lo puniscono “dopo”, quando lo puniscono..
“Le minacce di morte provocano un’angoscia mortale”, ricorda la stessa scrittrice della sua vita sotto Ceausescu, perseguitata dalla polizia politica. È così, chi vive in zone di mafia lo sa.
Minacce di morte sono per estensione anche quelle ai beni, la casa che è la nostra corazza e la copertina di Linus, l’azienda, la stessa automobile. Mentre per i Carabinieri sono solo una pratica per l’assicurazione. Solo, appunto, le minacce alla vita prendendo sul serio, e solo dopo la morte.  

La scoperta del Sud
Il Sud è stato a lungo – Sette-Ottocento – il luogo del pittoresco: luoghi remoti, non urbanizzati, poco abitati, pieni di miti e magie. Con l’unità è diventato l’“Affrica”, e il luogo per eccellenza dell’antropologia italiana, quasi tuta di superficie, giornalistica – a sensazione. Che si è subito impegnata a sistematizzare l’africanesimo. Creando un handicap da cui il Sud non si più ripreso, anche se spesso è molto più “avanti” del Nord, americanizzato, europeizzato, avanguardista, linguista, cosmopolita, e per esempio non è razzista.
L’antropologia lo ha fatto per un pregiudizio? Non si può dire, perché ad essa hanno contribuito anche antropologi (etnologi, folkloristi) meridionali. Lo ha fatto perché l’antrologo scopre l’Italia come l’italiano del Nord che ha sposato qualcuno del Sud scopre il Sud e la campagna. Essendo normalmente persona di città che scopre la campagna, la vita di paese, la natura che per sé non è bella, troppo caldo, troppo freddo, troppe mosche, al Sud, non avendo mai visto né odorato prima  la campagna, la sua campagna – lo stesso il “professore” meridionale, che si vuole urbanizzato. Olmi è un’eccezione, ed è recente, come Nuto Revelli. Per un paio di secoli il mondo contadino delle vaste plaghe padane e delle Prealpi veneto-lombardo.piemontesi, come degli Appennini, tosco-emiliano, ligure-piemontese, con le code in Lunigiana e Garfagnana, da dove partivano per le Americhe in massa, è rimasto ìgnoto: zero poesie, zero letteratura, zero storia, e naturalmente nessun folklore elevato a scienza, della dipendenza.   

Napoli
Le primarie si tennero a Napoli anche per i plebisciti unitari del 1860. Borghesi assoldati e camorristi attendevano i votanti alla soglia del seggio, con coccarda tricolore.
Il suffragio non era allora universale, ma chiunque poteva votare se a favore. Votarono anche inglesi e ungheresi.

Fu un Borrelli l’educatore dell’orfano “Franceschiello”, Francesco II, il giovane ultimo re di Napoli, cresciuto inetto e incolto. Da Napoli, poi, a Milano?

Non solo non ha fatto nulla per risanare Bagnoli, lui come i suoi predecessori, l’incredibile Iervolino, lo stesso Bassolino, lungo la linea Pci-Pds-Ds-Ulivo-Pd, ma aizza i napoletani contro il risanamento stesso. Con questa campagna, anzi, pensa di risollevarsi nei suffragi e rivincere le elezioni a giugno. Non aveva fatto abbastanza danni da giudice, De Magistris, li moltiplica da sindaco. Ma bisogna dire che Napoli lo ama, anche se non lo voterà.

Un giudice come Ciccio Franco e i boia chi molla si doveva ancora vedere. Ma a Napoli tutto è possibile, non è la capitale dei miracoli?

Si chiamano centri sociali, anche se in testa avevano gli assessori d De Magistris. I centri sociali contro il risanamento di Bagnoli? Perché lo vorrebbero sempre puzzolente e pieno di sorci.

Bagnoli sono la metà di Campi Flegrei. Che sono un paradiso in terra, ma dominato dai lestofanti. . Incluso nelle strutture turistiche pubbliche, castello, grotte, giardini, camerelle, etc. Provare per credere.
Senza opposizione: non gliene frega nulla a nessuno. Anche se tutti quei gaglioffi sono dipendenti pubblici.

