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sabato 29 ottobre 2011

La favola triste e felice della Storia

Piccolo naviglio sono le barchette di carta sul fiume del tempo. Un’immagine lieve per un secolo di storia italiana di grande felicità narrativa. Un racconto, anche, di racconti che lasciano il segno: gli scolopi bianchi, il parto unico delle gemelle, la grammatica francese, il piccolo naviglio del titolo, tra i tanti.
Tabucchi v’inaugura “il fenotipo” - come lui stesso dice nel preambolo a questa riedizione a lungo attesa (trentatré anni) del racconto - del “suo” personaggio: “Sconfitto ma non rassegnato, ostinato, tenace”. Il suo fondo gor’kijano, qui accentuato dal punto di vista infantile. Ma più conta la scrittura favolistica, fatata. Perfino secentesca, manierata (“ le mandibole della Storia”, il “porto affrancato dalle dogane di Euclide e dall’abbeccedario”, “la finestra assediata dalla notte”) nell’adesione al modello, ma svelta, sapientemente spontanea. Di un’umanità uniformemente dolente, i perdenti della storia, tra le disgrazie (persecuzioni, malattie, follie, mestrui, parti, morti sul lavoro, stupidità, avidità) e tuttavia vivace.
Tabucchi v’inaugura anche con grande fantasia la ripetizione e l’intercalare del genere filastrocca, che lo accompagneranno fino a “Sostiene Pereira”, prima dell’involuzione politica (antipolitica). Una voce del destino, che ne inquadra la classicità, il fluire della narrazione (immagini, persone, qui la storia politica) nel tempo uguale a se stesso. Il reale brilla a tratti, tremulo, come sarà in “Sostiene Pereira”, con l’incostanza-intromettenza del miraggio. I cui fili sempre trae una mano infantile, incerta, seppure in corpo adulto
Antonio Tabucchi, Il piccolo naviglio, Feltrinelli, pp. 206 € 15

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (106)

Giuseppe Leuzzi

Outing fascista di Andrea Camilleri – fino al 1943 naturalmente, come tanti, come tutti – nel ricordo-prefazione a “Il nome delle parole” di Guglielmo Petroni. Ma pieno di ammiccamenti, qui lo dico e qui lo nego, autorità, raccomandazioni, col piccolo name dropping di provincia. Il fascismo non è morto?
C’è parentela c’è tra il fascismo e il culto degli amici importanti che la Sicilia immortala?

Nel primo film di Checco Zalone, record d’incassi, “Cado dalle nuvole”, si balla il valzer con “Le rose del Sud” di Johann Strauss. Che è un pot-pourri dei motivetti più riusciti dell’operetta “Il fazzoletto di pizzo della regina”, di fattura ostica per il pur fertile compositore, non un particolare omaggio al Sud. Tuttavia se la prima edizione cartacea del valzer, nel 1880, appare anonima, con un fascio di rose e palme entro un fazzoletto di pizzo, la seconda ha le rose in copertina intrecciate lungo una veranda, e un vulcano sullo sfondo, che vorrebbe essere il Vesuvio. Con la dedica del musicista: “Nel più profondo rispetto a sua Maestà Umberto I, re d’Italia”. Come si conquista l’onore e il rispetto?

La troga di Rugarli, titolo del suo romanzo famoso, è calabrese – droga. Lo è anche l’allegro cinismo che libera quella storiaccia dell’Italia infame? L’allegro cinismo del Sud – di una parte del Sud - può essere la ricetta?
Rugarli, napoletano, naturalmente disprezza i calabresi. Ma – non lo sa? – ne ha mediato la strafottenza.

Il controllo del territorio
La giustizia è al primo capitolo di “Old Calabria”, il classico di Norman Douglas, “Musolino e la Legge”: “Il metodo è inteso a creare più che a reprimere il crimine”.
Si tratta del domicilio coatto. “È una di quelle cose che sarebbero incredibili, se non fossero effettivamente esistenti”, nota il viaggiatore a piedi futuro scrittore: “È una scuola, una scuola voluta dallo Stato, per la promozione della criminalità”.
Lo storico Schiavone dieci anni fa sintetizzava la giustizia al Sud come “la labilità del controllo più elementare del territorio”. Si può dargli ragione, sulla base dell’esperienza.
Il controllo del territorio è ostracizzare la popolazione, ma più quella da cui si è certi di non avere nulla da temere – quella che altrove viene chiamata società civile. In pratica, significa essere fermati spesso, quando si viaggia, dai CC per i documenti. Essere fermati dai CC significa un’accurata trascrizione dei dati, anche se ogni giorno sono gli stessi, e una multa quasi sicura, almeno un rimprovero. Se richiesti bonariamente perché, adducono gravemente “il controllo del territorio, è necessario”. Ma forse che ci sono meno patenti false, dopo questi controlli, o ragazzi alla guida senza patente? O si fanno più assicurazioni obbligatorie? Mentre basterebbe un programmino semplice, il software non è difficile da concepire e sicuramente esiste, per confrontare le targhe in circolazione con l’assicurazione Rca.
Ai ragazzi senza patente infliggono multe di tremila euro. Tremila. Roba da parlamentari megalomani, ladri incontinenti che non sanno il valore dei soldi. Il carabiniere, che guadagna mille e cinquecento euro al mese, se il li guadagna, dovrebbe sapere che per tremila euro conviene fare causa in tutti gli ordini e gradi, fino alla prescrizione, un avvocato costa tre-quattrocento euro. Una multa di trecento euro sarebbe più dissuasiva, anche di trenta, ma il Carabiniere si vuole terribilista: “Noi e loro”, la società gli è nemica, al Sud - solo al Sud s’illude il Carabiniere in questa sua mefistofelica istruzione.

