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sabato 31 gennaio 2009

L'opinione pubblica in epoca plebiscitaria (2)

(Il testo seguente, sulla sostituzione della “tecnica” alla “politica” nell’informazione in regime plebiscitario, si leggeva nel 1932, al § 74, di “Der Arbeiter” di Ernst Jünger – testo da Jünger riproposto nel 1963, su insistenza di Heidegger (tradotto per ultimo da Guanda nel 2004))

L’offensiva contro l’indipendenza della stampa è una forma specifica dell’offensiva contro l’individuo borghese. Non può dunque essere condotta dai partiti, ma solo da un tipo di umanità che ha perso il gusto di questo genere d’indipendenza. Bisogna essere molto coscienti che la censura resta un mezzo insufficiente e che può anche favorire un affinamento e una cattiveria accresciuta dello stile individualista. Tuttavia il tipo(1) dispone di mezzi più estesi di quelli che lo Stato dominante tenta d’impiegare per difendersi quando ha fatto il suo tempo. Piuttosto che utilizzare la possibilità d’impadronirsi dei grandi mezzi d’informazione, trae profitto dallo stile con cui si esprime l’opinione individuale, che tende a diventare noioso e sorpassato. Quando si apre per caso una collezione di giornali degli anni 1830, meraviglia la quantità infinitamente superiore di sostanza che vi si esprime giorno dopo giorno. In questi articoli vive ancora qualcosa del vecchio artigianato.
In questo contesto, si assiste a due fenomeni molto istruttivi: da una parte la decadenza dell’editoriale e della critica, dall’altra l’interesse crescente per quelle rubriche in cui, come nella parte consacrata allo sport, le differenze di opinione individuale giocano un ruolo molto più ridotto – lo stesso l’interesse per le foto. Questo interesse si indirizza all’uso di mezzi particolarmente propri al tipo.
Si spera che una lingua precisa e univoca sarà utilizzata, uno stile fattuale di natura matematica adatto al XXmo secolo. Il giornalista appare in questo spazio come un sostenitore del carattere specializzato del lavoro, i cui compiti sono definiti e circoscritti dal carattere totale del lavoro, e quindi dallo Stato che ne è il rappresentante. All’interno di questo spazio univoco, i simboli sono di natura oggettiva, e l’opinione pubblica non vi è l’opinione di una massa composta da individui, ma il sentimento vitale di un mondo molto chiuso, molto uniforme. Ciò che affascina, è molto meno il punto di vista dell’osservatore che la cosa o l’avvenimento stesso, e di conseguenza si chiede all’informazione di comunicare il sentimento della presenza immediata nel tempo e nello spazio.
La coscienza morale del giornalista risiede qui in un massimo di esattezza descrittiva. Si manifesta con una precisione di stile che testimonia che la pretesa di effettuare un lavoro intellettuale ricopre più di un solo modo di parlare. Il fatto decisivo è qui, come abbiamo detto, che l’individuo borghese è sostituito dal tipo. E come era del tutto indifferentemente che l’individuo preso isolatamente si comportasse da conservatore o da rivoluzionario, la semplice apparizione del tipo apporta un consolidamento del mondo del lavoro, quale che sia il campo in cui interviene.
Questa apparizione coincide con un certo stadio dei mezzi tecnici, appropriato. È solo per il tipo che l’uso di questi mezzi possiede il senso di un atto di dominio. Come il giornalista cessa di essere un individuo borghese per trasformarsi in tipo, così la stampa cessa di essere un organo della libertà d’opinione per divenire l’organo di un mondo del lavoro univoco e rigoroso.
Questo s’intravede nella maniera diversa come si leggono oggi i giornali. Il giornale non ha più una cerchia di lettori nel senso antico, e si può riprendere a proposito della trasformazione del suo pubblico ciò che si è detto del pubblico del teatro e del cinema. Anche la lettura non si accorda più col concetto di svago: essa presenta piuttosto i segni del carattere specializzato del lavoro. Ciò si vede chiarissimamente nei posti dove si possono osservare i lettori, i trasporti in comune, il cui utilizzo costituisce già una forma di lavoro. S’indovina osservandoli n’atmosfera insieme vigile e istintiva, che ben si adatta a un servizio d’informazione di precisione e rapidità estreme. Si vuole avvertire mentre si legge l’impressione che il mondo si trasforma, ma questa trasformazione resta nello stesso tempo costante, nel senso di un’alternanza di segnali multicolori che si sorvolano rapidamente. Sono informazioni all’interno di uno spazio in cui l’avvenimento si distingue come una presenza di cui ogni atomo è colpito con la velocità di una corrente elettrica. È evidente che tutto ciò che è individuale vi è risentito sempre più come assurdo. Bisogna anche ammettere che la diversità degli organi d’informazione tende a confondersi, almeno nella misura in cui riposa sulle differenza tra i partiti o tra la città e la campagna.
(continua)
(1)Il termine tipo, e gli analoghi figura, totale, costruzione organica, sono usati da Jünger “anarca” di quegli anni nel senso esoterico della “legge del sigillo” di Salomone o “legge dell’esagramma”, simboleggiata dalla stella a sei punte, che tratta della corrispondenza degli opposti (v. Fulvio Rendhell, Trattato di alta magia, p.87). Nell’appendice Jünger spiega in nota: “Il grado di riuscita nell’utilizzo di concetti organici come figura, tipo, costruzione organica, totale, si misura dal modo con cui essi si utilizzano secondo la legge del sigillo e dell’impronta. Il modo di utilizzo non è in piano, è verticale. Così, ogni grandezza in seno alla gerarchia ha una figura ed è nello stesso tempo espressione della figura. In questo contesto interviene anche una luce particolare sull’identità della potenza e della rappresentazione. Si riconosce inoltre il tipo dal fatto che può dispiegare una vita propria, che può cioè crescere.
Questi concetti sono delle note per aiutare la comprensione, non sono essi che ci importano. Si può senz’altro dimenticarli o accantonarli una volta che siano stati utilizzati come grandezza di lavoro per capire una certa realtà che sussiste malgrado e aldilà di ogni concetto. Questa realtà dev’essere interamente distinta dalla sua descrizione: il lettore deve vedere attraverso la descrizione come attraverso un sistema ottico”.

Mitteleuropa ossessionata da Mosca

Nella crisi, un ponte utile sarebbe con Mosca. Che ha molti beni primari, e questa volta mostra di regge meglio al crollo, rispetto a dieci anni fa, dei prezzi delle fonti di energia. Ma mezza Europa non parla con Mosca. La Polonia in primis, che è quella che più ne avrebbe da guadagnare: i governi di Varsavia, di destra o di sinistra, preferiscono invece fare la sentinella armata di un improbabile Occidente alla frontiera con la Russia. Il complesso Ucraina è ancora forte presso tutti i paesi della ex sfera sovietica. Per superarlo Putin ha fatto accettare da Gazprom un compromesso per il gas oneroso, e presto insostenibile, ma senza effetti di rilievo: la Mitteleuropa si ricostituisce e si rinsalda quotidianamente in un qualche motivo di attrito con Mosca, quella della Russia è una ossessione insuperabile a Est. Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria vivono esse pure come se gli eserciti di Mosca fossero sempre pronti ad aggredire.
In Ungheria Mosca sta procedendo al secondo salvataggio di Malev, la linea aerea, con Aeroflot dopo gli Abramovich, e a condizioni estremamente più favorevoli alla compagnia ungherese rispetto a quelle che air France prevedeva per esempio per Alitalia, ma è un intervento risentito come una ingerenza. Per il gas ritorna il progetto Nabucco, di portare in Europa il gas del bacino del Caspio con una condotta che attraversi una diecina di paesi ma non la Russia - progetto da cui anche Teheran si è defilata. E si fantastica di progetti nucleari per i quali nessuno ha nemmeno un percento delle risorse che sarebbero necessarie.
Ma è l’Europa nel suo complesso che non può dialogare con Mosca. Per la Merkel furiosa che non vuole. Il cancelliere Merkel, molto pragmatica in tutto, è insofferente a Mosca. Si dice perché Mosca ha come consigliere per l’energia l’ex cancelliere socialista Schröder, da lei sconfitto quattro anni fa. Ma non è questo, Angela Merkel odia Mosca a fiuto, a pelle, in quanto ex della Germania Est. La diplomazia europea è stata congelata per la sua insofferenza. E anche gli affari, quelli tedeschi. Le società del gas, E.on e Ruhrgas, la Siemens, il Deutsche Bahn ci vedono l’eldorado, un mercato formidabile d approvvigionamento e di sbocco, ma la Merkel gira la testa dall’altro lato.

