Cerca nel blog

sabato 28 febbraio 2015

Problemi di base - 217

spock

Eliminato il male, resta il bene? “Lunga vita e prosperità” al maestro austero e attento - come l’omonimo dottore

Perché, se la vita è impossibile, che altro resta?

Come fa la mente a immaginare l’infinito se è finita?

Il finito nell’infinito non è infinito?

Perché il tempo nell’eternità non sarebbe eterno?

E perché l’infinito non starebbe nel finito?

O l’eternità nell’istante? Ora e qui

spock@antiit.eu

Mozart teenager creativo a Milano

Una delle opere mediorientali di Mozart, quali erano allora di moda – lo steso Mozart ne scrisse parecchie, tra esse l’“Idomeneo”, re di Creta, e una delle due altre opere milanesi, “Mitridate re del Ponto”. Commissionata dal Teatro Regio Ducale di Milano, che già competeva con Napoli per la primazia nel teatro d’opera europeo, nel 1771 per il carnevale del 1773, e andata in scena per ben ventisei serate tra il 26 dicembre 1772 e il 25 gennaio 1773. Con le scenografie, di cui si sono conservati gli abbozzi, dei fratelli Galliari, richiestissimi allora in tutta Europa: Fabrizio, Bernardino e Giovanni Antonio. Dedicata, come le precedenti opere milanesi di Mozart, all’arciduca Ferdinando e alla consorte Maria Ricciarda Beatrice d’Este. Su libretto di Giovanni de Gamerra, uno spagnolo di Livorno, mezzo poeta mezzo avventuriero, germanista, che s’immortalerà dieci anni dopo con “La Corneide”, un repertorio delle corna maschili in sette volumi - ma sarà poi poeta controrivoluzionario.
Il “Silla” di Gamerra sarà molto musicato. Per Mozart il livornese si fece rivedere versi e scene da Metastasio, presso cui mendicava un posto alla corte viennese. Per lo stesso libretto in tedesco, per la musica due anni dopo (il “Dizionario biografico degli italiani” reca erroneamente l’anno dopo) di Johann Christian (il “Dizionario biografico degli italiani”, erroneamente, Christoph) Bach, “Giovannino”, l’ultimo dei figli di Johann Sebastian, da Mattia Verazi, librettista di corte del principe elettore del Palatinato a Mannheim. Dove Mozart nel 1777 (non due anni dopo, “Dizionario biografico”) ebbe modo di lodarlo. Il “Silla” tedesco non sarà però ripreso, quello di Mozart invece, dopo un lungo oblio seguito al successo del debutto, riavrà nuova vita nell’ultimo mezzo secolo.  
Sila è uno simpatico. Che avrebbe potuto fare il Cesare con un anticipo di mezzo secolo, ma abbandonò di sua volontà la dittatura, e se ne torno a casa solo, senza tronfi e senza nemmeno la scorta. Alla Scala il maestro Minkowski riesce un duplice miracolo. Di far cantare una compagine tedesca in italiano, necessaria per dare forza ai recitativi accompagnati, che sono parti drammatiche, in italiano, senza accenti e senza urlare – non buona stagione per l’italiano neanche in musica: la registrazione canonica del “Lucio Silla”, quella di Harnoncourt a Vienna dal vivo, 1989, con Editha Gruberova, Cecilia Bartoli e Peter Schreier, apre il libretto con la traduzione tedesca. E di dare consistenza drammatica a un’operina nata male, tra mille caprici, che tuttavia consacrava Mozart a sedici anni come il miglior compositore tedesco d’opera. Dopo i quattro anni italiani.
Milano non s’è ricordata di “Volgango Amadeo” per il bicentenario, nei terribili anni Settanta, tra piazza Fontana, Calabresi e Feltrinelli. Recupera ora nel migliore dei modi – dimezzando le impossibili sei ore del trattamento originario dell’opera, infarcito di ripetizioni e coreografie. Amedeo de Mozartini, come amò firmarsi, fece tesoro dei quattro anni in Italia, a Napoli per l’opera, a Roma per le voci bianche della Sistina, a Bologna per il padre Martini, e a Milano per il Sammartini e il Ducale - oltre che nella marca salisburghese subalpina. “Lucio Silla” è ancora opera classica, di maniera, di eroi senza macchia e eroine fedeli alla morte. Ma anche molto romantica, nella stessa celebrazione della morte, e nei desideri, le avventure, i tradimenti perdonati, oltre che nelle tonalità quasi sentimentali.
Il Mozart milanese Astolfo così racconta in “La morte è giovane”, di prossima uscita:
“Il Maestrino entra a palazzo Melzi alla Cavalchina, residenza del conte Firmian. Vi si arriva anche in barca, Milano è stata a lungo porto attivo, le cui acque, poi coperte, respiravano per quanto atrofizzate. Viene dal Regio Ducale, il teatro dove prova opere italiane per grande pubblico. Non è bello, ma non fa niente – sono i tedeschi, romantici, che vogliono statuario l’uomo di genio, e sul cavallo bianco. È un angiolone spiritoso, se è suo il ritratto romano di Blanchet, a Milano amato e protetto. Cucina per lui eccellenti pietanze del suo paese Marianna d’Asti, la salisburghese Mariandl Troger, sorella del segretario del conte, sposata Asti. Sono amorevoli la prima donna Antonia Bernasconi, mezzosoprano, “il Sartorino” Pietro Benedetti, tenore, i castrati Pietro Muschietti e Giuseppe Cicognani, il contralto Anna Francesca Varese - promiscui sono pure i ruoli femminili. Femminella è Farnace, che vuole fare le scarpe al padre Mitridate Eupatore sconfitto da Pompeo e fregargli la giovane fidanzata Aspasia, principessa greca - e sarà Cecilio due ani dopo, il senatore amico e nemico di Lucio Silla, che magnanimo lo perdona e gli dà pure in moglie l’amata Giunia, e per i femminella il Maestrino scrive belle arie.
“Mozart è in città già il Maestrino, genio della libertà nella gioia, contro le tarde proiezioni romantiche, che invece vogliono tormenti. Il La Fontaine della musica, dirà Stendhal, per la naturalezza - Stendhal, il dilettante della melodia all’italiana, seppe snidare valori non registrati dai viennesi, che sono gli esperti. L’ingegno arricchiva Milano, sull’orecchio assoluto della vicina Cremona, gli Stradivari, Monteverdi, gli Amati. Il padre l’aveva portato a Milano per fargli una carriera, sulle orme di Giovannino Bach. “In questo paese mi sembra che perfino la membrana dei timpani sia più delicata”, scrisse Joseph-Jérôme de Lalande, che fu in Italia negli stessi anni, “più armoniosa e sonora che nel resto d’Europa”.
“Come metà Europa, Wolfgang era stato a studio dal padre Martini a Bologna. Dove lo incontrò il dottor Burney, che lo ricordava infante a Londra, “il celebre piccolo tedesco Mozart”, uno dei tanti bambini prodigio, ma già decorato dello Speron d’Oro dal papa. La sinfonia invece apprese dal Giovanni Battista milanese, il Sammartini, che dotava il genere di formula tematica e architettura. Suo unico inciampo è il tenore Guglielmo d’Ettore, siciliano già capriccioso, fresco sposo. Che cinque volte in due giorni vuole riscritta l’aria di sortita, cioè di entrata, del Mitridate, e infine impone una sua aria di baule, la collaudata melodia di Quirino Gasperini: “Son pentito e non ascolto,\che i latrati del mio cor...”
“Carl Firmian, governatore di Milano per conto di Maria Teresa, amico di Winckelmann e Angelica Kaufmann, che aprì a Brera, splendore dei gesuiti, l’accademia d’arte e la maggiore biblioteca, cui lasciò quarantamila volumi e ventimila incisioni, con le note dell’angelo adolescente, che mandò a scuola dal Sammartini, illeggiadriva la residenza a palazzo Melzi. Burney lo dice “grande personaggio, con tutti gli attributi”. Tra i suoi meriti non minori la scelta della sposa per Giuseppe II, l’erede al trono, nella principessa filosofa Isabella di Borbone Parma, di cui seppe stimare le qualità, in difetto del patrimonio e d’imperiosa bellezza.
“Il conte Firmian governava a Milano i Verri, il marchese Beccaria, il padre Frisi, il professor Parini, che nominò direttore della Gazzetta e poeta del Teatro Ducale, e incaricò di fornire a Mozart tradotto il Mithridate di Racine, e per le nozze dell’arciduca Ferdinando con Maria Beatrice d’Este il libretto di Ascanio in Alba. “Un tirolese mediocre” lo dicono i Verri, austriacanti filofrancesi, per la nota ambivalenza di Mila-no. Ma non c’era in Francia una Storia di Milano di Pietro Verri, né una amministrazione altrettanto buona. Era impossibile fare buoni soldati de-gli italiani, il conte lamentava a Vienna, e intendeva disciplinati, ma i mi-lanesi pagavano per questo. Le dame facevano la passeggiata ferme sulle bastardelle, carrozze aperte da cui potevano guardare sedute negli occhi i cavalieri. Facendosi scudo del cavalier servente ereditato dalla Spagna.
“Mozart fu a Milano felice, vi ebbe agi, non incontrerà più tanta generosità e libertà creativa, malgrado il sospetto verso i teutonici urlatori, ringrazierà col toccante, brillante Exultate, jubilate, il mottetto che il sopranista Venanzio Rauzzini s’era portato da Monaco. Ma ebbe interrotta la carriera che il padre divisava dall’imperatrice Maria Teresa, la quale, alla data catastrofica del 12 dicembre, nel ‘71 scrisse al figlio Ferdinando, l’arciduca celebrato col fastoso Ascanio: “Mi chiedi di assumere al tuo servizio il giovane di Salisburgo. Non so perché, non credo tu abbia bisogno di gente inutile. Se ti fa piacere, non voglio impedirti di farlo. Quello che voglio dire è di non caricarti di gente inutile”. Si sa che gli austriaci sono oculati amministratori. L’imperatrice era stata ragazza musicista e cantante. Ma la musica a volte suona afona. L’austero Carlo VI, che in tutta la sua vita non rise mai, amante della musica e contrappuntista, aveva lasciato il regno alla figlia senza un soldo, senza neppure una successione sicura, per una guerra civile lunga otto anni, dopo aver perduto la Spagna, Napoli, la Sicilia, la Serbia, la Valacchia. Maria Teresa sapeva di politica e di latino. È in latino che si faceva, al suo tempo, e ancora per mezzo secolo, la politica dell’impero. In latino si tenevano i dibattiti in Parlamento, il latino parlavano i domestici, perché padroni di nazioni tanto diverse potessero intendere. Aveva conosciuto Wolfgang bambino, ogni tanto riceveva padre e figlio, e non li apprezzava: “Girano il mondo come mendicanti e discreditano il servizio”, ammonì il figlio.
“La recensione di Parini al Mitridate riconosce, dopo i timori di una “barbara musica tedesca”, che “il giovine Maestro di Cappella studia il bello della Natura, e ce lo rappresenta adorno delle più rare grazie musicali”. Mozart ebbe successo all’opera, cui più ambiva, solo in Italia. Per Mitridate ebbe a quattordici anni un’orchestra di sessanta elementi e fama internazionale. Con Ascanio in Alba batté in coppia con Parini la concorrenza temibile di Hasse e Metastasio, del loro Ruggiero resta poco più che il titolo. Lucio Silla fu rappresentato a Milano ventisei volte. L’Idomeneo, creato a Monaco nel 1781, una delle opere più ispirate e ricche, ebbe un’unica rappresentazione. Scriverà a suo rischio le altre opere, non commissionate, questo privilegio l’ebbe solo a Milano. La cosa non è irrilevante: si capisce che sia morto presto, senza causa apparente, depresso nel prolungato isolamento tra gli artisti a Vienna, e in casa con l’inuti-le moglie. Nell’‘89, l’anno della libertà, degli artisti inclusi, per il concerto del 12 luglio Mozart ebbe un solo sottoscrittore, il solito van Swieten.
“Un musicista è, era, in Italia parte onorata della migliore società, mentre oltralpe, fosse pure Beethoven, viveva solo, doveva elemosinare, andava all’osteria. E Milano doveva essere un’altra città. Francesco III di Este, duca di Modena, che fu governatore della Lombardia a lungo a metà Settecento, girava imbellettato. Il conte Firmian era, dice Burney, “una specie di re di Milano”, per la munificenza. Il suo palazzo decoravano grandi quadri di grandi pittori. Ma per l’imperiale pregiudizio Mozart fu breve pure a Milano. E la Scala, che per la nascita gli ha dedicato due libri, La Vita e Le Opere, i centenari delle opere milanesi ha ignorato, Mi-tridate nel 1770, Ascanio nel ‘71, Silla nel ‘72, ci sono pause nella storia.
“Il conte era un tedesco di Mezzo Tedesco. Morendo, “lasciò anche molti debiti”, dice la Treccani. Suo zio Leopold Anton, vescovo di Salisburgo, è l’ideatore di una delle più vaste deportazioni in massa per motivi religiosi che si ricordi prima di Hitler, avendo costretto nel 1731 diciassettemila protestanti a emigrare in Prussia. L’Austria virtuosa, di cui Milano ha ottima memoria, bandiva pure i libri stranieri, da Montesquieu a Schiller – Crébillon lasciava circolare per lo svago. Di Leopold Anton si ricorda che, non riuscendo a far parlare Michael Hulzögger, un cacciatore che si era  smarrito nell’Untersberg, per riapparire muto dopo un mese, lo ascoltò in confessione. E dopo la confessione lasciò il soglio pastorale e ammutolì pure lui. Il silenzio Hulzögger aveva interrotto solo per dire “tutto vero” ciò che aveva scritto Lazarus Gitschner. Autore di libri profetici, Gitschner aveva visto Federico Barbarossa, in un tunnel sotto il Königsee”.
W.A.Mozart, Lucio Silla, Teatro alla Scala

