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sabato 19 gennaio 2019

Recessione (75)


L'Italia non era fuori dalla recessione: 
L’Italia è in recessione “tecnica” – due trimestri consecutivi. Lo prevede la Banca d’Italia, sui dati che l’Istat sta elaborando e di cui darà a fine mese il calcolo preciso della recessione.

La Germania è invece in “recessione tecnica” già acclarata – al cui traino va in recessione l’economia italiana.

Tra luglio e settembre la produzione industriale italiana è diminuita rispetto al trimestre precedente, dello 0,2 per cento.

Nel trimestre successivo la flessione sarebbe cresciuta, attorno al 2 per cento. A novembre il calo è stato del 2,6 per cento rispetto al novembre 2017. A dicembre, secondo Confindustria, c’è stata una ripresa, ma lieve, non in misura da colmare la caduta di ottobre e novembre. 

La maggiore flessione è stata registrata a novembre nel settore dell’auto, -19,4 per cento. Lo stesso che il governo adesso punisce con la sovrattassa acquisto. 

Solo i beni di consumo hanno registrato a novembre un incremento, modesto: lo 0,7 per cento. In pesante calo i beni intermedi, meno 5,3 per cento, e l’energia, meno 4,2. Ma anche i beni strumentali (macchine utensili, il secondo maggiore comparto industriale italiano) hanno registrato un calo sensibile, del 2 per cento.

Nei venti anni dell’euro, dal 1999, il reddito disponibile al netto dell’inflazione si è ridotto in Italia del 3,8 per cento (Ref Ricerche per “Il Sole 24 Ore”).

Il mondo com'è (365)

astolfo


Area grigia – Sul “Corriere della sera” ieri Donatella Di Cassare contesta il concetto e la definizione di “area grigia” che Primo Levi aveva formulato per tutta quella serie di collaborazioni che l’organizzazione tedesca – sintetizzata nelle SS – aveva istituito e riceveva nei lager, le strutture concentrazionarie create per i detenuti politici, o come campi di lavoro forzato, e infine di sterminio. Lo fa ricordando Shlomo Venezia, un forte ebreo di Salonicco, cittadino italiano di passaporto, protetto fino ai vent’anni dalle truppe d’occupazione italiane, ma dopo l’8 settembre, malgrado gli ultimi lasciapassare, deportato subito dai tedeschi – i quali non avevano altra occupazione maggiore, va notato. La madre e le due sorelle adolescenti morirono a Auschwitz, Shlomo si salvò in quanto aggregato a un Sonderkommando, quello addetto all’eliminazione dei cadaveri, mediante cremazione, fosse comuni, fuochi all’aperto – l’eliminazione dei morti non era sempre “igienica”, come si dice, nei forni crematori.
Shlomo Venezia ha reso la sua testimonianza in francese, una quindicina di anni fa, intervistato da Béatrice Prasquier, con prefazione di SimoneVeil, la prima presidente del Parlamento Europeo, nel 1979, deportata ad Auschwitz sopravvissuta, che di Venezia elogia l’“onestà irreprensibile”. Primo Levi aveva invece orrore delle forme di collaborazione che i deportati avevano assicurato all’organizzazione dello sfruttamento e dello sterminio. Non se li spiegava. “Questo è un argomento veramente ustionante”, ripeteva da ultimo, nell’“Intervista”, 1983: “Io rimango atterrito davanti a questa faccenda”. Non che non avesse indagato: “Ci sono alcuni casi di gente che ha preferito farsi uccidere piuttosto che entrare nei Sonderkommando. Alcuni non l’hanno fatto”. Specialmente i Sonderkomando, i commando speciali, tra le tante forme di collaborazione, atterrivano Primo Levi.
Di Cesare contesta Primo Levi. Intanto perché era in un campo di lavoro, alla Buna-Monowitz, e non di sterminio – ma da Monowitz vedeva i forni di Auschwitz e Birkenau, e sapeva, come tutti, di tutto. E più in generale, pone la questione degli “esecutori volenterosi”: “È tempo….di sollevare una questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto» solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l’indice contro i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva coniato l’espressione «zona grigia» con cui rinviava alla «complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa.
“Aveva ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo». Ma per il resto lui, che parlava da Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio, avrebbe forse dovuto rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonianza di Shlomo Venezia. Quell’industrializzazione della morte, che nelle officine hitleriane ha evitato il faccia a faccia con le vittime, è stato il sapiente trionfo dell’anonimato e l’intenzionale frantumazione della responsabilità. Così i criminali tentarono in seguito di definirsi innocenti”. Quindi aggiunge: “Oggi sappiamo che, se c’è stata resistenza, se c’è stata rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sonderkommando”.
Questo però non è vero. Anche perché non c’era sabotaggio possibile. Le altre testimonianze sull’organizzazione dei lager, non solo quella di Primo Levi, sono concordi nel coinvolgimento dei deportati nelle attività di controllo e selezione, dell’alimentazione, del lavoro, dell’ordine, nei campi e fuori, nei luoghi di lavoro, delle punizioni e delle morti. La prima testimonianza, “L’universo concentrazionario” di David Rousset nell’estate del 1945, ha una galleria di tedeschi “estremi”, di diritto comune e politici (socialisti, comunisti, terroristi), testimoni di Geova, trafficati e borsaneristi, nell’organizzazione dei lager: Kapò di vario tipo, di camerata, di blocco, di squadra di lavoro, di mensa, Meister, Vorarbeiter, Blockältester, Lagerältester, Blockführer, et al. Scelti tra i prigionieri: tedeschi politici e di diritto comune, polacchi, russi, francesi, ebrei etc. Responsabili pratici di ogni evento della vita concentrazionaria, dal favore alla morte – l’SS domina da remoto. Ciò non va sottovalutato per una collocazione esatta della Shoah nella struttura concentrazionaria - nel complesso dell’abominio che H.Arendt ha sintetizzato come “banalità del male”: la rete di attendismo, della violenza fine a se stessa, perfino senza malanimo, da una parte e dall’altra, dell’attendismo se non della rassegnazione, contando su privilegi minimi e scappatoie.
Quella di Venezia è testimonianza efficacemente onesta: semplice e veritiera. È anche, sul piano storico, testimonianza indiretta ma inoppugnabile – nelle cose - di due fatti introvabili per gli storici: la Soluzione Finale, e l’antisemitismo comune fra i tedeschi, non solo dei nazisti o delle SS. Fino al 1942 non ci sono deportazioni. Mentre ci sono angherie, anche violente, dei soldati tedeschi. In un discorso tenuto al Senato il 17 ottobre del 2012, sul disegno di legge che introdurrà nella successiva legislatura il reato di negazionismo, la stessa Di Cesare aveva sottolineato, ricordando la morte di Shlomo Venezia, interventuta il giorno precedente a Roma, il valore di testimonianza incontestabile della sua memoria. Non “negazionista”.
Ha ragione Levi. Due anni dopo Rousset, “L’espèce humaine” di Robert Antelme, lo scrittore filosofo ex marito di Marguerite Duras,  confermava il dettaglio di Rousset, con una nota inquietante sulla natura contagiosa del male. Su quello che Blanchot chiamerà in “L’infinito intrattenimento”, leggendo Antelme, “l’egoismo senza ego”. Il vecchio istinto di sopravvivenza, di quando la morale non era stata inventata.

