Cerca nel blog

sabato 22 marzo 2014

Ombre - 213

L’arresto del pd di Messina Genovese “Repubblica” confina al secondo giorno in dieci righe. E non ha una riga per i novant’anni di Macaluso, celebrati al Senato, con Grasso e Napolitano. Per la crisi dei giornali?

“Repubblica-Palermo” pure, trascura Genovese. Eccitata dal ponte sull’Oreto, i pini della circonvallazione, e il mafioso col sussidio disoccupazione (è il primo?).

Sono vent’anni tra pochi giorni dal trionfo di Berlusconi alle elezioni del 1994, ma non se ne parla. Per scongiuro?

Dunque, l’inchiesta non era inventata, un giudice ha dato ragione al pm Robledo che accusava i gestori di Expo 2015 di malversazioni. Sembrerebbe una cosa enorme. Ma non c’è scandalo, Milano si assolve.
Forse per solidarietà col Procuratore capo Bruti Liberati, che non voleva l’inchiesta.

Un’altra inchiesta su Expo 2015 Bruti Liberati ha tolto a Robledo, competente per materia, e l’ha passata a Boccassini. Fra i due giudici c’è differenza?

Ma  Russell Crowe, il “Gladiatore”, è stato benedetto dal papa oppure no? I giornali italiani sono divisi, ma è importante saperlo. Perché poi dobbiamo andare a vedere il suo film, “Noah”, che ha portato a propagandare in piazza San Pietro.

O il papa non l’ha benedetto perché “Noah” è stato bandito dai paesi mussulmani?

Allelujah per il via libera della Corte costituzionale tedesca al Fondo europeo salva stati, 700 miliardi. Meno male, la Germania è grande. Nessuno – ma proprio nessuno - ricorda che la Germania ha speso per salvare le sue banche (e associate, in Austria, Belgio, Olanda), la stessa cifra, ma di soldi europei benché senza Fondo, nel 2006-2009. Senza chiedere il parere di nessuno.

Scioperano  mercoledì i mezzi pubblici, il terzo sciopero in tre mesi a Roma. E si apre a tutti la ztl, la zona a circolazione limitata, dove durante la chiusura si respira. Si può dire annullato con gli scioperi l’effetto chiusura domenicale della città al traffico, per la terza domenica. È un gioco, virtuoso, molto – moriremo di politicamente corretto.

“Milano, la procura isola il pm: «Nessuna inchiesta insabbiata»”, assicura Colaprico su “Repubblica” martedì. Non è vero. Ma è comprensibile, c’è un po’ d’irritazione perché il Csm ha privilegiato nella confidenza dello scandalo il “Corriere della sera”.

La Procura di Milano ha insabbiato (“chiuso in cassaforte”) l’inchiesta sull’asta pilotata per la privatizzazione di Sea, la società degli aeroporti, esattamente fino al giorno di chiusura dei termini per l’asta stessa. Altrove ci sarebbero stati arresti per questo, non denunce – dopo due anni – al Csm.  Ma a Milano, e al Csm, si può.

La pagina di “Repubblica” martedì sul (non) scandalo alla procura di Milano s’infioretta di un “breviario” di Gianluca Luzi: “Il Milan sembra il Pdl ultima fase. Ma del Milan non si può dare la colpa ad Alfano”. Ne sentivamo la mancanza: manca effettivamente Berlusconi in questo nuovo colpo di teatro della giustizia di Milano. Non ci sarà un errore?
 
“Solo il 5 per cento dello spazio aereo è controllato”, lamentano le security americane dopo la scomparsa dell’aereo in Malesia. Spiateci tutti.

Il partito Democratico del Veneto “abolisce” i mendicanti. Anzi, meglio, gli accattoni. È più economico che dargli da mangiare?

Il giorno delle sanzioni europee, “il colosso russo Rozneft socio forte di Pirelli”. Con Rozneft, assicura “Repubblica”, Tronchetti Provera disinnescherà la guerriglia dei fondi (americani).

In un’intervista con Cazzullo, Macaluso fa migliore storia del Pci che il pallido Spriano e anche Bocca:
Non ci vuole molto, i segreti sono manifesti, solo un po’ di onestà.

L’intervista di Macaluso, la lettura più sapida del “Corriere della sera” lunedì 17, non si può leggere online (quindi girarla col link, etc.). Che come tutti i siti non è selettivo, raccoglie di tutto – cioè sì, bisogna voler escludere qualcosa.

Quando Craxi fece il governo nel 1983, “ricordo che Berlinguer s’infuriò”, dice Macaluso: “Non l’avevo mai visto così arrabbiato”. Un genio.

Si capisce retrospettivamente che Scalfari non registrò l’evento su “Repubblica”- un socialista a palazzo Chigi, per la prima volta. Non un commento su questo, una segnalazione comunque dell’evento. E anche il titolo: a corpo contenuto come per un qualsiasi giorno vuoto di notizie. Era per non infastidire Berlinguer.

Una volta si vinceva in case e si perdeva fuori casa: il”fattore campo” era (quasi) imbattibile. La Lazio vince invece fuori casa, in casa perde o al più pareggia. Ha lo stadio contro, i tifosi. Che non fanno nulla per la squadra, altro che il tifo, ma sono in grado di distruggerla. Sono il riflesso della  politica.

Delle 25 “stars of Europe” che “Business Week”, la rivista d’affari americana, incoronava dodici anni fa “leaders in prima linea per il cambiamento”, solo due sono ancora in pista, ammaccati, Tony Blair e Guido Barilla. Si deve dire il  cambiamento in Europa travolgente?

Berlusconi vent'anni fa

Si votava vent’anni fa, il 27 marzo. Una settimana prima era prevedibile il risultato – e il seguito:
“Galoppa il Cavaliere Berlusconi. Lo fanno galoppare. All’apparenza lo fanno anche criticare dai loro giornaloni, Ma lo sostengono, e lo faranno vincere in scioltezza. “Destra” e “sinistra” insieme, la borghesia di destra e quella di sinistra. Puntano al dopo, quando il folle Berlusconi si dovrà disvestire di tutto, tv, giornali, supermercati, case editrici, assicurazioni, società immobiliari: si prenderanno tutto “a gratis”, ridono come i pescecani. E se non cederà passeranno all’opposizione, che è pratica nobile.
“Non è una profezia, il futuro è segnato. Il tempo di organizzarsi e l’«arricchito» Berlusconi – i ricchi sono censori  - non avrà più il suo impero, o lo avrà malandato, e non sarà più leader in politica. Potrebbero anche farlo azzannare da Borrelli, il Cavaliere finora intemerato”.

venerdì 21 marzo 2014

Secondi pensieri - 169

zeulig

Erotismo – È stato legato al bigottismo, ma non abbastanza. Non c’è epoca in cui l’erotismo sia stato coltivato come nell’epoca vittoriana, del moralismo più bigotto. Nelle lettere, la poesia e la pittura. La mostra romana “Alma-Tadema e i pittori dell’Ottocento inglese”, del secondo Ottocento, è una lunga affollatissima passeggiata erotica, di corpi soprattutto femminili ma anche maschili, in un riverbero costante di allusioni – sguardi, colori, “odori”,  cromatismi, e fiori insinuanti, per forma, emblema, varietà. Il repertorio di Steven Marcus si trascura, che invece è pieno di riferimenti. Per finire con Wilde, Frank Harris, due irlandesi, è vero, e Beardsley.