venerdì 27 febbraio 2015

Ombre - 257

Quattrocento romanisti, quelli arrivati in aereo, dunque più danarosi, deportati in luogo sconosciuto in campagna, tra Amsterdam e Rotterdam, da poliziotti olandesi muti, per essere identificati. La deportazione piace sempre, in certi paesi.

Tra i quattrocento c’era anche Bellini, che molti a Roma conoscono perché ha presieduto per sette  anni il XVI Municipio. Meraviglia, anzitutto: che ci sarà andato a fare? Questione di nipoti, certo – uno vorrebbe attribuirgli una “fidanzata”, ma non si può, nemmeno questo. Ma come fa una polizia a deportare uno come Bellini? Uno che è come se non ci fosse.

“Perché perdeste la finale contro la Germania?”, chiede Enrico Sisti su “Repubblica” a Willem Van Hagenem, stella del Feijenoord, la finale del Mondiale di calcio 1974.
“Perché eravamo una squadra spaccata in due”, è la risposta: “Da una parte chi voleva umiliare i tedeschi, dall’altra chi non desiderava arrivare a tanto”.  È una vecchia accusa – “non c’era partita” nei pronostici tra i brillantissimi, velocissimi, tecnicissimi olandesi e i tardigradi tedeschi - ma è vera.
  
Il conto svizzero di Gino Paoli può darsi che non ci sia, come dice lui, o che sia legale. Ma che sia stato alimentato dalle Feste dell’“Unità”, quando c’era “l’Unità” del Pci e c’erano le feste, in grande stie in tutta Italia, questa è una novità: si rompe il muro del silenzio sui conti svizzeri degli “sfioramenti” sul gas russo quando c’era l’Urss, nella disponibilità del Pci. O si minaccia di romperlo.


I conti svizzeri del Pci erano emersi con la liquidazione del partito. Liquidatori nomi di famiglie altrimenti famose, Occhetto, Veltroni – e non estraneo Greganti. Ma furono subito ricoperti.

Bologna processa Scajola e De Gennaro per aver revocato la scorta a Biagi, il professore bolognese di diritto del Lavoro assassinato dalle Br. Fatto non più processabile dopo tredici anni, ma giusto per fare chiacchiera.

Per lo steso motivo Bologna non ha mai processato Sergio Cofferati per aver messo Biagi nel mirino, dicendolo l’ “anello di congiunzione tra governo e Confindustria”. Cosa non vera, e quindi diffamatoria. Anzi, se lo è fatto sindaco, assenteista (stava a Genova), per cinque lunghi anni. 

“Merkel nella fabbrica hi-tech” - che non è hi-tech, è infatti una fabbrica: “la visita” campeggia nel mezzo della pagina politica italiana sul “Corriere della sera”. Vi risparmiamo la didascalia (per i curiosi: la cancelliera si è soffermata “in particolare sugli interventi di digitalizzazione del processo produttivo che si sono rivelati fondamentali per lo sviluppo dell’azienda chiamata a competere con l’agguerrita concorrenza dei principali competitori asiatici”, un comunicato stampa).

Non passa giorno che Angela Merkel non “esca” sul giornale milanese. Ne è padrona? Paga per la pubblicità? Si fa nel Terzo mondo per i reali e i despoti, che ogni giorno devono “uscire” sul giornale.

Maria Latella si definisce “osservatrice privilegiata della «prospettiva Lario» della famiglia Berlusconi”. Si può? Senza vergogna,

Il giudice Woodcock ha mandato in carcere Vittorio Emanuele di Savoia con accuse infamanti inventate. Il principe non è simpatico, ma ne ha avuto la vecchiaia rovinata. Il giudice invece ha avuto l’agognato trasferimento nella natia Napoli, dove scarrozza con la Haerley Davidson, felicemente mantenuto da noi. L’errore giudiziario è possibile, ma il non errore?
Di Woodcock come di De Magistris e altri giudici napoletani emeriti.

Ha occupato le tv più Renzi in questo anno di governo che tutti i presidenti del consiglio che l’hanno preceduto messi insieme. Cioè: non si può tenere il conto. Anche perché l’Osservatorio di Pavia e il Garante della Comunicazione si sono ammutoliti. Di ammirazione?

Sulle “spese pazze” dei consiglieri regionali Pd del Lazio ha dovuto indagare la Procura di Rieti. Ma Pignatone non demorde, el hombre del partido a Roma: ha chiesto il trasferimento degli atti, e li ha avuti. Poi si dice che la giustizia non è oculata.

Marystelle Polanco ci tiene col fiato sospeso: è l’arma segreta di Ilda Boccassini per affossare Berlusconi. Così almeno sostiene il “Sole 24 Ore” domenicale. Che ne declina anche il nome genuino, Marysthell, effettivamente più esotico. E “sarebbe disponibile anche Aris Espinosa”, aggiunge minaccioso. Giuseppe Guastella sul “Corriere della sera” sostiene invece di no: “Marystelle Polanco… è naufragata mesi fa quando i magistrati hanno tentato di convocarla in procura senza successo”.
Con chi parla Boccassini?