Non si può dire ma è bancarotta

Sarà detta la crisi del silenzio: è la novità di questa crisi, pure così profonda e manifesta, far finta di nulla. Lo stesso teatrino di Davos, dei grandi interessi, non se lo nasconde. Ma si vuole che il silenzio sia arma migliore contro la crisi. Come se la crisi fosse di fiducia e bastasse rassicurare i consumatori.
Il morbo inglese
Ci sono già sette grandi falliti in Europa, otto con Londra. Col Giappone che per la prima volta va in rosso, e manda in rosso le miracolose Sony e Toyota. Mentre gli Stati Uniti, il motore dell’economia globale, dove la produzione è un buco nero, stanno in piedi per il miracoloso Obama. Per lo svuotamente di quasi tutte le grandi banche, tra mutui e futures. E perché quella dei mutui non è una questione tecnica: la partita di giro immobiliare è quella ce tiene su tutte le economie, in tutti i settori, finanza, industrie (edilizia e tutti i materiali, edili, mobili, infissi, arredamento), commemrcio.
Sei paesi sono tecnicamente falliti, Islanda, Irlanda, Grecia, Ungheria, i paesi baltici. La Gran Bretagna è più solida ma non se la passa meglio. La sterlina è ai minimi, e ci sono liti per un posto di lavoro, la guerra agli italiani della raffineria non è jingoismo. La situazione è tanto più preoccupante in quanto il governo britannico non conta nulla: il primo ministro Brown, che a settembre aveva rimproverato il ministro del Tesoro americano Paulson per l’insufficienza del piano di rilancio dell’economia, ha speso tutto senza ottenere niente.
Presi i soldi del governo per evitare il fallimento, la Royal Bank of Scotòland fa campagna contro lo stesso governo, che non si impicci – una banca che era riuscita a fare un debito di duecento miliardi di sterline, in un solo anno!, solo due anni fa, quando già i mercati scricchiolavano. Si dice il sistema finanziario europeo relativamente al riparo dalla bancarotta americana, ma ciò non è vero, perché Londra è in Europa. Rbs, per dire, infetta le banche olandesi, e tutte insieme infettano la Germania e l’Italia. Ma in Europa soprattutto lo stordimento è forte, e la reazione lenta, e inadeguata: Bruxelles aspetta i governi, i governi aspettano Bruxelles, e dopo è tardi - già ora lo è.
Istituzioni dannose
Piace dire che questa crisi non sarà come le altre perché le istituzioni ne hanno coscienza e sono attrezzate. Ma è vero in parte, le istituzioni sono inerti. Impacciati gli Usa, per il passaggio dei poteri, e per il bisogno del neo presidente di caratterizzarsi politicamente - Obama per ora pensa ai poveri e non all’economia. Del tutto inutili, e forse dannose, le istituzioni europee, la banca centrale e la commissione. Come già in Giappone negli anni 1990 la Bce dimostra l’inutilità della politica monetaria basata sul tasso di sconto quando le banche sono tecnicamente fallite. Con un patrimonio cioè che ogni giorni si assottiglia di fronte all’inesigibilità del cattivo credito da esse stesse alimentato. Ci vollero dieci anni per l’economia nipponica per guarire, salvo ricadere nella stessa malattia dieci anni dopo, e non di meno ci vorrà per gli Stati Uniti e per l’Europa.
Il sostegno del reddito non è la social card
In Italia la crisi è come tutto, Eluana, Villari, le piogge, un fatto di potere. La spaventosa soluzione di Alitalia getta brutte ombre sul comparto meccanico. La Fiat lo sa, che cerca la salvezza nel mercato più difficile, gli Usa. Gli Elkann-Montezemolo hanno a lungo contestato Berlusconi, e Berlusconi cerca la sua piccola vendetta, e questo è tutto. Tremonti ha delle idee, e a quanto ha detto finora (piano europeo, bad bank, ricapitalizzazione delle banche) anche molto buone. Ma non può applicarle all’Italia perché con può intervenire sull’industria, per lo scoglio Fiat. Trecento milioni sono nulla. In ritardo sugli altri paesi europei, e dopo che le vendite di gennaio si saranno dimezzate rispetto a quelle, già non alte, di un anno fa, e anche febbraio sarà stato compromesso. Non si fa, il Capo non vuole. E comunque si prospettano cifre irrisorie, da social card, quando la Germania di Angela Merkel ha stanziato già un mese fa 1,5 miliardi per i soli acquisti di auto nuove. Nel quadro di un pacchetto di stimolo di cinquanta miliardi. Con altri due miliardi a garanzia dei debiti Opel. E addirittura ipotizza la crisi come una possibilità di moltiplicare la presenza tedesca sui mercati mondiali. Politicanteria da tempi di crisi, ma è un linguaggio che può permettersi, poiché decide e agisce. Mettendo comunque in costituzione un tetto dello 0,5 per cento del pil all’indebitamento pubblico ogni anno. Grazie al ripianamento, dopo vent’anni, del debito della Germania Est.
Consolidare il debito
Nulla del genere può permettersi l’Italia. Ma il tempo sarebbe maturo, e la crisi propizia, a una qualche forma di consolidamento del debito, senza la quale l’Italia non potrà mai sopravvivere e rilanciarsi, meno che mai in una crisi mondiale così grave. Con la crisi che durerà dieci anni non c'è altra remissione possibile dal debito, e talvolta conviene anticipare le soluzioni - giocare di anticipo. Roba da vero governo, quindi fuori dal dibattito di idee, nonché dalla cose da fare. Ma pure sull’ordinaria amministrazione il governo vivacchia, preso dalle intercettazioni, da De Magistris e da Villari.
Non si interviene sul reddito, se non per le cifre ridicole della social card, e non alla produzione. Si parla di restrizione ulteriori ai pensionamenti mentre invece la previdenza sarebbe utilissima come sostegno al reddito: più pensionamenti, anche a condizioni di minor favore, senza divieti di cumulo dei redditi, per liberare risorse nelle imprese, e lavoro giovane.