Heidegger – È marxista. Anche, senza dubbio.  “Così Lutero si travestì da apostolo Paolo”: Marx nel Diciotto brumaio lo dice delle rivoluzioni che si cercano nel passato, ma questo è Heidegger. Nel senso più nobile di Marx: “Il principiante che ha imparato una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna, ma non riesce a possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando in essa si muove senza reminiscenze, dimenticando in essa la lingua d’origine”. Il Filosofo Secondo, dopo Platone, è dunque marxista, magari incognito.
Si vuole Marx economista e agitatore e non filosofo. E invece lo è, sotto forma di Heidegger, il primo marxista: i tedeschi della rivoluzione conservatrice, che Marx abominavano, se ne sono appropriati i criteri e gli obiettivi, anche se solo in funzione antiliberale. Marx fu economista fantasioso, essendo autodidatta, e politico mediocre, litigioso, invidioso. Il nodo è il corpo, la materia, il mondo. È l’estraneità dell’essere quale è, materiale, che ha nutrito la borghesia, e la chiesa oggi borghese, e le fa ipocrite, quindi stupide. Già in questo senso il nazismo è marxista. Per essere, come si sa, biologico. Per la percezione del corpo in quanto eredità, sangue, passato che non passa, con tutto ciò che questo implica di fatale, quindi obbligato. Un Diamat ematologico. Chiunque enunci un affrancamento dalla fisicità senza coinvolgerla tradisce e abiura, è il nemico.
Lo stesso antiumanesimo che Heidegger dichiara è il Diamat. E il popolo, col popolare? L’insistenza sul völkisch, volumi di völkisch, il principio v., l’essenza v., lo spirito v., la voce v., la scuola v., la gioventù v., durante e dopo Hitler, e prima? Una riscrittura di Marx, l’“ebreo tedesco” di Bakunin, la Prima Internazionale fu rissosa. Mimetizzata ovviamente: il Filosofo Bino, o Trino, considerando il suo agostinianismo (o scolasticismo?), si immagina in tuta mimetica, mani e viso al nerofumo, anfibi, ninja del popolo, che nottetempo semina di mine il campo ostile. Il bolscevismo è “una possibilità europea”, disse chiaro, è Europa, “l’emergere delle masse, l’industria, la tecnica, l’estinzione del cristianesimo”.
Ne sapeva pure la natura, poiché è ereditaria: “Se il dominio della ragione come eguaglianza non è che la conseguenza del cristianesimo, e questo è fondamentalmente d’origine ebraica, il bolscevismo è di fatto ebraico, e il cristianesimo è anche esso fondamentalmente bolscevico!”. Una genealogia, ebraismo, cristianesimo, bolscevismo, lusinghiera e non ingiuriosa, perché?

I tedeschi sono traumatizzati dai russi più che da Hitler – lo sono stati a lungo, e i qualche misura lo sono. Ma Heidegger uno spiraglio aveva aperto, tramite Marx. È vero che lui non è un ideologo, è anzi pragmatico, il genere “se un po’ di Marx serve, perché no” – un po’ di razzismo, un po’ di antisemitismo (di amerikanismo no, perché significa liberalismo, e questo è inammissibile, l’Impolitico Mann è politicissimo). Al bolscevismo.
I russi no, ma il bolscevismo è biblico: il comunismo non è un fatto “politico” o “sociologico” o “metafisico, è “un destino dell’esistente nella sua totalità, che segue il compimento dell’età storica e con questo la fine della metafisica”. Con il messianismo, checché voglia dire: l’estenuante battaglia sul Führer, il Capo, il Condottiero, il carismatico, l’unto, è invidia o nostalgia del Piccolo Padre, che altro? Marx del resto è Napoleone, seppure con la ghigliottina di Robespierre.
Ma l’identificazione più sottile è quella individuata da Hannah Arendt, anche se Heidegger non ne apprezza la filosofia: “Il pragmatismo, anche marxista e leninista, muove dal presupposto, comune a tutta la tradizione occidentale, che la realtà riveli all’uomo la verità, il totalitarismo presuppone solo la validità delle leggi del divenire”. Dell’esistere, senza leggi. Un’identificazione da intendersi, naturalmente, come sorpassamento. Le idealità e incertezze delle società fondate sulla volontà libera degli associati sono false e ostili. Ogni forma associativa, ogni appartenenza, che sia di tipo razionale e politico oppure consuetudinario e mistico, che non si fondi su una comunione fisica, d’interessi e di determinazioni materiali, è ostile. E tuttavia – ecco Marx e Heidegger uniti nella lotta - la mia verità è la verità. E deve fondare un mondo nuovo: la rivoluzione dei fatti discende dalla rivoluzione delle idee, a esse il mondo va conformato. La verità è conquistatrice. Gli uomini non sono inchiodati all’Ente nella soddisfazione dei bisogni vitali, non sono rassegnati.

Essere e avere non è solo un titolo di Gabriel Marcel, se essere è avere. L’essere è se stesso: storia, classe e Volk-corpo sociale. La fisicità è l’eterno incomodo del pensiero occidentale, da Kant, e gli altri scozzesi liberali, ai padri della chiesa. La fisicità eleva e razionalizza il possesso. E la morte che viene in primo piano esorcizza la violenza, in quanto rivoluzionaria. Si può fare un Heidegger e Marx, il materiale non manca, come sempre nella filosofia tedesca, e lui non protesterà. Non dirà mai che non ha letto Marx, avrebbe dovuto?, dopo la guerra accettava tutto – pur di non ammettere la Colpa: la sua idea di filosofo è il santone, uno che mai sbaglia. Qui e là la mobilitazione è totale, si aderisce alla storia con tutto l’essere.

Io - L’altro è nell’io, dice sant’Agostino nella “Confessioni”. O è viceversa, che l’io è nell’altro?
C’è ambivalenza, ma la proprietà transitiva attiva è anche passiva.

Marx – È Napoleone. Pensa cone Napoleone più che come Hegel: semplifica la storia perché vuole farsene una. Rilancia, sul supporto di Hegel e della storia rivelazione, l’unicità della Rivoluzione francese nel senso della compattezza, e anzi della monoliticità. Che è come la Rivoluzione si presentò nel mondo, ma questo a opera di Napoleone, della conquista napoleonica. La Rivoluzione fu episodica, si sa, e frammentata: mozioni confuse, assemblee vaganti, strane peripezie dei protagonisti, che sono tanti e nessuno, la violenza della plebe a Parigi, il silenzio del popolo in Francia, le restaurazioni. Ci furono semmai tante rivoluzioni, insieme e in successione. Napoleone ne fissò il nome, che non vuole dire nulla.

Suicidio - I serpenti a sonagli non si suicidano, si dice nel Mississippi. Solo l’uomo si uccide, si sa, ci si uccide solo per problemi umani. Anzitutto per amore, o “sfinimento da dolci languori” direbbe Balzac. Anzi, se per uccidersi bastasse il desiderio, si è sempre detto, non sarebbe più vivo nessuno. Baudelaire, formidabile creativo, ogni tanto si dava una pugnalata. Salgari si suicidò, lo scrittore più letto dagli italiani, autore di ottanta romanzi e centottanta racconti a quarant’anni, per ritenersi un fallito. Seguito a quarantadue da Pavese, di cui però nessuna s’innamorava. A quarant’anni Strindberg ne ebbe la tentazione per “l’imponente mole delle letture”, ricavandone un’autobiografia in quattro libri. Johann Heinrich Merck, mentore di Goethe giovane, cui ispirò Mefistofele, si uccise ai cinquant’anni, senza turbare il poeta. Gli umanisti si uccidevano per celebrare le virtù di Roma repubblicana. Il conte di Chignolo, Luigi Cusani, s’inventò morto per sfuggire ai creditori. La volontà di vivere può  vincere attraverso i preparativi pratici necessari, sempre troppi per l’ignavo.