Il Toro vuole un’altra storia
Il Toro, che al Sud sopravive nella toponomastica, in Calabria (Taureana, Metauria, Gioia Tauro, Taurianova, Turii…), in Sicilia e nel Salento, è di Creta. Ma si può vedere in molteplici riproduzioni anche in Spagna (Altamira) e nel Sud della Francia, dovunque i fenici sono stati prima dei greci. E nella corrida naturalmente, lo spettacolo della vita e la morte, la luce e l’ombra, il fazzoletto bianco e il sangue.
Il toro con le corna è simbolo di potenza, anche i santi e i profeti se ne adornano. La Svizzera nasce da questo punto di vista sacra: il capo degli Elvetici aveva nome tropaico, domotaurus, toro potente. Un filone del culto della Dea Madre s’intitola ad Artemide Tauropolos, la cretese Madonna del Toro. La Vergine associata al Toro è reminiscenza micenea, di origine minoico-cretese - la Vergine associata al Toro è reminiscenza micenea, di origine minoico-cretese: anche la Grande Madre Giunone era cretese. Una storia più antica della colonizzazione greca e della Magna Grecia, (quasi) tutta ancora da esplorare.
La simbologia del Toro l’Evola orientalista riporta al “Veda”: le quattro gambe o sostegni del Toro, le quattro età dell’uomo. Comune anche ai greci (Esiodo), all’Iran, al caldaismo, e all’ebraismo. Ma specialmente il Toro è il simbolo del dio fenicio Baal. Quando si riscriverà la storia greca, come già mezzo secolo fa richiedeva Arnaldo Momigliano, ci saranno sorprese – i Fenici non sono i soli che sono stati cancellati dalla storia europea: i Fenici potrebbero ben essere anche Micenei, o questi apparentati a quelli, magari per il trasporto via mare.
La Magna Grecia del resto viene prima della colonizzazione. Era nota e frequentata dai greci prima delle prime colonizzazioni, attorno al 700 a.C., a Siracusa, Napoli, Crotone, Taranto, Locri, storicamente databili e poi stabili. A opera dei micenei, mercanti, avventurieri, pirati, di cui molto resta ancora da sapere, ma quello che si sa, attesta l’archeologo britannico Rodney Castleden nel classico “I Micenei”, li connota di grande intraprendenza lungo l’asse centrale dell’Europa continentale, e di assimilazione pronta di tutte le culture con cui vennero a contatto, egizia, ittita, fenicia, siriaca, assira, babilonese, in particolare di quella minoico-cretese, dopo che ebbero invaso l’isola, nonché Cipro e Rodi, nella Tarda Età del Bronzo, attorno al 1.500 a.C. Numerosi resti documentano la loro presenza in quella che sarà la Magna Grecia: la diffusione della simbologia del Toro, la toponomastica, le mura ciclopiche, le tombe a pozzo e a piramide. In Calabria i recenti reperti archeologici di Trebisacce, Altomonte e San Demetrio Corone. Così pure in Sicilia (Taormina e altre numerose località) e nel Salento, la vecchia Calabria.
Nel Salento, a Roca Vecchia sotto il famoso san Foca, il martire giardiniere patrono dei marinai, si vede che i micenei erano in Italia settecento anni prima della prima colonia della storia greca, avendovi lasciato mura spesse di metri, e le loro imitazioni povere delle piramidi – a Otranto, la vecchia Idrusa, il signor De Donno ne ha alcune nel suo campo di Torre Pinta, dove fa trattoria.

Milano
Nel “rapporto” contro la Svizzera del 1985, il giallo “Giustizia”, Friedrich Dürrenmatt rivendica al suo paese l’antipolitica: “Abbiamo spoliticizzato la politica, in questo siamo pionieri” (“non ci aspettiamo più niente dalla politica, né miracolo né redenzione, al più qualche minuto miglioramento della rete stradale”). È da questa Lombardia d’oltreconfine che Milano ha mediato la semplice trovata per assoggettarsi l’Italia? E dal potere che dà la ricchezza.

È della Lombardia il record dei dipendenti pubblici: 415 mila a fine 2009, in aumento. Il Lazio, con Roma, arriva al secondo posto: 398 mila, sempre a fine 2009, in calo da qualche anno di 12-15 mila unità l’anno, tra pensionamenti e blocco del ricambio. La Lombardia conta 9,5 milioni di abitanti, contro i 5,5 del Lazio, ma non ha i ministeri. Che però vorrebbe.
Roma ha naturalmente il più alto numero di dipendenti comunali, 25 mila. Ma perché è la città più grande: con 2,7 milioni di abitanti è più del doppio di Milano, 1,3 milioni. In rapporto al numero degli abitanti è Milano che ha il più alto numero di impiegati, 1 ogni 77 contro 1 ogni 108 – superata peraltro da Torino (1\3), e dalle capitali del virtuismo ex comunista, Firenze (1\70) e Bologna (1\69), mentre Napoli e Palermo si classificano alla pari, un po’ meglio di Torino la prima, un po’ peggio di Bologna la seconda (Bologna, Firenze e Torino battono ogni record in fatto di dirigenti comunali, il doppio che a Roma).

Milano ha inventato i giornali femminili e ne è specialista, incontestata. È anche una città che si vuole dell’innovazione o del progresso. Anche se altre città avrebbero più titoli, Torino per la parte industriale e tecnica, Napoli e Palermo per quella leguleistica (burocratica), Firenze con l’usura per quella finanziaria. Ma la pretesa è oggi più che fondata, poiché non c’è altra Italia se non Milano. Se non per questo: il conformismo è parte della modernità? A Milano non si può scartare, le donne soprattutto, dagli obblighi del momento. Il sushi, per esempio, era d’obbligo l’altra estate, quest’estate era troppo freddo, poco fresco, dappertutto uguale. Anche la vacanza ai Caraibi – d’estate poi…

È d’obbligo nei settimanale femminili l’“integrazione” delle ragazze mussulmane. Tutte uniformemente mussulmane, che vengano dal Marocco oppure dall’Eritrea. E tutte interpellate per una sola questione, il velo. Quale che ne sia la foggia.
Il secondo tema d’obbligo dell’articolo d’obbligo sulle ragazze mussulmane integrate è come mai si dichiarino italiane e anzi piangano quando devono lasciare l’Italia, “questo nostro disastrato Paese”. A Milano dev’essere tutto uniforme? Come non c’è differenza tra il Marocco e il Bangladesh, così non c’è differenza tra l’Italia e la Tunisia. Come no. Si può avere una cultura fatta d’ignoranza? Si può.

Giampaolo Pansa, “Il revisionista”, p. 215, avendo lavorato a Milano tra il 1969 e il 1972, ricorda che “tirava un’aria pessima”. E spiega: “Un’aria che puzzava di faziosità spiritata, di furibondo partito preso, di certezze proclamate con il sangue agli occhi, di dubbi rifiutati con disprezzo”. Pansa la attribuisce alla colpevolezza che si era creata a carico del commissario Calabresi. Ma non è la prima volta che “l’aria è pessima” a Milano, si può anzi dire una specialità della città.