Nulla di più squallido, sembrerebbe, delle feste di Berlusconi a Arcore. Se non per le cronache, alimentate dalla Procura milanese.
Ma Aris sarebbe disponibile a che cosa? Non sarà un uomo?

Fallisce Sorgenia e non se ne parla. Le banche ci rimettono 600 milioni, e non se ne parla. Il potere di De Benedetti, di cui Sorgenia è uno dei tanti fallimenti, è più di quello di Bazoli e Unicredit? O De Benedetti può sempre garantire un posto a “Repubblica”, una direzione alla Finegil?
Per il gruppo l’Espresso-la Repubblica, invece, che diminuisce il fatturato, per il quinto o sesto anno consecutivo, ma si paga il dividendo, osanna.

D’incommensurabile stupidità la polemica del sindaco di Roma Marino contro il questore per i teppisti olandesi. Ma non si può dire, Marino è l’ultimo presidio democrat residuo a Roma. I cronisti romani di “Repubblica” e “Corriere della sera” lo tengono su compatti. Anche quelli del “Messaggero”.
“Marino vince il duello con Alfano”, titolano anzi vittoriosi: “ “In arrivo altri 500 militari”. Come se difettassero. O fossero di qualche utilità.

Il Csm appena insediato per prima cosa silura il giudice Robledo. Per obbedienza di partito, che Renzi ha allargato alla nuova-vecchia Dc. Ma per quale colpa? Aver parlato con un avvocato.
Tutti i giudici parlano con gli avvocati – che ci stano a fare gli avvocati, sennò?
Ma Robledo ha il torto di avere indagato le spese pazze di tutti i consiglieri del Consiglio regionale Lombardia, non solo quelli della Lega e di Berlusconi, e ora non si sa come chiudere la pratica.

La fantasia stava in Italia, anche a Cortina

La vecchia antologia dell’Universale Fetrinelli che più non si ristampa conteneva i racconti scritti da Forster “a varie date precedenti la prima guerra mondiale”. Pubblicati in due raccolte. La prima con questo titolo, dedicata “Alla memoria della Independent Review”, la rivistina fine secolo degli amici che l’avevano “incoraggiato a scrivere”. La seconda, intitolata “L’attimo eterno”, dall’ultimo dei racconti di questa raccolta, dedicata “A T.E. in mancanza di meglio”, a T.E.Lawrence.
Sono racconti che Forster ricorderà mezzo secoli dopo come esperienze “vissute”: sensazioni, visioni, impronte del genius loci. “Fantasie”, le chiamerà nell’introduzione alla ristampa nel 1947. Della fantasia che “si mostra oggi incline a ritirarsi dalla scena, a cacciarsi sotto terra, oppure a farsi apocalittica in omaggio alla bomba atomica” – “Lei o lui” che sia, “giacché la Fantasia, più spesso femmina, talvolta prende sembianze d’uomo e funge da Ermes, quello che doveva eseguire i comandi minori degli dei”.
Un viaggio “wagneriano” – “è strano come, in menti piuttosto illetterate, si trovino baluginii di Verità Artistica”. Un viaggio letterario, di autori e personaggi. Un omnibus che porta a un castello, alla cui entrata sta appeso il cartello “Lasciate ogni baldanza voi che entrate”, invece di “speranza” - un omnibus “celestiale”, più che celeste . Un incontro-scontro tra il poeta e il filologo, l’autore-creatore, che è un bambino curioso, e il critico onnisciente: l’uno vede e l’altro non vede niente. Alla maniera, al meglio, di De Quincey. Ma affettati. Alla maniera di quello che poi sarà Bloomsbury, della puzzetta al naso. In forma di irriverenza – di non puzzetta. Qui in forma di apparizioni e sparizioni, di fauni e naiadi, sirene e sireni, angeli e diavoli - “l’anima del mondo” - che appaiono e scompaiono tra i prosaici interdetti.  Più frivoli che non. Compresi gli a parte - “son solito riscrivere i classici”. Salvati dal sorriso, l’ironia gentile, il trademark forsteriano. Del racconto del titolo, dell’ultimo, “L’attimo eterno”, della “Macchina che si ferma”, del “Metodo combinato”, di “Mister Andrews” che sale al paradiso e se ne va schifato.
Cogitazioni “di certe vacanze anglo-italiane”, le definisce Forster nel 1947, quando ha deciso di non scrivere più. Riandando probabilmente a una libertà che dopo d’allora, primissimo Novecento, dopo i viaggi con la mamma in Italia, non aveva più avuto. Mescolate a “tante cose accadute in seguito”, dal lato pratico e politico: disordini, guerre. Quei primi lunghi soggiorni in Italia, nelle città d’arte e di svago, sono stati la sua prima e duratura fonte d’ispirazione, e quasi una costrizione alla scrittura. Forster le riduce al tema dell’inglese, meglio femmina, che va all’estero, prima in Italia e poi in India, che sarà la sua specialità. Non un grande tema, e molto datato, se non per il mito dell’“inglese”, che i mondi che incontra lascia sullo sfondo, benché affardellato di tic e convenienze (piccolo) borghesi.
“L’attimo eterno”, che chiude la raccolta, è “una meditazione su Cortina d’Ampezzo”. Un omaggio alla Cortina che fu, quando ancora si chiamava, prima della guerra, Hayden, benché molto italiana. Immaginata prima del turismo che premeva per prenderne possesso, zittendone le campane, e il garbo. Tra invadenza e avidità – è un secolo dunque che si parla male di Cortina. Il racconto, concepito a Cortina nel 1902, fu scritto nella primavera del 1904 e pubblicato nell’estate del 1905, in tre numeri della “Independent Review”. È stato il primo lavoro lungo d’invenzione di Forster. E l’ultimo racconto prima del suo primo romanzo, “Monteriano”. Una “vecchia signorina”, scrittrice, ritrova il suo innamorato giovanile, un cameriere, l’unico spiraglio di verità della sua vita, e ne resta delusa. Simboleggiando l’incontro tra l’Inghilterra e l’Italia, infelice come dev’essere una mésalliance. Ma il ricordo è felice: “Un ragazzo presuntuoso le aveva schiuso le porte dei cieli: e anche se lei non aveva voluto entrare, l’eterno ricordo della loro visione era bastato a rendere la vita bella e degna di essere vissuta”.
E.M.Forster, L’omnibus celeste

giovedì 26 febbraio 2015

La scuola è gaia dei Millennial

La scuola evoca pensieri tristi. Levatacce, ogni mattina, corse con l’affanno, e lunghe ore chiusi con altri bambini molesti e vice-madri arcigne. E così appare all’entrata, alle otto: i piccoli millennials sgambettano insofferenti, seri, tesi. Si ammucchiano ai cancelli senza guardarsi intorno, come vitellini che si affollassero alle porte del macello. Ma quando finalmente i cancelli si aprono si avventano dentro senza guardarsi indietro, senza rispondere ai “ciao, ciao” e ai “mi raccomando”, urtandosi, spingendosi, improvvisamente loquaci. Vanno alle arcigne maestre che li aspettano ai piani come se corressero a una meta agognata.
Che sia la scuola diventata un paradiso? Sarebbe utopia. Certo è che quando escono, dopo cinque, otto ore, ammutoliscono, e fanno l’occhio triste. Forse i bambini sono invidiosi dei genitori che li aspettano rumorosi, giulivi. Benché da loro accuditi e quasi soffocati, loro sì gelosamente onnipresenti. Alla stessa maniera dell’animale domestico, un oggetto di amore sconfinato, non più di rispetto e di attenzione vigile, la filosofica cura, che vuole il bene del paziente per il bene proprio, e non viceversa. A cui non si lascia nemmeno il gioco,  nemmeno il sonno. Una proprietà esclusiva, una droga.
Si dice, ora è d’uso nella psicologia, che i bambini siano cattivi. E sarà vero, chissà, loro non parlano, neppure se interrogati, soprattutto non se interrogati. Repressi, forse, dal rancoroso ultimo Novecento, della fine delle illusioni, e forse già depressi, saranno in petto, chissà, dei fieri rivoltosi.

Secondi pensieri - 207

zeulig

Agonismo - È un fatto di misticismo, di ascesi mistica. Che è sempre voluta, forzata. Ed è essa pure un fatto fisico, di postura, respirazione, ritmi psicofisici. Molto vi concorre: il protagonismo, anche nello sport di squadra: la concentrazione, l’eccitazione convergente (indirizzata, regolata), la preparazione mirata (procedure, modalità).

Amico\Nemico – Non è concetto politico o sociale anodino, neutro. Si connota quasi sempre in Carl. Schmitt e poi in Heidegger, così come all’origine in Jünger, per l’aggressività, come scontro. Che viene sempre portato all’estremo, all’annientamento. È uno schema relazionale aggressivo, distruttivo. Anche perché non c’è compromesso possibile, traslazione da uno stato all’altro, la delimitazione è tribale e razziale, del “sangue e suolo”. Di un radicamento esclusivo e escludente.

Complotto - È della politica anzitutto. Che crede a se stessa, alle bugie – la propaganda.

Ineguaglianza – È come la libertà: è uno spreco, ma non si può eliminare. Sfugge pure ai liberali, che per essere utilitaristi erano già comunisti - e al movimento, che si voleva anarchico. Che l’utilitarismo liberale sia una finzione comunista sull’unità della società è scoperta di Myrdal: tutti finalizzati a uno scopo, quindi tenuti assieme dalla solita Mano Invisibile.