Non c’erano suicidi nei lager, sostiene Primo Levi. C’erano. Ma tra chi s’era arreso, è vero, essendo già morto dentro.

zeulig@antiit.eu

Chandler rivisitato - il giallo postmoderno

Un omaggio, di uno scrittore irlandese che fa il Chandler a Los Angeles, resuscitando Marlowe. Non proprio in linea: questo Marlowe è sentimentale. E maleducato, il vero Marlowe si sarebbe alzato dalla sedia e avrebbe fatto il giro della scrivania all’ingresso di “lei” - “Et vera incessu patuit Dea”, la salutava Virgilio, una dea appare al’ingresso. Con un finale sconclusionato, come di chi, alla pagina 300, deve darci un taglio. Contraddicendo il canone nel suo fondamento: la verosimiglianza (normalità). Ma la storia fila. Con l’avventura ovviamente senza seguito di Marlowe e la bella sconosciuta dagli occhi neri, l’amore non deve lasciare residui. Sull’aneddoto chandleriano dell’omicidio-suicidio per finta.

Benjamin Black è il nome d’arte che Banville ha adottato nel 2006, decidendo di scrivere solo gialli, uno l’anno. Lavori svelti, forse redditizi. Stanco forse di aspettare il Nobel, che per l’Irlanda, dopo Heaney, arriverà non prima del 2025. Qui mima Pacific Palisades. Nella voga postmoderna, di rifare il già fatto. E con l’aria di divertirsi. Questo il chandleriano non lo condivide - è uno che ci crede. Ma la “rivelazione” dei meccanismi – il postmoderno soprattutto è una delazione – ci sta, è redditizia.  
Benjamin Black (John Banville), La bionda dagli occhi neri, Guanda, pp. 301 € 17,50

giovedì 20 marzo 2014

Letture - 165

letterautore

Confessione - L’esame di coscienza resta l’unica cosa che si può praticare senza danno. Salvo riscoprirsi l’Incantato del presepe, il pastore che “non ha nulla e non porta nulla” di Corrado Alvaro: “S’è fermato accanto alla grotta e guarda la stella che s’è posata come una farfalla tra la neve della roccia. Sta lì a braccia aperta, bocca spalancata, colpito dal segno celeste, senza poter parlare. Egli ha capito tutto, ma non potrà raccontarlo a nessuno”.

Il narciso Colette, che di fiori e odori è esperta, dice bituminoso. Narciso non suona bene, non solo in italiano, e peggio nell’originale greco nàrkissos, sdrucciolo.

Oltre un certo punto l’esame di coscienza è peccato, dilettazione morbosa. Pathos mathos, si direbbe in greco, la sofferenza è un’abitudine – di pathei mathos, l’abitudine della sofferenza, parla Eschilo nell’Agamennone.

La confessione non è nei vangeli, né c’è pentimento richiesto, Erasmo se lo disse con Lutero. Anche se l’esame di coscienza frena e restringe la naturale turpitudine: ognuno ha un suo oracolo personale, come Senofonte sostiene in difesa di Socrate, anche se non tutto è prevedibile, non è segnato né logico.
E l’altro è nell’io, dice sant’Agostino nella Confessioni. O è viceversa, che l’io è nell’altro? E la letteratura che c’entra? Quello che s’intende per confessione, il sogno vigile, sono le insonnie. Più in quest’epoca di celebrazione, dei “trenta gloriosi”, gli anni della Ricostruzione postbellica o i giorni del maggio ’68 in Francia, in memoriam, del prodotto interno lordo che cresce, ora di molto ora di poco, e dell’abolizione del dolore. Non ce n’è più materia, da qui la inconsistenza, il nulla.
È così che ora Dio è quello che non parla. E si può solo scrivere a se stessi. La confessione è un’esibizione, il dottor Freud va posto, pure lui, nel Krafft-Ebing. Si repertoria per non sapere che fare.

Ma l’ipotesi che Rousseau non avesse cinque figli in orfanotrofio, per essere impotente, è notevole. O Casanova, l’altro grande confessore. D’impotenza sospetta Casanova pure l’emulo Fellini, l’unica sua traccia nel secolo restando la narrativa, godeva al pensiero, e le lettere di cui fu autore e collettore a miriadi. Godere di se stessi porta all’inazione, non è vita filosoficamente vissuta. Seppure saggia, si capisce quando viene a mancare. Sì, passiva, un tempo si sarebbe detta femminea, blasée e snob, ma ci vuole pazienza, oltre che generosità, stare ad ascoltare.
Il bene è impossibile. Se non si è poeti, ai margini della storia. O eroi, o santi. Non se si è solo stanchi. Benché, dormitio si dice la morte dei santi, dopo che hanno fatto i miracoli: il riposo è attitudine mentale, una piega intima della personalità. Si direbbe un’arte. C’è chi s’affatica dormendo. E ci sono eroi e santi muti.

Francofonia – Se ne celebra a Roma in realtà la scomparsa, improvvisa, radicale. Ancora una generazione fa alla scuola media si insegnava il francese, che poi è svanito, letteralmente. Si storpiano, inglesizzandole, le poche parole francesi di uso comune, stage, dessert, dépliant. Nel 1950, sulla “Stampa” (l’articolo è ora in “Scritti dispersi”) Corrado Alvaro, a lungo corrispondente negli anni 1920-1930 da Parigi, doveva registrare: “Sono lontani i tempi in cui mi sentivo domandare da francesi se a Roma esistessero il tramvai e gli autobus”.

Libro – Ora che va (forse) a scomparire si celebra in tutte le forme, e più in quella, in uso ancora nei primi ani  1960, anche nei libri scolastici, delle “pagine da tagliare”. I primi giorni di scuola si passavano a tagliare le pagine dei voluminosi volumi. In libreria l’acquisto non era di soddisfazione: si chiedeva un titolo a un arcigno commesso dietro un bancone, come ancora all’autoricambi o al ferramenta, e si aspettava che tornasse col volume. Ma il piacere dell’acquisto quasi obbligato veniva rinnovato una volta a casa dal taglio delle apgine, quasi una presa di possesso. Con un tagliacarte, ora anch’esso scomparso, d’osso o metallo o semplicemente con un coltello da cucina.
Le signore e i facoltosi invece si facevano tagliare le pagine dai commessi di libreria. Prima della spedizione a casa – le signore e i facoltosi non si portavano via i libri comprati, anche perché usavano comprarli una volta a stagione, non uno per uno, e quindi erano spesso numerosi. I fattorini della libreria glieli recapitavano a casa. Anche questo ancora cinquant’anni fa.

Marx – È Jean Paul? È un’idea: sardonico, sarcastico, rifondativo – uno che rimette tutto in causa, “a maggior ragione” beninteso non per egotismo. Hartmut Retzlaff,  direttore del Goethe Institut a Roma, trova in Jean Paul tutto il primo Marx, che ne era gran lettore: l’alienazione e il feticismo della merce, “i termini cardine della critica delle merce nel primo volume del «Capitale»”. Molti studi sono stati fatti in argomento, attesta Retzlaff (in appendice a Jean Paul, “Clavis fichtiana”). E poi dopo: “L’uso metaforico delle Charaktermasken (termine che origina nella Commedia dell’Arte), come parametro di una sociologia dei ruoli ante litteram, e il termine Fetichismus per descrivere l’autoriduzione delle società evolute a un primitivismo percettivo, risultano decisive per la sociologia del tardo Marx”.

