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sabato 19 giugno 2010

Quando i carabinieri erano in guerra

Ci fu un’epoca in cui i carabinieri erano in guerra, quotidiana, imprevedibile, con morti e feriti veri, contro il terrorismo che l’Italia negava (i giudici, i giornali), e contro se stessi. Una forza di polizia letteralmente comandata dalla P2. Mentre dei terroristi rossi si scriveva che fossero “sedicenti”, e tribunali e corti d’appello mandavano in libertà provvisoria terroristi già condannati, che subito sparivano. Tutto ciò sembra ridicolo, prima che impossibile, ma questa testimonianza in forma d’intervista del generale Nicolò Bozzo dice che quell’epoca non è tanto remota, e non è passata: non ha avuto nessuna eco, benché presentata da Nicola Tranfaglia, ed è subito finita al remainders.
La testimonianza è organizzata da Michele Ruggiero come un’autobiografia. E Bozzo, nonché non presumere di se stesso (fisico atletico e faccia da boxeur, il generale da ragazzo voleva fare il vigile urbano, e la sua felicità è essere diventato alla fine il comandante dei vigili della sua Genova), ha una biografia per lunghi tratti deludente. Compreso il suo comando sull’Aspromonte, dove ebbe la fortuna di liberare il giovane Casella, ma solo per l’avidità dei rapitori (avevano già intascato un miliardo) e la loro inettitudine. Dopodiché creò una struttura super militarizzata, con dispiego di elicotteri e reparti Cacciatori del tutto inutili, come le relative costose caserme, mai aperte, mentre il business dei sequestri è proseguito per un altro decennio, e tutti sapevano per mano di chi. Ma il punto di vista dimesso fa risaltare meglio i fatti di cui Bozzo è stato testimone o protagonista, specie nel triangolo operativo a lui più familiare, Genova, Torino, Milano.
È una testimonianza insolita dall’interno dell’Arma. Dichiarato è il personale antiamericanismo di Bozzo, viscerale. “L’Arma era un corpo separato dello Stato, al quale si prestava una fedeltà «condizionata» al quadro politico”. Il suo corso da ufficiale alla Scuola di guerra di Civitavecchia, tre anni, era diviso fra simpatizzanti della destra e della sinistra, senza alcuna simpatia per la Dc – per la quale invece erano schierati sottufficiali, graduati e truppa. Del Piano Solo e di Gladio l’intervistatore non ha naturalmente buona opinione. Ma Bozzo, reclutato tra i carabinieri dal colonnello Celi, stretto collaboratore di De Lorenzo, concede che le democrazie hanno tutte dei piani contro la sovversione: “Il «Piano Solo» rifletteva l’esecuzione di una modalità difensiva che in linea di principio spetta a qualunque Stato democratico”. E di Paolo Emilio Taviani, “il vero capo di Gladio”, ha un’opinione eccellente. Apprezza molto il lavoro del defunto colonnello Bonaventura, che è stato suo subordinato in varie operazioni, ma non ha apprezzato il modo come l’allora maggiore raccolse la testimonianza di Marino contro Sofri, soprattutto non la decisione di remunerarlo. Presidente del Cocer, il “sindacato” dei carabinieri, Bozzo è stato denunciatore della P 2, anche se ne faceva parte Dalla Chiesa, il suo padre putativo.
Qui, sui rapporti tra i carabinieri e la politica, occorre aprire una parentesi. Bozzo fu in Calabria l’ammazzasocialisti, nella regione dove il Psi contava per oltre il 20 per cento. Ci ha fatto anche carriera, portando all’emerito Cordova, il Procuratore Capo di Palmi, giudice di professa fede missina, le teste di tutti i socialisti della regione eccetto Giacomo Mancini. Al quale invece ha riservato un processo a parte con ventotto pentiti. Tutti i processi sono poi finiti in nulla – poi, dopo aver dissolto il Psi. E dunque, per chi lavorano i carabinieri apolitici, quale il generale si professa? Sembrerebbe per lo statu quo, cioè per il potere. Ma, allora, i servizi segreti deviati sono i carabinieri...
Egualmente controvertibile la parte riguardante il terrorismo. Bozzo è stato il collaboratore forse più stretto di Dalla Chiesa, nei vari nuclei speciali antiterrorismo creati dal generale. Di cui sottolinea in più punti la nota determinazione, e alcune debolezze caratteriali. Compresa quella di non rimuovere la censura inflitta a Bozzo per l’operazione Monte Nevoso il primo ottobre 1978: l’arresto di Azzolini, Bonisoli e Nadia Mantovani, ma anche il parziale occultamento delle carte di Moro, della parte forse sostanziale del famoso memoriale. Quella operazione fu un successo, dice qui, ma non piacque al comando della divisione CC di Milano, la Pastrengo, i cui ufficiali comandanti sono sempre stati della P2. Mentre non lo erano: né il generale comandante Italo Giovannitti né il capo di stato maggiore, il colonnello Vincenzo Morelli, che coordinavano le indagini - e avevano scoperto il covo due mesi e mezzo prima che Dalla Chiesa facesse intervenire Bozzo. La censura non gliela levò Dalla Chiesa, aggiunge Bozzo onestamente, quando divenne comandante della Pastrengo, ma sottintende che non gliela levò in ossequio alla P2.
Nelle argomentazioni, insomma, il generale non è plausibile: grande organizzatore, cattivo investigatore. Confusionario anche, e un po’ credulone: arrivò a credere a un senatore Cervone, moroteo, che gli garantiva un covo brigatista a Salice Terme su segnalazione “certa”, che poi risultò essere di un giornalista Maglione di radio Montecarlo: un covo frequentato da Adolfo Beria d’Argentine, che era il Procuratore Capo a Milano.
Di errori, invidie, e dell’innocentismo dei giudici e dei giornali Bozzo ha molte memorie. L’Arma odiava Dalla Chiesa. Peci e Micaletto sono stati arrestati per caso. Guido Rossa furono i carabinieri a metterlo nel mirino delle Br, rendendo pubblica la sua denuncia di un brigatista fiancheggiatore. Una pratica di cui non sembrano pentirsi, questa di esporre il testimone a carico, specie nei paesi di mafia – salvo poi addebitare agli stessi paesi l’inverosimile omertà.
E non è tutto. Bozzo racconta che Dalla Chiesa sospettava un complotto tra destra eversiva, criminalità organizzata, massoneria e servizi segreti. E che una volta gli chiese, brandendo un appunto in fotocopia, di indagare su Cia, Ordine di Malta, Opus Dei e Trilateral, quali organismi sospetti di golpismo. E uno non sa che pensare: de mortuis nisi bonum, ma il generale voleva evitare per caso indagini serie?
Il generale Bozzo sarà poi materialmente incaricato di recapitare a Berlusconi l’avviso di garanzia tanto urgente quanto infondato del 21 novembre 1994. Che contestualmente veniva recapitato al “Corriere della sera”, per il golpe giornalistico che abbatté il governo, dopo quelli politici di Scalfaro (la chiusura delle Camere, gli arresti indiscriminati). Ma nemmeno lui dice la verità, anzi insinua che a dare l’avviso al “Corriere” sia stato lo stesso Berlusconi.
Se non è lui capo, o parte, dei servizi segreti paralleli, nella sua logica, chi altri?
Michele Ruggiero, Nei secoli fedele allo Stato, Fratelli Frilli, pp.318, €15