leuzzi@antiit.eu

venerdì 28 ottobre 2011

Torino contro l’“Italia” di Milano

Andrea Agnelli nel suo piccolo con la Juventus, Sergio Marchionne con autorità e sostanza, Torino si ribella al modello “Italia” cui s’era acconciata nei quarant’anni di compromessi e favori dell’Avvocato. L’ad di Fiat ha sfidato ripetutamente la Cgil, poi la Marcegaglia, ora la Consob. Lasciando il segno: i tre organismi, non c’è difesa possibile, al meglio sono burocrazie, ma si sa che si muovono per interessi corporativi, politici, di sottogoverno. L’“Italia” che “Torino” torna a incalzare è quella dei compromessi, i favori, i rinvii, della pace sociale intesa come pilatismo.
Gli obiettivi scelti da Marchionne sono facili. Della Marcegaglia, anche senza la sfida di Marchionne, non si sa che pensare di peggio, dopo l’agitazione scomposta di questi mesi al solo fine di ottenere una candidatura, forse, tra due anni, e con chi, con Casini. Della Cgil nessuno dubita, tra gli stessi iscritti, che è prigioniera di schemi passatisti e insostenibili – e in questa funzione è divenuta minoritaria, lo sarebbe a una vera conta delle iscrizioni come lo è nei referendum aziendali. La Consob è purtroppo una delle tante Autorità inutili e costose: non ha mai prevenuto un malaffare, né l’ha mai perseguito.
I primi scontri li vince Marchionne. Forte dei match già vinti tra i pesi massimi dell’auto mondiale, in un arengo vero, di interessi forti e in aperta contrapposizione, e non subdolo, di interessi mascherati e non confessabili. Ma la partita non pare facile. L’establishment milanese, politico, finanziario, mediatico, giudiziario, è strapotente. Mentre i padroni veri si agitano incerti, gli eredi Agnelli del capitalismo familiare. Se l’amministratore delegato può procedere come un bulldozer, ogni colpo a effetto, è segno che i buoni argomenti non sono cancellati da questa “Italia” dominante. Ma è l’unico segno, e non si sa quanto opportunistico – i giornali milanesi, il “Sole”, il “Corriere della sera”, a suo modo anche “Repubblica”, gliene danno atto tra evidenti riserve.
L’antipolitica resta feroce, al coperto della questione morale (la pace sociale), che si professa come religione laica: due sponde insidiose per la verità. Forti dell’invadente pubblicità radiotelevisiva, del Raiume e di Sky, i pilastri del potere, che di ogni protesta sindacale, sia pure ridotta ai funzionari con poche bandiere, fanno un’apocalissi.

La droga è il cinismo

Romanzata fulminante delle cancrene d’Italia. Forse è l’unica maniera a questo punto per poterne ancora parlare: eccedere nell’eccesso. E asepsi: niente pietà, niente ira, niente sarcasmo. È in questo modo che la famosa realtà-più-romanzesca-del-romanzo rende narrativamente – “l’innocenza è proibita, attira il castigo”.
È un libro allegro. Il cinismo rende liberi?
Giampaolo Rugarli, La troga

giovedì 27 ottobre 2011

Secondi pensieri - (79)

zeulig

Amore - È illusorio. È per questo duro: : indurre l’illusione è la violenza più cattiva, fredda. È questo il versante odioso dell’amore, non l’ha inventato Freud – è come il rovescio d’un tessuto, dice Lou Salomé.
La violenza è reale nell’egoismo totale del partner malato, e più nell’ipocondriaco, che non ne oblitera la bellezza e anzi la esalta, sebbene mostruosa, volutamente cattiva, con costanza, nell’amore.

“È certo che al mondo nulla è necessario agli uomini quanto l’amore” era, ed è sempre, il Werther di Goethe. Non è vero. Ma è vero che l’amore è sacrificale. In fondo amare è volere l’amore, sia esso distruttivo: un’autoproiezione e una forma di autosoddisfazione.

Non incontrarsi, non riconoscersi, è questa la dannazione, e la vera morte. In una persona, in una causa, in una memoria. L’amore si definisce anch’esso per il suo inverso, la sua mancanza.

Angeli - Sono la prima difesa apotropaica, della casa e la persona. E sono onniveggenti, possono vedere da tutte le parti senza bisogno di voltarsi.
L’angelo custode è la videosorveglianza totale, senza rischi-possibilità di black-out – da qui la pesantezza della coscienza, sovraccaricata?

Angoscia – Nell’abbondanza, di merci e di senso, va di pari passo col desiderio – nella teoria dei bisogni. Sicché l’ansia viene dal possesso di due automobili. O dalla residenza nel principato oltreconfine, o alle Caymane. In questo senso l’io è morto, se prima esisteva.

Eccellenza - Ágona è la linea dei punti della superficie terrestre nei quali la declinazione magnetica è nulla. Non dev’essere rettilinea, ma intersecare col meridiano magnetico il meridiano geografico. La concentrazione di eccellenze nei due-tre secoli greci si deve allo spirito agonale: è il confronto costante che le affina. È l’Ur-Phänomenon di Goethe, qualcosa che s’incontra, del mondo reale, quindi, o delle apparenze, in cui la parola e la cosa coincidono.

Globalizzazione – Si può intenderla come il nuovo umanesimo. È una dimensione dello spirito, oltre che della storia (economia, politica). Che raggiunge, al fondo, l’umanesimo. La rilettura del senso e della storia alla luce dell’autonomia politica che l’Italia raggiungeva nei confronti del papato e dell’impero – dell’idea di unità. Grazie alla libertà, o autonomia di iniziativa, fino all’avventura. La parola è caricata del senso opposto, mentre ne è invece l’esatta riproduzione, cinque secoli dopo, su scala mondiale e non più europea. Globalizzazione è infatti libero scambio, ma come rete aperta e non monopolistica. Di merci e di senso – di cultura.

Grazia - L’uomo senza grazia è irresponsabile: lo dice Sade, ma già Lutero.

Libertà – È nella cecità, se non nel mutismo, che si acquistava in antico la parresia, la libertà di dire ciò che si vuole. L’uomo di vetro di Cervantes ottenne di parlare grazie alla sua follia, poté parlare pochissimo da savio.
Lo straniero di Camus risponde alle domande, invece di aggredire la vita. Questo è a sua volta insensato, perché, non essendo Socrate, che risposte può dare? In questo caso si vincola, si direbbe, a una sorta di mutismo.

Psicanalisi – Un monumento vasto, imponente anche, ma conglomerato, di pezzi e pecette messi insieme da Freud, con la nota determinazione. Il suo pilastro, l’“Edipo” o assassinio del padre, è fantasioso. E le sue derivazioni si sbriciolano a ogni colpo, anche maldestro. La sua forza è la capacità di suggestione: è quindi antiscientifica, oltre che poco attinente alla verità – un “mito dei miti”, come disse Wittgenstein nella conversazione che fa da appendice alle “Lezioni”.

Resurrezione – Era la “teologia” essenziale di papa Giovanni Paolo II, ed è la chiave del perdurante “successo” del cristianesimo. Il cristianesimo è una religione della resurrezione, e per questo della realtà – fra tutte a essa la più vicina. Si muore nella vita più volte, una delle quali non si rinasce.

Ricerca - Secondo Galileo chi cerca deve far lavorare la fantasia.

Secolarizzazione – Freud, prima di fare della religione la causa delle nevrosi, nel “Disagio della civiltà” del 1929 dopo “L’avvenire di un’illusione” del 1927, e specialmente della religione monoteista, e dell’ebraismo più che del cristianesimo, aveva legato nel 1909, in “Morale sessuale e le malattie nervose moderne”, l’avvento della nevrosi all’indebolimento della religione. È vera – può essere vera - l’una e l’altra ipotesi, non c’è rapporto causativo. Oggi, in epoca di secolarizzazione, è vero la seconda, cioè la prima.
In assenza della religione, il senso della crisi oggi opprimente sarebbe una depressione che si curasse moltiplicando il contagio.

“Ogni bellezza eccita alla generazione”, direbbe Nietzsche, e dunque, nella demografia sterile, latita la bellezza. Cioè il dio che lui vuole morto.