Eccezionalismo americano – È un altro termine per populismo, meno sgradito politicamente ma più incisivo, non da oggi. Seymour Martin Lipset, “American Exceptionalism”, che ne fa nel sottotitolo “A double edged sword”, un’arma a doppio taglio, ne fa comunque un’arma. Anche se per “american exceptionalism”, dice, s’intende una cosa sola, e semplice: la mancanza di un forte sindacato socialista e di un partito laburista nella storia americana – storia unica, si può aggiungere, fra tutte quelle di Occidente. le storie dell’Occidente. 
Una questione, in questi limiti, nata già con Engels, che ne fece il problema principale dei suoi ultimi dieci anni di vita. Werner Sombart si pose il problema in un’opera apposita, “Perchè non c’è il socialismo negli Stati Uniti?”, 1906. Nello stesso anno lo stesso quesito poneva H.G.Wells, allora giovane attivista fabiano (socialista) in “The Future in America”. 
Sarà un problema anche per Lenin e Trockij, che Marx non funzionasse in America. E non c’è rimedio, conclude Lipset introducendo la sua ricerca, sotto forma di interrogativo retorico: “Perché l’America è stata la società politica più classicamente liberale al mondo dalla sua fondazione al presente”.
Il liberalismo della società americana è ora da più parti contestato, su base storica e di sociologia politica. Ma l’eccezione continua: il liberalismo americano si spinge a sinistra (Kennedy, Obama), appena appena più in la del centro. E quando ci riesce lo fa negandosi. Per alcuni decenni l’eccezione si è rafforzata con la paura del comunismo sovietico. Ma, poi, non ne ha bisogno. Lipset spiega infine l’“eccezione” prospettando gli Usa come il paese dell’eguaglianza, Cioè no, “più uguale”. Non nel senso di Orwell - “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri” – ma comparativamente, con le società europee migliori. Che è vero, naturalmente, e non è vero: i diritti si pesano e non si contano.
Lipset porta a testimone Edmund Burke, che da giovane, il 22 marzo 1775, aveva tentato di proporre al Parlamento inglese “la riconciliazione con le colonie americane”. Secondo Lipset sul presupposto della “diversità” degli americani, degli inglesi d’America, a motivo del loro senso della religione che oggi diremmo integralista, per una sorta di vangelo delluguaglianza. Ma non è così. Burke faceva un conto dell’importanza economica degli Stati Uniti – che nel 1772 assorbivano da soli tutte le esportazioni inglesi nel mondo di settantanni prima. E prospettava la pace come unica soluzione possibile – “l’uso della sola forza non può essere che temporaneo”. Con la concessione agli inglesi d’America dei diritti di rappresentanza politica – proponeva un progetto costituzionale in cinque punti.  
La diversità invece colpirà Tocqueville, la diversità americana, e fonda il suo classico “La democrazia in America”, 1831, a mezzo secolo dall’indipendenza americana, e quando ancora l’America contava pochi stati comunità: La posizione degli Americani è perciò davvero eccezionale e si può ritenere che nessun popolo democratico verrà mai a trovarsi in una posizione simile. La loro origine strettamente puritana, i loro costumi esclusivamente commerciali, persino il Paese che abitano, che sembra sviare le loro menti dalla ricerca della scienza, della letteratura e dell’arte, la prossimità con l’Europa, che permette loro di trascurare queste ricerche senza scadere nella barbarie, un migliaio di motivazioni speciali, di cui sono stato capace di rilevare soltanto le più importanti, hanno concorso singolarmente a fissare la mente degli Americani su obiettivi puramente pratici. Le loro passioni, i loro desideri, la loro educazione, ogni cosa sembra concorrere al proposito di attirare i nativi degli Stati Uniti verso le cose terrene; persino la loro religione, che permette ad essi, di tanto in tanto, un'occhiata fugace e distratta al paradiso”. Un caso particolare, in realtà, intende Tocqueville, che conclude: “Lasciateci smettere, allora, di vedere tutte le nazioni democratiche alla luce dell’esempio del popolo americano”. Che equivale anche a dire: l’America non è esemplare.