Memoria – È dei luoghi più che del tempo, della storia. Parigi si continua a descrivere e immaginare città frizzante, di piume e cancan, mentre è la capitale-paese, la capitale di un paese che non c’è, molto grande e anche triste - non pensosa: distratta.  O Praga che per un paio di generazioni è sinonimo di libertà, mentre è una modesta città, dove si fa commercio di tutto. Mosca viene sempre descritta, dopo un quarto di secolo di arricchimenti, mafie e spregiudicatezza, come un ammasso stalinista, un cupo parallelepipedo chiuso. Mosca o la pésanteur. Una città insonora, di fascino fosco, per l’attrazione persistente del non essere, o essere in negativo. Dei compagni che sparivano di notte, a opera di compagni. Dei condannati in attesa, al manicomio o in Siberia. Di uomini che hanno tentato di volare, eliminando la fisica e la fatica. Ma erano uomini forse sbagliati, pingui, finti. Con un’eco persistente di propaganda, che, non creduta e anzi rifiutata, pure si ripete. Non per abiezione, per la rivoluzione. Ma “faro spento” diceva Mosca già all’epoca Mario Tronti.

Rimuove. Si costituisce, si ricostituisce, navigando tra le rimozioni. Più spesso di eventi e emozioni recenti – la memoria gradisce il passato. Ed è avvilente scoprirsi rimossi, in una memoria recente e già antica. Ma è il “vuoto del cuore” di Wilhelm von Humboldt. Che pure lo portò alla felicità. Con una che anch’essa coltivava il “vuoto del cuore”, Caroline von Daschröden, la vita come prova, l’attesa. La memoria è una zavorra?

La sensualità non coltiva la memoria, e anzi la rifiuta. Un’infatuazione ogni giorno varia e senza residui è l’essenza dell’eccitabilità. Della disponibilità. Dell’innamoramento. Poi svanisce. Perché l’amore non si costruisce sulla memoria? Perché i sensi sono curiosi e quindi incostanti.

Papa – Paolo VI abolì il latino per rendere la religione ordinaria, come bere, e poi fare pipì. Papa Francesco il pisciatoio l’ha messo nella basilica. Ma il cristianesimo non è un’etica: questa c’era, e c’è, anche altrove, altrettanto raffinata e mite, amore del prossimo compreso. Mentre una sola bella donna mette in imbarazzo i preti. Il Deuteronomio e i Vangeli dicono di scegliere il bene e la vita invece del male e la morte, ma sembra solo ovvio. Non c’è ancora un’etica senza religione, per la nota ragione che non c’è stato ancora un popolo ateo per tre o più generazioni, il tempo di cancellare la memoria del divino, ma questo è un altro discorso: di valori è pieno il mondo, ma senza costrutto.
Il cristianesimo non è escatologico, una promessa di salvezza in altri mondi. E non è conquistatore: Cristo, che lo fonda, è finito male, tra i ladroni, giustiziato da povera gente, povera di spirito. Il cristianesimo è un’istituzione, la sola durata millenni, e in quanto tale può attrarre o respingere. Ma soprattutto è Cristo, questa figura unica di Dio con noi. Che molte cose ha detto giuste, come tanti le dicevano all’epoca, e talvolta si è stizzito, non sempre amorevole se non a sorpresa – ridurre Cristo a un uomo buono è un’assurdità.

Possesso – Sarà innato, come il linguaggio, impresso nel dna. Uno, se lo volesse, non potrebbe grugnire come il porco. Lo stesso per il possesso. Come fanno i cinesi allo stadio, come facevano, quando vestivano lo stesso camiciotto nero, e avevano un solo tipo di bicicletta, nera? Come facevano, uscendo dallo stadio, a trovare ognuno la sua bicicletta.

L’identità è definita più spesso dal possesso: ci identificano le cose – che del resto sono nostra espressione. Anche quelle di possesso recente o valore infimo. La camicia dimenticata e la macchina rubata sono una mancanza ugualmente onerosa, una sottrazione alla persona e una violenza. Con l’aggravante, rispetto alla violenza fisica, che è impossibile il gesto di difesa con cui d’istinto si reagisce all’aggressione, con effetto comunque risarcitivo.

Potere – Fa a meno della proprietà, e anche del possesso. E pure delle bombe e i cannoni. La controinformazione, ormai ipercollaudata, meglio di tutti lo sa, che è divenuta un potere incontrollato: esso fa a meno della proprietà, e pure del possesso, e si esprime con rebus e tagliole, anche solo verbali, non avendo in realtà bisogno di bombe e cannoni. O meglio, volendo accedere alla fonte della proprietà, dire che essa non è possesso, non c’è bisogno del Devoto per spiegarselo: la proprietà di linguaggio, per esempio, la proprietà di pensiero – lo sanno da sempre i parroci, che diffidano delle beghine – e il pensiero stesso.
La democrazia si praticava in Atene fra chi possedeva la parola, il censo è rilevante se facilita la conoscenza - chi ha il denaro ha i libri, argomenterà il prete Cosma alla vigilia dell’anno Mille nel trattato contro i Bogomili, ha il sapere e i vantaggi che ne derivano. Il vantaggio della ricchezza, si sa, è che si può permettere il vino buono. Mentre la controinformazione è dai tempi di Tacito l’arma dei servizi segreti, che sono il cuore del potere.

Roma – Heidegger si faceva un dovere di evitare quelle che chiamava römische Worte, la terminologia latina. E quando le usa, lo fa a casaccio – numerose attribuzioni ha trovato Emmanuel Faye di Heidegger a Descartes, nel corso su Nietzsche del 1940, anno ferale, in cui Heidegger era signore della Francia, che non sono roba di Descartes e sono anzi anticartesiane: “cogito me cogitare”, l’ “ego cogito” come “subjectum”, e anche come “fundamentum absolutum inconcussum veritatis”. Per questo non parla di Rasse, non per altro, ma usa Geschlecht, Stamm, Sippe, genere, stirpe, schiatta. In abbondanza. Roma non ne ha colpa.
La latinità era evitata in Germania non da tutti, nel decennio di fuoco, gli anni 1930. Carl Schmitt, per molti aspetti di Heidegger maestro, ne era a sua volta maestro, e non si svitava una citazione latina – le maneggia come una clava. La latinità rifiutata di Heidegger è quella cristiana, dell’irenismo: la realtà (la Germania) voleva combattiva (agonale), e non aperta, inclusiva, ma chiusa.

zeulig@antiit.eu 

La capretta e il suicidio trendy

“Mi sentivo una capretta”. Ogni tanto la prosa è a effetto, ma a che effetto? A parte quello scuola di scrittura.
Un’educazione sessuale, con tempi e location trendy. C’è anche il suicidio assistito.
Marco Missiroli, Atti osceni in luogo privato, Feltrinelli, pp. 249 € 16

mercoledì 25 febbraio 2015

Letture - 205

letterautore

Autobio - L’epoca ama le viscere in vista, la confessione è genere privilegiato, quanto meno uno ha da dire. Ma il memorialista raramente è gradito, uno che si parla addosso.
Giusto i futuristi sovietici del Lef poterono apprezzarlo, avanguardie del Diamat, che credevano alla realtà, e la realtà dicevano nelle confessioni, nei diari.

Basaiti – Di Marco Basaiti, pittore veneziano, di origine albanese, rivale nel primo Cinquecento di Giovanni Bellini, Rilke fa gran conto nelle “Note sulla melodia delle cose”, avendone ammirato i santi nel suo primo viaggio in Italia, nel 1898, a 23 anni. Il pittore era allora molto ammirato dai visitatori nelle chiese di Venezia. Oggi ha cinque righe nella Treccani, niente nelle enciclopedie minori. 

Blurb – Bisognerebbe chiedere i danni, più volte che non. Certo, bisognerebbe creare un’Autorità per la Creatività, che certifichi il danno, col rischio connesso della censura. Ma non  se ne può più: queste testimonianze volontarie di grandi scrittori e critici, entusiaste, sono quasi sempre false. Sono  un furto della fede, delle fiducia, della buonafede.
Il blurb è nato come pubblicità: è la fascetta editoriale, spesso firmata da un autore affermato, e la sfilza di apprezzamenti che correda la pubblicità commerciale e le pagine di guardia dei libri. Ma è la sola forma residua di critica, e quindi più spesso che non trae in inganno. Con effetti deleteri, per l’acquirente e per il testimonial.
Emmanuel Carrère, stimato autore di “Limonov” e altre biografie immaginarie, ha scritto ben due pagine di giornale per l’ultimo Houellebecq, un aneddotino. E lascia ora il suo incontro con Gesù per sostenere il porno soft  di Marco Missiroli. Carrère si fa pagare? Allora ci deve ripagare. E anche se non si fa pagare, ci ruba comunque la fiducia.

Classici – Sono “modelli”. Di plots, scrittura, ispirazione. Per l’inevitabile acculturazione dello scrittore, compreso il franco narratore cui ambiva Feltrinelli. Che più spesso è un professore che finge l’incultura. Ma anche quando è o è stato incolto – Gavino Ledda – ne è ispirato, li ha vissuto nell’aria, nell’ombra, nelle vite vissute degli altri. E inevitabilmente, al momento di scriverne, nella scrittura stessa.
E.M. Forstere lo dichiara, nel racconto “L’Altro regno”: “Son solito riscrivere i classici”. E a un personaggio bello e giovane che legge fa dire: “I classici giovano, sì. Sono pieni di trucchi, ; sanno insegnarti a scansare le cose”.