Popolare – Sembra remota e lo è, la ricerca del “popolare” nelle arti, la poesia, la musica – anche Giovanna Marini, l’ultima ricercatrice, ha una certa età. La teorizzazione remotissima – benché, a rileggerla, non rozza, anzi articolata, prudente. È mezzo secolo.
Ma il senso di remoto è pervasivo: la Repubblica ha traversato molte storie, e non lo sa. Bisognerebbe rivangare gli studi del “popolare” nel senso del reale, della realtà italiana.

Recensione – “Ricordo molti anni fa il disprezzo con cui Malraux mi disse di avere avuto in Italia più recensioni alle sue opere che nella stessa Francia”. Il ricordo di C.Alvaro è del 1950 (nell’articolo su citato), ma non peregrino: la recensione non è arte italiana. O lo è in senso deteriore – senza la necessità peraltro di leggere il libro.
Ricorda Alvaro di seguito: “Ho veduto lettere di italiani a scrittori francesi piuttosto modesti, piene di tali proteste di ammirazione, da suscitare nei destinatari il sospetto che si trattasse di sentimenti morbosi”.

Sante – Santa Ester, che si venera l’1 luglio in “tutte le chiese che ammettono il culto dei santi”, dice Wikipedia, la stessa Wikipedia rappresenta lussureggiante di nudità nel dipinto di Chassériau, “Ester alla toeletta prima di presentarsi al re Assuero”. Ma non è blasfemia: è vero che le sante sono più “corporali” dei santi: più umorali, fisiche, espressive.

letterautore@antiit.eu

Per una storia degli Esclusi dalla Resistenza

Una serie di memorie e situazioni che rinviano alla Calabria, terra d’origine dello scrittore – una modesta origine, modestissima: la casa natale di Perri a Careri, dipinta in copertina da Rosella Zito, riporta anch’essa a un altro mondo. Sono piccole moralità e storie semplici di paese, soprattutto di donne, che Perri costruisce, col sorriso e il lieto fine, inframezzate da aneddoti storici (“Il Chichibio calabrese”, “Nino Martino”).
Scritture di ottant’anni fa, ma aliene dal rondismo e altri stili dell’epoca, asciutte anzi, nervose, e per questo sempre leggibili. Storie d’altri tempi, oggi, non tanto per i soggetti dei racconti, quanto per come sono nate, per la biografia “d’altri tempi” dello scrittore che Giulia Francesca Perri evoca in breve nella presentazione.
Carcerato nel 1932 per complicità nella fuga, nel 1929, di Carlo Rosselli ed Emilio Lussu dal confino di Lipari, fu poi messo al bando a Milano, dove risiedeva da vent’anni, da tutte le pubblicazioni, benché non condannato: non poteva pubblicare, né libri né racconti o articoli. Con moglie e quattro figli a carico, Perri se la vide brutta. Angelo Rizzoli gli diede una mano pubblicandogli questi racconti sulle riviste femminili, “Mani di Fata”, “Novella”.
Non era per lui una novità. Nel 1927 aveva perso l’impiego alle Poste, sempre per antifascismo. Solo parzialmente risarcito l’anno dopo dal premio Mondadori per il romanzo “Emigranti” – il capostipite di tanta letteratura di questo millennio, di Melania Mazzucco, di Mimmo Gangemi. Continuò a pubblicare con uno pseudonimo, Paolo Albatrelli, che aveva adottato nel 1924, sempre per sfuggire alla censura fascista, reo di aver pubblicato sulla “Voce repubblicana” un romanzo ferocemente critico, “I Conquistatori”, sulla camicie nere in Lomellina nel 1921.
Una storia triste, oltre che di altri tempi: della inutilità dell’impegno. Se non per la propria coerenza.  Perri sarà escluso poi, nella Repubblica, dall’empireo della Resistenza, e dalle relative celebrazioni, pur essendone stato attivo e costante protagonista. Della Resistenza vera. Riotterrà l’impiego alle Poste, questo è vero - dopo un breve periodo di direzione, alla Liberazione, della “Voce repubblicana”. Ci sarebbe da fare una storia degli “Esclusi dalla Resistenza”.
Francesco Perri, Storie d’altri tempi, Franco Pancallo Editore, pp. 219 € 15

mercoledì 19 marzo 2014

Stupidario - l'Italia paese d'ignoranti

L’Italia è “l’ultima (Eurobarometro 270 – European culture and values) nell’accesso e nell’uso delle risorse digitali”, informa Antonio Preiti sul “Corriere della sera-Roma”: “È superata da Lituania, Polonia, Slovenia, Cipro, Slovacchia”.

L'Italia è in ultima posizione fra i 24 Paesi Ocse per competenze linguistiche e matematiche – agenzie..

Il nostro paese si colloca all’ultimo posto tra i 24 paesi Ocse nella graduatoria delle competenze alfabetiche (Radio 24.Il Sole 24 Ore). Altro che competenze digitali, in Italia mancano le basi: non sappiamo più né leggere né scrivere. Il nostro Paese si colloca infatti all'ultimo posto tra i 24 paesi dell'Ocse nella graduatoria delle competenze alfabetiche”.

Ultimi sono gli italiani dietro Spagna e Francia (penultima e terzultima), e ben distanti da Giappone e Finlandia che guidano la classifica internazionale insieme ai Paesi del Nord Europa. Chissà come sanno leggere i finlandesi. E i giapponesi?

Secondo l’ex ministro Tullio De Mauro, che ama questo genere di rilevazioni, due indagini internazionali, nel 2000 e nel 2006, che proponevano “questionari di cinque livelli di difficoltà”, hanno mostrato che in Italia “solo il 29 per cento riesce a inoltrarsi nella lettura superando il secondo questionario, e a rispondere bene al terzo, quarto e quinto questionario”. Il 71 per cento non ce la fa, sta al di sotto della soglia “per orientarsi e risolvere situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana”.
Oltre che ignoranti, imbecilli.

Le forze dell’ordine arrestano un Di Pasquale, “accusato della morte di una guardia giurata”. L’uomo è in realtà condannato per l’assassinio della guarda giurata, che non è morta per caso. Ma di colpevole ormai c’è solo Berlusconi.

“Pioggia, vento e fulmini in tutto il Lazio”, titoli del 21 gennaio 2014

Roma non è vivibile. Roma sporca, caotica e insicura. La caduta di una capitale senza governo.

Un qualsiasi articolo, un qualsiasi giorno, di Paolo Conti, o di Rizzo & Stella, sul “Corriere della sera”. Ogni romano produce 660 kg. di rifiuti, 113 più di Napoli. E di Milano? E non saranno più puzzolenti, come si diceva in guerra in Francia della cacca dei tedeschi? 

Un angoscioso 1969

Si ripubblica doppio (anche su DeriveApprodi) un monumento al nulla. Angoscioso: com’è potuto accadere (nel glorioso 1969)?
Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, Mondadori, pp, 186 € 12

Ci fu complotto, come no?