Segreto - Ogni cosa certo ha un segreto. I nomi stessi, le parole dette sono segreti che ognuno dà all’altro. A volte non nascondono nulla.

zeulig@antiit.eu

La nostalgia del padre nella morte di Kafka

Straziante longing per il padre. Per l’infanzia, legata ai ricordi paterni, le prime uscite si fanno col padre: lo Heurige, la birra, la scuola di nuoto, la salsiccia portata da casa perché costa meno.
Kafka riscopre il padre, come tutti, ai quarant’anni. Ma anche nel momento in cui esce dalla famiglia. Con una determinazione inflessibile a fare da solo, seppure nelle difficoltà insuperabili, la malattia, il freddo, il carovita, la fame. Dopo una vita passata non nell’indecisione (la decisione di fare famiglia a sé con Felice, forse con Milena, era fatta) ma nell’indolenza – Canetti ha sfiorato questo aspetto. Cioè nel confortevole tran-tran familiare, di cui ci si può pure lamentare.
Straziante infine la decisione di liberarsi (staccarsi dalla famiglia, farsene una propria) quando tutti sanno, e lui probabilmente pure, che gli rimane solo qualche settimana di vita.
Franz Kafka, Le ultime lettere ai genitori

mercoledì 26 ottobre 2011

La filosofia della giustizia è un giallo

“Che verità nasconde la verità?” è l’assunto filosofico che muove Dürrenmatt in tarda età. Un assassino viene assolto in appello: testimonianze confuse, non si è cercata l’arma del delitto, movente inesistente. Il solito caso di mala giustizia, a favore di un uomo ricco e potente. Che è però anche un caso di giustizia vera: l’assassino è un vendicatore di torti gravissimi.
Non una grande trama, anche se Dürrenmatt ci ha messo trent’anni ad articolarla. E si vede. Ma, in mancanza del plot, articola la filosofia della giustizia per una lettura senza respiro. E ha una galleria di eventi e personaggi insospettati, comprese la geografia umana e una storia della Svizzera – Dürrenmatt era indignato già nel 1985, quando ha scritto “Giustizia” per l’ultima volta.
Per liquidare il progetto trentennale, in quest’ultima ripresa Dürrenmatt utilizza un Post-scriptum, nel quale mette in scena una bella signora che lo scambia per Max Frisch. Seguita dal ritratto di Inge Feltrinelli, “la moglie tedesca di un editore italiano” – quello che poi l’ha lasciato a lungo lamentevolmente non tradotto, preferendogli Frisch (“Giustizia” uscì in italiano vent’anni dopo la pubblicazione, nel 2005, da Marcos y Marcos, l’edizione ora ripresa da Adelphi). Una piccola vendetta nella giustizia vendicatrice.
Friedrich Dürrenmatt, Giustizia, Adelphi, pp. 211 € 18

Ombre - 106

“La lettera del governo italiano non è pervenuta a Bruxelles”, informano concordi corrispondenti e inviati (ma sono tutte donne) dei telegiornali. Pensano che una “lettera d’intenti” sia una lettera. Che viaggia magari con la posta prioritaria. Poi, quando arriva, un funzionario la apre e dice: “Bene”. Oppure: “Male”.

Dieci giorni dopo l’uccisione di Gheddafi, l’inviato del Tg 1 si fa mostrare, in strada, da alcuni smandrappati, la “pistola d’oro” che Gheddafi brandiva, e ce la mostra: “Ecco la pistola d’oro”.
Le pistole d’oro non si trovano solo tra gli oziosi in Libia, le vendono anche a Porta Portese, come giocattolo. C’era bisogno di andare fino in Libia? E magari pagare le comparse?

La prima cosa che fa Jibril, il liberatore della Libia, è di reintrodurvi la poligamia, dopo esattamente un secolo. L’uomo di Sarkozy e Cameron, e di Bengasi. Frattini si affretti a mandargli molte levatrici.

I servizi segreti francesi pubblicano su “Paris Match” lettere amorose di Gheddafi a Berlusconi. Che il “Corriere della sera” e “Repubblica” trascrivono pari pari, senza nemmeno chiedersi come né perché. E perché no le lettere di Gheddafi a Sarkozy, che lo ricevette con ancora più pompa?
Un tempo la Francia pagava giornali e giornalisti italiani – il più famoso è Mussolini, che per questo nel 1914 lasciò il socialismo. E ora? Il “Corriere della sera” ha una proprietà mezzo francese, ma “Repubblica”?

La rivolta e l’assassinio di Gheddafi era stato inscenato, dunque, nel 1987, per l’estate del 2011, in una seria tv, Second chance”, del genere comico. Quando si dice le coincidenze.

Dopo la vera Sme, dopo la Rcs, dopo la vera Telecom, la Milano-Serravalle: le omissioni della Procura di Milano sono numerose – i citati sono i casi più scandalosi, per l’ammontare della corruzione. Ma non colpevoli evidentemente: l’azione penale a Milano non dev’essere obbligatoria.
Uno legge Mario Gerevini,
http://archiviostorico.corriere.it/2011/ottobre/24/Serravalle_ore_calde_dell_affaire_ce_0_111024022.shtml
benché confinato dal “Corriere della sera” al supplemento “CorrierEconomia”, che non molti ritirano dal giornalaio e pochi leggono, e resta incredulo: tanta “impunità” è possibile?

Fini e Fazio: sorrisi melensi in una trasmissione melensa. Senza idee, senza fiato. Forse senza colpa: un’ora e mezza di “satira” di Berlusconi la sera del sabato, e altrettanto la domenica, sono difficili da sceneggiare. Che però fa strage di pubblico: cinque milioni ogni sera, più di tutti. È la società civile?
“Un signore l’ha spintonato”: occhiello sibillino sul “Corriere della sera” per Andrea Garibaldi che fa una cronaca trepida del sit-in un po’ triste della Fiom a piazza del Popolo a Roma. Il titolone è più in linea: “Vendola aggredito al sit-in Fiom”. Ma aggredito da “un signore”? Proprio così: il cronista spiega che è “un signore”, poiché ha la barba bianca. Anche se invettiva Vendola in romanesco: “’A Vendola”, etc, “pezzo di merda!”
Garibaldi, vecchia scuola, vuole dire che è un “infiltrato”: il “signore” infatti spintona Vendola perché ha criticato i black bloc. L’indignazione fa brutti scherzi.

Napolitano fa sapere che Angela Merkel gli ha telefonato preoccupata – si suppone di Berlusconi. E che la telefonata è durata mezz’ora. Perché, fa dire, “è sempre difficile spiegare la differenza fra un decreto legge e un disegno di legge”. Ad Angela Merkel? Ai giornalisti accreditati?

Merkel si telefona invece spesso con Berlusconi. Col quale fa parte dello stesso partito Popolare europeo. Non avrà chiamato Napolitano per ricoprirsi della scenetta alla Stanlio e Ollio con Sarkozy al vertice Ue di Bruxelles, davanti ai giornalisti? In cui mimavano Berlusconi per precipitare l’Italia nella crisi?
Merkel è abile - anche nella parte alla Ollio lo è stata. Napolitano, a quel che dice, un po’ meno: la Germania beneficia molto della crisi in cui ha precipitato l’Italia, con la Deutsche Bank e i consiglieri autorevoli della cancelliera, Weber, Stark e Weidmann, a giorni alterni.