astolfo@antiit.eu

Il male si annida nella chiesa migliore

Stendhal, il racconto “La duchessa di Paliano”, rifatto per seicento pagine, a ridosso della traduzione delle “Cronache italiane”, 1858. A riprova che la (buona) letteratura è buona e fa bene.
L’autore lo presenta come il romanzo di Porta Pia, contro il potere temporale dei papi. Licenziato in Firenze l’8 maggio 1864 ma promesso alla contessa Filiberta Passerini-Petrucci per il suo matrimonio quattro anni prima. La promessa non fu mantenuta  per “gli strepitosi avvenimenti che subito occorsero, e i quali, conducendo le armi del Re nelle Marche e nelle Umbrie, mi ridettero la patria libera e disposta alle sorti migliori” – c’era chi ci credeva veramente.
Cesare Trevisani è sconosciuto oggi anche a google. Ma pubblicava romanzi storici con i maggiori editori del secondo Ottocento, Lemonnier a Firenze, Daelli a Milano – questo in quattro volume tascabili, i romanzi andavano molto. Rifacendosi a Guerrazzi – non cita mai Manzoni (e ovviamente non Stendhal). Di fede dunque laica. Ma mosso da buoni propositi: qui muove scandalizzato “tra il Guizot protestante , che sorge a difendere la necessità del potere temporale dei papi, e il Renan cattolico che leva a Cristo la divinità”. In questo senso dunque contemporaneo.
È il romanzo nero dei nipoti di Paolo IV, 1555-1559. Il cardinale irpino Carafa, arrrivato al soglio a ottant’anni, papa di transizione, di vita morigerata, riformatore sincero e grande italiano, che cercò l’alleanza dei Turchi, e promosse l’Inquisizione a Roma, l’Indice dei libri proibiti, e l’istituzione del ghetto. Trevisani sceglie il suo pontificato, tra i tanti che aveva disponibili per contestare il potere temporale, per “l’esempio di un papa che, senza il temporale, sarebbe stato, come gran sacerdote, modello di pietà, di zelo e di religione, aggirato da perversi congiunti”. Con “nefandezze” e “calamità” “che si fanno appena credibili a chi consideri come in quel tempo sulla Corte di Roma, denunciata dai clamori dei riformisti, stessero aperti gli occhi di mezza l’Europa”.

Cesare Trevisani, I nipoti di papa Paolo IV

venerdì 18 gennaio 2019

Il populismo viene da sinistra – 3

Lo stesso “eccezionalismo” americano (“perché in America non c’è un partito e un sindacato socialista”) già in Tocqueville, agli inizi di “La democrazia in America”, è il popolo. In quella che Tocqueville chiama la “costituzione sociale”: non l’insieme di norme e\o concessioni sovrimposte alla nazione, ma il modo stesso di vivere insieme di una nazione. La riserva di potere che ognuno si assume.
I “Federalist Papers” newyorchesi del 1788, di Hamilton, Madison e John Jay sull’accettazione della Costituzione americana, fanno espresso riferimento al populismo come forma di aggregazione politica. Tocqueville rileverà come l’individualismo, che è la forza della democrazia in America, sia anche il suo punto debole: atomizza il potere, si direbbe oggi, lasciando lindividuo solo di fatto di fronte allo Stato nelle grandi decisioni. La nozione dello Stato come di un mammut ostile finisce per generare passività di fronte alla burocrazia anche quando essa è imperfetta o improduttiva. In termini diversi, ma è l’analogo del populismo odierno in Europa, di fronte a “Bruxelles”, a “Roma ladrona”, ai “poteri forti”, ai “salotti buoni”. L’esclusione coltiva una rivalsa, non di per sé bene indirizzata.
Negli anni della guerra del Vietnam, questo fu il sentimento dominante in America. Della contestazione, giovanile, femminile, delle minoranze, per i diritti civili e contro l’estensione della guerra, e non solo: questo paradigma populista di sinistra fu motivo nazionale dominante. Anche se portò, dopo le presidenze democratiche di Kennedy e Lyndon Johnson, al voto massiccio per Nixon: un populismo di sinistra che trovava lo sbocco a destra. Si può dire del populismo che agisce - si aziona - per reazione.
Il populismo era stato acculato in America a destra nel dopoguerra, nella polarizzazione della guerra fredda, in parallelo con la “costruzione” di un tradizione costante, vecchia di due secoli e mezzo, di liberalismo politico. Ad essa veniva utile dire anti-americano il populismo dell’Otto-Novecento, fino ad assimilarlo al fascismo mussoliniano e facendone il prodromo del mccarthysmo. Lo storico Richard Hofstadter si è distinto in questa ricostruzione. Il populismo facendo retrogrado, xenofobo, antisemita, cospiratoriale. All’origine dell’“anti-intelettualismo nello stile di vita americano” e dello “stile paranoide della politica americana”. Ogni possibilità di risentimento popolare, del resto, era in quegli anni temuta come un’apertura al “comunismo”.
L’analisi di Hofstadter bizzarramente si conformava con la storia americana. Singolarizzando la minaccia populista, nell’intento di costruire una tradizione americana liberale forte di due secoli e mezzo, riportava però a galla elementi populisti trascurati di forte impatto nella vita nazionale. Di destra ma collegati alla tradizione culturale centrale, liberale o meno che sia stata. L’anti-cattolicesimo, per esempio, dominante fino alla seconda guerra, che escludeva dalla società civile molti immigrati europei - italiani, iberici, irlandesi, polacchi. Il razzismo, e la schiavitù mascherata, che conformavano le relazioni sociali in quasi la metà degli Stati Uniti, fino agli anni 1960 e oltre. La violenza politica, costante per tutto l’Ottocento, e anche, sebbene individuale e sporadica, per il Novecento – ma il “gioco sporco”, di minacce e ricatti, è costante e normale nella politica americana.
Queste le radici. Oggi, ovunque in Occidente la globalizzazione ha prodotto ineguaglianza massicce di reddito e condizione. È il lato oscuro della nostra storia, del Millennio, di cui non si parla. – il dumping sociale asiatico. Ristrutturazioni a catena, con ridimensionamenti del personale o demansionamenti, senza alternative. Le delocalizzazioni, con semplici e radicali chiusure di impianti – le case automobilistiche ne fanno a mezze dozzine, anche a dozzine. L’unico rimedio consistendo nel taglio di retribuzioni e garanzie sociali. Il mercato tedesco del lavoro che si porta a esempio delle “riforme” necessarie si alimenta con una marea di assistititi dalla carità pubblica, circa 10 milioni di persone.
In contemporanea, il prolungamento dell’aspettativa di vita di pari passo col progresso della medicina preventiva e terapeutica, ha prodotto masse di percettori di reddito fisso (pensioni) che inevitabilmente con gli anni si deprezza e porta comunque all’impoverimento. Anche per la simultanea introduzione del divieto di cumulo lavoro\pensione. 
La platea delle frustrazioni è in larga espansione, a ritmi elevati. Senza soluzioni né argini: l’impoverimento, senza possibilità di reazione, sembra ingovernabile. La frustrazione si scarica sulla politica quale mancanza di immaginazione e di risposte.
(fine)