Non tutti i gatti sono neri, ma se uno è nero perché non lo sarebbe. O anche: non c‘è un complotto all’origine del mondo, ma se ne fanno ogni giorno, anche nelle migliori famiglie, in politica, e negli affari. Negli affari il complotto è quotidiano.
Parlando d’Italia, si sa che la situazione è debole. Ma le banche non lo sono. Non lo erano perlomeno negli anni, dal 2007 al 2010, in cui le banche tedesche lo erano, e quelle confinanti, in Austria, Belgio Olanda (più l’Irlanda). Che infatti l’Unione Europea “salvò” con gigantesche iniezioni di capitale, fra i 600 e i 700 miliardi – quanti, forse, saranno ora attribuiti come capitale nominale al Fondo Ue salva-stati. Bene. Anzi, perfino il debito non appariva così malvagio. Il 24 gennaio 2011 Mario Draghi, allora governatore della Banca d’Italia, candidato quasi unico alla presidenza della Banca centrale europea, così deponeva all’inchiesta impossibile di Trani sul complotto delle società di rating, alle prime avvisaglie di attacco sul debito: “Il sistema bancario italiano è robusto. Il deficit di parte corrente è basso. Il risparmio è alto. Il debito complessivo di famiglie, imprese è Stato è basso rispetto ad altri Paesi”.
Dice: ma l’Italia non ha fatto la “riforma” del lavoro che ha fatto la Germania. Cioè la controriforma: mandare otto milioni al lavoro a 400 euro al mese? No, non si tratta di riforme, si tratta di attacchi deliberati. Naturalmente non è un complotto, sono le forze del mercato. Banditesche, e i giudici non ci proteggono.
A proposito di cifre, il complotto sembra a questo punto doppio. Si costituisce, forse, a titolo nominale, il Fondo europeo salva-stati ora. Dopo aver distrutto alcune economie europee, Italia inclusa. Forse è stata solo stupidità. Fa differenza?

martedì 18 marzo 2014

Problemi di base - 173

spock

Vogliamo la pace per fare la guerra?

In Siria, in Ucraina, e adesso dove?

Contro la Germania?

Non sarà Frau Merkel l’incarnazione di Sion, che ne dice Dan Brown?

Se compriamo la tachipirina invece dell’aspirina, è tedesca pure quella?

Bisogna boicottare gli evasori con supercar tedesca, anche se negozianti di fiducia?

Perché Napoleone mandò a morire milioni di uomini, oltre alle donne?

O non risparmieremmo degli uomini, con le quote rosa?

spock@antiit.eu

Il poeta partorisce felicità

La felicità commette un errore, e quell’errore la cancella; l’infelicità commette un errore e non è niente, essa partorisce se stessa un nuova volta”. La labilità malinconica del reale, avvolgente e inafferrabile, Michaux fa palpitare in questa raccolta di frammenti che l’ha accompagnato per un lungo percorso di aggiunte e rifacimenti. Quasi un’autobiografia, spensierata, bislacca, surreale. tutta la vita. Incontra Piuma, forse in E.A.Poe, il galeotto che si ribella, di cui ha trasposto il nome e alcune vicende in teatro, “Il sistema del dottor Godron e del professor Plume”. Ma ne fa una penna-piuma, il libresco onnivoro  che si rannuvola. 
“No, non ho ancora trovato il segreto delle evasioni”, si dice, anche se “vi è un nonnulla di speranza”. Altro che, il poeta fa il prezioso, o ci prende in giro. È un giocoliere, seppure misurato. È riflessivo e passivo, come ne “Il ritratto di A”, aggiunto alla raccolta, dove si avvolge di parole – “dentro i libri egli cerca la rivelazione”, nebulose addensando di nebulose, come nei processi chimico-fisici.
È la poesia del pittore. Michaux fa palpitare gli oggetti, anche loro hanno un punto di vista – come in Savinio, in ideale cordata surrealista. Un gioiellino dei tanti di Michaux, poeta non pretenzioso. Tradotto con levigatezza da Fidelio Bonaguro, il francesista che fu uomo di teatro,.
Henri Michaux, Le disavventure del signor Plume, Stampa Alternativa, remainders, pp. 78 € 3

lunedì 17 marzo 2014

Il barone si fa cecchino, e dà fuoco all’università

Luciano Canfora barone? Sì, del latinismo meridionale. In coppia con Gian Bagio Conte della Normale di Pisa – dove ha contestato dal di dentro Settis, alla carica di preside e nella sfortunata vicenda del papiro di Artemidoro. I due si spartiscono il (residuo) mercato del latino, e guai a intralciarli: fanno fare ricorso al Tar e scrivere articoli di fuoco. La prima polemica, innescata per la Befana con fragore e sdegno dal “Corriere della sera” su impulso di Canfora, si è rivelata del tutto  infondata – ha stancato perfino il blogger portavoce del duo baronale, il latinista di Perugia Loriano Zurli.
Non sono notizie isolate quelle che fuoriescono sull’abilitazione. Sono tutte denunce dello stesso indirizzo, umanistico, in prevalenza di latinisti. Ma non sono sole.
Non va giù l’Asn, l’abilitazione scientifica nazionale, perché ha rotto molti baronati, e l’offensiva si fa cattiva ai Tar e nei giornali. I giornali per l’indignazione, che sempre ci vuole, i Tar perché sono soldoni, per gli avvocati e i giudici. A nessuno dei fini dichiarati, perché l’Asn esiste e non si può abolire, e le sue valutazioni, per quanto contestabili, non sono in realtà scandalose, in nessuno dei casi denunciati. Ma con un fine non dichiarato: scardinare (ciò che resta del)l’università, l’università pubblica. A partire dall’Asn che mostra di funzionare. Per lasciare tutto come sta, e i professori augusti ricoprire i ruoli.
Non c’è solo il sulfureo Canfora che mette fuoco – lui è sempre stato affascinato dai piromani e dai traditori in genere. Ci sono i giornalisti intelligenti, sempre in palla con tutti i vizi. E, magari a loro insaputa, l’obiettivo supremo: non avere una legge per l’università. Quindi abolire l’ultima, la legge Gelmini. Che è stata votata ma a “furor di popolo” (Stella, Canfora e il professor Zurli) si vuole abolita. Niente ricambio, giusto quanto basta per rigenerare le cordate.