venerdì 30 gennaio 2009

Obama e la democrazia plebiscitaria

Dopo Obama e la sorpresa americana, la capacità dell’America di rinnovarsi, grande è il cruccio in Italia per la politica stantia. Dove però, anche se Sartori non lo sa, lo scienziato americanista, la novità c’è da tempo, ed è impersonata da Berlusconi. Col suo partito del presidente. Che Prodi, l’unico che l’abbia capito con Berlusconi, ha copiato, con successo. E Veltroni, copia di Prodi, con insuccesso. L’America è giunta a Barack Obama dopo un trentennio di “partiti del presidente”. Le presidenziali si giocano fra due-tre partiti del presidente, fra chi riesce a stregare i votanti con la campagna elettorale di un anno, e molti outsider hanno vinto, Carter, Reagan e Clinton prima di Obama.
Il fatto è poco percepito in Italia. Dove gli studiosi sanno degli Usa che hanno la costituzione per eccellenza della divisione dei poteri, e per la riforma delle istituzioni in Italia si dibattono fra il semipresidenzialismo francese, in cui la figura carismatica del candidato è ancora mediata e costruita dentro i partiti, o il maggioritario tedesco, dove i partiti e le coalizioni di partiti sono preponderanti. Mentre le ultime cinque campagne elettorali, l’ultimo quindicennio, sono state combattute distintamente fra partiti del presidente. Non per la proprietà dei media (la Mediaset di Berlusconi, la Rai di Prodi) e le carnevalate, ma per l’organizzazione. Tutto come in America. Anzi più che in America: in Italia la organizzazione del consenso su basi plebiscitarie non è la deriva della democrazia monteschieviana dei Padri Fondatori, sensibilissimi alla divisione e al bilanciamento dei poteri, ma un surrogato ai partiti dopo la loro implosione venti anni fa. Una via di fuga affrettata, dopo la fine del Pci per il crollo del comunismo sovietico, e la cancellazione degli altri partiti da parte del partito dei giudici, anche se si pretende una innovazione del sistema costituzionale sotto le insegne dello Stato decisionista, efficiente, e trasparente.
Presidenzialismo interrotto
Feste e talk show incidono, ma in quanto parte di una organizzazione del consenso di distinto tipo plebiscitario: attorno a un personaggio, per il carisma (energie positive, magnetismo, forza) e non per il programma, per consenso diretto e non mediato, ai fini del decisionismo, checché esso voglia dire - per una scienza politica esoterica. Il caso di Obama è da manuale, essendo la più potente creazione fantastica immaginabile, new media inclusi, orchestrata da un establishment (Chicago) che è il cuore duro del capitale americano, ferro e banche, mercato e protezionismo, e non la filantropica Silicon Valley, anche se altrettanto visionaria, seppure agevolata dalla emotività di donne e ragazzi, il 70 per cento degli elettori. I partiti anche in Italia sono macchine elettorali locali, coi loro potenti capoccioni comunali, provinciali, regionali, procacciatori di voti, i vecchi signori delle tessere. E un leader nazionale che di volta in volta li seduce o li coarta. Prodi anzi da questo punto di vista si può dire il migliore americano, ma Berlusconi è durato di più.
L’Italia naturalmente non è l’America. Ma perché si è fermata a metà: all’americanismo totale nei Comuni, le Province e le Regioni, o al presidenzialismo plebiscitario, dimezzato al governo centrale. Una volta eletto, il presidente in America è il numero uno in tutti i sensi, decide, comanda, e si farà rieleggere. In Italia una volta eletto il capo non conta nulla, la presidenza del consiglio dei ministri è residuo sabaudo, quando centro del potere si voleva la corona, e ora e niente. Si è avuto quindi Prodi spazzato via da Bertinotti o Mastella, Berlusconi da Follini (da Follini!).
Ma anche qui Berlusconi ora innova. A sinistra Veltroni ha puntato sulle primarie, l’investitura dal basso per ridurre alla ragione i riottosi e i capataz locali, per ppoi imporre il vecchio centralismo democratico che è il suo habitus mentale, ma ha fallito – praticamente ha fallito. Berlusconi invece va come un rullo compressore. Ponendo la museruola si suoi partitini con la fiducia su ogni votazione che comporti una spesa. Mentre politicamente gioca le sue fazioni l’una contro l’altra, con cinismo anche dichiarato, che capiscano chi comanda.
Il Parlamento irriformabile
È una situazione al limite della costituzionalità, dice il Capo dello Stato. Ma il presidente Napolitano da presidente della Camera ha avuto presente soprattutto l’esigenza di porre rimedio agli eccessi del parlamentarismo, ed è stato probabilmente, grazie all’uso accorso dei regolamenti, il presidente della Camera più “produttiva” della storia della Repubblica - pur essendo ingombra da quotidiani avvisi di reato. Il problema è questo, il fatto è noto, se ne discute da oltre vent’anni, e non è solubile: il Parlamento, che ha “americanizzato” rapidamente e con larghe maggioranze gli enti locali, non ne vuole sapere di “americanizzare” se stesso. Anche se il potere di legiferare è, ciò malgrado, al 99 per cento del governo. Anzi al 98 per cento, se ci sono 44 leggi di iniziativa governativa per ognuno di iniziativa parlamentare. E anche se la riforma delle procedure aiuterebbe il parlamentarismo: limitare le sessioni, limitare i dibattiti, limitare i passaggi parlamentari (commissioni consultive, commissioni deliberanti, una Camera, una seconda, e ritorno alla prima, e magari alla seconda). Darsi un minimo di efficienza e di ragione d’essere, altra che la nocività.

Cristina Campo, musa funebre di Alvaro

Carteri, dell’allegra brigata degli scrittori di Bovalino, nella famigerata locride, con Mario La Cava e Antonio Delfino, e il confinante sanlucoto Stefano De Fiores, il mariologo, vuole Alvaro credente, ancorché laico. Ma riesce un racconto vivissimo, tra il gotico e la passione della letteratura divorante, della “Ultima, lunga notte di Corrado Alvaro”, vegliato da Cristina Campo, l’amante a se stessa ignota.
Giovanni Carteri, La Lunga notte di Corrado Alvaro, Rubbettino, pp. 73, € 4