La colpa di essere vittima

Denise Epstein, la figlia maggiore di Irène Némirovsky, confessa alla giornalista Clémence Boulouque il suo mal di vivere. Ha visto a dodici anni la madre sparire nel 1942, portata via all’improvviso dai gendarmi francesi in quanto ebrea, e da allora non s’è più ripresa. Se non, parzialmente, ricostituendone il personaggio con la pubblicazione nel 2004 di “Suite francese”, da lei ritrovata in un baule di memoria che aveva sempre evitato di aprire. Ma nulla aggiunge alla vicenda della madre, e nemmeno della propria. Se non qualche aneddoto: trovarsi in casa, tarda sessantottina, un brigatista italiano sconosciuto che subito si affretta a cacciare, e poco più. La sua impossibilità di essere l’aveva icasticamente detta a Stefano Jesurum prima dell’uscita del libro (“Repubblica” del 21 maggio): “Sto per dire una cosa mostruosa: mio marito (col quale ha avuto tre figli, n.d.r.) non conta nella mia vita. I miei amori non contano. Non sono mai stata innamorata, era come se non avessi il diritto di essere innamorata, né di ridere, né di piangere, né di essere felice. Ma non è grave”.
Denise Epstein, Sopravvivere e vivere, Adelphi, pp. 181, €13

I bilanci falsi di Veltroni non fanno notizia

La Corte dei conti scopre dopo alcuni anni che i bilanci comunali di Veltroni a Roma erano truccati. E pazienza, la colpa si può sempre dare alla burocrazia: la Corte, in alcuni casi anche molto vigilante, è pur sempre una burocrazia. Per un altro personaggio la denuncia della Corte dei conti avrebbe comportato l’incriminazione per falso in bilancio – benché la denuncia sia tardiva e rispettosa, e il reato sia stato annacquato da Berlusconi. Ma pazienza, Veltroni è sim aptico e nessuno lo vuolle in tribunale. La denuncia però non suscita a Roma nessuna emozione. Non sui giornali. Che la relegano alla cronaca locale, e giusto di passata: articoli brevi, e poco chiari. Solo il “Corriere della sera” spiega che si tratta di passività artificiosamente non registrate, e di attivi altrettanto artificiosamente gonfiati, attraverso rinegoziazioni di comodo dei “derivati”, che poi hanno in realtà lasciato, e stanno lasciando, dei buchi, e attraverso l’esazione di finti crediti – le due famose emissioni di “cartelle pazze”, due milioni di cartelle, che sono costate l’elezione all’incolpevole Rutelli.
Il “Corriere” ci apre perlomeno la cronaca romana e titola correttamente: “La Corte dei conti accusa Veltroni”. “La Repubblica” cita Veltroni nel testo, breve, annegato tra la pagine interne della romana. Sul “Messaggero”, che non fa di più, David Desario trova il modo di non citare nemmeno Veltroni. Poi si dice che la libertà di stampa non è in pericolo.

giovedì 17 giugno 2010

La risata di chi nel ’68 non rideva

Il ’68 è anzitutto un’età. E forte, fortissimo, il senso politico della rivolta. Qui se ne fanno specchio alcuni di quelli che non c’erano, e che il ’68 voleva abbattere: Balestrini (estetismo), Castellina (il Partito), la sociologia al potere (Touraine), l’individualismo (Serafini). Mentre Giovanna Pajetta e Ginevra Bompiani fanno il ritratto delle persistenze. Nel complesso una cattiva azione: appropriarsi non solo del ’68, ma della sua risata – dunque, si sa cosa fu il ’68?
Solo Sinibaldi (“negli anni successivi ha studiato e letto essenzialmente per comprendere cosa aveva fatto (e cosa era successo)”) ne dà un’idea. Con Guido Viale (“La prima cosa che mi viene da dire è che noi non abbiamo fato il ’68, ma che ci è capitato addosso”). E Muraro e Ravera, che da scrittrici lo mimano vivacemente – non per nulla Ravera è autrice del (piccolo) capolavoro del ’68, “Porci con le ali”, l’unico purtroppo: si vede che il ’68, essendo stato una festa della libertà, un innamoramento (“il primo amore”, Ravera), “l’affacciarsi un poter essere, non in astratto, ma vivo ed effettivo”, Muraro), è un capolavoro non riproducibile.
Molto si parla del “Manifesto”, che non c’entra. Dei dissidenti” dell’Est “si sapeva poco o nulla”, scrive Giovanna Pajetta: è sicura, nel ’68? Ginevra Bompiani ha visto a Parigi “quel malumore”, quello di “una città dentro e intorno alla quale stanno crescendo milioni di razzisti, e che è incapace di riconoscerli in quelle facce arroccate nel malumore e nel puntiglio”. Nel ‘68? È “La risata” di chi allora non rideva. Se non accidentalmente, “al circo Mediano”, racconta Castellina (sarà Medrano?), dove, “sul collo il fiato di due elefanti e una giraffa”, con Toni Negri e Franco Piperno tentano di unificare “Manifesto” e Potere Operaio – quanto di più lontano dal ‘68. Il ’68 ha aperto le menti – anche dei più adulti. Ma non tutte, evidentemente.
La risata del ’68, Nottetempo, pp. 163, € 8

E se nel 1994 ci fosse stato Napolitano?