Non c’è solo De Magistris. Si cerchi la provenienza dei giudici dei processi disinvolti, a Milano, a Potenza, a Catanzaro, in Cassazione, la stessa Calciopoli, sono tutti napoletani. Immarcescibili. Anche in questo intelligentissimi, insomma svelti d’ingegno: si sono collocati nella casta degli intoccabili.

Tempa Rossa è un vecchio processo di Woodcock. Un altro napoletano che fece sfracelli a Potenza pur di rientrare a Napoli. Con molto fumo naturalmente: arresti eccellenti, intercettazioni a gogò, capi d’accusa pirotecnici. Non potrebbero mandarli direttamente a Napoli? Li dobbiamo pure mantenere.

Antimafia
Molto scandalo per un mafioso in tv, dove viene presentato come mafioso, e si vuole mafioso, Riina jr.. Senza pentimenti. Mentre Cianciminio jr., altro mafioso in esercizio, è stato pavoneggiato come un  eroe, perché contribuiva con le sua carte false allo Stato-mafia. Per non dire dei monumenti eretti a mafiosi di lungo corso, ben più cattivi di Riina jr., da Enzo Biagi. Si critica l’apparizione di Riina jr. perché era da Vespa. L’antimafia è degli amici degli amici, anch’essa.

“Finora avevamo i briganti. Ora abbiamo il brigantaggio e tra l’una e l’altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non li aiuta, quando si ruba per vivere e morire con la pancia piena; e vi ha il brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo, allorquando questo li aiuta, gli assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni. Ora noi siamo nella condizione del brigantaggio”. Vincenzo Padula, “Cronaca del brigantaggio in Calabria” (1864-1865). Roba di centocinquant’anni fa? Bisogna staccare la gente da briganti. E l’antimafia istituzionale non funziona, troppo furba.

I pentiti li ha inventati Liborio Romano, oppositore dei Borboni nel ’48, esiliato in Francia per quasi dieci anni, e poi nel ferale 1860 loro prefetto di polizia. Mentre in proprio si accordava segretamente con Cavour, per favorirlo prima dell’arrivo di Garibaldi a Napoli, Romano si accordò col capo camorrista Tore di Crescenzo, promettendo la libertà e una somma di denaro in cambio del mantenimento dell’ordine in città. Un accordo che funzionò.
Il pluripentito Romano, che da liberale fu ministro di polizia dell’ultimo Borbone, sarà prefetto a Napoli dell’Italia unita.

Si tiene in isolamento Provenzano, benché in fin di vita. Il giudice di sorveglianza se ne lava le mani, e il ministero pure. È l’effetto dello Stato-mafia, tutti hanno paura di qualcosa, anche se non sanno di che. Ma non è simpatico. Senza contare che questo Provenzano a suo tempo non si prendeva perché era in qualche modo un informatore.

leuzzi@antiit.eu

Berlusconi che licenzia è meglio di niente - 19

Ora che licenzia ha il rispetto di tutti, dei tifosi e degli avversari, e incute ai giornalisti una sorta di timore reverenziale. Non lo chiamano più ex Cavaliere ma leader, presidente. Perfino i giudici lo assolvono.. E non lo disprezzano, gli sorridono. Anche se ora sbaglia, a ripetizione.
Per una vita Berlusconi non ha licenziato nessuno. Da un paio d’anni licenzia a ripetizione gli allenatori del Milan, Allegri, Seedorf, Inzaghi, e ora Mihajlovic – dopo che da Ancelotti si è fatto dire no. Da Grande Allenatore, che tutto sa, dai ritiri alle diete, agli schieramenti e alle tattiche, oltre che da Grande Amante, Grande Politico, Grande Uomo d’Affari, e Fasso tutto mi. Una squadra, tra l’uno e l’altro allenatore, portandosi dietro di scioperati, senza forza, senza carattere. Non solo, ma tra i milioni di cinesi ricchi e onesti – tutti ne trovano, anche da Milano, vedi Tronchetti Provera, o il Moratti dell’Inter – lui riesce a trattare l’unico filibustiere. Ancora peggio che con Forza Italia, dove ha perso irriconoscenti tutte le scamorze che ha voluto in prima squadra, Fini, Alfano, Lupi, Verdini, Quagliariello (Quagliariello?), ma sa che i voti sono suoi, ancora molti.
Se non che prima lo criticavano tutti, anche sua figlia e sua moglie, ora non lo critica più nessuno. I giudici si possono capire, saranno stanchi di essere chiamati a condannarlo ogni poco. Ma gli altri? L’ex Cavaliere non ha più nemici. Anzi, quasi gli si fa merito dell’incapacità ripetuta a scegliere i collaboratori. Senza contare le sue riviste, le sue televisioni, le sue case editrici, le sole che si tengono in piedi, e quindi, Dio non voglia, non si sa mai, la crisi morde, anche se licenzia, è meglio di niente. 