Giù le mani dalla militante

Spara alla cieca anche Pierluigi Battista, e allora è bene mettere online tutto il parere imputato della bocciatura di Simonetta Bartolini a Letteratura Italiana Contemporanea, non la sola parola “militante” che si fa girare ingiuriosamente. Battista accusa oggi di maccartismo “un commissario (politico?), Mario Sechi, la cui fama scientifica ha raggiunto gli angoli più remoti del mondo”, lo accusa sul “Corriere della sera”: “Il maccarthismo alla rovescia colpisce una studiosa di destra”. È un po’ difficile accusare Sechi, professore a Bari, di sinistrismo. Senza contare che tutt’e sei i commissari hanno detto di no all’abilitazione della direttrice del giornale online totalità.it. Pur apprezzandone, curiosamente, l’anticonformismo. Ma ecco il parere che indigna, di Sechi Mario:“Ricercatrice Roma Università Pio V dal 2003. La candidata, che anche prima dell’inquadramento nel ruolo dei ricercatori ha tenuto per affidamento didattico cinque discipline dell’area dell’italianistica e affini, e che vanta una grande visibilità in eventi culturali di vario genere e spessore, svolge una impegnativa attività giornalistica a tutto campo sul web sulla carta stampata e in TV. Come studiosa, presenta un profilo marcatamente militante, orientato sulle tesi del revisionismo storiografico (sul fascismo e sulla Resistenza come guerra civile, e sulla stessa esperienza della RSI), e impegnato in un tentativo di rivalutazione di autori rivendicati dalla destra politica come fondativi di una tradizione alternativa a quella “vincente” ed egemonicamente canonizzata: da Soffici e Barna Occhini (di cui ha pubblicato il carteggio nel 2002), a Papini e a Guareschi (che viene messo a confronto con Primo Levi in un saggio del 2008), a Comisso nella sua formazione dannunziana, a un Pasolini proiettato sin dai suoi esordi in una prospettiva ultra-mistica e ultra-tradizionalista. Gli interessi per la mistica sono peraltro attestati da un interessante saggio su Cristina Campo pubblicato nel 2012.
“Di maggiore impegno l’unica monografia presentata, Ardengo Soffici il romanzo di una vita, del 2002, che tuttavia evidenzia un uso alquanto selettivo delle fonti storiche e della vasta bibliografia sulla cultura del fascismo. Nel complesso non si possono non rilevare una sostanziale episodicità degli spunti di ricerca, e una scelta limitata e limitativa di oggetti e temi. Per le suddette ragioni non ritengo possibile proporre che le sia attribuita l’abilitazione richiesta”.
Alberto Cadioli dice: “Per la disomogenea (per tipologia e risultati) produzione e per l’assenza di quei criteri di ricerca e di approfondimento indicati come parametri per il conferimento dell’abilitazione a professore associato, non si ritiene di proporre il conferimento dell’abilitazione per professore di seconda fascia alla candidata”. E così via, Piero Pieri, Nicola Merola, e gli altri. Ma non si tratta di dare addosso a Simonetta Bartolini. Semmai di complimentarla come regina del giornalismo online, in cui basta una parola per dire tutto, anche ai giornali che paghiamo, “Libero”, “Il Giornale” e il “Corriere della sera”. Il giudizio su Simonetta Bartolini studiosa era leggibile con due clic su abilitazione.miur. Ma basta la parola, “militante”, e l’articolo è fatto. Indignato, come si deve.

Il mondo com'è (166)

astolfo

Concilio – Il Vaticano II, “il Concilio,”, fu una sorta di guerriglia, condotta dagli ecumenisti, contro l’opinione e le tesi prevalenti. Così o spiega Yves Congar, il cardinale teologo francese che ne redasse molti testi, nel suo dettagliatissimo “Diario del concilio”, che volle pubblicato  “dopo il 2000”  - nel quale fa anche un elenco dettagliato dei testi alla cui stesura contribuì come consultore (il “Diario” è stato pubblicato in Francia nel 2002 e in Italia nel 2005). Numerosi gli apprezzamenti sprezzanti per le gerarchie vaticane e per la chiesa maggioritaria. Per la “finalità ultima (téléfinalité)  del Concilio era l’ecumenismo, e quelli che pensavano che il Concilio dovesse invece enunciare la dottrina della Chiesa erano una “cricca oscurantista”. Nella cricca in un punto Congar annovera mons. Fenton, il cardinal Ottaviani ed “il Laterano” – per “Laterano” intendendo mons. Antonio Piolanti, allora rettore della Pontificia Università Lateranense, e p. Carlo Balic, che vi insegnò dal 1961.

Il fatto non è nuovo, e “incontra” molto anche presso i buoni francesi fedeli del papa, come oltremontanismo (il governo nazionale dei vescovi) e come localismo, simbiosi dei praticanti con i loro preti e vescovi. Tra essi Racine, “Breve storia di Port-Royal, p. 76: “Secondo la dottrina francese, il papa è infallibile soltanto quando si trova a capo di un Concilio”. La chiesa romana era già decentrata prima del Concilio.

Eurasia 2 – È lo Hearthland di Halford John Mackinder (1861-1947),diplomatico, geografo, esploratore, alpinista inglese. Gli studi e il concetto furono elaborati da Mackinder per spiegare l’espansione territoriale russa, verso la Georgia e l’Iran, e fino al Pacifico con la Transiberiana. E degli Stati continentali in genere, come la Germania. Ma il suo “cuore della terra”, che avrebbe dato il dominio del mondo, appare per molti aspetti una tarda derivazione del Raj (regno in hindi), l’impero britannico o vittoriano, è l’insieme continentale che unisce l’Europa e l’Asia. Se ne celebrano i 110 anni: il concetto fu presentato il 25 gennaio 1904 alla Royal Geographical Society di Londra, nella conferenza che intitolò “The Geographical Pivot of History”, e quindi spiegato su “The Geographical Journal” (“Il perno geografico della storia” è stato tradotto da Fulvio Borrino e Massimo Roncati nel n.1 della rivista “I castelli di Yale. Quaderni di filosofia”, 1996).
Mackinder, uno dei fondatori nel 1995 della London School of Economics, è più noto quale teorico  della moderna geografia, metodi e scopi. Il concetto di Eurasia legava invece all’imperialismo: alla guerra e alla conquista dei territori. L’Eurasia era lo zoccolo più solido per compattezza territoriale, popolazione, stratificazioni storiche e culturali.

Iran – Ha cercato in Russia, e da qualche anno in Cina, nell’Eurasia, l’alternativa alla proiezione mediterranea che fu l’altra costante del paese, dal tempo di Dario e Maratona. O di Serse e Ester - un legame che l’ebraismo religioso festeggia a metà marzo, come ogni anno, nel Purim, il giocoso “carnevale”. Questa proiezione è preclusa ora dall’inimicizia recente con Israele. Mentre la proiezione eurasiatica è favorita, anche vantaggiosamente, dalle sanzioni che a vario titolo da ormai 35 anni gli Usa periodicamente impongono all’Occidete.

Le due civiltà più antiche della regione, la persiana e l’ebraica, sono fatte per intendersi, e tuttora si riconoscono, specie di fronte alla più recenziore e invadente civiltà araba. Ma si combattono. Anche con animosità: certe branche del khomeinismo, fino all’ex presidente Ahmadinejad, sono antisemite. Antiebraiche forse per non poter essere antiarabe, non pubblicamente. 

Liberalizzazione – È statalizzazione senza Stato”. Ossia finanziamento pubblico a piè di lista e senza corrispettivo della finanza privata.
Ha moltiplicato l’indebitamento degli Stati. Ovunque, nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher e gli Usa di Reagan, e poi in Francia, in Germania, in Italia, a mano a mano che è stata adottata. Mentre riduceva fortemente il corrispettivo della spesa pubblica, in servizi sociali.

Il passaggio dallo Stato sociale, proprietario, imprenditore, allo Stato debole ha visto un disimpegno totale dello Stato dalla produzione (in Gran Bretagna, Italia, Germania, con poche eccezioni in Francia), e molto ampio dalla sanità (Gran Bretagna, Germania, Olanda, Francia, Italia) e previdenziale (Gran Bretagna, Germania, Italia), mentre il debito si è ovunque moltiplicato. È due volte e mezzo quello del 2003, secondo l’“orologio” dell’“Economist” che aggiorna il dato in tempo reale, essendo passato da 21 mila a 53 mila miliardi.

Alcuni paesi l’hanno raddoppiato: la Germania da 1.430 a 2.800 miliardi, pur avendo dimezzato i servizi sanitari e ridotto i trattamenti pensionistici, il Giappone da 6.540 a 12.400 miliardi. La Francia l’ha più che raddoppiato, da 1.015 a 2.400 miliardi. Gli Usa più che triplicato, da 3.600 a 13.300. La Gran Bretagna quasi quadruplicato, malgrado abbia smantellato, letteralmente anch’essa, lo Stato sociale, da 680 a 2.500 miliardi. Il debito italiano è quello che è aumentato meno nel decennio, da 1.500 a 2.400 miliardi di dollari – ma a fronte di un’economia in recessione per ben cinque anni su dieci, non è un esercizio di virtù.