Italia – Il “viaggio in Italia” è divenuto un capestro col turismo, a cominciare dal primissimo Novecento.  Un paese di cui si danno per scontati i punti di interesse, peraltro limitati (i “capolavori”), mentre non cessa di indignare in quanto non è come dovrebbe. Cioè come “a casa”: il turismo non apprezza la qualità della vita se è diversità, si muove rapido e vuole le piccole comodità, senza sovvertire le abitudini.
L’italofilo E.M.Forster ha concetto dell’italiano come del “più disonesto fra i popoli”. Nel racconto “La storia di un panico”. Con in più “l’eterna avidità del Sud”. Nell’Italia dove ha cominciato a scrivere, ha scritto di più, e le sue cose migliori: “Monteriano” (San Gimignano), “Stanza con vista” (Firenze), le raccolte “L’omnibus celeste” e “L’attimo eterno”, e il romanzo storico che ha voluto inedito, su Gemisto Platone e Sigismondo Malatesta – nonché, per molti aspetti, “Maurice” e la raccolta “La vita che verrà”, che ha voluto postumi, sugli amori omosessuali. Ma senza mai imparare l’italiano, e come in colonia. In anni non poi tanto remoti, a partire dal 1901

Lo studioso polacco Krzysztof  Fordoński, “L’attimo eterno – L’Italia nella produzione giovanile di Edward Morgan Forster”, ricorda che nel 1959, nelle conferenze tenute a Roma e Milano, Forster riconobbe il suo debito: “L’Italia ha forzato (l’ispirazione)  nel mio animo, quasi con forza fisica, e mi ha avviato come narratore”. E aggiunge di suo: “I diari e le lettere agli amici provano che quasi ogni giorno trovava nuovi spunti su cui lavorare”. Ma con senso distinto del “noi” e “loro”, del post-vittorianesimo imperiale, coloniale. Al contrario di altri scrittori inglesi in Italia, come Norman Douglas – che però era di padre scozzese, cresciuto in Scozia.
È l’effetto della trasformazione del viaggio in Italia. Da viaggio di formazione, o Grand Tour, per cui si veniva in Italia per imparare e acculturarsi, a turismo. Forster è l’anello di passaggio: malgrado i lunghissimi soggiorni e le tante ispirazioni, fu un turista in Italia. Una specie che depreca fieramente nel racconto di Cortina, “L’attimo eterno”. Ma a cui non si sottrasse.  Fordoński ne cita un altro passo delle conferenze del 1959: “Il vostro apese mi ha insegnato molto. Disgraziatamente non mi ha insegnato tutto. Non mi ha in segnato l’italiano come gli italiano hanno scelto di parlarlo… E non mi ha introdotto in nessuna sezione della società italiana, che per me come narratore è uno svantaggio.  Il turista può essere intelligente, bene intenzionato e vigile, e io credo di esserlo stato, ma deve tornare ogni sera all’albergo o alla pensione e può limitarsi a sapere pochissimo della struttura di classe del pese che visita, o dei suoi problemi economici”. Nel suo caso, però, il turismo limitativo fu volontario: la società italiana non era chiusa, e le persone come lui non avevano difficoltà a procurarsi presentazioni e introduzioni.

Forster non è il solo che l’Italia ha “forzato a scrivere”. Anche i fratelli Thomas e Heinrich Mann vi si avviarono, benché neppure loro italianisti, nel lungo soggiorno che progettarono ed effettuarono a Palestrina. Anche Yourcenar negli anni 1920-1930, giovane bellezza che molto attraeva l’intellettualità romana. 

Italia-Germania – Lo stesso Forster così distingue, nell’evocazione smisuratamente nostalgica di  Cortina d’Ampezzo, “L’attimo eterno” (“pur nel suo aspetto di cronaca, quant’è vero Iddio quasi vera”):
“«Il tedesco è la lingua del futuro», rispose il colonnello Leyland: «Qualsiasi testo importante su un determinato argomento è scritto in tedesco».
«Qualsiasi testo su un argomento importante è scritto però in italiano»”, gli ribatte la signorina Raby, scrittrice, autrice di un grande romanzo attorno a Vorta-Cortina. Una battuta, ma non insensata, molti esempi se ne possono fare.
La signorina Raby ritrova poi a Vorta-Cortina un amore di gioventù, il solo della sua vita, annidato  nelle montagne circostanti, imperiose e soavi. Il quale però annega nella volgarità, per la mésalliance costante tra la nobile Inghilterra e la plebea Italia.

Scrivere - Nei racconti di avventure, da Omero alle “Mille e una notte” e Dumas padre, e nelle favole, il punto di vista è di nessuno. Popper direbbe che è di tutti, ma la narrazione si appartiene.
Il punto di vista fu pensato per variare, è il racconto di Achille Tazio che introduce l’io narrante, il gusto vuole varietà. Si può dunque scrivere in prima persona, l’io narrante sarà indigesto ma non offende nessuno. Anche perché si scrive per sé, è inutile dire, per il piacere di scrivere. Perché, sennò, chi è Guido Milanesi? O Mario Mariani, autore di “Purità”, “Le smorfie dell’anima”, “Lacrime di sangue”, o Barrili, o Frescura, “La croce dei vivi”, “Milioni di stelle”, Willy Dias, “La rivale”, “La fiamma”, due romanzi l’anno, vendutissimi, per dieci anni, prima del silenzio saracinesca.

Solženitsin - Usciva incognito in Italia quarant’anni fa l’ “Arcipelago Gulag”, libro di duemila pagine. Berlinguer non gradiva, e dunque non se ne parlò. Giusto perché Parigi ne parlò, per sparlare dei francesi. Di mediocre romanziere e reazionario ignobile anche per i critici alla Fortini: “Una pagina di “Živago” distrugge tutto il bravo Solženitsin”. Il mite Cassola opinava il complotto: il Gulag” come una manovra della Cia per oscurare Pinochet.
Gulag è Direzione generale dei campi di lavoro. La parola e la cosa non erano ignote, da “The dark side of the moon”, 1947, anonimo ma edito da Eliot. Dante Corneli ne aveva scritto da una vita, la sua vita da sopravvissuto, invano proponendola agli editori anticomunisti, e quarant’anni fa il suo Gulag si pubblicava a sue spese a dispense.