Barlaam, il Leibniz di Seminara

Ottimo esempio di storia locale “alta”, da parte di un avvocato di paese, insegnante di liceo. Che arricchisce e “supera” gli studi che Giovanni Gentile dedicò a Barlaam, dopo secoli d’ignoranza. Al Concilio Tridentino Barlaam fu creduto due, uno d’Oriente e uno d’Occidente. Per lo studioso gesuita Marcel Viller, storico della filocalia, autore del “Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique”, Barlaam era un secolo fa un israelita, che adorava contemporaneamente sia Geova che Baal. Il recupero è opera di un albanese di Sicilia, Giuseppe Schirò, e di uno di Calabria, Cassiano. Nel quadro di un ritorno alle radici greche che si origina in Grecia, nel recupero del bizantinismo che si fa da un trentennio, e non in Italia. E in particolare del monachesimo.
Il monachesimo è stato ed è molto diffuso nella chiesa ortodossa greca. Un solo ordine monastico si registra, quello di san Basilio. Che però, diviso in due osservanze, il cenobitico, o comunitario, e l'idiorrittmico, o individuale, raccoglie entità molto diverse, per qualità, organizzazione, capacità. E' un grande ordine, ma con una gerarchia molto allentata e con espressioni diverse, dall'eremita incontrollabile ai monasteri spesso localizzati in zone desolate e impervie, le Meteore, il monte Athos. Un po' è anche vittima della latinità. Tanto più per non avere i basiliani, in Grecia come in Calabria, curato gli archivi, pur operando alla perpetuazione degli scritti antichi, al contrario di quanto hanno fatto i monasteri occidentali, una delle fonti documentarie più ampie. Ma quella dei basiliani è una storia da scrivere.
Bernardo Massari di Seminara, che si farà monaco col nome di Barlaam, letterato e diplomatico del Trecento, al centro a Bisanzio di un importante progetto unionista con Roma, maestro di greco di Petrarca, nonché maestro di Leonzio Pilato, altro grecista illustre, che accompagnò Boccaccio nei lunghi tentativi di traduzione di Omero, emerge in questo studio persuasivamente come filosofo precursore di Leibniz, in una vasta produzione solo in piccola parte edita. Con le nozioni di lògoi ousiòdeis, i concetti puri, e di giudizi, axiòmata, che consentono di conoscere gli enti, l’universale (to katholon) e l’individuale (ta kathékasta), l’essere: “immagini e reminiscenze delle ragioni teoretiche e demiurgiche che il Creatore predispose agli enti indivisibilmente e singolarmente, (per cui) diciamo che questi sono di per sé anteriori, e dimostrano ciò che esiste nel mondo fisico”.
L’intelletto, riassume Cassiano, non è la tabula rasa di Aristotele, possiede dei concetti e dei giudizi che rendono possibile e inverano la conoscenza. La conoscenza è quindi apriori. Ma non soltanto: ci sono delle “congiunzioni”, dei ponti con i fatti e gli eventi. “L’intelletto attivo e gli oggetti intelligibili stimolano una relazione di reciproco rapporto. Quando, cioè, l’intelletto attivo è tale da poter capire gli oggetti intelligibili, e gli oggetti intelligibili sono tali da poter essere capiti dall’intelletto. Si dice allora che l’intelletto si congiunge con questo oggetti in maniera conforme”. Una dottrina della conoscenza, nota Cassiano, che supera sia il platonismo che l’aristotelismo, anche se all’apparenza ne sembra un’ibridazione, è cioè originale, e prelude all’innatismo virtuale leibniziano.
Barlaam aveva ragione anche in materia di fede. La materia per la quale fu sfidato e vinto a Bisanzio da Nicéforo Gregoras e Gregorio Palamas, monaci localmente più potenti. Nicèforo Gregoras, che usava riscrivere sull’attualità le sue opere, comprese le lettere, non ha buona fama tra i bizantinologi. Ma col prossimo santo Palamas, e col gran ciambellano Cantacuzeno, che col bigottismo si aprì la strada al trono, ebbero facilmente ragione di Barlaam, in tre o quattro sinodi appositamente convocati contro di lui. Il fondamento della conoscenza divina è semplicemente la fede, Barlaam ribatteva caustico ai teologi bizantini che lo accusavano di essere uno scolastico latino mascherato di ortodossia: “Ogni dichiarazione, pronunciata dai venerabili Padri e concernente la divinità, avrà per noi la stessa efficacia che ha, per chi è pratico di geometria, il principio, la nozione universale, l’assioma. Non ci sarà quindi motivo di accertarla tramite sillogismi”.
Gli sfidanti ebbero ragione di Barlaam soprattutto per il motivo che egli sarebbe stato una quinta colonna della latinità in terra romea. Ma Barlaam, dice Petrarca, tanto era dotto in greco quanto indigente in latino (poverissimo: Vir, ut locupletissimus graecae, sic romanae facundiae pauperissimus). Ma non è vero nemmeno questo, Lenormant lo giudica “per i suoi tempi notabilissimo in latino per la parte linguistica”. Esperto, oltre che dei filosofi greci, di Tommaso d’Aquino e dell’ultimo nominalismo scolastico. Abate (igumeno) a Costantinopoli di uno dei conventi più importanti per i greci, quello di S.Salvatore, ma ambasciatore e mediatore per conto del papa, oltre che alla fine vescovo. Schirò, che lo ha riportato in luce insieme con Gentile, argomenta piano: dovette avere qualità e prestigio prima di salpare per Tessalonica e Costantinopoli, per ricoprirvi posizioni di prestigio.
Ma Barlaam fatica a uscire dalla trascuratezza nella quale è caduto tutto il mondo bizantino in Italia. Le sue lettere da vescovo di Gerace, pastorali e diplomatiche, lo attestano buon scrittore di latino, si può dire per l'autorità di Gentile. Fu vescovo di Gerace dal 1342 peraltro su raccomandazione del Petrarca stesso, molto influente ad Avignone col papa Clemente VI, e di re Roberto. Al Petrarca, argomenta Gentile in "Studi sul Rinascimento", trasmise la prima conoscenza, prerinascimentale, di Platone.
Domenico Cassiano, Barlaam Calabro, Nuova Arberia, pp.98, € 8

giovedì 29 gennaio 2009

Ombre - 13

La Procura e il Gip di Roma, che tra l’altro è una donna, lasciano libero uno stupratore, dicendo: “È la legge”. La Corte di Appello e il Tar di Milano invece dicono che Eluana deve morire, ciò che la legge espressamente vieta, appellandosi alla ragionevolezza. La questione morale è la stessa questione morale, dei tutori inflessibili della pubblica moralità. Senza equilibrio, senza rettitudine. L’ubriachezza e la droga, che le legge dice aggravanti, la Procura e il Gip a Roma considerano invece attenuanti.

Dei Casamonica e dei Tredicine, clan del sottobosco affaristico di Roma, si dice in questura e nei giornali che sono abruzzesi. Il politicamente corretto non consente di dire che sono (ex) nomadi. Ma possono essere indifferentemente abruzzesi. Il politicamente corretto è scorretto.

De Magistris giudice di Napoli sancisce che Rutelli è in combutta con Romeo, l’imprenditore di cui convalida l’arresto, con quello che è a tutti gli effetti un primo giudizio di condanna. Ma Rutelli presiede a Roma il Comitato per i servizi d’informazione, che deve giudicare (condannare) l’operato di De Magistris procuratore della Repubblica, che fece intercettare mezza Italia.
Essendoci Napoli di mezzo, si sa che è tutto teatro. Ma, ritornello, la questione morale è la questione morale stessa.

Ahmadinejad è di origini ebraiche, denuncia a Teheran un politico moderato. Nell’abiezione non ci sono limiti, essendo essa sempre, di qualsiasi natura, un falso concetto: non si toccava mai il fondo nell’“arianesimo”, o la purezza della razza, e nel sovietismo fino a ieri, e oggi nell’antisemtisimo, e nella questione morale – i cui campioni, uno a uno, e le cui argomentazioni aprono sempre nuovi abissi.

Fare la guerra al Brasile per Battisti è opera dei pupi. È però vero che alcuni dei brasiliani che vogliono Battisti un martire della libertà sono stati rifugiati politici rispettati, e anzi ospiti privilegiati, anche se non cantavano, in Italia durante la dittatura militare. Più o meno negli stessi anni di piombo. Neppure un Lula in stato alterato potrà sostenere che i due esili hanno la stessa natura. Ma potrebbero essere collegati, anche questo è vero.

Battisti, un killer freddo, è patrocinato dalle sorelle Bruni, le esiliate d’Italia, protetto da Lula, il presidente compagno del Brasile, sostenuto dai giornali impegnati, si sente tra le righe, manovrato dai servizi francesi, che sempre hanno manovrato contro i cugini transalpini, e contro nessun altro in Europa, in alcuni casi anche scopertamente, Enrico Mattei, Oas, Cabinda, Ustica, il centro studi Hypérion del capo brigatista Moretti. Battisti si atteggia al genere Tarantino, o camorra napoletana, del killer che sghignazza mentre spara, deprecato ma evidentemente condiviso.
Dove sono i confini della barbarie, sia pure tra “noi e loro”, bene e male, legge e crimine? Grosse falle si dovrebbero aprire nel discorso delle mafie.

Ci vorranno tre giudici per ogni decisione – escluse, forse, le multe. Una “riforma” che “la Repubblica” definisce “magistratura depotenziata”. Ma moltiplicherà per tre il numero dei magistrati, e l’incubo.