Fantascientifico fra le donne


Venticinque anni dopo la prima traduzione, si ripropone questo terzo capiosaldo Vian targato “Vernon Sullivan”, pseudo traduttore dall’americano, il nome adottato dallo scrittore musicista per situarsi meglio nel pulp noir dominante, anche  Parigi nel dopoguerra, a stelle e strisce. Il primo fake, “Sputerò sulle vostre tombe”, era stato un successo e Vian ci riprova.  In chiave pornofantascientifica. Donne giovani e meno, dark e candide, tra amori interrotti e ininterrotti, sbirri corrotti, grigliate, e inseguimenti a Los Angeles labirintini, il suo giovane muscoloso vergine eroe non se ne perde una. Anche il lettore, benché il divertimento sia prolisso – Vian è solitamente conciso.
Gli editori Marcos y Marcos meritori ci riprovano periodicamente a radicare questo autore scintillante, ironico, satirico, un “bernesco” del Novecento, tra Sartre e Edith Piaf, il jazz, che praticava, e le moglie scambiate – Sartre gli fregò la sua. Che però non sembra rispondere al “genio” italiano, non più – ma è un problema, questo, per l’Italia, non per Vian: quantum mutata.
Boris Vian, E tutti i mostri saranno uccisi, Marcos y Marcos, pp. 217 € 17

giovedì 17 gennaio 2019

Problemi di base gialloverdi - 466

spock


Ora che dobbiamo essere anti-arabi ci tocca rinunciare alle arance?

E al petrolio?

Se si può fare il parlamentare a Roma comodamente, con decoro e ristoranti stellati, con settemila euro al mese, quanti ne restano ai 5 Stelle dopo il contributo alla Casaleggio Associati, perché pagargliene  quindicimila?

“Non sopporto la spettacolarizzazione”, diceva l’altro anno Salvini, che a Fiumicino ha montato uno spettacolo sullo sbarco di Battisti, “non bisogna esibire i catturati”:  non pensava che non lo avrebbero arrestato (la sua Lega ha ben rubato 49 milioni allo Stato)?

Salvini punisce le macchine italiane perché è anti-juventino?

O è sovranista filotedesco?

spock@antiit.eu

Il populismo viene da sinistra - 2

Anche sostanzialmente, si può vedere il populismo, in Francia, in Italia e in Polonia, come l’esito del fallimento della sinistra. Una reazione alla sinistra, ma per non avere saputo – o potuto – essere di sinistra. Non da ora, e non in misura irrilevante, le circoscrizioni operaie della cintura parigina votano Le Pen, quelle del triangolo Lombardia-Veneto-Emilia votano Lega e ora anche 5 Stelle.
È l’esito della cosiddetta anti-politica, che ha imperversato ultimamente anche sul versante liberale. Sotto le forme surrettizie dell’anticasta e dell’anticorruzione. In Europa. Mentre in America la stessa polemica sta sortendo effetti contrari: ha portato alla politica molti giovani, alle ultime presidenziali, tradizionalmente lontani dal voto, e questo soprattutto per l’effetto Sanders alle primarie democratiche, il populista dichiarato di sinistra. Che però non nasconde simpatie socialiste – anche perché ora il socialismo non è più tabù, l’elemento fondante dell’“eccezionalismo americano”, e anzi se ne parla come di un’alternativa migliore all’individualismo. .
Lo storico americano Barry Eichengreen, analizzando “The Populist Temptation”, la fa risalire ai Ludditi della prima industrializzazione, alla socialdemocrazia tedesca post-unitaria, e ai partiti Populista e Greenback protagonisti elettorali nell’America di fine Ottocento. In aggiunta alla deriva razzista e demagogica rifluente che più caratterizza il populismo, dal Ku Klux Klan negli anni 1920 a Huey Long nel decennio successivo, e a vari altri personaggi, fino a Trump. Per una miscela “corrosiva” e “anti-intellettuale”, anti-specialisti, che sintetizza in: anti-elitismo, autoritarismo, nativismo, nazionalismo bellicoso, demagogia, distruzione. 
La spinta populista di sinistra lo stesso Eichengreen fa invece motore delle grandi riforme “conservatrici”, quella di Bismarck negli anni 1880-1990, e quella di Franklin Roosevelt negli anni 1930. Due esperienze in cui è stato l’establishment a farsi carico delle esigenze populiste, e a meglio esaurirle. Alle quali si potrebbe aggiungere quella, di destra dichiarata più che conservatrice, di George Wallace, il governatore Democratico dell’Alabama negli anni 1960-1980, che lottava per i poveri ma anche contro la desegregazione razziale.
C’è, evidente, una confusione di motivi e obiettivi nel populismo. Il nazionalismo per esempio, o sovranismo oggi, si scontra in Italia con leggi che favoriscono il lavoro e il prodotto stranieri, a parità di qualità, come nella legge contro le automobili italiane – contro le emissioni di anidride carbonica, ma di fatto mirate contro le auto prodotte in Italia. Più che di nazionalismo, di protezione degli interessi nazionali, il sovranismo è una forma di sciovinismo, di rabbia incontrollata e inconcludente. Il punto nodale è l’egualitarismo, puro e semplice: non a ognuno secondo  suoi meriti e i suoi bisogni, ma un po’ a tutti.
(continua)