C’era una volta un industriale che era anche scrittore

Gualino è stato un grande industriale, il più inventivo e attivo forse del primo Novecento: armatore (Snia, Società di Navigazione Italo Americana), creatore dell’industria chimica (Snia Viscosa e Rumianca) e del cioccolato (Venchi Unica), nonché della Lux Film, e socio di resistenza di Giovanni Agnelli, il “nonno”, nei primi anni 1920, quando i Perrone di Genova (cantieri Ansaldo) tentarono  di prendergli la Fiat. Un protagonista dell’industria e della finanza per quasi mezzo secolo. Anche se – o anzi perché – avversato da Mussolini, che ne fece il bersaglio di un suo periodico Mani Pulite: lo mandò in carcere con l’accusa di bancarotta fraudolenta, e poi al confino, e infine lo interdisse da ogni incarico – gestiva le sue aziende tramite procuratori. Fu anche un mecenate, per scelte proprie o mediate da Lionello Venturi, che molto lavorò per lui, di buona parte della pittura e l’architettura italiane tra le due guerre. E amava scrivere. Scriverà tardi un autobiografico “Frammenti di vita” sulle sue molteplici attività. Tra carcere e confino scrisse due racconti fiabeschi, “Tim e Tom in America” e “Minna”, rimasti inediti benché apprezzati da Cecchi e arricchiti da disegni di Gentilini, resi noti di recente, il diario dell’isolamento, “Solitudine”, che sarà pubblicato nel 1945, e questo “Uragani”, la sua prima opera scritta e pubblicata, nel 1933.
Sono sceneggiature del crac del 1929 e dopo. Tra un banchiere, un principe russo emigrato e altri personaggi di prima fila, tra Wall Street e una impossibile sponda sovietica. Prose da cultore della materia ma prolisse, e oggi, dopo tanti crac, anche scontate. Però, che un Gualino si compiacesse di scrivere fa piacere al lettore: un’eccezione e più che una curiosità. Della serie si stava meglio quando si stava peggio.
Riccardo Gualino, Uragani, Il Sole 24 Ore, pp. 95 € 0,50

lunedì 11 aprile 2016

La Germania all’attacco della Bce

Non c’è dubbio a questo punto che gli attacchi alla Bce sono in Germania politici, da parte del governo in carica, ai massimi livelli, e concertati. Il week-end ha visto una tale salve di critiche alla politica anti-deflazione di Draghi, da Schaüble, l’arcipotente ministro del Tesoro, e da tanti altri esponenti della Cdu, il partito della cancelliera, che la cosa non può non essere stata concertata. Apparati di addetti stampa sono anche stati mobilitati a sollecitare aspri commenti anti-Draghi dai maggiori giornali, “Der Spiegel” in testa.