Capita d’incontrare nella stessa giornata cinque amici, a vario titolo compagni, contenti di aver visto nei telegiornali di Arte e Al Jazeera la manifestazione dei clandestini a Lampedusa come prima notizia e il governo italiano accusato di razzismo. Il dispiacere per l’uso degli africani della politicantaglia italiana, dopo lo sfruttamento dei negrieri libici, si raddoppia per la perfidia del giornalismo, impunita, e si triplica per lo smarrimento di ogni lume critico. È la barbarie?

“Veltroni s’adegua! Con i baffi alla Fiorello spera in un posto a Sky anche lui”. Vincino scherza, ma che la politica della sinistra sia fatta da Murdoch, e alla Murdoch, è incredibilmente vero.

“Rai, revocata nomina di Villari. Passo indietro dei partiti”, titola “Repubblica”. O non è al contrario?
Si dice anche che la rimozione del presidente della Commissione Rai è anticostituzionale e non ha precedenti. Questo non è vero: il presidente della Repubblica Leone fu rimosso per un accordo tra la Dc e il Pci (Leone evitò gentilmente la fatica ai due partiti dimettendosi). La novità è che ora si trovano costituzionalisti che lo dicano, un po’ di democrazia nel compromesso che ci governa è entrata.

Un goal in fuorigioco e un rigore negato alla Roma: un altro regalo all’Inter degli “arbitri giovani” di Gussoni e Collina. Errori, certo. A senso unico, certo. Ma perché la “Gazzetta dello Sport” non ne parla, che pure fa tanta moviola, e “Repubblica” e il “Corriere” solo nella cronaca di Roma?,

“Il principe e il burino”. Gioca molto su questi archetipi l’editore Ciarrapico, ora senatore, con Madron sul “Sole” di domenica 18. Senza spiegare che la storia è invece tutta Banca di Roma. Come peraltro si sa. Di due imprenditori non molto capaci, o fortunati, di cui la banca ha organizzato a più riprese il salvataggio e il rilancio. Fino all’epoca Geronzi, il sorridente deus ex machina del nuovo business romano, particolarmente attento all’editoria, e al lodo Mondadori. Nella famosa mediazione per la casa editrice fra De Benedetti e Berlusconi, Ciarrapico era in realtà Geronzi – che nel 1994 compirà l’opera salvando Berlusconi dai debiti che ne minacciavano il fallimento.

Dopo Villari presidente di qualcosa alla Rai, due giornalisti che litigano in tv, Annunziata e Santoro. È tutta qui l’Italia che uno vorrebbe impegnata, democratica, di sinistra. I due giornalisti sono importanti, pezzi grossi della televisione, ma che hanno mai fatto, di cui ci si ricordi? E cosa rappresentano, a parte le protezioni politiche – non si può dire nemmeno appartenenze, le rifiutano?

C’erano abbastanza prove per arrestare Del Turco sei mesi fa. Ma non abbastanza per fare ora il processo. La vera questione morale è la stessa questione morale, dei tutori inflessibili della pubblica moralità.

Niente avventura, divertimento, atletismo, solo interminabili pagliettismi su fuori gioco di un millimetro, e chi ha spinto chi. Per un esercizio di vera furbizia: basta far vedere venti volte il fuori gioco di una squadra e una o mai quello dell’avversaria e il giudizio è fatto. Ai tempi della Juventus imbattibile di Capello Calciopoli era già nelle cronache di Sky, di Canessa e Bergomi, un romanista e un interista: non c’era favore alla Juventus che non si rivedesse venti volte, non c’era torto che si rivedesse mai.
Con Sky, tv a pagamento, una risposta c’è: non pagare le partite. Con le tv pubbliche gli spettatori sono indifesi e violentati. Da gente che non è stupida, è più furba.

Berlusconi vuole Fiat a Canossa

La crisi e il regime
La Fiat è infine scesa a Roma, Marchionne ha rotto il folle stallo, dove però Berlusconi non si è fatto trovare. Marchionne era peraltro accompagnato da Montezemolo, che è quanto di più indigesto si può presentare a Berlusconi. La commedia degli equivoci, tra i forti “antiberlusconiani di centro” di Torino, degli Elkann con Montezemolo, e il governo si perpetua. Mentre nessuno compra macchine in attesa che il governo vari gli incentivi. L’auto perderà non si sa se sessantamila o trecentomila posti di lavoro. E comunque ha già affossato la produzione industriale e tutti gli indici. Sembra di sognare.
Viene dal capo il rinvio del pacchetto anticrisi per l’auto. Che si farà in ritardo sugli altri paesi europei, e dopo che le vendite di gennaio si saranno dimezzate rispetto a quelle, già non alte, di un anno fa, e anche febbraio sarà stato compromesso. Con cifre peraltro irrisorie, da social card, quando la Germania di Angela Merkel ha stanziato già un mese fa 1,5 miliardi per i soli acquisti di auto nuove - nel quadro di un pacchetto di stimolo di cinquanta miliardi. Tanta tempestività per le banche, e per la contrattualità, intervento l’uno sostanzioso l’altro complesso, e completo attendismo invece per misure di poco costo per lo Stato e sperimentate da dodici anni: non c’è un ordine, ma Tremonti e Scajola sanno che Berlusconi vuole ridurre tutti i margini di redditività che la Fiat si era conquistati per una volta sul mercato. Il gruppo italiano è ora solo un terzo, meno di un terzo, del mercato dell’auto, dalla componentistica all’assistenza, ma il difficile rapporto Fiat-Berlusconi ha fatto a farà perdere ancora tempo prezioso.
Berlusconi si è scelto distintamente un ruolo politico, e non parla di affari, non in pubblico. Anche della crisi si limita a sottolineare gli aspetti politici, di fiducia, ma sa tutto e decide per tutti. Nella crisi sa naturalmente che non può non intervenire. Parla di giustizia, di federalismo, di Rai, di intercettazioni, ma pensa e opera sui fatti della crisi, ora in particolare su quelli della meccanica. Un’altra Alitalia, moltiplicata per dieci o cento, non va con la sua natura piaciona, oltre che con i voti. Ma si prende la sua piccola vendetta, al coperto della Lega, che "assolutamente" non vuole aiuti a Torino. Non ha ricevuto Marchionne. Alla riunione per gli aiuti all’auto mercoledì ha fatto convocare cani e porci eccetto la Fiat. E l’ha fatta chiudere con un rinvio. Finirà tardi e male, per nessun altro motivo che la politica. Non un orientamento politico diverso dall’altro, ma una ripicca, di gruppi e persone per il potere. In questo il regime c’è, eccome.