Il balzo indietro della democrazia in Italia


Il rapporto annuale dell’ufficio studi del settimanale britannico sullo stato della democrazia nel mondo registra un’annata non buona – riflessa nel minaccioso il #metoo americano del titolo. I tre temi del sottotitolo, “political participation, protest and democracy” sono in regresso. Se 48 dei 165 paesi oggetto della ricerca hanno mostrato un miglioramento, contro 42 in peggioramento, la percentuale di chi vive “in qualche forma di democrazia” è diminuita di un punto e mezzo, al 47,7 pet cento, rispetto al 49,3 per cento del 2017. E di questo 47,7 per cento una percentuale minima, il 4,5, vive in condizioni di “democrazia piena” – in pratica la Germania e i suoi cari. Mentre “più di un terzo della popolazione mondiale vive sotto regimi autoritari, con una larga fetta rappresentata dalla Cina”.
L’Indice si basa su cinque categorie: processi elettorali e pluralismo, libertà civili, la funzione pubblica (governo, burocrazia), la partecipazione politica, la cultura politica. Per ognuna delle quali una serie di indicatori viene rilevata. Il punteggio complessivo assegna i 165 paesi oggetto della ricerca a uno di quattro “tipi di regime”: democrazia piena, democrazia imperfetta, regime ibrido (democratico e autoritario), regime autoritario.
L’Italia è il paese che fa il passo indietro più consistente, di 12 posizioni – dopo il Nicaragua e il Venezuela che arretrano di 17 posti. Era ventunesima, la prima dopo le democrazie piene, è scesa al trentatreesimo posto. Già classificata tra le democrazie imperfette, per il sistema giudiziario e carcerario, e per la complessità burocratica, è crollata per il voto di marzo: “Il crollo della fiducia nella politica tradizionale ha prodotto una clamorosa vittoria alle elezioni parlamentari di marzo del movimento anti-establishment 5 S telle (M5S) e dell’euroscettica anti-immigranti Lega, che hanno formato una coalizione che ha preso una posizione dura contro l’immigrazione”. Il giudizio politico è basato in più punti su quello di Michelle Bachelet, Commissario Onu per i Diritti Umani – che avrebbe avviato un’indagine Onu “sui crescenti attacchi contro i richiedenti asilo e la popolazione Roma” in Italia?
Tra i paesi europei, l’Italia condivide la posizione di “democrazia imperfetta” con la Francia, il Belgio, il Portogallo, la Grecia e Cipro. L’Austria, per la quale si registra un giudizio politico analogo a quello italiano, conserva inece lo stato di “democrazia piena”. Sono democrazie piene tutti gli altri paesi dell’Europa Occidentale, del vecchio ceppo linguistico germanico o sassone – più Malta e la Spagna (vandala?), ma dietro l’Austria. Democrazia imperfetta suona nell’indice Eiu “flawed democracy”: un “flawed index”?
The Economist Intelligence Unit, Democracy Index 2018: me too?, free online

mercoledì 16 gennaio 2019

Dove finisce l’Europa

Il giorno del no definitivo di Londra alla Ue è celebrato dalle Borse. Che però non celebrano il 4-1 di Westminster contro l’accordo sottoscritto dal governo May, ma la ripresa – ripresina, modesta, modestissima – di Wall Street nelle stesse ore del no ai Comuni. Mentre Bruxelles riconosceva infine, ma tortuosamente, che la politica di austerità è stata un errore – “una politica stupida” l’aveva detta Prodi già dieci anni fa, uno che se ne intende, già presidente della Commissione di Bruxelles.  Pechino invece annunciava di avere fatto germogliare il cotone sulla Luna in una coltura idroponica.
Quattro novità in un paio d’ore, che rendono la giornata di ieri sintomatica. Dell’irrilevanza di Londra per l’Europa. Dell’irrilevanza dell’Europa, appesa a uno zero virgola di Wall Street. Immemore della recessione in atto in Germania  per due trimestri ormai consecutivi. “Lu munnu va n’arreri, direbbe Domenico Tempio, poeta siciliano, in un buco nero. Mentre la storia, anticipazione del futuro, si fa altrove che in Europa.

Il comico senza senso del ridicolo


Un comico senza senso del ridicolo? Il sospetto su Grillo diventa certezza. Il giorno dopo essere stato deriso a Oxford, dai giovani della scuola parlamentare di quella università che l’avevano invitato, incuriositi dal-comico-che-rinnova-la-politica, fa criticare dai suoi sottopancia la Rai, la sua Rai, per “vilipendio delle istituzioni”. Nemmeno Andreotti era arrivato a tanto.
Il corpo del delitto è una trasmissione solo geniale di Rai 1, una commedia musicale intitolata “La Compagnia del Cigno”, girata attorno al conservatorio di Milano, con attori non professionisti tratti dai conservatori italiani, tutti bravi. Una serie anche promozionale: c’è da giurare che l’anno venturo le iscrizioni ai conservatori raddoppieranno e triplicheranno. Ma, come per ogni altra cosa di successo, Grillo vuole appropriarsene e lo fa alla Grillo, dispettoso: mobilitando i pentastellati dei conservatori che già si vedono onorevoli e ministri, a 15 mila al mese, e ben cinque parlamentari che i 15 mila già se li godono, che si vede non hanno altro da fare, per dire l’ottima serie “una rappresentazione distorta delle istituzioni musicali italiane”. Senza senza del ridicolo.
Che Grillo non ce l’abbia era già evidente nella incursione a Oxford. Ha deluso, e non se n’è accorto nemmeno – non si chiede il perché. Ma non sarà più lo stesso Grillo, strafottente: un settantenne deriso dai ventenni, un comico preso in giro, sono cose che traumatizzano. Verrebbe da compiangerlo, non avesse trapiantato la tante male piante, o nullità, al governo.