Se Napolitano fosse stato candidato nel 1994 al posto di Occhetto? Queste tre lezioni all’Istituto italiano di Berlino sono il libro di storia del Novecento che ancora non si vuole scritto – del libro che le raccoglie per questo non si parla? La democrazia italiana è illiberale, si sa. Ma Galli della Loggia prova anche a trovarne il motivo. Il Novecento è stato in Italia specificamente italiano, per sue distinte culture politiche: nazionalfascismo, cattolicesimo politico, socialismo massimalista, comunismo gramsciano. Una diversità accentuata da peculiari comportamenti: forte polarizzazione, quasi faziosa, concezione salvifica della politica, uso politico della storia, outsiderismo (anarcoidismo?), la storia vissuta come susseguirsi di traumi, reducismo e trasformismo. Il Risorgimento, un fenomeno esclusivamente politico, ha originato e alimentato la peculiare concezione demiurgica della politica che è il proprio dell’Italia – un vero e proprio “morbo italico”: ogni legge è una riforma, una rivoluzione, un rovesciamento. La pretesa di cominciare la storia daccapo, un modernismo sterile.
Ciò che caratterizza il Novecento italiano (e caratterizzerà questo aureo libretto) nella storia europea, insiste lo storico, è “la profonda estraneità verso ogni prospettiva di tipo conservatore”. Che “è la stessa cosa della sua estraneità alla democrazia liberale”. Si capisce che l’Italia non abbia classe dirigente né funzione pubblica, che entrambe maturano in una prospettiva di conservazione: “trasmettere, confermare e consolidare”. È la stessa cosa del vuoto riformismo cui tutti si appellano. C’è invece, va aggiunto, un inguaribile conformismo, Galli della Loggia lo chiama “politicamente corretto” ma è puro cominformismo, per cui i tedeschi italianofili dell’Istituto diretto a Berlino da Angelo Bolaffi possono sapere della nostra storia delle cose che in Italia si fa finta che non siano state dette, nonché discuterle.
Il volumetto è pieno di cose “nuove”. In particolare sulle origini del fascismo sulle quali si è tornati da alcuni decenni a sorvolare. Sulla insostenibilità del sistema politico della Repubblica abbattuto dai giudici, dei suoi costi. Nonché del berlusconismo – tema su cui lo storico prudentemente mette le mani avanti: “Nell’Europa di oggi è più facile, in generale, parlare di Hitler che di Berlusconi: i rischi sono assai minori”. Si può dire per esempio che c’è qualche ragione nel successo elettorale di Hitler. I costi della politica saranno il vero tema della storia della Repubblica Italiana, quando si potrà fare: l’Italia è stata per quasi quarant’anni, in regime di guerra fredda, una democrazia vigilata, con i due maggiori partiti, la Dc e il Pci, finanziati rispettivamente da Washington e da Mosca. Una condizione di cui, va aggiunto, la “fine della storia”, Mani Pulite, è in realtà il perpetuamento: la vera questione morale è la questione morale – una fine della storia stracca, ripetitiva, costantemente golpista, e infatti l’Italia ne è stremata.
Ma basti il tema affascinante: quello che poteva essere l’Italia alle tre date fatidiche – invece di quello che è stata: il 28 ottobre 1922, il 18 aprile 1948, il 27 marzo 1994. Le date, e le persone, sono decisive nella storia. S’immagini, per converso, l’onorevole Moro nel 1948 invece di De Gasperi. Avremmo avuto un ‘Italia neutralista, jugoslava, inetta. Ma s’immagini allora Napolitano al posto di Occhetto nel 1994: ci avrebbe risparmiato questi vent’anni che ci toccano di Berlusconi. Napolitano del resto era il leader naturale dell'ex Pci nel 1994: dopo l'equilibrata performance di presidente della Camera tra il golpista Scalfaro (due Parlamenti sciolti in due anni) e i giudici mariuoli, si sarebbe preso tutti gli otto o dieci milioni di voti dei senza partito, i socialisti, i repubblicani, i liberali, buona parte dei Dc, che invece hanno dovuto astenersi o votare Berlusconi. Il 1994 poteva essere un 1948 rovesciato. Invece i gattini ciechi berlingueriani riuscirono a confermare la batosta del '48, e ancora occupano tutti gli spazi, con il loro poverissimo conformismo, fatto dei resti del sovietismo. Quello per cui, direbbe Galli della Loggia, si può ridiscutere la Resistenza, nel quadro della guerra civile, ma vanno sempre rimosse le origini del fascismo, contrastano col compromesso, tra il socialismo massimalista e il cattolicesimo anazionale.
Ernesto Galli della Loggia, Tre giorni nella storia d’Italia, il Mulino, pp.161, € 10

mercoledì 16 giugno 2010

La concorrenza angloteutonica e il monopolio Sky

Promuovere la banda larga e il digitale terrestre non si può in Italia, perché fa concorrenza sleale alla tv satellitare. Cioè a Sky, l’unica rete satellitare. La Corte di giustizia europea, investita del caso, non ha potuto che interinare le decisioni un anno e mezzo fa dell’allora commissario Ue alla concorrenze, Neelje Kroes. Nella fattispecie la signora Kroes si era pronunciata anche tra due duellanti politici, Mediaset (e la Rai) facendo capo a Berlusconi, e Sky Murdoch, il capofila della destra americana che in Italia gioca a sinistra, all’epoca in piena guerra (si ricorderanno le paginate ant-Berlusconi dei giornali inglesi di Murdoch). Il giudizio della Kroes si può ritenere anche politico. Ma è stato fortemente condizionato da un pregiudizio economico in favore dei monopoli che non può non suscitare scandalo, specie da un’autorità che si definisce antitrust. La verità è che l’Europa è dei monopoli, di chi è già su piazza cioè e la controlla. Degli interessi costituiti si sarebbe detto con altra, forse vetusta, terminologia. Schermandosi con principi igienici, sanitari e ambientali, imbattibili, e di volta in volta con la protezione della specialità (i formaggi per esempio) oppure dell’uniformità (sempre i formaggi), della protezione dalla chimica oppure della prescrizione chimica (la composizione dei gelati), la burocrazia di Bruxelles sempre e comunque protegge i monopoli. In particolare la direzione concorrenza.
Ritenere Mediaset non dominante può anche far sorridere. Ma non in un’ottica europea. Nella quale capitalizzano gli interessi dominanti, la spregiudicatezza, e l’angloteutonicità – Joaquìn Almunia, che è succeduto da qualche mese a Kroes, ne è un’estensione. Cauzionata dall’onesto professor Monti, che ne ha creato negli anni 1990 l’autorevolezza, con casi che ancora fanno testo contro i monopoli informatici, siderurgici, bancari, la direzione concorrenza di Bruxelles si sbizzarrisce, con commissari rigorosamente angloteutonici, a favore dei monopoli. Che pagano – oh, se pagano! – e questo si potrebbe anche tollerare, la corruzione. Nella fattispecie si può anche pensare che, Monti essendo stato nominato a suo tempo da Berlusconi, i suoi critici, specie la stampa britannica che aspramente lo contestò, vogliano far pagare a Mediaset (e alla Rai) le “colpe” dell’ex commissario: troppa dirittura non piace all’ideologia dominante del mercato. Ma la fattispecie è anche un caso raccapricciante di un “doppio” monopolismo: è aiuto di Stato e concorrenza sleale il (minimo) contributo al digitale terrestre, mentre non lo era quello alla tv satellitare, una e sola.