Livia Manera vede alla tv a Parigi, dove vive, nella trasmissione culturale “Avant-Prémières” una puntata “La Droite qui pense”, scandalizzata. Ma non è tutto. In questa destra che pensa le tocca ascoltare Alain Finkielkraut che ghigna del docufilm su Philip Roth da lei stessa realizzato.
Per lamentarsene, del programma e di Finkielkraut, si merita una pagina del “Corriere della sera”. In cui indispettita fa un’analisi, naturalmente approfondita, della cultura francese, gli intellettuali, la tv. Salvando solo alcune americane in Francia. Arranca però, malgrado lo sdegno, dovendo dire a ogni capoverso che l’Italia è peggio. Sennò che ci sta a fare una come lei a Parigi? La cultura.

Il giudice Guariniello questa volta ha avuto un’intuizione: e se l’acciaio adoperato dalla Juventus per farsi lo stadio non fosse buono? Ha aperto perciò un’inchiesta, al suo solito a larghissimo spettro, mobilitando le forze dell’ordine in perquisizioni e annunci ai giornali. Ha anche fatto scuola: ha agganciato alla sua intuizione altri due giudici. Tre giudici solo per leggere i rapporti delle polizie giudiziarie – per saggiare gli acciai ci saranno i consulenti esperti. Poi si dice che le Procure delle Repubbliche hanno organici insufficienti, non hanno soldi per le consulenze, si devono pagare la carta igienica – Guariniello la farà a casa?

Il giovane, serio, dinamico Agnelli liquida Del Piero: “È l’ultimo anno che gioca nella Juventus”. Mentre lo paga, profumatamente, all’inizio dell’anno.
È un Agnelli, e si può capire. Non si sono distinti molto negli ultimi decenni, si vede dalla Fiat. Ma un coro di sicofanti si affanna a elogiarlo: Del Piero è “troppo” vecchio. A 36 anni. Mentre Totti a 35 è la bandiera della Roma, e Nesta del Milan, senza saltare una partita. O Javier Zanetti a 38 anni dell’Inter, dove corre per novanta minuti, non salta neppure lui una partita, e alla fine della corsa fa il dribbling imprendibile.



I dimostranti? All’ospedale

Cosa fare con i violenti in piazza è tema durevole dei 65 anni di Repubblica, con oltre 400 morti. Così diceva tra anni fa l’ex presidente della Repubblica Cossiga a Andrea Cangini, che l’intervistava per “Il Giorno\La Nazione\Resto del Carlino” di giovedì 23 ottobre 2008, di fronte ai propositi di fermezza del governo contro i violenti in piazza:
“Poiché l`Italia è uno Stato debole, e all’opposizione non c`è il granitico Pci ma l’evanescente Pd, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà una figuraccia”.
Quali fatti dovrebbero seguire? “Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand`ero ministro dell`Interno”. Ossia? “In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito...”. Gli universitari, invece? “Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città”. Dopo di che? “Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri”. Nel senso che... “Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano”. Anche i docenti? “Soprattutto i docenti”.
Presidente, il suo è un paradosso, no? “Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!”. E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? “«In Italia torna il fascismo», direbbero.
Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l`incendio”.
Cossiga così concludeva. “La cosiddetta linea della fermezza applicata da Andreotti, da Zaccagnini e da me, era stato Berlinguer a volerla...”

martedì 25 ottobre 2011

Problemi di base - 78

spock

Abbiamo liberato gli uomini in Libia, con la poligamia, con sette mesi di bombe, e le donne?

L’amore si dice cannibale, ma almeno le ossa le lascia al cane?

Perché i bambini, che sempre nascono felici, in un’unione di certo felice, anche quella di fatto o occasionale, non hanno poi il diritto a esserlo?

Dice Aristotele nella “Metafisica”, A, 980a: “Tutti gli uomini per natura tendono al sapere”. Chi l’ha detto?

Freud parricida nega a Shakespeare la paternità delle opere di Shakespeare. E a Freud?

Si può avere una cultura fatta d’ignoranza? (Sì)

La Germania vuole far fallire l’Italia: d’accordo con Bossi?

È Bersani o è Crozza? O è Bersani che fa Crozza?

Se la liberazione è la poligamia, la barbarie che sarà?

spock@antiit.eu

Letture - 74

letterautore

Dante – Grandissimo intellettuale, storico, filosofo, teologo, semiologo, scienziato politico, linguista, codificatore della letteratura, nonché uomo politico e padre di famiglia. Nel non detto di Dante è il su fascino, nella sua composita biografia, che non si scrive – in Italia perché non ce n’è il gusto, ma neanche gli inglesi, che sono maestri del genere, ci riescono, siamo sempre alla “Vita di Dante” del Boccaccio, che è in realtà un “Trattatello in laude di Dante”.

C’è anche un Dante decostruito, e uno afro-americano - altrove, fuori d’Italia, Dante è la modernità. Il Dante derrideano, post.strutturalista, è di vent’anni fa, “Dante and Difference” di Jeremy Tambling. L’afroamericano è nel recente “Freedom readers” di Dennis Looney, o “The African American Reception of Dante Alighieri”. In particolare Looney lo segue nei romanzi “Uomo invisibile” di Ralph Waldo Ellison, 1953, nel quale Dante aiuta l’integrazione culturale, e quindi sociale, dell’“uomo invisibile”, il narratore di colore. E in “The System of Dante’s Hell” (Il sistema dell’Inferno di Dante) di LeRoi Jones, nel quale invece Dante e il suo itinerario di liberazione propiziano il rifiuto della società bianca.

È il classico più tradotto. Di tre nuove traduzioni in inglese è stata avviata la pubblicazione negli ultimi dodici mesi, due negli Usa e una a Londra. Mentre l’ultima traduzione in francese, di Jacqueline Risset, va in edizione economica. Sempre per la storia della modernità.

Freud - È scrittore. Il “mito scientifico” di “Totem e tabù”, l’uccisione del padre, servito a banchetto dei figli cannibali, e la conseguente difficile digestione, fanno un racconto horror, o di avventura, eccessivo, fuori da ogni cardine – e un mito decomposto, soffocato dai particolari “piccolo borghesi”, Ottocento. E tuttavia il racconto regge.

Antisemita per aspetti da cui il suo ebraismo non lo salva. Lo si è detto per la sua abiura professa, ribadita, all’ebraismo. E per la storia del Mosè egiziano. Ma più lo è per l’uccisione del padre, fondamento del suo costitutivo “Edipo”: Freud fa suo il deicidio che a lungo fu della Chiesa, anche se in chiave di bene e non di male assoluto. Accreditando in “Totem e tabù” al cristianesimo la “scoperta” dell’assassinio del Padre nella crocefissione del Figlio – dopo aver sentito il bisogno, del tutto incongruo, di abiurare, nella prefazione allo stesso saggio, all’ebraismo in tutti i suoi aspetti. L’antisemitismo è centrale al suo “Edipo”, all’assassinio del padre – un antisemita troverebbe molta materia nell’“Edipo” di Freud.
Anche Mosé e il monoteismo egiziani non sono esenti da motivi di antisemitismo. Con Hitler al potere e in piena attività Freud vi denuncia “un tratto del carattere che, negli ebrei, predomina nei rapporti col prossimo: è certo che essi hanno di se stessi un’opinione particolarmente favorevole, che si trovano più nobili, più colti degli altri”.