Raiume, l'Italia piagnona di Bernabei

Radio Uno sabato mattina, nella trasmissione che supplisce “Radio anch’io”, dà voce ai problemi degli ascoltatori sulle novità che li riguardano, la social card, il digitale terrestre, eccetera. Ma non fornisce le soluzioni ai problemi che si manifestano, con le solite spiegazioni e i consigli dei responsabili, gli esperti, i sottosegretari, eccetera, dà solo voce alle lamentele. Che tutte hanno ragione, anche quelle palesemente superficiali, irritate, pregiudiziali, faziose. È l’ideologia Rai, un tempo si sarebbe detto della piccola borghesia: il mugugno ha ragione. L’ha inventata Bernabei, l’inventore della Rai, e da cinquant’anni governa l’Italia.
È questa ideologia, il raiume, che rende il paese ingovernabile, depresso, anarcoide, la vera opposizione di ogni governo. È una tradizione. Uno scrittore inglese ha scoperto che la lagna è comune all’Europa di oggi, scrivendoci sopra un brillante “Il potere della lagna”. Col sottotitolo: “Perché viviamo in una società paranoica”. Ma il fondo è ben più remoto e solido in Italia, che confluì nel piagnonismo e tuttora fa di Gerolamo Savonarola, personaggio per molti aspetti infame, un eroe e un santo.
Di Ettore Bernabei è già stato detto che è l’uomo che ha creato la lingua e il linguaggio della Repubblica, attraverso la televisione. Ma non si è detto abbastanza. Il linguaggio che tiene l’Italia nell’ansia, e quindi nel bisogno, ecco il controllo. Il toscano-lombardo che Manzoni vagheggiava, Bernabei se ne può dire l’esecutore testamentario, con la stessa ideologia: i poveri sono anche poveri di spirito. Muoiono più spesso degli altri, e vivono senza un raggio di luce. Parlano ma non capiscono. Inoltre, sono tutti buoni. Con lo stesso abuso dell’ironia, e le freddure nella bocca sbagliata.
Bernabei è anche noto per avere inventato le quote di partito e le carature, incarnando egli stesso il “sistema”, quello che sarà la “lottizzazione”, o occupazione del potere: portato alla Rai da Fanfani per la comune ascendenza toscana, dopo essere stato il segretario di Andreotti, di Fanfani arcinemico.

mercoledì 28 gennaio 2009

L'opinione pubblica in epoca plebiscitaria (1)

(Il testo che segue, sulla sostituzione della “tecnica” alla “politica” in regime plebiscitario, si leggeva nel 1932, al § 74, di “Der Arbeiter” di Ernst Jünger)

Bisogna rifarsi qui al modo in cui i Parlamenti cessano di essere organi del concetto borghese di libertà e istituti di formazione dell’opinione, per convertirsi in unità di lavoro. Conversione il cui senso equivale a trasformare degli organi sociali in organi esecutivi. Bisogna qui rifarsi alla padronanza della tecnica del plebiscito che si compie in uno spazio in cui non soltanto il concetto di popolo ma anche le alternative emerse in argomento hanno rivestito un carattere molto equivoco. Bisogna inoltre rifarsi alla sostituzione del dibattito sociale e politico con l’argomento tecnico, che corrisponde alla sostituzione del ceto politico con gli esperti. In questo contesto si situa anche il prosciugamento della palude della libertà di opinione che è oggi la stampa liberale. Qui, ancora una volta, bisogna riconoscere che le tecniche sono molto più importanti dei singoli che producono l’opinione all’interno delle tecniche stesse. La macchina, il cui funzionamento assorbe a elevata andatura questa opinione, è infinitamente più pulita, la precisione e la rapidità con le quali non importa che giornale di partito giunge ai suoi lettori sono infinitamente più significative di tutte le differenza di partito immaginabili. È una potenza, ma una potenza di cui l’individuo borghese non sa più servirsi, e che utilizza, per difetto di legittimazione, come un perpetuum mobile della libera opinione.
Si comincia infine a vedere che un’umanità molto uniforme è qui all’opera e che il fenomeno degli scontri di opinione deve connotarsi come uno spettacolo che l’individuo borghese rappresenta ripartendo i ruoli. Tutte persone radicali, cioè noiose, il cui tipo comune d’alimentazione consiste senza eccezioni nel monetizzare i fatti in opinioni. Il loro stile comune si definisce come un entusiasmo ingenuo scatenato da non importa che punto di vista, non importa quale prospettiva, di cui essi abbiano l’esclusiva – e dunque come il sentimento di un vissuto unico nella sua forma più svalutata.
Quello che abbiamo detto del teatro vale anche per i giornali; diventa sempre più difficile distinguerne gli elementi, che siano i commenti e gli annunci, la critica e le notizie, la parte politica e lo svago. Qui tutto si vuole individuale al massimo e destinato al massimo all’uso della massa.
L’indipendenza cui si appella la stampa presenta ovunque la stessa natura, ovunque s’incontri quella rivendicazione. Consiste nell’indipendenza dell’individuo borghese nei confronti dello Stato: la formula secondo cui la stampa costituisce un nuovo grande potere appartiene al vocabolario dell’Ottocento. Correlativamente, si vedono sorgere grandi affaires in cui il giornalista trascina lo Stato alla sbarra della ragione e della virtù, e dunque, in ogni affaire, alla sbarra della verità e della giustizia. Assistiamo anche qui a un’offensiva sottile che prende una forma difensiva, e lo Stato liberale, che non è che un’apparenza, soccombe con tanta più certezza a questa offensiva in quanto essa si svolge al tribunale dei suoi principi fondamentali. Il quadro non sarebbe completo se non si vedesse simultaneamente la relazione che esiste tra la libertà di opinione e l’interesse. Si conoscono perfettamente i legami tra questo genere d’indipendenza e la corruzione. Che, spinta a conseguenze estreme, non disdegna sussidi estranei, intellettuali e finanziari.
(continua)

Si vince a Kabul solo con Mosca

Il neo presidente Obama ha forse ripreso il senso della realtà nei confronti della Russia. Se non altro per il motivo che chi ha interessi in Centro Asia ha solo una strada per avere successo, passare da Mosca. Lo sa l’Eni, che su questo si batte da anni con i soci americani, per poter sfruttare l’enorme giacimento di petrolio scoperto a Kashagan nel Kazakistan. I due gruppi americani, Exxon e Conoco-Phillips, sono stati a lungo gruppi bizzarramente ancorati a preclusioni ideologiche e ciechi alla geopolitica. Lo sa Israele, che si dovrà confrontare con la bomba iraniana, se Mosca non nega il grilletto. Lo sa da tempo l’amministrazione americana, con i suoi alleati che, sotto la bandiera dell’Onu, stanno combattendo nei loro fortini la guerra perduta in Afghanistan. Con la loro inettitudine travolgendo le forze vive dell’Afghanistan liberato dai talebani sanguinari. Tra essi l’Italia. Che però ha sempre detto, a differenza degli Stati Uniti e degli altri alleati europei, che la guerra non si poteva combattere senza un corridoio di rifornimenti russo.
Non ci sono solo le regole d’ingaggio “protettive” a impedire alle forze Onu il mantenimento della legalità in Afghanistan, tenendole chiuse nelle loro basi. Qualsiasi risposta ai talebani è pregiudicata dal fatto che i rifornimenti arrivano col contagocce. E anzi un calcolo è stato fatto che tra Peshawar, in Pakistan, e Kabul si perdono in pochi chilometri la metà dei rifornimenti. Si perdono, cioè, appropriati dai talebani e dai qaedisti. In questo soprattutto la presidenza Bush sarà stata colpevole, che avrebbe potuto chiudere le guerre in Iraq e in Afghanistan con un successo, e fugato quindi ogni critica, anche umanitaria - nulla è più giusto della vittoria: non avere voluto la collaborazione della Russia nella crociata, o difesa che sia, contro il terrorismo islamico.