Il populismo viene da sinistra


Professato da destra, il populismo viene da sinistra. Nel sostrato politico e anche in event recenti. Mélenchon, leader della sinistra in Francia, è populista dichiarato. Era populista all’origine e per lungo tempo il movimento di Tsipras, che si volle importare anche in Italia, con la lista di Barbara Spinelli e Curzio Maltese. Specie nella fase Varoufakis – che in Italia continua ad avere audience.
La sistemazione politica è confusa perché il populismo non ha padri, curiosamente, benché sia la novità più diffusa, e temuta, in Europa e in Nord America. Dell’America latina è ritenuta la costituzione materiale, senza meno. Al punto da non menzionarla nemmeno, è scontata: la politica vi è ritenuta, e peraltro praticata, come un susseguirsi di soprassalti, da parte di questo o quel popolo, parte di popolo.
Si può dire un sentimento politico,  non un’ideologia. Secondo ricerche di sociopolitica avallate da Yascha Mounk, giovane scienziato politico tedesco-americano, in”The People vs. Democracy”, è il trend politico dominante, specie tra i più giovani, in mezza Europa (Gran Bretagna, Italia, Germania, Spagna, Norvegia, Polonia, Romani, Slovenia) - in America invece solo negli Usa, in Cile e in Uruguay. Mounk è contestato in America per quanto concerne gli Usa: alle presidenziali del 2016 molti più giovani hanno partecipato al voto, specie nelle primarie, che in ogni altra elezione in precedenza – è l’“effetto Sanders”, la sfida di Sanders a Hillary Clinton. Ma la vittoria di Trump, un outsider con molti handicap, dà ragione a Mounk, è la vittoria del populismo.
Un sentimento politico crescente, anche se non dominante, che però non si definisce, nonché non collocarsi politicamente tra conservazione e progresso. Non ci sono partiti o movimenti politici dichiaratamente populisti. Non c’è un linguaggio populista, un programma elettorale populista (niente per esempio di comparabile alla piattaforma politica populista negli Usa tra Otto e Novecento, molto robusta e definita), una internazionale populista, al parlamento di Bruxelles o altrove, una intellettualità, editoria, pubblicistica, populista. E non per un disegno di occultamento, dato che non si parla e non si discute di altro – e i più verbosi sono i populisti dichiarati, da Trump a Salvini. Non c’è un background culturale per l’indefinitezza del concetto e dei suoi contenuti.
Ma storicamente ha una sua fisionomia. Dei quattro ingredienti del neo populismo euro-americano, tre sono almeno di sinistra: la vittimizzazione rispetto ala globalizzazione, al deprezzamento del fattore lavoro sotto l’assalto delle economie di massa asiatiche, in proprio e per conto delle multinazionali, con la delocalizzazione e l’esternalizzazione delle produzioni, per la concorrenza imbattibile sul fattore lavoro; la critica della finanziarizzazione, alla quale la politica occidentale è sottomessa; le caste e la corruzione. Il quarto ingrediente, la vittimizzazione rispetto all’immigrazione africana e alla crescita dell’islam, può basarsi su un pregiudizio razzista, e quindi è ambivalente.
Il populismo non ha una dottrina (cultura) specifica. È una reazione, all’inefficienza di quella che oggi, con Thorstein Veblen si chiama la classe dirigente (la “classe agiata”), le élites di Gaetano Mosca a fine Ottocento. Ma era così già ai tempi dei Ciompi, e poi di Savonarola. È così nella storia. È anche lapalissiano: quando le cose non funzionano c’è una rivolta.
Storicamente la rivolta populista viene da sinistra: è la delusione a sinistra. È di questo tipo il successo relativo di Sanders contro Hillary Clinton nelle primarie Democratiche del 2016 – al punto da prospettare in America il socialismo, finora escluso dalla cultura Usa . Era la delusione anche di Mussolini e del fascismo sansepolcrista. Ora risorge sul mito della democrazia diretta, anche questo progressista – uno è uno. Che fa aggio sulla democrazia rappresentativa, che si dice formale e di fatto illiberale. Nonché sulla meritocrazia, presto rigettata in quanto elitista e quindi conservatrice. A favore delle “masse”, altro residuo della demagogia populista di sinistra – anche della destra, ma più a lungo re più recente della sinistra. Sul fondamento di Rousseau, cui il movimento di Casaleggio si richiama esplicito, sul fondamento del “Contratto sociale”: “Nel momento in cui un popolo si dà dei rappresentanti non è più libero, anzi non esiste più”. E il popolo è tutto: “Ogni legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge”. E “i deputati del popolo” non sono i suoi “rappresentanti”, non possono decidere nulla in sua vece – “non possono concludere nulla in modo definitivo”. Sono al più i suoi “commissari”.  
(continua)

I vegani, che terroristi


Un’occasione mancata, per una sceneggiatura erratica, goliardica, specie con la figura principale di Camilla, Carolina Crescentini, ipocondriaca psicopatica. Ma che soggetto, specie che novità per il rassegnato pubblico del made in Italy: un giallo grottesco.
Un’organizzazione terroristica vegana, al soldo di un guru. Contrastata da un colonnello dei Carabinieri da Comma 22 – questo era ancora da vedere, in Rai poi. Con molti attori al giusto limite, Bruschetta, Pesce, Assisi, Mario Cassini, Marco Cassini. Con un lieto fine pieno di sorprese a cascata.
In due o tre punti, per eccesso di Camilla-Crescentini, uno si dimentica di ridere. Ma che colpo di genio.
Fabrizio Costa, Non ho niente da perdere

martedì 15 gennaio 2019

Ombre - 447

Gli studenti fischiano a Oxford Beppe Grillo. Il comico italiano è sempre stato di difficile esportazione.

All’associazione degli studenti di Oxford che lo ha invitato per fare conoscenza della nuova politica italiana Grillo ha posto la condizione che i giornalisti non fossero ammessi all’incontro. Sapeva di non essere esportabile?

Susanna Tamaro vuole che uno dei suoi amati cani sia morto avvelenato da una polpetta avvelenata lanciatagli “dai cacciatori”. Come se “i cacciatori” non amassero i cani – mentre non amano che quelli. Tamaro è contro la caccia, e si spiega. Ma le buone intenzioni sono spesso lastricate male.  

Vendite e assistenza dei media, digitale e telefonia mobile, sono giovani e giovanilistiche. Tra ignoranza, approssimazioni, superficialità, e truffe vere e proprie. Con servizio sempre non collaborativo. Le nuove generazioni sono migliori delle vecchie? È colpa delle vecchie generazioni’

Grave scandalo, si gioca una partita in Arabia Saudita, dove le donne devono andare allo stadio separate. Ma prima di questa partita non ci potevano andare. Il progresso impone delle tappe.

Servono due allenatori di calcio, Dossena e Donadoni, per spiegare che questa è una novità in Arabia Saudita, che prima le donne non potevano andare alo stadio. Spiegano anche che prima, ancora vent’anni fa, in Arabia Saudita non c’erano nemmeno gli alberghi. Quello, insomma, che tutti sanno. Eccetto i media: per ignoranza, per ipocrisia?

Le donne vanno allo stadio in Arabia Saudita come i tifosi ospiti in Italia. In tribune separate. In Italia anche sotto buona scorta di polizia.

Sintetico, preciso, modesto, il principe Turki al Feisal, uno dei cugini al Seud che ora gestiscono  l’Arabia Saudita, presidente dell’Autorità sportiva, spiega a Tomaselli sul “Corriere della sera” il “grande lavoro che stiamo facendo” per migliorare la condizione femminile. Pregustando lo spot domani dell’immagine delle saudite allo stadio in Asia e in Africa, dove aspettano di vedere Rinaldo in Juventus–Milan. Buone intenzioni anche di Pistocchi, che ha sollevato l’ottima palla ai principi sauditi?