Incompiutezza – Michel Onfray fa di Sartre, in un breve paragrafo che è un saggio, nella “Conclusione” del pamphlet anti-Freud, “Il crepuscolo di un idolo”, uno specialista dell’inachèvement, l’incompiutezza. Per una sorta di psicanalisi non freudiana, o antifreudiana, da Sartre teorizzata in “L’essere e il niente”, al § 1 del cap. 2 della parte IV, “La psicanalisi esistenziale”. E messa in opere nelle 1.500 pagine “aperte” su Baudelaire, Genet, Flaubert. Una “rivoluzione nella psicanalisi” secondo Onfray, anche se resta tutta da dispiegarsi: “Una psicanalisi senza l’incosciente freudiano, che conserva alla coscienza, il per-sé nel gergo sartriano, un ruolo architettonico nella costruzione di sé”. Una “incompletezza” (incertezza) creatrice dunque, mentre la scienza, sia pure da Freud degradata secondo Onfray, si vuole distruttrice.

Psicanalisi – “La psicanalisi esistenziale” di Sartre (“L’essere e il niente”, parte IV, cap. 2 § 1), prescinde da Freud, se non per dire all’ultimo “questa psicanalisi non ha ancora trovato il suo Freud”. Fa ampio ricorso, per due terzi dell’esposizione, a Flaubert, e al suo commentatore Paul Bourget, lo scrittore nazionalista reazionario che aveva debuttato negli anni 1883-85 con una serie di “Essais de psychologie contemporaine” sui letterati dell’Ottocento, tra essi Flaubert, sulla base della teoria di Taine che la letteratura è “psicologia vivente” (è via Bourget che l’interesse assorbente di Sartre per Flaubert si è focalizzato?). Fa uso del concetto di libido ma in termini riduttivi: “La libido o la volontà di potenza costituiscono un residuo sociobiologico”. Opponendola anzi alla sua psicanalisi: “La psicanalisi esistenziale non deve risalire dal «complesso» fondamentale”, che è “la scelta di essere”, il per–sé, “fino a un’astrazione come la libido che la spiegherebbe”. Il “complesso” è “scelta ultima, è scelta di essere e si fa tale… irriducibile”. Al contrario, “la libido e la volontà di potenza non appariranno alla psicanalisi esistenziale né come caratteri generali, e comuni a tutti gli uomini, né come irriducibili”.
Sartre che pure scrisse per John Houston due trattamentoni di un film su Freud, oltre cinquecento pagine, poi non realizzato. Su richiesta del regista, è vero.

Risentimento – Capita di leggere d’infilata una serie di libri in dissidio con l’esistente, Pansa, Tabucchi, Onfray. Polemici più che critici. A volte con ragione, con ragioni argomentate, ma tutti risentiti, per una delusione subita, anche se non si dice rispetto a quali premesse o promesse. Una costante non imputabile a una scelta casuale, o personale, sono risentiti ultimamente anche gli scrittori entusiasti, costruttivi, grandi amorosi lettori, Citati, Magris, Arbasino. Gli scaffali delle librerie traboccano di libri sulle caste, oltre che contro Berlusconi. E nel giornalismo fa testo e titolo solo il risentimento - mentre non c’è un solo libro sulla crisi che ci attanaglia ormai da vent’anni e ha depotenziato l’Italia, anzi nemmeno un articolo: la disoccupazione mascherata, l’inflazione surrettizia, la previdenza praticamente azzerata, l’erosione del risparmio.
Sembra di leggere Santo Mazzarino, “La fine del mondo antico”: “pensieri tristi”. È la fine di un’epoca dunque. Dell’Europa nella globalizzazione? Dell’illusione comunista, che sempre domina la pubblicistica?

Stupidità - È contagiosa. Jean Paul e Musil lo sanno, anche se non lo dicono – la stupidità vuole gli scongiuri.
Delle cinque leggi della stupidità di Carlo M. Cipolla questa è la prima, ma non c’è.

letterautore@antiit.eu

lunedì 24 ottobre 2011

Fino a quando la Germania boicotterà l’euro?

La Bundesbank, i banchieri centrali tedeschi di vent’anni fa e i loro epigoni, non hanno mai gradito l’euro. Una moneta che essi non controllano e che mette la Germania alla pari di una qualsiasi Italia.
Erano a conoscenza, come tutti, in primo luogo le banche tedesche che sono il dominus di quell’economia, che la Grecia truccava i conti, ma hanno lasciato fare. Ora fanno pagare alle stesse banche tedesche una buona metà del debito inesigibile greco. Senza proteste. Ma non senza logica: bisogna che l’euro sia governato da Francoforte, ma dalla Bundesbank e non dalla Banca centrale europea.
Tutto lo svolgimento della crisi è una chiara applicazione della linea Bundesbank – anche palese: non ci sono complotti. L’imposizione a freddo all’Italia, il paese più debole politicamente, di un rifinanziamento del debito al 6 per cento invece che al 2, vendendone in quantità i Btp, è una anche poco velata minaccia agli altri paesi, compresa la Francia. Il Fondo europeo di stabilità, nonché non essere una banca come avrebbe voluto Sarkozy, dipenderà dalla commissione Bilancio del Bundestag (ogni suo intervento dovrà essere finanziato, e ogni stanziamento dev’essere approvato dal Parlamento tedesco). Ci dovrà essere un bilancio europeo, un potere europeo, cioè tedesco, di governo dei bilanci nazionali, fisco e spese – un comitato di studio per la riforma del Trattati è stato votato. Basterà?
La partita potrebbe essere anche politica, dietro i tecnicismi di facciata e le resistenze della Bundesbank. I governanti tedeschi post-unificazione, il socialista Schröder come la democristiana Merkel, sono un altro genere di politici rispetto ai predecessori della Repubblica di Bonn, tutti in primo luogo europeisti. La Germania è da tempo su una sponda mercantilista, e non lo nasconde, anche nei confronti del “fratelli”, o sono “sorelle”, in Europa: l’onere aggiuntivo sul debito pubblico italiano si riflette sulla raccolta delle banche, sul costo del credito, e quindi sui costi di produzione, con un vantaggio comparato notevole per l’economia d’oltralpe. Su ogni altra questione all’infuori dell’euro, i governi europei hanno trovato in questi anni più rispondenza all’esterno, a Londra, a Washington, e perfino a Mosca e Pechino: la difesa europea, la stabilizzazione del mondo islamico, la regolazione monetaria mondiale, le politiche energetiche.