martedì 27 gennaio 2009

L'Espresso: la crisi c'è, Murdoch (ancora) no

Il gruppo editoriale di Carlo De Benedetti va incontro a una ristrutturazione. In vista di una cessione, forse in compartecipazione. Si spiega così il forte rimbalzo del titolo in Borsa, a un riesame dell’annuncio di Carlo De Benedetti di lasciare le cariche, adducendo la questione di età in forma giovanile.
Lascia tutto, De Benedetti, ma in pratica solo il gruppo Espresso-Repubblica, dove la sua presenza era effettiva. Mantenendo i poteri di nomina dei direttori dei giornali, per garantire la continuità della linea politica, tenendola al riparo dei mutamenti previsti nella proprietà. Non ci sono compratori manifesti, o anche possibili, se non il solito Murdoch, e tuttavia degli approcci ci sarebbero stati da parte di Carlo De Benedetti in persona.
Esiste almeno un progetto per Murdoch nel gruppo editoriale e L’Espresso-Repubblica in Sky, al posto di Telecom. Ma non si sono registrati incontri o fatti sostanziali su questa strada. L’ipotesi invece che si fa con più credito è che il gruppo subisca uno scossone, in grado di coprire la crisi in corso e quella incombente, di copie e di pubblicità, con forti tagli dei costi. Scossone per il quale la divisione fra management e poteri di nomina si ritiene la migliore. È anche un fatto, inoltre, che i De Benedetti cercano soci o compratori per il gruppo editoriale. La redditività è a zero, e sarà negativa, e i figli di Carlo De Benedetti, che non hanno la passione politica del padre, sono ansiosi di capitalizzare adesso.
Su Murdoch però non ci sono novità, solo il fatto che sarebbe l’unico in grado di rilevare il gruppo L’Espresso. Resta inoltre da capire se un imprenditore televisivo, che è comunque un concessionario dello Stato, anche se per la tv criptata, possa possedere giornali. Dal lato De Benedetti invece ci sono più certezze. Viene esclusa l’ipotesi di uno scambio di partecipazioni, con L’Espresso in Sky, magari al posto di Telecom. I figli De Benedetti non hanno l’esperienza, e comunque non avrebbero le risorse, per imbarcarsi nella tv a pagamento, un settore ancora a forte investimento. E non intenderebbero rassegnarvisi a una partecipazione passiva, puramente finanziaria. Ma la cessione comunque si farà: l’editoria non è da un paio d’anni, e non sarà per qualche anno, un affare, con la pubblicità stagnante o in calo, con i rinnovi contrattuali in ritardo da sei anni, e nell’attesa di un riassetto del mercato che difenda i giornali dall’assalto della free press e dei nuovi media.

Strade piene di sogni, verso la guerra

C’è voglia di divagare, una nota insolita in Jünger. Che passa a Karlsruhe, quando inizia lo sfondamento della Francia, un mesetto allegro, come non succede mai nei suoi libri, con belle signore e ragazze facili. E pomeriggi lievi con la divorziata madame Cécile a Bourges, in conversazioni futili tra le rovine dell’occupazione. Per una “calma della salamandra” impensata anche per questo scrittore riflessivo, tra le consuete “cacce sottili” o “cacce al tesoro” di insetti, e le passeggiate, a piedi e a cavallo. È in certo senso “il libro”, ben esplicito, di un autore che si vorrebbe indecifrabile: è un letterato e un esteta, le sue cacce entomologiche comprese.
Jünger vi si rappresenta in un “diario”, genere che nella prefazione alla riedizione del 1979 troverà non a sorpresa dilagante, ma che già quarant’anni prima la catastrofe incombente predilige e quasi impone. Il diario lo accompagna nei quindici mesi in cui la guerra si prepara e la disfatta della Francia si realizza, eventi drammatici e tuttavia di sfondo, remoti. Anche materialmente: a Laon, dove trova “la raffinatezza nella gioia di vivere quale non si conosceva più da tempo in Germania”, tra le cattedrali, le cantine e gli archivi, trova anche le carte delle origini della Francia colpevolmente abbandonate. E questa è la traccia maggiore della guerra nel diario, insieme con le masse di sfollati e i villaggi abbandonati all’ora del pranzo, con le tavole apparecchiate. La guerra personale del capitano di fanteria Jünger si svolge nelle aree contigue al fronte, e in quelle “romane” del vino, la Mosella e la Champagne, e viene fermata in un ampio semicerchio che chiude Parigi a Est, a mezza giornata di marcia dalla capitale, tra Soissons e Bourges.
La traduzione di Alessandra Iadicicco rende la lettura dell’irto Jünger specialmente scorrevole, ed è il merito maggiore di questa edizione. Che completa il ciclo delle “Strahlungen”, irradiazioni, sei diari di guerra, per il resto già pubblicati da Longanesi una quarantina d’anni fa, e riediti da Guanda nel 1993, sempre nella vecchia traduzione di Henry Furst. Un completamento che avrebbe meritato miglior cura (un cenno sull’autore e sul libro, delle note ai nomi, il magister di Segesta, Friedrich-Georg, Spinelli, Paul Gerhardt, solo di kniébolo si spiega che era Hitler, e anche un itinerario sarebbe stato utile). “Giardini e strade”, che copre il periodo dal 3 aprile 1939 al 24 luglio 1940, si pubblica separatamente perché è stato concepito separatamente. Era già pubblicato nel 1941, e tradotto in francese nel 1942, mentre le altre cinque parti del diario sono state concepite successivamente, coprono l’occupazione a Parigi e la sconfitta, e sono state pubblicate nel 1948, dopo la riabilitazione dello scrittore.
Le altre parti hanno caratteristiche diverse, il genere “mosconi” che fa tanta letteratura di Parigi. Sono una galleria di personaggi, indiscrezioni, pettegolezzi, e di cenni sempre paradossali, per forza di cose non diaristici, ai fatti importanti – il paradosso è sempre pieno del senno di poi. “Giardini e strade” è diario più verosimile, anche per i tempi di pubblicazione. Jünger lo concepisce e lo realizza come presa di possesso di sé. Delle propria identità, di quello che è o vorrebbe essere, nel momento in cui la pace crolla apertamente, per una guerra incondizionata, quindi comunque devastante. È anche un diario del più puro caratteristico. Un Jünger d’annata, come spesso egli stesso dice in queste pagine delle cantine abbandonate dai francesi sfollati. In realtà un libro scritto con molta economia, non solo per la censura. Non a caso, forse, “Giardini e strade” le grandi catene librarie collocano nel comparto Filosofia, non si legge come una Sabine Meyer, di cui è meglio non sapere nulla. Il viaggio è soprattutto nel ricordo. Nella Grande guerra, che sarà stata l’esperienza di vita di Jünger. Con dispendio della Marna, talvolta a sproposito – il “ponte sulla Marna” di Chatillon, per esempio, che dovrebbe essere semmai sul Loing, o sul canale di Briare, incongruenza che la traduttrice risolve la traduzione a “il grande ponte” – anche se non c’è un grande ponte a Chatillon-Coligny.
È questo anche uno dei primi testi di cui la materia si vogliono i sogni, esumati e elaborati nel diario, o uno di quelli che più estesamente vi ricorre. In funzione non terapeutica ma profetica, nell’ambiguità generale della mobilitazione di Jünger nella Guerra Totale e Finale. I sogni sono parte importante dei “Diari” di Jünger. Della nonna paterna in particolare, con la quale ha fatto per anni “sogni strani”, raccontati nella raccolta "Nelle case dei morti”). I sogni si collegano a uno dei temi jüngeriani, il Regno delle Madri: la preminenza delle figure femminili (la madre, la nonna, la bisnonna) che lo inquieta: “Evoca l’antica Gaia, che non è sempre molto rassicurante”. Si sa: “Il campo delle madri si dispiega su un vasto orizzonte, dalle Erinni alla Santa vergine – e sempre si ritrova il serpente”. Ma sono la parte inerte del libro.
Qui bisogna intendersi sulla natura del sogno, il cui stimolo non supera la mattinata. Il sogno raccontato di Baudelaire. E quello analitico del surrealismo. Non il sogno premonitore o profetico dei santuari greci e della Bibbia. Sia i sogni che i racconti dei sogni non hanno proprietà affabulatoria. Non riescono, con tutta l’estro di Baudelaire e di Freud, a prendere vita - o a causa di Freud. La casuale rilettura in contemporanea di “L’insostenibile leggerezza” di Kundera, un altro falso diario in cui si fanno molti sogni, ne esaspera l’inconsistenza e l’irrilevanza, anche a fini evocativi, d’immaginazione. Inerte è lettura dei sogni imperante, peraltro, da una parte e dall’altra: da parte di chi i sogni li legge con Freud, e di chi, ancora, con Artemidoro, e la vaga scienza delle costellazioni e congiunzioni astrali come si sottintende in Jünger.
Qualcosa si può aggiungere al non detto di questa edizione. La prefazione all’edizione del 1979 accentua il tono anti-hitleriano di “Giardini e strade”: “All’epoca, mi dilettavo a comporre un certo genere d’immagini a doppio senso per far comprendere la situazione ad alcuni uomini – o a quelli che intendevano restare tali”. Tono che invece non c’è, e non ci poteva essere. Kniébolo per esempio non c’è nella prima edizione del 1941. Il libro non fu riedito in guerra, perché Jünger non volle omettere la citazione del salmo 73, “Perché i giusti soffrono” (di cui sta facendo spreco a motivo della crisi), e questo è più plausibile – anche se a fine 1942 si pubblicavano pochi libri, eccetto quelli per le truppe, la carta era già preziosa. E tuttavia la prefazione è importante per definire la posizione dei rivoluzionari conservatori alla Jünger nel nazismo e nella guerra.
Il mistero della Resistenza tedesca, che fu la più ampia e la meglio organizzata fra tutti gli antitotalitarismi in Europa, “è la poesia”, spiega Jünger nel 1979. Che può sembrare di parte, e anzi una mozione degli affetti, ma non lo è. Si può sorridere, ma poi la “natura artista” della Resistenza militare tedesca, di Speidel, di almeno uno degli Stulpnagel, è vera, è concreta. Ci voleva un Silla, aggiunge Jünger: “Senza un Silla qualsiasi attacco alla democrazia plebiscitaria avrebbe avuto necessariamente come conseguenza un rafforzamento dell’abiezione”. Dove inquietante è non tanto la pezza giustificativa, perché non abbiamo abbattuto Hitler, quanto l’accenno alla “democrazia plebiscitaria”, cioè al legame non più tanto segreto tra totalitarismo e democrazia. Questo Jünger sarà importante nella scoperta della Resistenza che la Germania viene compiendo, ora che non ha più paura di Stalin e i suoi epigoni. Il Silla di Jünger era peraltro Rommel, e allora è proprio vero, la Resistenza tedesca era del genere “artista” - il meglio che si può dire di Rommel è che era un farfallone. È una strana guerra, drôle de guerre, anche quella dei tedeschi alla Jünger. Che, sebbene nazionalisti e conservatori, la temono e la avversano. Ma, sebbene abbiano posizioni pubbliche e anche militari, la avversano in privato.
Jünger è stato denazificato dopo la sconfitta. Ma solo per essere amico di Carl Schmitt. Nella sua sterminata produzione non ha un rigo di antisemitismo, o di oltranzismo nazionalistico. A differenza, per dire, di Thomas Mann. Sarà l’autore sul quale ricostruire l’identità della Germania durante e dopo Hitler. Anche per la questione della pavidità, o prudenza che sia
Ernst Jünger, Giardini e strade, Guanda, pp. 210, € 18,50