Pomicino scrive al “Corriere della sera” per dire che Andreotti ha fatto tutto: anche l’antimafia con Falcone, e l’anti-Reagan a protezione di Gheddafi. Lettera a cui il direttore Fontana non aggiunge una riga. Mentre l’anti-Reagan lo fece Craxi. E il carcere duro antimafia e Falcone a Roma alla direzione generale della Giustizia furono opera di Martelli. Ma dei socialisti, benché milanesi, nel giornali d Milano nemmeno l’ombra. Poi dice che c’è il populismo.

L’hacker dei politici tedeschi, un ragazzo, non si nega e non la fa lunga: “Mi facevano arrabbiare”. Scandalo dei media. Forse perché lo scandalo gli si sgonfia. Ma non c’è mai stato tanto rispetto, e tanta rimpianto, la politica che ora, dopo che l’hanno svilita. Non hanno altro da dire?

“L’Anticristo è venuto: è chi sarà a capo del web e controllerà l’intera umanità” - vescovo Kirill, patriarca russo della Chiesa ortodossa. Sarà cioè Putin, per venire incontro agli apocalittici americani?

Fra retribuzione netta e rimborsi spese, non tassabili, un parlamentare incassa 15 mila euro al mese. Sono sicuramente troppi – residui del “compromesso storico”, delle presidenze Ingrao e Violante. Tanto più oggi che non ci sono spese di partito, né di collegio elettorale, e la politica si riduce ai video. Ma la riduzione delle retribuzioni parlamentari non è, di fatto, in discussione.

Un governo della Lega, sia pure in compartecipazione, tassa le auto italiane, blocca il “corridoio italiano” verso l’Est (Tav), blocca le ricerche di petrolio, ha portato l’Italia in recessione, e dà elemosine agli elettori del Sud. La Lega, cioè il Lombardo-Veneto, la parte più produttiva dell’Italia. L’ideale è l’autocastrazione?

“L’undicesima edizione del Democracy Index mostra una partecipazione politica in aumento in quasi tutto il mondo”, così “The Economist Intelligence Unit”, il centro studi del settimanale, presenta la ricerca annuale sullo stato della democrazia nel mondo: “Benché chiaramente delusi dalle istituzioni politiche in essere, gli elettori hanno trasformato la rabbia in azione e sono andati a votare, o a protestare”. In particolare le donne. Conclusione? “Questo miglioramento avviene nel deterioramento della fiducia nella democrazia, evidente nel peggioramento della maggior parte delle voci dell’indice”. Che sono ben sessanta. Si vota per rabbia? È una forma di democrazia – di estensione della democrazia – o ne è il rigetto?

Il reale irrompe nel giallo – al Nomentano

Un caso scorretto. Irrispettoso, di tutte le regole del giallo – ma non della suspense. Il colpevole non c’è. Cioè c’è, ma non viene scoperto: c’è una “soluzione” (che ovviamente bisogna leggere). Non viene nemmeno cercato, se non con i tempi della burocrazia. L’inquirente – doppio, due ispettori amiconi, giovani come vuole la qualifica – soprattutto si diverte: fuma, beve, corteggia, fa l’amore.
Una sherlockholmesiana al rovescio. Understated, non dichiarata e anzi quasi partecipe, a maggior forza e gioia dellironia, una robusta parodia del giallo. La cosa, è noto, non ha funzionato, neanche nel caso migliore, i vari tentativi di John Dickson Carr sotto i vari pseudonimi, Carter Dickson, eccetera. Patrizia Licata ci riesce perché non lo dice - non lo dichiara - e quasi incidentalmente. Con la semplice rappresentazione dellordinario. Della gente e le situazioni comuni, quali fuori dalla letteratura non facciamo che incontrare - nonché viverci dentro, per quanto eroici ci rappresentiamo.
Per l’autrice un racconto ad handicap. Una sfida al genere: come smontarlo rimontandolo. Riuscita. Se gli indizi non portano a nulla, le testimonianze, gli interrogatori, gli appostamenti, i cellulari (mancano le intercettazioni…), la storia prende consistenza con la normalità. Che sarà la grande scoperta. Il quartiere familiare Trieste-Nomentano. Le ragazze: la liceale diciassettenne casinara, la ventenne che si cerca gli uomini, quella che lo fa, a tempo perso, per soldi. La birra. Le pasticche. Il fumo. Il bar equivoco. La bisca “clandestina”. La prostituzione d’alto bordo. Il matrimonio indissolubile.  Su una rete maschile, di compagni, amici, innamorati, partner, di una note, di un gioco, ispettori di polizia, evanescente.
Un racconto del mondo giovane, vergine all’apparato pedagogico di una o due generazioni fa, di genitori, maestri, amici. Incerto, indeciso, letargico. Di un’autrice che riequilibra il rapporto maschio\femmina nella narrazione. Senza rivincite: giovani ancora ai quarant’anni, cioè che non sanno ancora cosa faranno nella vita, gli uomini non sono violenti, nemmeno traditori, sono superficiali – come tutto.
Il giallo si vuole atteggiato. È un genere legato a criteri. Questo è allora il giallo del reale. In evidenza - come il primo giallo della storia del giallo, la lettere in evidenza di Poe che nessuno vedeva.
Patrizia Licata, Un caso irrisolto, Laurum, pp. 292 € 16

lunedì 14 gennaio 2019

Battisti si vuole non colpevole


Battisti in Italia potrebbe riservare sorprese. La sua difesa finora è stata che non ha ucciso nessuno, né partecipato a commandos di assassini. E che gli ergastoli gli furono inflitti in processi di cui non gli era stata data notizia, con avvocati difensori a lui sconosciuti, su testimonianze di pentiti che se la cavarono scaricando gli assassinii su di lui, emigrato in Francia. Il tutto su iniziativa dell’allora Procuratore a Milano Spataro.
La sua posizione fu spiegata dalla scrittrice francese Fred Vargas, autrice nel 2004 anche di un libro sul caso, “Toute la vérité sur l’affaire Battisti”, in prima pagina su “Le Monde” del 26/27 gennaio 2011, di cui questo sito (solo questo sito) aveva dato conto:
Vargas scriveva in risposta a Tabucchi, che il 16/17 gennaio aveva pubblicato su “Le Monde” un lungo atto d’accusa contro Battisti:
Questo il testo originale di F.Vargas su “Le Monde”:
Poche settimane dopo la polemica Tabucchi-Vargas su “Le Monde” un altro “Il caso Battisti” si pubblicava in Italia, questo colpevolista, a opera del giudice Turone, anch’egli della Procura di Milano.