L’attacco è pretestuoso. La polemica di Schaüble è ora contro i tassi negativi della Bce. Che però non li adottati nell’ultima seduta a fine marzo: li aveva adottati a dicembre, e dopo tre mesi ha corretto l’errore. La critica non è dunque tecnica, è politica.
L’attacco è un fatto grave. Non è l’espressione di un malumore ma un’offensiva. Finora le critiche erano provenute dalla Bundesbank, e dal professor Hans-Werner Sinn, presidente uscente dell’autorevole Istituto per la Congiuntura di Monaco, come delle critiche tecniche. L’intervento a gamba tesa del governo di Berlino rompe uno dei canoni di base degli statuti della Banca centrale europea, come di ogni banca centrale: l’autonomia dai governi. Un fatto di portata incalcolabile.
L’attacco non è uno scandalo per la Germania, che sempre ha rotto i patti, quando il suo interesse lo esigeva. Ma accomuna questo governo al peggiore avventurismo della storia tedesca.
Cade la maschera di Angela Merkel, che per anni si  è costruita internazionalmente l’immagine della statista, che tiene a bada i rigurgiti nazionalisti – andava dicendo ai partner: “Sapeste, senza di me.. .” No: è il suo modo di governare, se non lei stessa con i suoi referenti, il giovane Weidmann presidente della Bundesbank,  e lo stesso Sinn, ad alimentare il qualunquismo antieuropeista e sciovinista. Della cittadella tedesca assediata dagli europei infigardi, che tutti mettono le mani in tasca al tedesco laborioso, specie i nullafacenti latini, e delle altre grossolanità di cui si compiace il professor Sinn.
L’attacco è tanto più insidioso in quanto si copre con furbizia – chiara ammissione di colpa: il professore si faceva intervistare, in contemporanea con le abominazioni di Schaüble, da Danilo Taino sul “Corriere della sera” nelle vesti dell’agnello. Il fondamento palesemente pretestuoso degli attacchi della Cdu a Draghi, che con la sua politica espansiva avrebbe alimentato i partiti extrasistema in Germania, conferma che l’attacco è a freddo, e organizzato. Contro Draghi e contro l’autonomia della Bce, che per Berlino deve essere un altro nome della Bundesbank. 

La menzogna è verità

Perché Cagliostro interessa tanto i cacciatori di misteri, quando è un personaggio privo di mistero” – “è così prevedibile che potrebbe essere programmato da un computer”? Perché il “filocagliostrismo massonico” e “l’anticagliostrismo sanfedista” possono spiegarsi con lui la rivoluzione francese come un complotto, “sia pure en plein air”. In filigrana, è anche “l’archetipo dell’uomo senza qualità, che dal proprio tempo si fa attraversare”.
Eco compilò la plaquette vent’anni fa per riunire quattro scritti d’occasione a cui era “affezionato”.
La compilazione è una ricerca sull’umorismo di Campanile, o le origini del riso. Condita da note affabili su Hugo Pratt (“Corto Maltese”) e sul “Linguaggio mendace di Manzoni”, da cui il titolo. La quarta nota, “Migrazioni di Cagliostro”, è una coda del “Pendolo di Foucault”, dell’ossessione per il complotto ossessivo. Con effetti paradossalmente multipli, da fuoco d’artificio a inneschi successivi, un petardo ne apre un altro.
Il riso è tema tormentato di Eco, prima che il “complotto” lo assorbisse, partendo dalla parte perduta della “Poetica” di Aristotele che avrebbe dovuto sistematizzarlo. Insolubile, e perciò sempre terreno fertile. Di Manzoni, che non ama ma teme, Eco traccia i vari linguaggi nel romanzo, erudito, convenzionale, “popolare”, figurato, ironico, etc., facendo  dell’autore dei “Promessi sposi” un giocatore linguistico – un organista abilissimo ai vari registri, si direbbe, il Bach del romanzo – più che un ideologo e un uomo di fede. Ma tale, tanto immerso è in questo gioco, da rendere i suoi giochi linguistici irrilevanti, “prova ne è che tanti lettori hanno capito il romanzo saltando, per giustificata pigrizia, tutti gli esempi di discorsi inconcludenti”.
A Campanile Eco dedica metà libretto, con lunghissime citazioni. A Corto Maltese un’affettuosa ricognizione della sua propria smania di lettore affezionato, celebrandone l’autore Hugo Pratt: “Ho sempre sostenuto che i disegnatori si disegnano nei loro protagonisti”..
Tutto vero, tutto bello. Con un che, però, di surfeited – di eccessivo: un secentista avrebbe detto di eufuismo - e insieme di marginale, irrisolto. Tra menzogna e ironia, Cagliostro resta più inquietante, Manzoni più apodittico (è un believer, molto solido malgrado le fobie), Campanile meno “ostinato a domandarsi se sia scrittore comico o scrittore tout court” come Eco generoso lo vuole, e Corto Maltese sicuramente un po’ di più del suo creatore Hugo Pratt, qualsiasi vita questi abbia avuto. E con la sensazione netta che Eco non si sarebbe offeso da questo rilievo: più che avere ragione, voleva divertirsi e divertire.
Il vizio della bibliofilia, in particolare, esercita esagerato su Campanile. Su un autore modesto impianta ricerche filologiche complicatissime, piene di trabocchetti, rovesciamenti, e fonti segrete – il rimando decisivo è alle “massime conversazionali di Paul Grice”, delle quali è arduo sapere cosa siano, nonché del loro autore. Come di un intento forviante. Parte della più generale apologia della menzogna che Eco esibisce, tra lazzi e tormenti.
In pillole, è sempre il semiologo che della sua scienza diceva: “Studia tutto ciò che può essere usato per mentire” (“Trattato di semiotica generale”, 1975). E tutti i suoi scritti, si può dire, brevi e lunghi, d’occasione o applicati, di studio o di fiction, ha svolto con ironia su questo crinale. Ma con ironia lieve, cultore inesausto sebbene disincantato della verità: a differenza del conte de Milly, che cita in apertura, “che per trovare l’elisir di lunga vita alla fine sbaglia e si avvelena”, lui si tiene saggiamente al di qua, dell’avventurismo intellettuale come dell’accademismo.
Umberto Eco, Tra menzogna e ironia