Dell'inutilità delle esumazioni

Ottima cura di Francesco M. Cataluccio, con introduzione e note brevi e esaurienti, non ci sono in libreria molti testi così curati. Ma per una “singolare opera”, dice lo stesso Cataluccio, e irrimediabilmente datata, buona per i cultori della materia, il Novecento in Polonia. Anche se è piuttosto letteratura parigina scritta, in polacco, a Buenos Aires. Con gli umori acidi, a volta a volta, contro Parigi, Beethoven, la stessa Polonia, Borges. Con l’insistenza nota sul Dolore, che però è anche il dolore, si scopre negli appunti di questi anni, per il mancato premio internazionale degli Editori (peraltro ottenuto successivamente). Sull’annotazione “più intelligente, più stupido” il curatore dice che “si gioca il principale problema del nostro tempo, che domina tutto l’episteme occidentale”, e questo è tutto, qualsiasi cosa voglia dire. Un’esumazione certo indolore, e forse inutile.
La parte più interessante, “Diario Parigi-Berlino”, era stata già pubblicata, dallo stesso Cataluccio, con identica cura, nel 1985. Come peraltro il diario nel suo insieme, anche se privilegiando altri anni, dal 1953 al 1961, pubblicato in due parti nel 1970 e nel 1972 dallo stesso editore, per la cura di Riccardo Landau. La parte “Sur Dante”, estrapolata nel 1968 da l’Age de l’Homme, e subito tradotta, che all’epoca fece scandalo, sa oggi di adolescenziale. Ungaretti protestò, ricorda Cataluccio, con una veemente lettera a Dominique de Roux, che collazionava testi per uno dei volumoni dei Cahiers de l’Herne dedicato a Gombrowicz. E si esprimeva, possiamo aggiungere, in questi termini: “ll libro su Dante del polacco è pura cretineria. È assurdo aver pubblicato una cosa simile. Ho fatto a pezzi e ho gettato al diavolo questo scritto stupido, stupido come nessun altro”. Ma Gombrowicz non era stato da meno, per il quale la Commedia era “opera sempliciotta, scadente, noiosa, fiacca”. Tutto, certo, si può dire.
Lo slavista Marinelli fa l’ipotesi, nel saggio “Riaggiustamento o legittimazione? Canone “europeo” e letterature “minori””, che Gombrowicz, polacco in esilio, dunque doppiamente polacco secondo i suoi editori, in realtà sia antidantista per essere antinazionalista: “Gombrowicz scrittore, finissimo letterato e intellettuale di grandi idee e grandi passioni, è ben lontano da qualsivoglia sciovinismo e provincialismo, e infatti mette in opera un'inaudita strategia di demolizione anche e soprattutto nei confronti del canone “nazionale” e – tacciandolo di ”Omero di seconda categoria” e “scrittore secondario di prim'ordine” – proprio nei confronti di quell'Henryk Sienkiewicz che non a caso, anche in favore di una certa “polonità”, nel 1905 aveva avuto il premio Nobel per il romanzo Quo vadis?. La posizione anarchica e integralmente anticanonica di Gombrowicz nasce ovviamente da tutta la sua costruzione concettuale su quella che lo scrittore polacco chiama la “Forma””.
Ma, poi, il Dante di Gombrowicz è solo un’interrogazione, ginnasiale: “O, Divina Commedia, cosa sei dunque?Opera maldestra del piccolo Dante?Immensa opera del grande Dante?Opera mostruosa del perfido Dante?Recitazione retorica del bugiardo Dante?Vuoto rituale dell'epoca dantesca?Fuoco d'artificio? Fuoco vero?Irrealtà?O forse l'intreccio difficile e complesso tra la realtà e l'irrealtà?Spiegaci, o Pellegrino, come dobbiamo fare per giungere a te?” E si risponde con un’altra domanda, seppure non in forma interrogativa: “Nella nostra convivenza con i morti l'unico elemento anormale è che essa sia così normale. Diciamo: visse, morì, scrisse “La Divina Commedia”, e ora me la leggo io”. Le sfide all’epoca che Gombrowicz pone, poneva, sono piuttosto nell’umore: le cose che dice si applicano a se stesso. C’è da interrogarsi sull’utilità dei diari letterari. Ma non della funzione, proprio dell’utilità pratica.
Witold Gombrowicz, Diario (1959-1969), Feltrinelli, pp. 448, € 35