letterautore@antiit.eu

Lo scandalo Sofri - il caso della vittima colpevole

Un’apologia della grazia a Sofri – il sottotitolo è “Dalla condanna alla «tregua civile»” - che involontariamente, dopo la presidenza Napolitano, riporta al cuore della questione. A dieci anni dall’uscita, la perorazione di Cazzullo è per questo forse più interessante.
Ai fini della grazia, Cazzullo esclude alcune cose. Di Lotta continua, che era violenta. Sofri no, Lc sì. Nel mito gappista, dei “Senza tregua”, anche in occasione dell’assassinio di Calabresi – i Gap sono la parte meno efficace della Resistenza, ma sono il terrorismo urbano, che tornerà negli anni 1970 coi Tupamaros e altre bande sudamericane, e “Senza tregua” è il suo manuale italiano. Cazzullo lo ricorda, di “Lotta continua”, il giornale, che scrive: “La violenza gappista è giusta e rivoluzionaria”. E cita gli inni alla violenza, sempre del giornale: all’assassinio di Calabresi nel 1972, e ancora nel 1973 di Carrero Blanco e dei fratelli Mattei - uno dei quali aveva otto anni. Ma sottovoce. E ne esclude il contesto, culturale e storico: la Rivoluzione Culturale cinese, le Guardie Rose, Il libretto di Mao, i colonnelli in Grecia e la semimilitarizzazione del Mediterraneo, i Tupamaros col terrorismo urbano. Esclude anche la “scena del delitto”: Milano, con piazza Fontana e il linciaggio di Calabresi. Manca “l’Espresso”, sul quale Scalfari raccolse nel giugno 1971 ottocento firme contro Calabresi, manca Feltrinelli, manca Camilla Cederna, “Pinelli, una finestra sulla strage”, pubblicato da Feltrinelli a metà 1971. Mancano le colpe dello stesso Calabresi. E mancano le diffidenze dell’apparato repressivo, magistrati e polizie, nei confronti di Calabresi.
Questo ancora può essere giusto. Ma, forse per facilitare la pratica, Cazzullo fa di Lotta continua una costola del Pci. No. Questo è importante per capire il prosieguo della vicenda, con la carcerazione e le assurde condane. Sofri sì, in parte, all’origine, Lotta continua no. Anzi, è nata e si è sviluppata in opposizione al Pci. Sofri stesso non ha più avuto tessere dopo quella giovanile del Pci, eccetto quelle radicali. E si era avvicinato politicamente al Psi, dal rapimento e l’assassinio di Moro in poi, a una parte del Psi, quella più in sintonia con le lotte di libertà, che Claudio Martelli negli anni 1980 impersonava. Ed è qui che s’innesta il caso Sofri.
Sofri è la pietra d’inciampo e la prima vittima della reazione. Che sarà cieca e assoluta. Contro ogni evidenza dibattimentale e anzi contro le procedure, con la distruzione in massa di tutte le prove del (non) reato - tutte tutte no, la maggior parte.
Come nasce Sofri
Il cuore della questione è: come è nata la questione Sofri?  Dalla testimonianza di Marino. E com’è nato Marino? Dalla frequentazione del Pci. E dalla reazione giudiziaria al rovinoso referendum sulla responsabilità civile dei giudici promosso dai radicali e dai socialisti per i Morti del 1987, con l’80 per cento di voti in appoggio, e un 65 per cento di votanti, due record. A poco più di un anno, il tempo di preparare la trappola, dal referendum stesso. A opera di inquirenti di destra, missini. In contemporanea con la parallela offensiva che, sempre sul lato missino, lanciava in Calabria contro i socialisti il giudice Cordova.
Il fasciocomunismo, come allepoca si sarebbe detto, non è inventato - né è invenzione posteriore di Pennacchi romanziere. Né sono eccezioni Marco Travaglio firma dellUnità e DAvanzo di Repubblica”, altri Cazzullo può trovare agevolmente al suo giornale. Col Pci che sostiene Cordova, che pure professava le sue idee - isolando e mettendo nel mirino Falcone - etc.. Sofri è il primo anello di un aggiramento del Psi che si concluderà nel 1992, sul terreno più fertile del finanziamento illecito. Il cuore della questione sono le condanne preconcette, in tribunale e fuori. Dei giudici, del Msi e del Pci.
L’opinione si può aggiungere dei compagni di strada di Sofri, scrittori, critici, giornalisti, sociologi, psicologi, ambientalisti, che videro in Marino Gasparazzzo e in Sofri il cattivo maestro, il vile presuntuoso. Mosca cocchiera di questa opinione si può prendere l’ubiquo Franco Fortini, l’intellettuale onesto per definizione, moralista incontenibile e stolido, che se ne fece sostenitore sul “Manifesto”, denunciando “l’ipocrisia generale” e anzi la “congiura”, dell’“arrogante pregiudizio d’innocenza assoluta e metafisica”. Subito a caldo, subito dopo l’incriminazione di Sofri. Pomarici e Bonaventura non avrebbero mai osato aspettarsi tanto. Senza pregiudizio per Sofri, per carità, ma per il bisogno di denunciare il conformismo degli intellettuali di sinistra, etc. E senza prove, certo, il critico non deve cercarle, il critico risponde alla sua coscienza - il sovietismo è un fatto di “buona” coscienza. Ma questa opinione si può compensare col pregiudizio favorevole. Giudici e Pci invece agivano, il loro pregiudizio fu solido.
Il vero processo
“Per il sostituto procuratore Ferdinando Pomarici non ci sono dubbi: Leonardo Marino dice il vero quando confessa d’aver guidato l’auto, quando accusa Ovidio Bompressi d’aver sparato, quando dice che i mandanti furono Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Undici mesi esatti dopo i mandati di cattura, diciassette anni dopo l’omicidio, l’inchiesta sulla morte del commissario Luigi Calabresi è chiusa” – “la Repubblica”, 29 giugno 1989. Ma il vero processo è ancora da fare.
Sofri è stato accusato, processato e condannato sulla stampa, prima che nei tribunali, senza mai essere sentito. Sofri non ha mai avuto udienza, nemmeno come parte lesa, benché accusato di un assassinio, alla Procura di Milano. Solo un colloquio derisorio col giudice Pomarici, di cui non resta nemmeno traccia agli atti: il giudice fu elusivo e non gli disse niente: “Se la caverà con niente”, una cosa del genere. Un’indagine e un’incolpazione dunque singolari.
Subito le indiscrezioni passate all’“Unità” e a “Panorama”. Ogni pochi giorni una notizia scaccia notizia, tutte infondate, tutte gravi: covi di armi, cascine nascoste, l’arma del delitto, testimonianze anonime sicure, partigiani sbandati, arresti e controarresti. Infine, dopo un anno, l’accusa formale. La fantasia malvagia non difetta, o l’arsenale della disinformazione: “Panorama”, diretto da Claudio Rinaldi, ex di Lotta continua, era allora di sinistra, la scelta dei cronisti giudiziari mostra in radice la “costruzione” del caso. Con “l’Espresso”, che come “Panorama” era pieno di dossier riservati, che si sbracciava per tenere il passo del concorrente nelle grazie della Procura di Milano – pubblicò perfino una serie di intercettazioni di telefonate di amici e conoscenti a casa Sofri, additandoli in neretto. Era tutta qui l’“inchiesta” di Pomarici. Col patrocinio di Borrelli, il futuro Grande Inquisitore, inaugurando la serie di processi, di fonte quasi sempre oscura, che s’imporrà come Mani Pulite. Col sistema dell’indiscrezione pilotata, prima che la vittima possa difendersi. I metodi cioè della disinformazione, la specialità dei servizi segreti.
Nella fattispecie, il rinvio a giudizio inaugurava una serie di dibattimenti che resteranno una vergogna del sistema giudiziario, con giudici violenti in aula, irridenti nelle sentenze, o apertamente truffaldini. Una sentenza d’assoluzione fu scritta in modo che venisse cassata. Fu scritta dai due giudici togati, Lucilio Gnocchi e Ferdinando Pincione, contro i sei della giuria popolare che avevano imposto l’assoluzione: per 382 pagine Gnocchi e Pincione elogiano Mario (“è stato per anni interno in un Istituto di Salesiani a Torino e ciò non può che avere lasciato tracce indelebili nella sua personalità morale”), e mettono in dubbio le testimonianze a discarico, nelle residue quattro dispongono l’assoluzione. Senza nessun riscontro: lo storico Ginzburg ha analizzato riga per riga le prime due - e  poi definitive – sentenze di condanna, quelle di Minale e di Bertolé Viale, e ci ha scritto sopra un libro, “Il giudice e lo storico”, con coda di lettera aperta al ministro della Giustizia Flick, avendo scoperto che “i riscontri alle accuse di marino non esistono”. Mentre gli oggetti del reato sparivano, erano distretti, o non erano cercati: l’arma, le automobili, i vestiti, le pallottole. E i testimoni oculari derisi - Dario Fo ci poté fare una “commedia” piena di mancanze, col tempo e le distanze variabili. Sull’unica prova dell’accusa di Marino, livorosa ma incerta.
Si doveva colpire Sofri, e fu fatto. La controprova è che i suoi correi, Bompressi e Pietrostefani, vennero trattati l’uno con clemenza, dopotutto era per l’accusa l’assassino, l’altro nemmeno cercato, al suo lavoro in Francia. A Bompressi la grazia è stata concessa da Napolitano subito, subito dopo il suo insediamento al Quirinale – tanto in fretta che si dimenticarono di preavvisare il familiari di Calabresi. Anche Marco Boato e Paolo Liguori furono inclusi nell’eliminatoria, ma in qualche modo la scapolarono – Marino, per loro come per gli altri, a giorni ricordava a giorni no, ma per loro alla fine fu deciso per il no.
Lavorare coi servizi
Il giudice Pomarici lavorava con i servizi segreti. Il colonnello Umberto Bonaventura, carabiniere, veniva dalla famigerata divisione “Pastrengo”, non una buona scuola (c’era stato Dalla Chiesa ma anche Palumbo, e lo stupro di Franca Rame), ed era dei servizi segreti, specialista della controinformazione. Tratterà lui il “Dossier Mitrokhin”, che infamerà non pochi giornalisti onesti. Il generale dei carabinieri Bozzo, che lo ebbe ai suoi comandi, ne conserva una buona opinione, ma ha voluto dire che non ha apprezzato il modo come l’allora maggiore Bonaventura raccolse la testimonianza di Marino contro Sofri, soprattutto non la decisione di remunerarlo.
Collaborano (collaboravano) con i servizi molti dei sodali di Sofri. Forse non molti, ma alcuni sì. Nacque con questo caso la commistione letale media-giudici. Letale per la democrazia, i condannati in genere poi vengono recuperati - quelli disponibili, non Moro per esempio.
Pomarici e Bonaventaura erano incaricati delle indagini sull’assassinio di Calabresi da subito, nel 1972. E si erano perduti in ipotesi fantasiose. Dovevano non fare la vera indagine? A che cosa lavorava Calabresi quando fu assassinato? Calabresi era vice-capo dell’Ufficio politico della Questura quando fu assassinato. In servizio attivo. Non passava le giornate nelle polemiche la causa con Lotta continua, come narravano i giornali. 
Vittima, ma colpevole
Sofri ha voluto stare “dentro il processo”, prendendolo per buono. Si è anzi messo poi con i suoi
carnefici, al gruppo L’Espresso-la Repubblica, e ai festival dell’“Unità”, o con l’intrattabile Tabucchi, altro grande egotista, bolscevico postsovietico, e quindi è come se si considerasse sì vittima, ma colpevole. Non facendo forse torto a sé, ognuno vive la sua vita, ma sì al lavoro di se stesso e dei suoi compagni, e alla verità storica. Che ci dev’essere, perché no – troppo riflusso finisce in gastrite, non platonica.
Vittima colpevole con più ragione si direbbe Calabresi. Il commissario è però uno dei pilastri della Seconda Repubblica, e quindi non lo diremo. La Seconda Repubblica ha alcuni santuari che non è opportuno penetrare. Un altro è la pronta liberazione degli assassini dichiarati e irredenti di via Fani e di Moro prigioniero inerme – un piccolo Isis – a opera degli stessi che vollero Moro morto.
Ma è al Pci, per restare al caso Sofri, che il pregiudizio porta direttamente – Sherlock Holmes non avrebbe avuto dubbi. Non quello dei moralisti e gli opportunisti, compresi giornalisti celebrati, ma quello solido dei politici, dei loro referenti nell’amministrazione e le polizie, e dei giudici di partito. Che la condanna precorsero in pareri e considerazioni, e anche in dibattimento. A partire da Manlio Minale, il giudice del primo processo, che contro ogni evidenza da lui stesso improvvidamente sollevata in dibattimento, lo chiuse bruscamente e decise la condanna poi definitiva – poi il giudice diventerà Procuratore Capo. Con Laura Bertolé Viale e Gerardo D’Ambrosio. Coperti dall’andreottiano Borrelli, il Procuratore Capo. E il duo Lucilio Gnocchi e Ferdinando Pincione della sentenza suicida.
Del Pci
Del Pci sono i primi confidenti di Marino. Del Pci il primo collegamento tra Marino e Bonaventura. Del Pci – del pool giudiziario “l’Unità”-“Panorama”-Procura di Milano-servizi – la campagna di stampa che accompagnò l’incriminazione e forzò la condanna. Cazzullo ricorda il senatore Bertone, come tramite coi servizi. Ma si schierarono molto politici subito, i giornali di partito, e anche l’Anpi, l’associazione dei partigiani. Ancora nel Duemila Piero Fassino, ministro ex Pci della Giustizia, non solo si rifiutò di proporre la grazia per Sofri, come avrebbe dovuto nella vecchia procedura, ma per non scarcerare Sofri non propose nemmeno l’indulto, benché lo chiedesse il papa, per il giubileo del millennio.
Con Napolitano la grazia non sarà nemmeno discussa, e Sofri si farà tutto il carcere, fino alla scadenza della pena nel 2012. Caso raro, anzi unico, nella giustizia italiana. È l’unica delle tre presidenze della detenzione che non hanno discusso la grazia. Lo fece perfino Scalfaro, in medias res. Mentre Ciampi arrivò a promuovere una decisione della Corte Costituzionale che gliene attribuisce la facoltà anche col parere contrario del governo. La pronuncia della Corte, a prevalenza ex Pci, arrivò tre giorni dopo la scadenza del mandato di Ciampi. In occasione della grazia per direttissima a Bompressi, il proponente Mastella, ministro di Giustizia, annunciò che la proposta era in arrivo anche per Sofri, solo un po’ più complicata. Ma non è stata mai proposta, né da Mstella né da Napolitano, che dopo la sentenza della Corte Costituzionale poteva agire di sua iniziativa.
Ma non c’è scandalo, non più. Sofri, che avrebbe potuto essere Sofri dopo la caduta del Muro, si è invece appiattito sul sovietismo di riporto, che tanto ancora governa l’Italia – pensa di governarla, attraverso un giornalismo in ritirata (o non sarà disfattista?).
Aldo Cazzullo, Il caso Sofri, Mondadori remainders, pp. 165 € 4,20