È un debito per il debito. Cioè per gli investitori, che trovano comodi (sicuri, redditizi), i titoli di debito pubblico. Per il mercato.

Forse il beneficio della liberalizzazione c’è sulle tariffe e le materia prime. Ma non è certo: le materie prime hanno raddoppiato, triplicato a volte, di valore in più fasi del ciclo. Il petrolio a 100 dollari, con l’economia mondiale in recessione, non sta scritto in nessuna legge del mercato, della domanda e dell’offerta.

Ostpolitik – La politica di apertura e avvicinamento all’Est Europa e il blocco sovietico, divenuta centrale in Europa per iniziativa di Willy Brandt quando fu cancelliere, tra il 21 ottobre 1969 e il 6 maggio 1974 (costretto alle dimissioni da uno scandalo spionistico armato da Mosca…), fu ripresa come appeasement (resa) dal Vaticano di Paolo VI e, in una prima fase, di Giovanni Paolo II, nella persona di mons. Casaroli, che il papa polacco vorrà nel 1979 segretario di Stato.
Brandt, il cancelliere della Ostpolitik, culminata nel 1970 nella sua vista a Varsavia e la richiesta di perdono in ginocchio, e per questo Nobel per la pace nel 1971, fu costretto alle dimissioni nel 1974 da uno scandalo spionistico armato da Mosca (aveva assoldato il suo segretario particolare Guillaume, e lo “bruciò”).
Della Ostpolitik di Casaroli è significativa la vicenda del cardinale Mindszenty, già carcerato nell’Ungheria occupata dai tedeschi, mandato all’ergastolo dal regime comunista, liberato nei moti ungheresi del 1956, ostaggio nell’ambasciata Usa in Ungheria, libero infine di trasferirsi in Vaticano nel 1971. La liberazione nel 1971 avvenne su iniziativa di Nixon e Kissinger, con uno scopo preciso: Mindszenty si oppose alla trattativa di Casaroli con i governi comunisti, che se accettavano una ripresa delle attività religiose si riservavano la scelta dei vescovi e anche dei parroci. A novembre del 1973 Paolo VI chiese a  Mindszenty le dimissioni dalla carica vescovile in Ungheria. Il cardinale rifiutò e Paolo VI, dopo un paio di settimane, il 18 novembre gli tolse l’incarico. Mindszenty lasciò il Vaticano per Vienna, dove morì. 

Parlamentarismo – Gioverebbe rileggere Robert-Roberto Michels, il sociologo politico tedesco poi naturalizzato italiano, socialista senza cattedra (i socialisti non potevano insegnare all’università tedesca nel fino alla grande guerra), poi liberale in Italia intimo di Einaudi. Per la crisi del parlamentarismo in Italia e non solo. Sintetizzando le sue conclusioni (con l’ottima sintesi di Wikipedia), insieme a qualche esito contestabile molto aveva visto di vero – “io di rivoluzioni ne ho viste tante, di democrazie mai”.
Il parlamentarismo è una falsa leggenda: non siamo noi che votiamo i rappresentanti ma i rappresentanti che si fanno scegliere da noi – sulla stessa frequenza i movimenti e i teorici contemporanei oltralpe che dicono ininfluente il voto (i “cittadini come consumatori” del noto saggio che Wolfgang Streeck, sociologo militante, ha pubblicato sulla “New Left Review”, o il bestesellerista Van Reyboeck che perora eloquente la causa del sorteggio, più “democratico” del voto….). Lo Stato non importa alla maggior parte delle persone, soprattutto per ciò che attiene le vicende prettamente istituzionali: non si può sperare che la partecipazione parta dal basso. Il principio della democrazia è ideale e legale (perché comunque si va a votare) ma non è reale in quanto, in realtà, la base non può scegliere nulla. Votando non diventiamo compartecipi del potere: “La scienza ha il dovere di strappare questa benda dagli occhi delle masse”. “La formazione di regimi oligarchici nel seno dei sistemi democratici moderni è organica”. L’opposizione parlamentare ha lo scopo, in teoria, di sostituire il gruppo dirigente avversario, ma in pratica ambisce ad amalgamarsi. I movimenti popolari sono sempre traditi, chi li guida ha l’ambizione di entrare a far parte della classe politica (“parte incendiario e arriva pompiere”). Nel partito politico operano le stesse dinamiche che nello stato: entrambi sono oligarchie che si irrobustiscono per perpetuazione – cooptazione, designazione, acquisizione.
E il carisma, di cui oggi si fa spreco. In parziale dissenso da Max Weber, che lo aveva teorizzato, dopo un’amichevole discussione Michels opina che il leader debba costruirselo nel rapporto diretto col popolo, e non in Parlamento, costituendo o controllando cordate.

astolfo@antiit.eu

Il laico sotto il fascismo spera nella religione

“L’infermità dei nostri tempi, l’infermità da risanare, è proprio questa: che non si riesce ad infiammarsi per le pure idee, come in altri tempi per la redenzione cristiana, per la Ragione o per la Libertà”: Croce avrebbe potuto scriverlo oggi invece che nel 1934. Anche se allora concludeva, benché insensibile alla “trascendenza”: “E perciò (né questo dico io solo) la crisi salutare della società moderna dovrà essere, presto o tardi, di carattere profondamente religioso”.
A insegna del “Contributo” Croce aveva messo Goethe: “Perché ciò che lo storico ha fatto agli altri, non dovrebbe fare a se stesso?”. Ma è miglior storico con gli altri che con se stesso. Anche se ha radicato giudizio politico. Dell’amata Germania lamenta, nel 1934: “Dio sa con quali folli concetti e disegni verrà fuori, per la scarsezza di cui ha dato finora prova, nel senso politico e nel buon senso in politica”.Non poteva dirlo dell’Italia, ma non poteva non pensarlo – il messianismo religioso sarà stata una forma di “dissimulazione onesta” (Croce ne fu l’editore, negli stessi anni).
Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso

domenica 16 marzo 2014

Ombre - 212

Il rivoluzionario è parricida, ricorda Toni Servillo dopo l’Oscar che ha scatenato le invidie, “noi invece siamo fratricidi”, noi italiani. L’aveva già detto Saba, il poeta, ma dopo cinquant’anni è sempre vero.

“Secondo me è stato perseguitato dai magistrati. È una magistratura che ha giocato sull’uomo, come anche in altri casi, diciamocelo”. Don Mazzi dice quello che tutti sanno – il perseguitato è Berlusconi. È anche anticonformista, va contro i benpensanti. Ma “la rete” è tutta contro di lui. Si penserebbe la rete anticonformista, non sono tutti per Grillo e i vaffanculo?, e invece è monolitica. È povera di spirito.

C’è una coda di tre ore sabato sera alla libreria del Parco della musica a Roma per la firma di Francesco Guccini, dopo il suo siparietto con Cazzullo nella sala Sinopoli sul suo “Nuovo dizionario delle cose perdute”. Ma non si sa se complimentarsi – Guccini ha giusto il tempo di mettere una firma, non può chiedere nemmeno il nome del dedicatario.