Se con Fini ritorna Andreotti

Uno vede Fini parlottare con Bongiorno, due profili molto lusinghieri, la foto più ambita dei quotidiani di Lor Signori, e viene ributtato indietro a Andreotti, che dell'avvocatessa Bongiorno è il patrocinato più illustre. All’essere cioè e al non essere, al qui lo dico e qui lo nego, ai dossier, al non fare, al governo attraverso la crisi. E alla spietatezza: i nemici Fanfani e, soprattutto, Moro l’hanno ben sperimentata, non c’è stata pietà per loro. I dossier ci sono già, dunque prepariamoci presto alle forche.
Fini magari un giorno andrà al potere riducendo anche lui l’imposta sul sale, se c'è ancora. E fin qui tanto di cappello. Ha già liquidato la sua Banca d’Italia, nella persona del ministro dell’Economia Tremonti, onesto controllore della Banca d’Italia finiana di Fazio. Quindi su questo fronte siamo coperti. Ha in manifesta amicizia Procuratori della Repubblica come Trifuoggi, che contro Del Turco non porta prove ma starnazzamenti da letto, e quindi siamo avvertiti, l'onorevole ci tiene per le palle (insieme con l'avvocatessa?). Poi magari anche lui scoverà un Sindona per salvare l’euro, ma l’euro non è di nostra competenza. L'esito del resto è noto: l'uomo di destra che fa il governo di Berlinguer. Magari riempiendolo dei più vecchi e inconcludenti arnesi politici su piazza, ma quel governo vuole a tutti i costi, anche di morti eccellenti - caso storico fu quella dell'onorevole Moro. Governo non inutile, se servirà come allora a distruggere l'Italia, per distruggere l'alleato Berlinguer. Ma c'è un ma: non c’è più terrorismo da combattere, e dunque su quali basi la solidarietà nazionale? Deve scoppiare una bomba? E resta il suspense sui patiboli: chi ci appenderà il nuovo Andreotti? A parte il busillis di scambiare Berlusconi per Berlinguer.
Perché le forche ci saranno, lo spettacolo è assicurato: non c’è salvezza al richiamo del peggio. Questa seconda Repubblica sarà stata un festival di revenant - si spiega anche così Berlusconi, il successo di Berlusconi: uno così effettivamente nella Repubblica vera non c’era. Pensare che Andreotti è stato processato a Palermo come mafioso e mandante di omicidi, e a Perugia per omicidio. Entrambe le volte salvato in appello dall'avvocatessa Bongiorno. Uno si aspetterebbe da queste esperienze una crudeltà mitigata. Ma Andreotti è questo: il peggio è invincibile – l’avvocatessa dirà che è stato il trionfo del diritto, quale diritto?

Dateci i nomi delle giornaliste – 2

C’è un caso in cui la legge sulle intercettazioni viene già applicata, anche se probabilmente questa legge non ci sarà mai: è un caso di Bari, capitale delle intercettazioni nel 2008-1010. Ma nessuno nel fronte a protezione della libertà dell’informazione contro la legge sulle intercettazioni protesta. Per un motivo semplice, anche se rivoltante: viene difeso il nome di tre “colleghe” giornaliste. Non funziona nemmeno il gioco della destra-sinistra, in questo caso: la protezione corporativa fa aggio su tutto, l’impulso allo scandalismo, le copie vendute, la politica.
Dunque, non c’è solo il colonnello della Finanza che se la spassava con le croniste giudiziarie a Bari, alle quali dava in cambio indiscrezioni sulle indagini di cui era comandato. C’è almeno un magistrato, e forse quattro. Ma questo pochi lo sanno. La storia da boccaccesca si fa sadiana: da uno scambio di favori (il letto di Berlusconi contro il letto del colonnello) a sei omaccioni che si fanno tre giornaliste. Di che alluzzare milioni di lettori e telespettatori: qui è lo scandalo più scandalo che ci sia, paginate di intercettazioni sono a disposizione, e sicuramente qualche foto rubata, dagli Zappadu di Bari se non dagli investigatori. Ma nessun telegiornale ne parla, e nei giornali non si va oltre scarni comunicati, su una colonna, a giorni alterni.
Uno vorrebbe aver fiducia nelle cronache giudiziarie. Per questo le abbiamo aperte alle giornaliste, per mettere aria nelle sentine degli angiporti delle questure. Per questo si vorrebbe che il giornalismo si liberasse delle tre che se la facevano con gli investigatori. Si finisce altrimenti per invidiare quei paesi dove le intercettazioni sono regolate, anche se fa sempre male non stare in un “fronte della libertà”. Nei paesi dove il pubblico funzionario che commercia le indagini si fa quattro e anche cinque anni di prigione, e che sono la mitica Gran Bretagna, gli Usa, la Germania. E i nomi dei confidenti sono resi pubblici. Anche se c'è un benign neglect per i giornalisti rispetto ai funzionari, nessun giornalista viene mai mandato in prigione. Ma noi non vogliamo le giornaliste in prigione, vogliamo i nomi. Vogliamo sapere cosa fanno, come lo fanno. Nel mestiere capita sempre d’incontrarsi, e bisogna sapere con chi si ha a che fare.