domenica 10 aprile 2016

Problemi di base - 272

spock

Ma perché non si fanno le intercettazioni tra Renzi e Boschi?

O aspettiamo il referendum sul Senato?

Ma, intanto, dove mandiamo i giudici di Potenza dopo il flop domenica prossima - il Senato non ci sarà più?

E Emiliano?

Le intercettazioni sono di sinistra o non di destra – Bongiorno, Davigo?

E come le fanno, sembrano palate di escrementi?

Non bisognerà disinfettare poi i palazzi di Giustizia?  

Solo i nemici di Obama nelle liste di Panama?

Anche Verdone? E la D’Urso?

spock@antiit.eu 

Il salotto buono sogna – il cavaliere che non c’è

I grandi soci Rcs vogliono di più. Anzi no, sono offesi dall’offerta di Cairo. Che non è nemmeno un’opa, come finalmente anche i giornali cominciano a capire, ma un’ops, un’offerta di scambio: Cairo vuole pagarsi il “Corriere della sera” con La 7! Etc. etc., lo sdegno è massimo.
In realtà in grandi soci non sanno che fare. Fantasticano di una Cavaliere Bianco  blaterano perfino del gruppo Springer, che si è ritirato da un’incauta joint-venture vent’anni fa e ancora scappa. In realtà non sono grandi, e non son più soci. L’ex Sai ora Unipol ha interesse al rientro di Rcs dal debito, che Cairo in qualche modo garantisce. E la Pirelli targata cinese non sa forse nemmeno di cosa si parla. Restano Della Valle e Mediobanca, soli e con quote marginali. .
La decisione spetta al mercato, si dice, cioè al parterre degli azionisti “non grandi”. Che però non c’è dubbio non vedranno l’ora di disfarsi di Rcs. E spetta anche alle banche creditrici: il problema vero sono i debiti, vicini a mezzo miliardo.
Alle banche Cairo propone una moratoria delle scadenze di un anno. Sembra poco, anzi niente, e invece a questo punto tutte probabilmente concorderanno: meglio Cairo che niente. La proposta di Cairo del resto è stata articolata dalla maggiore fra di esse, Intesa. 

Da Milano ritorno a Torino

Il cappello di Cairo sul “Corriere della sera” completa figurativamente l’affrancamento di Torino da Milano, e anzi un quasi ritorno di Milano sotto Torino. Dopo l’uscita sprezzante degli eredi Agnelli dallo stesso “Corriere”. Cairo si è fato come imprenditore a Milano, ma è piemontese, tifoso e patron del Torino.
Un tempo il passaggio di Torino sotto il patronaggio di Milan faceva notizia, alcune anni fa, quando l’avvocato Agnelli portò la Fiat in custodia da Cuccia.  Andò a finire male, come tutto quello a cui ha messo mano Cuccia, e tuttavia Torino non ha osato ribellarsi. Ora sì.
Cairo non ha la forza di soggiogare Milano. È imprenditore da mezza classifica. Il suo gruppo fattura sui 250 milioni, la Rcs quattro volte tanto. Ma capitalizza quasi il doppio del gruppo milanese, e può così comprarsi gratis un miliardo di fatturato. Con mezzo miliardo di debiti, è vero, ma a quelli ci penseranno le banche – a come non perderlo..