Le risate a cascata dell’Europa

Merkel, Sarkozy e Berlusconi ridono di Papandreu. Merkel e Sarkozy ridono di Berlusconi. Merkel ride di Sarkozy. La prima non è vera (non si sa), le altre sì, è successo a Bruxelles. La seconda l’hanno vista tutti in tv. La terza è raccontata da “Le Monde” e “Libération”.
L’Europa ride, dunque, anche se non si vede di che. Ride coma la iena? Come lo scemo del paese?
La stessa Merkel solo pro tempore ride per ultima. L’Italia ha avuto i sui impicci, grazie ai banchieri centrali tedeschi, Weber, Stark e Weidmann. Ha pagato un quattro per cento di interessi in più sui Bot, un fatto che da solo aggrava il suo debito di migliaia di miliardi. Ora tocca alla Francia: Merkel ha rinviato ogni decisione di quattro giorni, e la rinvierà ancora se necessario, di altri dieci, al G 20 del 4 novembre, perché la Francia dev’essere declassata e pagare anch’essa interessi esorbitanti rispetto ai titoli tedeschi. Ma prima o poi anche la Germania dovrà ammettere che il suo debito è cresciuto al 100 per cento, o poco meno, del pil.

L’islam che piace agli Usa, militante

Pino Sarcina ha scoperto la Tunisia, e la identifica nel “Corriere della sera” in una bella quarantenne in jeans e occhiali di gran firma che fa la coda per votare. Come fanno le inviate della Rai, non vede il resto della coda. Dove invece le donne sono affardellate, baffute, piegate dai figli e dalla fatica. E quasi ovunque separate dagli uomini.
Ci si dovrebbe chiedere perché la Rai mandi nei paesi islamici inviate donne. Che fanno a gara con le locali per ammantarsi di veli, ma non riescono a vedere nemmeno gli effetti più nefasti della sharia su queste loro “sorelle”: la separazione sei sessi, il ripudio, la poligamia (la poligamia...), e la fatica, della riproduzione, della conduzione familiare, che le fa vecchie a venti anni. Ma questo non è un problema politico – è il solito squallido Raiume. Il fatto politico, che s’impone ma non si pone, è perché gli Usa promuovano nei paesi islamici, e da qualche tempo soprattutto in quelli arabi, governi fondamentalisti. Al posto delle élites socialisteggianti e modernizzatrici: Nasser, Burghiba, l'Fln in Algeria, Assad e, prima della deriva in tarda età a re di cioccolata, dello stesso Gheddafi.
La Tunisia era un altro paese all’indomani dell’indipendenza nel 1956. Bilingue, operoso, con una legislazione che riusciva a coniugare il rispetto della religione e la protezione dei diritti minimi di umanità, se non di civiltà. È diventato bigotto e ombroso. Era sulla strada per diventare mediamente sviluppato, è terra d’emigrazione di disperati. Era aperto come dev’essere un piccolo paese, e si chiude: rifiuta il francese, rifiuta il turismo per il quale pure si è dotato. È un piccolo paese che ha fatto da cavia alla grande politica: che è quella d’instaurare regimi islamici, promossa dagli Usa.
Hanno cominciato quarant’anni fa nel Pakistan col generale Zia ul Haq, che riuniva in sé la vecchia formula bonapartista, o mano dura dei militari, la formula americana di governo del mondo negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, con l’integralismo islamico. L’islamismo si è dimostrato ricetta migliore della mano dura contro la sovversione. E il nuovo verbo, della democrazia a base islamica radicale è stato imposto in Iran, a spese dello scià a favore di Khomeini - col quale gli Usa entreranno anche in fertile scambio quando si tratterà di finanziare in Centro America la guerriglia anti-sovversione. Un sostegno esteso poi alla Palestina e alla Turchia. Da un anno appoggiano ovunque il ritorno alla sharia, nei già laici Egitto e Tunisia, e ora in Libia – prossimamente anche in Iraq?
La svolta americana si potrebbe dire saudita, all’origine e nelle sua programmazione come nuova politica. All’origine il radicalismo islamico è wahabita, cioè saudita. Negli anni Settanta, dopo l’arricchimento col petrolio, furono i sauditi a esportare per primi l’islam come fattore di stabilizzazione, nell’Africa subsahariana e nel subcontinente indiano. In forma non radicale, con le grandi moschee e i campi di polo, per consolidare l’establishment islamico, ma condizionata alla legislazione islamica.
L’Europa dovrebbe preoccuparsi, che a differenza degli Usa col mondo islamico ci confina. Avere alle porte, anzi già dentro le mura, una pressione reazionaria così aggressiva dovrebbe preoccupare: è una minaccia agli equilibri sociali consolidati da secoli. Ma l’Europa, come si sa, è già di per sé in decomposizione.

Allah, un pretesto per la reazione

La proiezione, su una televisione tunisina, del cartone animato “Persepolis” ha provocato un assalto nella casa del direttore-proprietario della tv, e una serie di minacce alla vita sua e dei suoi familiari. Con moderne crociate su Facebook (che accetta simili appelli) e col giornalismo in pillole twitter. Non c’è ancora una fatwa di condanna, ma è come se.
“Persepolis” non è blasfemo. Ma raffigura due volte Allah, e questo basta per scatenare un jihad. È evidente, se prima non lo fosse stato, che l’offesa a Allah è un pretesto. I precedenti, si ricorderanno, sono stati quelli di Salman Rushdie, e del suo libro “I versetti satanici”, per il quale gli ayatollah iraniani condannarono a morte lo scrittore e gli editori. E le vignette su Allah pubblicate da un oscuro settimanale danese, sufficienti a sobillare tutto il mondo islamico.
Si attribuiscono le proteste in Tunisia a una piccola minoranza salafita. Come per dirle ininfluenti. Ma basteranno per portare la Tunisia dopo il voto, se non alla sharia proclamata, a una applicata – lo stesso avverrà in Egitto dopo il voto, e in Libia col nuovo regime. Non sono i moderni radicali salafiti (i primi erano riformisti, aperti al confronto col resto del mondo) nati proprio in Tunisia, prima della guerra?
I salafiti sono del resto minoranze che periodicamente si gonfiano a condizionare il mondo arabo, un tempo nell’Afghanistan occupato dall’Urss, quest’anno in Nord Africa e in Siria. Come già i loro progenitori wahabiti un secolo fa, quando si trattava di prendere il controllo della penisola arabica, tramite il capotribù al Saud, per il petrolio.