martedì 15 giugno 2010

Il complotto di Ciancimino in un romanzo del '50

Il processo era parte eminente della vita politica delle repubbliche democratiche, o sovietiche. Si montavano periodicamente processi politici con grande pubblicità e perfino pubblici, benché artefatti e violenti, come apparati scenici per celebrare il potere, e convincere-intimorire il pubblico-plebe. Con imputazioni in qualche percentuale non fantasiose (“Le imputazioni sono tante che di qualcosa dev’essere colpevole”, dice un innocentista).
Non c’è nulla che non sia stato già scritto. Soprattutto in materia di complotto. La fantasia dei complottatori è limitata, o le trame del genere sono ridotte (Eco ne avrà scritto?): il complotto è il tipico mercato dell’usato. Di trame però intellettuali, seppure poco variate: il complotto vuole deduzione, logica. Nel 1950 Ambler scrisse il complotto Berlusconi di oggi (riutilizzando peraltro materiali che già aveva unsato dieci anni prima come contorno politico al cattivo de "La maschera di Dimitrios"). Deltchev, il solo politico di opposizione, di una repubblica democratica popolare europea, che il regime ha deciso di eliminare, è accusato di essere stato membro della Fratellanza, l’organizzazione criminale segreta che più di tutti ha tentato di distruggere quand’era a capo del Governo Provvisorio dopo la Grande Trasformazione. Non manca l’intestazione di una quota editoriale alla moglie di Deltchev, il Nemico da abbattere. Con l’autogolpe che il Partito popolare si fa, per il tramite della bieca Fratellanza, per abbattere il Nemico e regolare i conti al suo interno.
Il paese balcanico somiglia molto all’Italia. È in fatti un paese “dove i delitti politici sono all’ordine del giorno”. Questo “Deltchev” è il modello del giudice Ingroia, che vuole Berlusconi complottatore con Riina per uccidere Falcone e Borsellino? La materia naturalmente non manca al giudice, collaboratore del “Fatto” e ospite dei migliori talk show, i più agguerriti, anche se non avesse letto il romanzo: i modelli sono nella storia, e Berlusconi sarà pure colpevole di qualcosa. In un vero complotto Ingroia non sarebbe morto, come già Falcone e Borsellino, ben più protetti di lui?
Questo stracco riciclo è uno dei segni del persistente sovietismo dell’Italia. Non è una sinistra che incolpa la destra, o viceversa. È un regime sordo, in questo caso di complottisti, di solito mezze figure (chi ricorda i ghigliottinatori? peraltro a loro volta ghigliottinati), che agitano la paura, da Ingroia al doppiopettista Fini - nel canone, l’accusato viene anche lasciato solo dai suoi: la rivolta è contro “papà” Deltchev, dall’esterno e dall’interno. Per questo stesso motivo, però, purtroppo per il lettore italiano “Il processo Deltchev” è materia di ogni giorno, non c’è sorpresa.
Cioè, le sorprese scoppiettano in questo romanzo. “Deltchev” è una delle trame più sorprendenti di Ambler. Per un artificio molto semplice: il testimone (autore teatrale, cronista al processo) diventa attore della vicenda. Nulla a che vedere con le mezze calzette stantie della cronache giudiziarie. E tuttavia si procede nell’intrigo col senso di già noto. Resta solo da scoprire la fratellanza che governa il Governo Provvisorio. Se non sono Riina e Provenzano, saranno quelli della “cricca”.
Eric Ambler, Il processo Deltchev, Adelphi, pp. 258, € 9

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (60)

Giuseppe Leuzzi

Trentasei modelle bionde ballano in continuazione per attirare le telecamere nelle partite dell’Olanda in Sudafrica. Fanno pubblicità surrettizia per una ditta tedesca di birra, la Bavaria, per conquistare il mercato olandese, o sudafricano. Non è uno spot difficile, molte belle bionde di razza olandese fanno ancora ricco il Sudafrica. Ma in questo caso non si dice che è un trucco tedesco, o olandese, per non pagare la pubblicità alla Fifa - il trucco è solo napoletano.
Solo i giornali italiani non se ne accorgono, e presentano le evidenti modelle come tifose. Sono stai pagati da Bavaria? Improbabile. No, ritengono che le olandesi, specie le tifose, non possano che essere ben proporzionate, slanciate e, perché no, anche bionde.

Giudicò Murat, cioè lo condannò, Raffaele Scalfaro, capo della Legione Sud della Calabria, beneficato dal Murat quand’era re. Ideale progenitore del presidente emerito della Repubblica, se non lo è fattuale.

La Bovalino-Bagnara è una strada non lunga, 61 km., ma detiene il record di curve e tornanti, circa un migliaio. Da sempre ne è promesso il rifacimento. Dal 1998 il rifacimento figura in primo piano alla Provincia di Reggio Calabria. C’è un progeto esecutivo del tracciato, con gallerie e ponti, ci sono state varie prime pietre dei lavori, ci sono anche i nomi dei manufatti, il ponte strallato Lizzati, il viadotto Giovanni Paolo II, ma non ci sono i manufatti. Né i lavori per avviarli.

La creazione del Sud
La squalifica del Sud è recente. Ancolra fino a dopo l’unità i resoconti e le impressioni di viaggio non fanno differenza. C’era il listò al Nord, o le piazze delle Erbe e dei Mercanti per passare il tempo,come il Corso al Sud. Gli interni, e gli esterni, di Favretto e dei favrettiani a Venezia a fine Ottocento non sono ancora più ricchi, decorosi, puliti che gli interni e gli esterni al Sud.

Grande rilievo del “Corriere della sera” all’informativa dei Ros, o della Procura di Firenze, che Bondi ha assegnato la direzione dei lavori agli Uffizi a un parrucchiere siciliano. Che ha un fratello legato alla mafia. Poi nulla risulta vero: Bondi non ha assegnato l’incarico, il siciliano che ha avuto l’incarico (non da Bondi), l’ha rifiutato, è un ingegnere e non un parrucchiere, e suo fratello è un architetto che non ha nessuna ditta e, dice “aborro la mafia, la sola parola mi fa paura”. Ma il “Corriere della sera” non si scusa. È così che nascono le storie, quelle del Sud.