Battisti e la Tav

Una curiosità del caso Battisti è il suo collegamento con la Tav, l’alta velocità ferroviaria Lione-Torino. Battisti era passato in Francia, dopo l’evasione dal carcere di Frosinone e la fuga in Messico, sotto la protezione del “lodo Mitterrand”, che escludeva l’estradizione per gli accusati di terrorismo che si dissociassero dalla lotta armata. Nel 2002, presidente in Francia Chirac, e presidente del consiglio in Italia Berlusconi, due governi di centrodestra, un’intesa fu trovata sull’estradizione di “alcuni” ex terroristi.
Chirac, saldamente alla presidenza dal 1995, non rigetta il lodo Mitterrand. Ma insiste, da europeista, perché l’Italia firmi subito il trattato per la Costituzione Europea, che la Convenzione Europea aveva redatto. La firma italiana voleva come forma di pressione indiretta sull’opinione francese, che si manifestava sempre più contraria – l’anno dopo, nel 2004, un referendum in Francia avrebbe mandato a picco il progetto di Costituzione.
È l’incontro in cui Berlusconi fa proprio il progetto di alta velocità Tav. Ma lega questo impegno, e la firma immediata del Trattato costituzionale, all’estradizione degli ex terroristi condannati in Italia. Chirac nicchia, ma un incontro è organizzato tra i ministri della Giustizia dei due paesi l’11 settembre dello stesso anno.
L’incontro non avrà sviluppi, Chirac non cede. Ma non su Battisti. Che a un certo punto, il 22 agosto 2004, lasciò la Francia er il Brasile. O perché insospettito dal mancato rilascio del passaporto  benché da tempo naturalizzato francese. Oppure perché, si disse, consigliato dalle stesse autorità francesi.

Milano è bella e balla

Un omaggio a Milano – come è ora di uso per la cinematografia, abbellire una città, un ambiente, per incassare i contributi regionali: non un’immagine sbiadita, e tutto è perfetto, una città da cartolina, c’è perfino il sole. Ma più alla musica: un primo tentativo di commedia musicale, seppure sotto la ferula dell’irascibile Alessio Boni. Completa di movimenti acrobatici, se non di danza. Credibile, gradevole. Con una curiosità.
Cotroneo ha selezionato i giovani interpreti, allievi del conservatorio Verdi nella fiction, tra 1.500 o 1.600 allievi dei conservatori di tutta Italia. Si suppone in base alla capacità tecnica, strumentistica, di ognuno, poiché la vicenda si snoda sotto le sempre difficili prove d’orchestra con l’incontentabile Boni. Ma sentendoli suonare dal vivo a “Domenica in”, sono migliori interpreti – migliori attori che musicisti: Cotroneo è ottimo regista, oltre che soggettista-sceneggiatore.
Ivan Cotroneo, La Compagnia del Cigno, Rai  Uno

domenica 13 gennaio 2019

Problemi di base digitali - 465

spock


Arrivano prima i vigilantes o prima i furti in casa?

Perché ogni nuovo Windows peggiora il precedente?

Perché google dà “insicura” la sua piattaforma blogger.com?

Il G-MAFIA americano (Google-Microsoft, Apple, Facebook, Instagram, Amazon) è più monopolista o più confusionario?

Vengono prima gli hacker o prima la cybersecurity?

Quanto hackeraggio è opera della cybersecurity?

Più sicurezza più insicurezza?

O è tutta colpa di Putin?

spock@antiit.eu

L’arte è la felicità

Dei tanti scritti di Briganti, collaboratore assiduo di rotocalchi e quotidiani, la storica dell’arte e sua biografa, nonché consorte di una vita, Laura Laureati ha scelto una serie di ritratti, di amici o artisti. Che sono racconti in sé.
Gli interessi di Briganti, allievo e assistente di Roberto Longhi a Firenze, professore di Arte Moderna e Contemporanea a Siena, e da ultimo a Roma, prossimo alla pensione, confinato a Magistero, “conoscitore” e collaboratore di antiquari, sono molteplici. Partecipava ai dibattiti su leggi, leggine e regolamenti del mondo dell’arte. Fu amico e anche estimatore di Argan, sindaco di Roma, malgrado le feroci “divisioni”  – qui ricordato, così come Carlo Ludovico Ragghianti, altro storico dell’arte. E ciò malgrado la personalità riservata, nel ritratto che a sua volta fa di Briganti nella prefazione Alvar Gonzáles-Palacios. Ma buon narratore. Fine ritrattista.
Di Pasolini, che non conobbe benché sia stato anche lui allievo di Longhi a Bologna, un lustro più tardi, testimonia in breve la vena pittorica, la “natura essenzialmente visiva” del suo racconto cinematografico. Interlocutore quotidiano di Federico Zeri, altro connoisseur  occhio d’aquila, felice attribuzionista, “passavano ora al telefono ogni mattina” (Laureati), ne scrive la trenodia – del “conoscitore” non di Zeri, credendo poco nel “giudizio dei critici e, parallelamente, dei tecnici (cioè gli analsti scientifici)”. Un mondo opaco, anche sporco, seminato di denaro, facendo brillante. Con Flaiano, e quindi di Flaiano in morte, analizzavano la vita di quartiere a Roma, così diversa nell’uno dall’altro – la differenza era, allora, tra via Giulia (Briganti) e il Tridente, via dei Greci, Babuino, piazza del popolo.
Tre ricordi sono dedicati a André Chastel, di cui era il riferimento in Italia. Una mezza dozzina i ritratti di artisti, Morandi amatissimo, da lui come da Longhi, Melotti, Chagall, Guttuso, Bacon. Una sorta di talismano della felicità, che viene dalla tranquillità d’animo.  

Giuliano Briganti, Affinità, Archinto, pp. 288, ill. € 17