Può darsi che a Roma non ci siano 20 mila giornalisti “professionisti”, iscritti cioè all’Ordine, come dice “Il Fatto quotidiano” – è probabile che siano di più. Ma il fatto resta: si sono moltiplicate le lauree in giornalismo con annessa “professionalità”. Mentre il giornalismo attivo, praticato, si restringe – il contratto giornalistico è troppo oneroso, la pubblicità è in contrazione da sei anni, tutti gli editori chiudono o licenziano.

Le scuole di giornalismo creano giornalisti professionisti senza pratica. Mentre prima il giornalismo si praticava, cominciando a lavorare. La professione  segue un cammino inverso rispetto al trend del mercato del lavoro, dalla pratica al diplomificio. E si occlude gli sbocchi: l’avviamento al lavoro si faceva con una contrattualistica meno onerosa. Ora l’avviamento è ugualmente necessario, perché il professionista laureato non ha pratica, ma costa subito molto.

Domenico Quirico racconta sulla “Stampa” che fu subito al suo ingresso in Siria, nel viaggio che finì nel rapimento, che seppe del fallimento della rivoluzione. A Yabrod, enclave cristiana alla frontiera col Libano. Il parroco gli confidò, nell’attimo che le guardie della rivoluzione li lasciarono  soli in sacrestia, che i rivoluzionari erano criminali: grassatori e assassini. Ma Quirico non lo scrisse.

Quirico, come i tanti inviati e “specialisti”, oggi dice: la rivoluzione in Siria è finita. Era mai cominciata? Qualsiasi  senso si dia alla parola rivoluzione. Il Levante è tossico per i semplici - chi non è mitridatizzato.

Il parroco di San Cosimato, la chiesa di Trastevere a Roma, ha appeso alle colonne del pronao tanti manifesti col papa, tutti all’insegna: “Non ci facciamo rubare” (la fede, la speranza, la forza missionaria, etc.). Ci sono i ladri anche della fede?

Si destina infine, dopo una quarantennale resistenza, compresa quella di Renato Nicolini, l’inventore della “città per tutti”,  il Foro di Augusto a Roma a “suoni e luci”. Il Foro “quello vero”, assicurano i cronisti entusiasti. Sulla scia del sindaco Marino che si sbrodola: “Non sto nella pelle dalla gioia”. Lo ricorderemo per questo, per (un po’ di) barbarie?

Non sarà Suoni e Luci al Foro di Augusto ma Son et Lumière: è francese la grande invenzione di videate turistiche notturne nei “luoghi della cultura”. Che di giorni restano per questo impigliate in ragnatele di fili, fari e tribune in tubi innocenti.

Son et Lumière al Foro di Augusto costerà solo 10 euro, per tre turni a notte, assicurano i cronisti, sempre entusiasti. Vale la pena, per tanto poco?

Luigi Accattoli elogia papa Bergoglio “in aperto conflitto con gi egoismi che caratterizzano il Nord del mondo”. E gli egoismi del Sud, che pure sono feroci? In America Latina, per esempio - in Argentina.

Il sindaco di Roma Marino, dopo aver fatto fuoco e fiamme, senza motivazioni, contro il cda a il management di Acea, azienda quotata in Borsa, fermamente dice: “No a ingerenze politiche”. Di chi?

Ma non c’è il sospetto di aggiotaggio, Pignatone vigila, il suo compagno di fede al vertice della Procura. Le regole? Quali regole?

Gli Stati si indebitano per finanziare i mercati

Al termine di queste “Lezioni Adorno”, che Streeck, sociologo politico impegnato, direttore del Max Planck per gli studi sociali di Colonia, ha tenuto a Francoforte nel giugno del 2012, e delle sottigliezze che ci si aspetta dalla “sociologia francofortese”, un dato s’impone robusto: in quest’epoca di superliberalizzazione, gli Stati si sono superindebitati, a beneficio del mercato. Il più grosso trasferimento di ricchezza della storia, dai poveri ai ricchi. Il resto sono chiacchiere.
La traccia delle lezioni è lo stato della democrazia dopo un quarto di secolo di capitalismo senza freni – Streeck va indietro agli anni 1970, ma non bisogna esagerare. Lo stato dell’Europa, soprattutto – la democrazia non è che abbia proliferato molto. C’è qualcosa di cambiato, dice Streeck, in questi anni: il rapporto non è più simbiotico, e neppure univoco, tra capitalismo e democrazia. Lo è mai stato? Comunque, è vero: due secoli dopo Constant, il rapporto tra commercio e democrazia si è rovesciato, è inequivocabile. Il “tempo guadagnato” è quello del malato grave, intende Streeck. Non terminale – in sociologia la fine non c’è – ma come se.
Streeck riporta la crisi ai tardi anni 1970. Un po’ per non legarla alla caduta del Muro – che aveva simpatizzanti. E un po’ perché è il suo paradigma. Le lezioni rielaborano il saggio “The crisis of democratic capitalism” che aveva pubblicato sul n. 71 (sett.-ott. 1021) della “New Left Review”. Il paradigma è che il “capitalismo democratico” è un risultato eccezionale in termini di successo e consenso, ma unico nella storia, e limitato ai “trenta gloriosi”, gli anni della ricostruzione dopo la guerra. Un ciclo chiuso, si può convenire, con la sconfitta americana nel Vietnam, la crisi del dollaro e la crisi del petrolio a buon mercato e abbondante. Dopo di allora, dopo questo periodo di grazia, il capitalismo democratico, insomma il nostro regime politico, si caratterizza per le crisi ricorrenti. La grande Recessione avviata nel 2007, è la tesi di Streeck, non è un’eccezione, ma una, la più grave, tra le tante: il “modello” non regge più.
Forse. Forse è una questione di modelli. Ma forse è una questione di malgoverno. È dubbio per esempio che l’antipolitica, che ha bloccato la politica lasciando campo libero al mercato del profitto, sia un effetto delle istituzioni, del modello democratico, o non il suo killer. È dubbio cioè  che la politica sia corriva agli affari, o non ne sia la vittima, con lo strumento anche della critica, dell’antipolitica. Nel capitalismo italiano, per esempio, che è molto diverso da quello francese, o da quello tedesco.
Il modello imposto dai giudici, per esempio, di colpire i nemici ancorché non colpevoli, e di salvare comunque gli amici, ancorché dichiaratamente correttissimi, è parte del pattern? Sì, lo è, ma non nel senso che dice Streeck – l’“indipendenza” della magistratura è parte di quel pattern. La Germania di Merkel che jugula l’Italia, apparentemente a ragione e in pieno diritto, è in contrasto col capitalismo democratico in quanto è un arraffare cieco.
La sinistra, politica e culturale, oggi si vuole prudente - centrista, borghese, migliorista, meritocratica. E perciò sociologica, vaga – modellistica. Ma un po’ di realismo non guasterebbe: che problema c’è a dire chiaro e tondo, come altri sociologi, anche tedeschi, dicono apertamente, che questo mercato è molto mercantilistico, cioè ingiusto. Segnato dalla potenza e dalla prepotenza. Che ha messo tutti, anche i ricchi, dentro un imbuto sempre più stretto. Chi pagherà i debiti? Chi pagherà l’arricchimento? E che siamo nella barbarie, non nel capitalismo democratico – fuori dalla democrazia (rappresentanza) non c’è capitalismo: è una lezione vecchia di otto secoli, dalla Magna Charta almeno, di cui fra un anno si celebrano gli ottocento anni, non dal dopoguerra.  
Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, pp. 272 € 25