Mario Alcaro sull’ultimo numero di “Critica Marxista” (nov.-dic.2009) può demolire divertito il “familismo amorale” di Banfield. La cui ricerca, ormai vecchia di oltre cinquant’anni, “Le basi morali di una società arretrata”, è stata riproposta dal Mulino cinque anni fa. Banfield la sua famiglia meridionale vuole nucleare, limitata al gretto legame di sangue, giacché conclude a “l’inesistenza della famiglia estesa, cioè di tipo patriarcale”. Senza neanche rapporti di amicizia, di vicinanza, di compaesanità. Ora, dice Alcaro, immaginarsi una famiglia del Sud senza parenti, amici, conoscenti, paesani… Senza contare, aggiunge, che Banfield trascura la storia che di un decennio l’aveva preceduto: le lotte per la terra in Calabria e Lucania, l’organizzazione dei braccianti, avviata da Di Vittorio in Puglia.
C’è in effetti in Banfield il modello inconscio degli Ik di Turnbull, la piccola tribù africana che viveva chiusa nel suo villaggio. Chiaromonte, un paese lucano di duemila abitanti a 800 metri di altezza, vissuto magari in inverno, si presta a una trasposizione del genere. Banfield, nato e cresciuto in una fattoria dispersa nella campagna dell’Oklahoma, e aiutato nel suo lavoro a Chiaromonte dalla moglie Laura Fasano, italiana nata in America, da genitori emigrati, può Anche averci avuto una predisposizione personale. Ma non è questo il punto debole della ricerca. Del resto la ricerca di Banfield vale per quello che è, il racconto di un’esperienza – seppure non senza pregiudizi. A Chiaromonte, il “Montenero” della sua narrazione, di cui non sa in che misura, scrive subito, “rappresenta le condizioni dell’Italia meridionale in generale”. Solo lo ritiene “abbastanza «tipico»”. Non è abbastanza per fargliene una colpa.
Il problema è la facilità con cui la categoria del “familismo amorale” si è imposta. Come qualsiasi altra formula derisoria della realtà meridionale. E non a opera del politologo conservatore americano. Per l’eterna “invenzione del Sud”, che è opera italiana. Nella quale solo fatti squalificanti sono possibili. È soprattutto per questo che il Sud non emerge dopo centocinquant’anni di storia unitaria e di asserito sviluppo del Sud stesso. Altrove i Sud sono usciti dal degrado e dall’arretratezza in pochi anni, l’Andalusia, l’Irlanda (era il paese più povero dell’Unione europea quarant’anni fa e ora è il più ricco), la Sassonia, dove non c’è il pregiudizio.

Mafia
Un Procuratore Nazionale Antimafia che denunzia un golpe della mafia, così, per sommi capi, per sentito dire, confidandosi con alcuni giornalisti, era ancora da vedere. Antimafia? Mafia?
L’ex presidente Ciampi gli dà ragione. Ero presidente del consiglio, dice, e ne ebbi sentore. E allora anche Scalfaro, che era il presidente della Repubblica, si ricorda. E che fecero? Non se lo ricordano?.
Manca Mancino per completare lo schieramento, il capo del Csm, ma lui i mafiosi pentiti accusano come golpista.

È carica straordinaria di energia: si può, si deve, anche leggere così. La mafia esprime una forte carica di energia dissipata, o convogliata su canali improduttivi. Resta da sapere perché.
La mafia si differenza dalla delinquenza comune perché nella violenza esprime anche molta energia, e molta capacità organizzativa e produttiva. I mafiosi hanno tutto dell’ottimo imprenditore, se si esclude la misura nella violenza (comprese la truffa e l’evasione-erosione fiscale): innovazione, capacità di valutare il rischio, capacità di creare reddito o ricchezza. Partendo da ambienti e condizioni personali sfavorite: emigrati marginali e isolati in America, Canada, Australia, villani a Palermo e in Calabria.
Sono un conferma o sono una smentita della concezione liberista della società? Della democrazia e della ricchezza che s’incrementano nello scambio?

La confessione viene legata al pentimento. Sono chiamano pentiti i confessanti di mafia. E per tali vengono venduti dall’editoria milanese che schiavizza il Sud. Che invece non lo sono. Sono testimoni, mafiosi, cioè per natura infidi.
Tutto è possibile. Anche decostruire la decostruzione, destabilizzare la destabilizzazione. Disorganizzare la disorganizzazione. Come operazione critica, certo, ricostitutiva. E faziosa: frantumare la frantumazione, dell’io, la persona, il mondo. Ma per quale legge e quale ordine? È operazione reazionaria, su cui si misurano l’Occidente, il papa, Freud, e l’imperialismo trionfante. “Non pentirsi di nulla è la suprema saggezza”, Kierkegaard dopo Spinoza sostiene pure con più verità: pentirsi come fatto attivo, parlare, denunciare, deprecare, cioè giudicare, è in realtà non pentirsi, il pen-timento è cancellarsi, giusto la metafora della prigione. Non si può rinun-ciare alla storia, non si deve. La storia divenuta reale non ha più fine, l’ha capita anche Debord. Si va per accumulo, soverchiando i segni meno.

Milano
Gabriele “Lele” Oriali, per una dozzina d’anni factotum dell’Inter e suo volto buono, viene liquidato per fare posto a un uomo di Benitez. Nemmeno mezzo ritratto simpatico dei giornalisti lombardi, nemmeno mezza riga di critica dell’improvvisa e immotivata liquidazione. Moratti, che già s’era com portato alla stessa maniera con Mazzola, è quello che è. Ma i giornali? I giornalisti? È Milano: sempre sul carro del “vincitore”.

Pagine e pagine dedicate alla furbizia, la strafottenza, la fortuna di Mourinho, l’allenatore di calcio più pagato al mondo. Che ha portato alla finale di Champions l’Inter, la squadra di calcio più pagata al mondo, e più indebitata in Italia. E ha ribattuto con disprezzo, verso Milano e verso il calcio italiano, alle paginate adulatorie. Fra le tante furbate di questo Specialone una senz’altro è apprezzabile: ha capito che a Milano bisogna dirsi migliore di tutti. Milano è città femmina, si sarebbe detto una volta, ha bisogno di farsi ingravidare.

Il catalogo di Manzoni è certo impressionante: mafia, stupro, aborto, anche in convento, gli sciacalli nella peste, la corruzione della giustizia e della religione, morte, puzza, idiozia. Non c’è altro romanzo, gotico, nero, che accumuli così tanta turpitudine. Tanto più per un’anima pia, che si assolve nella Provvidenza, e proprio perché si assolve. Pretendendo che Dio lo ascolti e lo aiuti.
In un luogo non evocativo (“Otranto”, “Saragozza”...) ma reale, storico, normale, Milano e dintorni.