martedì 24 febbraio 2015

Italia sovietica – 24

Camusso che convoca Landini
Landini che fa le scarpe a Camusso
L’orchestra giovanile di Santa Cecilia a Roma mandata a suonare al comizio di Renzi
Roma
Le cronache romane
Le librerie romane
L’Alta Moda a Roma, fredda e squallida sotto un tendone fuori del Parco della Musica.
Le cronache entusiaste del grande capo Zingaretti, il politico - dell’Alta Moda?
La regione Lazio da quando ne è presidente Zingaretti
E Zingaretti che risana la sanità? Un portale comunica i referti in tempo reale. Un tocco di magia. Per un portale cui non si può accedere se non con un numero magico. E comunque non può dare i referti, questione di privacy. Lodi e inni.

Il ritorno del Vecchio della montagna

È l’opera di una economista, esperta dell’economia del terrorismo, con una lunga serie di pubblicazioni (“Terrorismo S.p.A, già nel 2005, "Economia canaglia", 2008, - questo “Isis” è ritradotto dalla prima edizione angloamericana, “The islamist Phoenix”), consulente di molti servizi segreti, collaboratrice di “Repubblica” e del “Fatto Quotidiano”. A lei si deve, purtroppo isolata, l’unica ripresa di un tema che questo sito periodicamente deve proporre, avendo conoscenza diretta della penisola arabica: il finanziamento e l’armamento del terrorismo islamico da parte dei principati della penisola e degli Usa. Da parte dei regni e gli emirati cioè più corrotti, da tutti i punti di vista, compreso quello islamico tradizionalista (non sono buoni mussulmani), e i soli nel mondo arabo immuni al terrorismo. Non  per una presumibile efficienza delle polizie segrete, che nei loro vasti deserti sono inutili. Per il controllo tribale, e per la disponibilità inesauribile di capitali, grazie al caro petrolio.
Qui però Napoleoni non dice l’essenziale: la capacità mediatica, o meglio la disponibilità dei media a qualsiasi avventura, meglio se estremista. Che fortemente sopravvaluta le forze in campo. Le decapitazioni, per esempio, così tremendiste, che poi si risolvono con l’abbattimento dei decapitatori, Ben Laden incluso. I volontari, altro caso: sono tanti, sono troppi? Sono culturisti, poeti in erba, misteriosofi, e ragazzette sceme, di Bologna, Parigi, Londra, la provincia remota della Spagna. Spiriti deboli, fantasmatici. È in atto un tentativo, più o meno serio, di restaurazione di un califfato assassino, o questa è una riedizione del Vecchio della Montagna – il “Veglio” di Marco Polo? Del tremendismo tardomedievale che doveva eccitare la cristianità alle crociate. Dobbiamo effettivamente avere paura, o solo armarci di paura? Ci sono aziende specializzate negli Usa perr recuperare i video Is che altrimenti andrebbero dispersi nella vasta rete e riproporceli in tv -  ripetitivi, abbelliti, ben tagliati e cololrati.
Ma, poi, sono gli isisti stessi veramente armati e temibili, anzi imbattibili? La loro attività è più mediatica che militare: scenografie, sceneggiature, filmati, in bei colori, aggressivi, bene illuminati.   Anche come tempo, non lo troverebbero per combattere, con tutte queste attività mediatiche. Si dice che siano bombardati dai volenterosi anti-Is, una cinquantina di paesi, di più, sessanta, ma non ne sappiamo nulla. Si dice che i curdi – Kirkuk è area curda – siano armati da questi volenterosi, ma non è vero niente: i curdi sono soli, osteggiati da tutti, da Turchia, Iraq, Siria, e anche dall’Iran, che non vogliono rimettere in discussione le frontiere strappate un secolo fa, alla fine della grande guerra e dell’impero ottomano. Mentre è bastata un’incursione aerea egiziana per cancellare l’Is da Derna in Libia. Non di uno stormo di bombardieri, ma di una mezza squadriglia di caccia,  e non di bombardieri, di aerei cioè che portano due o quattro bombe ognuno, e le sganciano a caso, e questo è stato tutto il bombardamento. Così come è bastato un giorno d’impegno dell’aviazione giordana, per rimettere la museruola all’Is-madre dell’Iraq, che ci ha messo tre settimane per proporre altre decapitazioni..
Quanto al petrolio di cui Napoleoni fa grande caso, avendo in teoria l’Is conquistato la zona petrolifera settentrionale dell’Irak: il petrolio non è un lingotto in cassaforte. Loretta Napoleoni produce da tempo studi sul finanziamento del terrorismo attraverso la vendita del petrolio. Anche prima che l’Is si impossessasse della zona petrolifera a nord dell’Iraq, attorno a Kirkuk. Ma non è così semplice. Né estrarre il petrolio, né pomparlo a qualche porto d’imbarco o oleodotto funzionante, le stazioni di pompaggio sono delicate, semiraffinarlo, trovare acquirenti, farsi pagare. Tanto più che l’Is occupa e non controlla la zona di Kirkuk.
L’altra fonte d’approvvigionamento di armi e munizioni sarebbe stato l’esercito siriano. Che però è in gran parte con Assad. E le armi, soprattutto quelle catturate in battaglia, hanno bisogno di molta manutenzione, non vanno a baldanza. E più i carri armati, congegni delicatissimi, a cominciare dai cingoli, la parte meno sofisticata: sono mezzi di cui l’arte militare dà per scontato che, nelle migliori condizioni di mantenimento, un terzo sia ogni giorno inutilizzabile, e non sono mezzi da trasporto, sono da battaglia campale, vanno trasportati su gomma al luogo di battaglia.
Napoleoni parte da una connotazione positiva di rivoluzione. Apparentando l’attrattiva dell’Is a quella a suo tempo del khomeinismo. Che ci fu, seppure non eversiva allo stesso modo dei jihadisti. Ma è una rivoluzione senza sbocco, e non avendo esiti positivi è destinata a implodere, un grumo nella storia. È una rivalsa, che dura in quanto tale. Di gente, nel caso del jihadismo, nemmeno di fede né di cultura, come era ed è il caso dell’Iran. Dove peraltro il khomeinismo è finito presto come fatto rivoluzionario Non ha saputo adattare il diritto, e in genere la modernità, alla tradizione, come ambiva. E si è isolato nel mondo atabo e islamico, quasi un mondo estraneo, e nell’Asia che non conosce. Più che nell’Occidente che vitupera e al quale però per molti aspetti appartiene. Mentre l’Is raccoglie sbandati. In attesa di proporsi, come i suoi finanziatori-protettori arabi progettano, come forza reazionaria, di stabilizzazione della reazione al coperto della tradizione.
C’è una sopravvalutazione. Molto “occidentale”, da cultura della crisi, post o neo marxista – una sopravvalutazione è anche necessaria per colpire meglio… Che nasce in Loretta Napoleoni dichiaratamente dalla sopravvalutazione dell’intento di libertà del fondamentalismo islamico. La studiosa ne rileva il settarismo e anche il razzismo, ma ne parla in termini di “una nazione governata dall’onore, una società allo stesso tempo contemporanea e perfettamente in armonia con la Tawdid, l’unità dei fedeli ordinata da Dio”. Una “nazione idealistica”. Che “non soltanto offre ai mussulmani la liberazione da secoli di umiliazione, ma rappresenta anche l’utopia politica sunnita per il Ventunesimo secolo”. Di più, un miracolo: “Un potente edificio filosofico che per secoli gli studiosi hanno cercato, invano, di far nascere”. L’Is è più perfetto, se non quasi perfetto, per “la sua modernità e il suo pragmatismo”, più dei Talebani e di Al Qaeda. E “riscatta dall’umiliazione i compagni di fede”. Da quale umiliazione?
L’Occidente Napoleoni vede indebolito, e anzi evanescente, nella globalizzazione, anche se non lo sa. Mentre “la leadership dell’Isis non solo ha intuito questa verità, ma l’ha metabolizzata”. E uno non sa che pensare: la globalizzazione non è occidentale? Compresi i “ricchi sponsor del Golfo”, patroni, ispiratori e finanziatori dell’Is.
Si può anche concludere con la studiosa che, “mirando a un cambiamento di regime in Siria, paesi come il Kuwait, il Qatar  l’Arabia Saudita hanno attivamente foraggiato una pletora di organizzazioni armate, delle quali l’Isis è soltanto una”. Ma l’opinione pubblica occidentale è un’altra, seppure non armata: un giornalismo imbelle o debole, che subisce il fascino delle ricchezze esibite, nell’indigenza, della penisola arabica, tra grattacieli e affarismo. Un paese come l’Italia avrebbe più titoli delle “masse islamiche” dell’Is a cercare il riscatto da queste umiliazioni. Se non altro perché, con queste guerre “islamiche”, è costretta a pagare il petrolio e il gas da cinque a dieci volte più caro del dovuto.
Loretta Napoleoni, Isis, lo Stato del terrore, Feltrinelli, p. 144 € 13