È solo “milanese” nel trionfo. Anzi “milanese di madre bresciana”. Non si dice di Francesca Schiavone, trionfatrice al Roland Garros, “di origini meridionali”, come sempre nelle cronache (nere). Anche se non solo il padre è emigrato da Avellino, anche la madre bresciana ha origini meridionali. Il che è ottima cosa, la mancata sottolineatura. Se non che, nel caso, si segnala come un’omissione voluta, del tipo “giù le mani dai nostri successi”. O un nuovo tipo di anagrafe, in una col regionalismo? La madre certo è dirimente, in tutte le teorie razziste – anche se, nel caso, si ritorna alla domanda che perseguitava gli ebrei che cambiavano nome e religione: “Sì, ma prima?”
La “milanese di madre bresciana” è del “Corriere della sera”, o della “Gazzetta dello Sport”. Ma non è un omaggio al patron dei due giornali, Giovani Bazoli, il primo dei bresciani. È la cancellazione del padre. La conquista di Parigi non è il trionfo personale di Francesca Schiavone. O di una latina, per la prima volta, in uno sport da (ex) grandi potenze. O del tennis italiano. No, sarà stata una vittoria della Lega. Cioè, diciamoci la verità, di una certa Milano, quella che ci malgoverna da vent’anni. Lei ha dovuto far tappa, nella difficile carriera, in molti altri posti, anche in Sicilia, e non si stanca di dirsi italiana, e ringraziare l’Italia e dedicare il suo trofeo all’Italia. Ma è, ogni due righe, un’atleta “milanese”.

leuzzi@antiit.eu

domenica 13 giugno 2010

Il profeta fuori stagione di E.Bloch

Müntzer è il primo caso storico e il più conseguente dell’anarchismo totale: la “parola vivente” non ha bisogno di chiese né di sacramenti, Dio si rivela a ognuno, sempre, di nuovo, i testi sacri sono una testimonianza, la fede è di ogni momento. Ma il libro di Bloch, che si ripubblica dopo trent’anni in edizione economica, se illumina piacevolmente sui segreti della libreria e della lettura (un testo così tosto in economica, Müntzer, Bloch, la teologia, uno non può che rallegrarsene), è malinconicamente datato. Con poca storia e non sottile psicologia politica: “Müntzer, in quanto manifestazione e concetto, si definisce completamente attraverso lo svolgimento, l’esito, il contenuto conflittuale e l’idea della grande rivoluzione tedesca”. A Müntzer (lui lo scrive ancora Münzer) Bloch fa teorizzare sia il socialismo in un solo Stato (“la lotta di classe all’interno”) sia l’internazionalismo. È il Müntzer che la Repubblica Democratica Tedesca metterà nel biglietto da cinque marchi, un’icona proto-Pankow – c’è un tempo per i profeti, e questo Müntzer di Bloch è fuori stagione, cioè falso. C'è l'ortodossia: "Le condizioni d'industrializzazione mancanti al marxismo il bolscevismo è in grado di produrle dalla sola volontà di affermare il marxismo stesso, che è l'idea-di-comunismo più vicina alla natura umana". E c'è improvvisa la parusia. "Ci apparesplendente nella sua immagine e nel suo pensiero Thomas Müntzer, per molte cose simile a Liebknecht e non lontano per l'inflessibile capacità organizzativa dallo stesso Lenin e dagli uomini come lui... Müntzer ha anticipato l'uomo russo, l'uomo più interiore".
È un libro che usciva in Italia cinquant’anni dopo che Bloch l’aveva pubblicato, nel 1921. Ma è datata la stessa introduzione di Stefano Zecchi, con “l’irrimediabile contemporaneità, Ungleichzeit, della storia della Germania”, e il comunismo riferimento costante della stessa storia. Non manca la dottrina, e anche l’insight, nell’analisi delle derive autoritarie dei vari aspetti della Riforma, Lutero, Carlostadio, Zwingli, Calvino. Di Lutero Bloch spiega la “singolare cavillosità”, e come “lo stato luterano mancò quasi completamente di una tradizione di collegamento con la coscienza pubblica che era comunque più vivace nel mondo calvinista e cattolico”. Non c’è confutazione cattolica più radicale di Lutero di quella che ne fa qui Bloch. È un saggio critico sul luteranesimo.
L’approccio è sincretico. Nel complessivo millenarismo che caratterizzerà il filosofo: “la storia sotterranea della rivoluzione” resta inascoltata, ma è in marcia: “i fratelli della vallata, i catari, gli albigesi valdesi, l’abate Gioacchino da Fiore, i fratelli del buon volere, della vita comunitaria, dello spirito pieno,del libero spirito, Eckhart, hli hussiti, Münzer e i battisti, Sebastian Franck, gli illuminati, Rousseau e la mistica umanistica di Kant, Witling, Baader, Tolstòj, tutti si riuniscono…”. Ma è molto aperto sul cattolicesimo romano. A p. 150 il tomismo è detto “paralogismo feudal-clericale”, ma questo non è farina del sacco di Bloch, fine tomista e anzi entusiasta - è un’inserzione, non la sola, traccia di un’epoca, di un politicamente corretto. A lungo e in più riprese Bloch argomenta le persistenze del cattolicesimo in Germania, “negli spazi della musica di Bach, … nell’universale della filosofia leibniziana, nella filosofia di Hegel, che non ha dimenticato l’antico Regno”. E così via: “Effetto e conseguenza di questo cattolicesimo è amore per la purezza, anche se non è ancora purezza, è relativa benevolenza”. Con un una lettura realistica, ben weberiana, delle origini di un certo capitalismo: “Il radicalismo (luterano) si confermò piuttosto nell’etica del lavoro, generalmente protestante, di tipo piccolo-borghese”. Mentre “il luteranesimo, ancora più apertamente del calvinismo”, ha “messo in libertà gli istinti di potenza”, l’impero romano rigenerando “senza il cristianesimo”. E la Bibbia di Lutero era giusto una lettura patriarcale, “un’impronta nel migliore dei casi paternalista”.
Un capitolo a sé nella fede del filosofo è il terzultimo paragrafo, 5.7. “Il miracolo e il meraviglioso”, nell’età della non credenza. Con incursioni qua e là. Tra esse la lettura di Kafka “calvinista”, non simpatetica, ma non superficiale.
Il maggior punto d’interesse sta nella ripresa, ottant’anni fa, dopo la grande Guerra, del millenarismo di Gioacchino da Fiore. Una ripresa ancora largamente intonsa: il millenarismo, argomenta Bloch, il "cattolicesimo apocalittico", alimenta il diritto naturale classico, l’apriori di Kant, e Rousseau.
La rivoluzione dei contadini di Müntzer, e Müntzer stesso (“il grande avversario della Riforma dei príncipi e della borghesia”, Engels) finirono molto male. Ma l’uomo aveva una sua grazia (tratteggiato da Bloch infelicemente nella pagina centrale del suo saggio, nei termini del razzismo biologico) e una grande forza. Che mal ripose nei contadini e nei piccoli proprietari. Ebbe paura al momento della fine e ritrattò (anche di questo Bloch gli fa una colpa). Non si faceva illusioni: “I cristiani, a difendere la verità, sono capaci come i conigli”, aveva scritto: “E poi si permettono di dire a vanvera, certamente con molta eleganza, che Dio non parla più con la gente, come se fosse diventato muto”.
Ernst Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, pp.203 € 9

Secondi pensieri - (45)

zeulig

Bene - È valore trascendente. Altrimenti, in quanto aspirazione o tensione incarnata, è occasionale come il male.
L’ipostatizzazione è di tutti i “valori”. Altrimenti si resta nella dialettica – o rimescolamento, mescolanza, contaminatio – che è degli eventi. Della realtà come evento, la storia.