Il mondo com'è (206)

astolfo

Comunismo – La “via italiana” al comunismo, da Togliatti a Berlinguer, si è estinta con l’Urss. Con la caduta del Muro e la deflagrazione dell’Unione Sovietica. Non ha retto all’abbandono della Russia, del partito guida. Uno dei tanti fatti molto evidenti di cui non si parla.
Non ha retto alla fine, nonché dell’ideologia, dei finanziamenti russi, che erano larga parte della sua organizzazione. Ha ancora avviato e vinto battaglie, contro i socialisti e i liberali, a opera degli ultimi colonnelli di Berlinguer: Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino. Ma battaglie da retroguardia, nella ritirata, nel mentre che si consegnava alla Dc. Grazie soprattutto all’apparato repressivo, dei giudici, le polizie, gli apparati redazionali, che controllava. Ma finendo ruota di scorta di banche e affari – del “mercato” – oltre che dal democristianesimo. Le sue ultime incarnazioni, Vendola, Boldrini, Enrico Rossi, lo stesso Bersani, sembrano maschere.

Ha accelerato la storia, ma ne è stato anche il rifiuto. In Russia e in tutta Europa, e anche in Cina, nonché a Cuba. “Una nuova civiltà” a Mosca è titolo di Beatrice e Sidney Webb, ma giusto per certificare la decadenza del giudizio politico inglese – in duemila pagine. Il comunismo è stato, dopo la Liberazione, sempre cadavere, se ne sentiva la puzza. Artur London, il comunista ceco sopravissuto al processo Slánský, per raccontarlo nel 1968, non era solo. Il croato Karlo Stajner aveva scritto dei suoi anni in Siberia, ma non pubblicava niente senza il consenso di Tito, non voleva nuocere al comunismo. Si può non capire niente. Quando Dubcek mandò London in televisione, la moglie Sonia, russa, che per vent’anni l’aveva atteso, gli teneva la mano, che non facesse anticomunismo. Ligio Zanini, altro memorialista, era invece uno di quelli, monfalconesi e non, che si erano fatti il lager di Goli Otok per difendere nel ‘48 il compagno Stalin dal traditore Tito.
Nessun comunista ha mai perso una guerra, è vero: Lenin, Stalin, Mao, Corea, Vietnam, Cuba. Eccetto quella per il comunismo: Breznev non poteva non fare la guerra a Praga, Gorbaciov non poteva non smantellare la baracca. E questa era la colpa dei comunisti, la verità che fingevano di non vedere: non c’era comunismo possibile, Mosca non lo consentiva, prima che gli Usa. Il genere umano ridotto a una sola testa era il disegno di Nerone, prima che di Stalin.
L’Urss non aveva mai destalinizzato. O Stalin era l’Urss.

Imperialismo – È anche un’opportunità. Per il giovane del Dodecaneso che faceva il marinaio a Venezia, o per il montanaro sudtirolese che faceva il fante a Roma, per il fellah curato in ospedale. Il nazionalismo è naturale, come il diritto alla casa, è parte della personalità, il diritto naturale lo protegge. Ma è solo una forma di possesso.
La libertà, anche, va con l’impero: l’orizzonte è largo, si impara, si gode, si guadagna di più. E comunque si è protetti da una legge: l’impero è anche legge, e spesso è la sola. Mentre il diritto naturale può essere – è stato in Africa e in Asia in questo mezzo secolo di indipendenza – conculcato e anzi nemmeno preso in considerazione.

Lavoro – Ha natura personale e privata, anche nelle grandi organizzazioni. Il sindacalismo nasce da questa esigenza, prima che da un disegno politico. Tra le tante mancanze che nella Mosca sovietica sorprendevano era, anche all’opera dove aveva le prime file riservate, il lavoratore – era come per le donne, che un tempo vi comandavano impavide (i Sauromati erano governati dalla donne, dicono Erodoto e Scilace concordi, le amazzoni). Lavorando tutti, lavorare era obbligatorio, non c’era più rispetto per il lavoro e il lavoratore. Da parte dello stesso lavoratore.
Si discettava allora di lavoro alienato senza vedere il lavoro forzato. Ma è vero che in quella società collettiva il lavoratore non c’era, se non nelle forme atipiche del sabotatore, l’assenteista. O del rivoluzionario, il salvatore, ma in chiave sempre di rifiuto.
Mosca negli anni di Breznev non era “1984”, poiché vi si facevano figli e c’era luce di giorno, ma era l’“umanità socializzata” che Marx auspica con la socializzazione dei mezzi di produzione. I tentativi di creare il lavoratore erano patetici: Stakhanov copiava l’uomo del giorno, o del mese, in bacheca nelle aziende Usa, solo mancava la foto ritoccata.

Nenni – Era storia moscovita al tempo dell’Urss, che avesse riconquistato nel 1948 il partito Socialista, che era passato agli autonomisti, con Malenkov, e le pelli e l’oro di Mosca. Malenkov era il capo del Pcus, il partito comunista sovietico, per conto di Stalin. Malenkov e Nenni s’incontravano a Praga al tempo delle purghe, e continuarono.
Malenkov era rotondo e pacioso, ma era uomo di mano di Stalin. Ne fu il successore e fece avere a Nenni il premio Stalin. Che poi Angelo Rizzoli, dopo il 1956, dovette  rifondere.

Possesso – Gli Usa si sono voluti a lungo, e tuttora surrettiziamente si pensano, “socialismo senza socialisti”. La patria delle uguaglianze. Ma confermando dunque che il socialismo è possesso, è “avere”.

“Il possesso si collega nella storia alla vittoria di Salamina, senza la quale le tenebre del dispotismo orientale avrebbero avvolto la terra”, spiega Condorcet. Cioè alla democrazia.

È stato il socialismo a indurre e generalizzare l’idea del possesso. Flaubert l’ha visto nel ’48, la rivoluzione della libertà, guardando le barricate da lontano, e l’ha dettagliato vent’anni dopo nella sua “Educazione sentimentale”, che invece è politica. A un certo punto i socialisti si smarcarono dai liberali, che ne furono atterriti e si segregarono. “Allora”, dice Flaubert, “la Proprietà montò nei rispetti al livello della Religione e si confuse con dio. Gli attacchi che le si portavano parvero sacrilegio, quasi antropofagia.”

È la chiave – l’appeal – delle rivoluzioni: il rivolgimento è come una presa di possesso. Grande è stata, è, l’avidità dei baby-boomers, la generazione della guerra che ha fatto il Sessantotto. Che si può definire un grande movimento per il possesso, di desiderio, di avidità. È stata la generazione vivente che si è “preso tutto”: le pensioni, la sanità, l’istruzione, il viaggio pure semigratuito con l’interrail, il fumo, la fitness. Con la casa in Toscana, anche in Umbria, o sennò in Sabina e Lomellina. E la duplice accoppiata possesso-sesso.

L’avidità, il desiderio di possesso, ha marchiato il Movimento Studentesco e i gruppuscoli che se ne sono generati, fino al terrorismo. Forse più della voglia di liberazione, che anzi è una parte di quella generale presa di possesso. Da golosi più che ingordi. Rifiutando, cioè scegliendo. Non per l’accumulo, la carriera: non finalizzando, spesso variando, e dissipando. Vivendo secondo l’umore. Quello che si pubblicizza come “qualità della vita”: amori, amicizie, avventure.

astolfo@antiit.eu