Si può anche dire la grazia. Il sentimento del bene (giustizia, amore, bellezza… ) è grazia.: molti ne sono sprovvisti, se non nelle forme deteriori del possesso, dell’esclusiva, della violenza.

Borghesia - È molto connotata, ma è un termine medio, sa di combinazione – nella triade hegeliana è la sintesi. Va sulla cresta dell’onda in forma di schiuma, che si scompone e si ricompone.
L’ambiguità viene dal fatto che ha una funzione naturale nobilissima, il lavoro. Ma la rifiuta per costituirsi un’eccellenza che ritiene opposta al lavoro e che definisce spirituale. Qual è il suo mistero, il mistero di questo rifiuto?

Ha consentito (instaurato) il primato della letteratura e dell’arte. Per essere filistea?
Anche come soggetto: non si può fare un film o un romanzo senza i borghesi. Che sono quelli che li apprezzano e li propagandano. Se ne esce mettendoli in scena in forma d’intellettuali: poeti, pittori, musicisti. I musicisti rendono di più: ci sono più tecniche nella musiche, e non sono molto conosciute – c’è quindi la sorpresa, accanto alle buone cose: occhio vivace, visi puliti, non dispeptici né aggressivi, buoni cibi, abbigliamento gradevole, posti incantevoli.

Civiltà – Ascende e decade con le oscillazioni sociali – anticamente con le migrazioni. Ai dotati (anticamente i sedentarizzati) per ingegno e accumulo succedono, a ondate, le masse che distruggono. Le masse sono sempre abiette, povere di gusto e di saggezza del potere – anche quando, ora, è di massa la cultura, si legge come non mai: la democrazia è, purtroppo, amorfa.
Così è stato nelle civiltà trapassate: minoica, micenea, greca (ateniese), romana, occidentale. L’antico Egitto fa eccezione per la durezza della legge (del potere), basata sul sangue, l’ascendenza matrilineare. L’America fa eccezione per lo stesso motivo, ma è la legge (la potenza) dei mediocri, e quindi non durerà – dovrebbe non durare.

Democrazia – È una pedagogia e un dovere. Duro: non c’ una propensione alla democrazia, l’istinto è ugualitaristico in senso aggressivo.

Mito – Quello dell’editrice Adelphi (Giorgio Colli) e quello politico del Novecento (Cassirer) sono la teoria del mito. Di un qualcosa di perento, da classificare, o un mito di ritorno, intellettualistico – l’immaginazione non ha bisogno di teoria.
È utile come forma conoscitiva? Lo è stato in senso dirompente (negativo), contro il conformismo idealistico e materialistico. In senso propositivo è una catastrofe: violenza assoluta (nazismo, comunismo) o stupidità.

Oggi si vuole debole: qualche ragazzetto\a in grado di durare pochi mesi, sul palcoscenico o in passerella, qualche santa remota, di anni o di mondi, e i “veritisti” dei giornali. Ciò corrisponde a un mercato o cultura democratica, vendendosi a poco roba da poco, vestiti, dischi, romanzi, film. Ma crea incertezza e inettitudine.

Quello greco è molto poco greco - semplice, significativo, consequenziale. È pieno di fattacci assurdi, tutti più o meno inconcludenti, da bambini cresciuti (poco) o, come usava dire, da popolazioni bambine. Anche le forme narrative hanno spesso un che di non greco, se confrontate con quelle sicuramente greche, le gesta, le navigazioni, le famiglie narrate da Omero, i misteri di Plutarco e le sue biografie. Le argonautiche, l’orfismo, le ridicolaggini dell’Olimpo potrebbero essere un’interpolazione dei trogloditi che vennero, dal Nord, nel 1.200-1.000 a.C.?

Morte – Introduce alla storia, che è indistruttibile. In questo senso è un momento dell’eternità, così come la nascita, e la vita.
La morte è individuale. Ma introduce ognuno all’immortalità del genere umano. Il genere umano è immortale, anche quando fosse tutto morto – se c’è la morte, se ce n’è cioè il ricordo.

È invenzione umana: è il culmine della paura.
Si vede dalla sua nascita. Le procedure violente che accompagnano la morte volontaria sono drammatizzazione al fine di esorcizzare la paura – per esempio il riso sardonico. Più violenza, più disgusto, e più paura, per alleviare la paura dei sopravvissuti.

Scetticismo – Nulla di meno laico, è una sorta di agostinismo rovesciato – il rovesciamento dell’ “agostinismo secolarizzato” (E.Bloch) del progresso e della provvidenza. Riflesso di una realtà dimidiata, circoscritta, per una presunta onestà intellettuale – che quando è presunta non è onesta.

Scalfari non crede. Gli tocca andare sempre più spesso ai funerali, e sorbirsi sermoni consolatori della resurrezione dei corpi il giorno del giudizio, il genere che lui dice “la comunione della vita eterna”. Ci ritroveremo anche “con i parenti della propria moglie”, gli fa dire Pietrangelo Buttafuoco che lo intervista. Ma lo scetticismo è questo: è il rifiuto e non la ricerca, la ricerca è un atto di fede.
Nel libro che ha propiziato l’intervista, “Per l'alto mare aperto”, Scalfari dialoga solo con i morti, alcuni anche di due e tremila anni fa, i vivi respingendo in blocco tra i barbari.

Tempo - È un macigno. Nell’ipotesi di avvicinamento a una stella attraverso la colonizzazione delle comete – l’ipotesi più semplice degli astrofisici – ci vogliono quattrocento anni per arrivarci. Ma cos’è il nostro tempo, quand’anche riuscissimo ad arrivare alle stelle? Un primo passo. Il primo di miliardi di miliardi, un numero incalcolabile di passi. Irrilevante. Inutile. E tuttavia ineliminabile.

È lentezza e inerzia. Da qui lo stato di crisi dell’epoca dell’accelerazione: l’homo artifex cozza a ogni minuto nei suoi limiti. Il cammino delle scoperte va a ritroso. Il tempo diventa la nsotra realtà in quanto ricordo, attesa, ripescaggio.
Il ricordo senza movimento (vecchiaia) è dopo un po’ intollerabile: ripetitivo, insignificante, ninimicro.

zeulig@antiit.eu