domenica 23 ottobre 2011

Il mondo com'è - 72

astolfo

Gheddafi - La sua fine ha, in prospettiva storica, segno duplice: mostra quanto l’Africa sia cambiata in quarant’anni, e allo stesso tempo quanto sia sempre campo di esercitazione di quello che allora si chiamava neo colonialismo. In sintesi: è come se il neo colonialismo si fosse dato un’apparenza diversa facendosi nobilitare dai fini.
Gli affreux sono gli stessi, che controllano il continente per conto di Parigi - e, dietro le quinte, vergognosa, come sempre, di Londra. Sia pure in veste di piloti di cacciabombardieri, inquadrati nelle forze armate regolari e autorizzati dall’Onu, invece che di killer in tuta mimetica e kalashnikoff. Anche la finalità vera non è cambiata. Ora si vuole proteggere la democrazia, o instaurarla, e non più combattere la sovversione. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso: il controllo del continente. Anche le élites locali sono le stesse, seppure ora in forma ora di governi provvisori o di liberazione.
Non una novità integrale insomma. Tanto più se si riflette che gli Stati Uniti da tempo hanno abbandonato il bonapartismo nei paesi del Terzo Mondo, imponendo regimi “democratici”, comunque a scelta plurima. Per una ventina d’anni dopo il 1955 gli Usa hanno imposto in mezzo mondo una serie di regimi militari, anche sanguinosi. E quasi ovunque nelle loro sfere d’influenza: nel subcontinente asiatico, Pakistan soprattutto, Indonesia, Thailandia, nel Medio Oriente, a partire dall’Egitto e dall’Iraq, e in Sud America, con regimi repressivi molto vistosi anche in paesi avanzati quali il Brasile, il Cile, l’Argentina.
Gheddafi in un certo senso è stato l’ultimo dei reucci di cioccolata che hanno infestato presto l’Africa dopo l’indipendenza. Più capace. Più intraprendente, se si pensa al ruolo che è riuscito a ritagliarsi, malgrado l’estrema marginalità del paese che rappresentava, nella politica panaraba, in quella mediorientale, e nella sovversione islamica, prima di Khomeini e delle Intifada, dal Marocco alle Filippine. Soprattutto miglior gestore delle risorse minerarie del suo paese: la Libia è il paese arabo che, per quanto piccolo e provinciale, ha investito con più oculatezza le royalties del petrolio. Ma con una concezione della politica e dei suoi cerimoniali, soprattutto negli ultimi due-tre anni, che ne hanno visto precipitare il declino, che lo apparentano a Idi Amin, Bokassa e Mobutu, che peggio di tutti hanno impersonato l’impoliticità africana.
Anche il suo avvento, del resto, nel 1969, come quello di Amin nel 1971, fu patrocinato dalla Gran Bretagna. Mentre Mobutu e Bokassa, i prototipi, nel 1965 erano stati portati a potere dai mercenari francesi. Solo in pochi paesi in Africa i fautori delle indipendenze o dei movimenti di rinnovamento e liberazione riuscirono a governare, Nasser, Burghiba, Ben Bella e Bumedien, Kenyatta, Kaunda, Nyerere, Senghor, Houphouët-Boigny. Sostenuti dagli Usa o dall’Urss – e dall’Italia (Burghiba in Tunisia e i tre cattolici in Africa nera, Kaunda, Senghor, Houphouët-Boigny, soprattutto il primo). Non dall’“Europa” che oggi si celebra – la Costa d’Avorio di Houphouët-Boigny era quasi sviluppata, vent’anni fa, quella successiva francesizzata è un carnaio spaventoso, come il Burundi e, anche se si tace, buona parte dell’ex Zaire.

Globalizzazione – L’America c’è arrivata vent’anni prima, con le multinazionali. La delocalizzazione allora si fece a vantaggio dell’Europa, principalmente. A metà degli anni Ottanta, esauritasi la spinta delle Grandi Cinquecento di “Fortune”, dei grandi grupi in tegrati verticalmente e dei conglomerati, e con la contemporanea apertura della Cina delle Quattro Modernizzazioni di Deng, la globalizzazione divenne la parola d’ordine, estesa all’Asia e all’America Latina.
Era ed è il mantenimento del mondo sulla linea della crescita. A termine praticamente indefinito, aprendo il mercato, nel primo dopoguerra circoscritto a meno di un miliardo della popolazione mondiale, i 24 o 25 paesi membri dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi sviluppati, a 5-6 miliardi di produttori-consumatori. Era ed è anche, senza volerlo, il coronamento del terzomondismo, dell’esigenza di una ripartizione mondiale dei mercati.
Contro la globalizzazione si fanno valere riserve antimonopolistiche che in realtà sono limitate, e i cui effetti negativi sono di gran lunga soverchiati da quelli positivi. Anche la protezione sociale (dei minori, delle donne, dell’orario lavorativo) è più forte dove la globalizzazione più incide, così come i controlli di qualità, i regolamenti sanitari, la protezione dell’ambiente. Molte delle istanze dell’inafferrabile giustizia economica vengono realizzate dalla globalizzazione.

Imperialismo - È freddo. Anche dove è militante, come in Francia – benché residuale, non dichiarabile (non monetizzabile politicamente). Negli Usa di Obama è anche riluttante, controvoglia. Dopo la stagione del militantismo estremo, delle presidenze Clinton e Bush jr., che però è durata poco. Per il suo bilancio costoso e fallimentare, ovunque, anche in Serbia e Kossovo. Per la crisi economica che da quattro anni minaccia gli stessi Usa. E per la tristezza (solitudine) di questo presidente. Che nell’esercizio dei suoi stessi buoni (quasi sempre i migliori) argomenti sembra dire: “Abbiate pazienza, mi hanno messo qui, ma ancora per poco”. Ma così è sempre stato: l’imperialismo si vuole riluttante. Una guerra continua che dev’essere missione di civiltà. L’imperialismo è triste.
Il colonialismo era gaio: il colono aveva molti servi, anche molte mogli, statuto in tutto privilegiato, e immaginava di arricchirsi. L’imperialismo è in guerra costante, diplomatica e militare, nella quale non può perdere una sola battaglia - una sola sconfitta è decisiva. Nel mentre che deve esportare la civiltà: la democrazia, la legge, il buongoverno, il progresso economico e sociale. È effettivamente un fardello.
A Kipling, che lo disse, si continua a farne una colpa, mentre non ha fatto altro che metterne a nudo l’insensatezza. L’imperialismo è il fardello-problema della funzione pedagogica. La quale è innesto e incrocio di esperienze e di culture.

Palestina – Lo scrittore Dürrenmatt c’è arrivato trent’anni fa, in “Rapporti”: a ipotizzare che, se uno stato palestinese è indispensabile, non potrà però esistere se non “garantito” da Israele. La Palestina veniva da un’esperienza storica molto più occidentalizzata rispetto al resto del mondo arabo, quanto ai diritti civili, della famiglia, politici, e difficilmente avrebbe visto la luce a opera del mondo arabo-islamico. Come infatti (non) è avvenuto. Con resipiscenze tra gli stessi fautori di Hamas, il suo movimento islamista.
Le Intifada e i kamikaze hanno chiuso la prospettiva, che prima c’era, di uno Stato palestinese, e non ne hanno aperto un’altra: non ci sarà uno stato islamico in Palestina. È una delle “ironie” della storia: Israele, che è uno Stato confessionale, non lo consentirà. Su questo potendo contare sulla solidarietà europea. E sulla stessa albagia americana, pur così pronta ad accettare, quando non a sostenere, il radicalismo islamico: con Bush jr. prima e poi con Obama gli Usa hanno tentato d’imporre l’islam radicale anche in Palestina, ma dovendone poi riconoscere i limiti, l’inconsistenza politica.

astolfo@antiit.eu

Venti pretendenti nel Pd senza un’idea

Maria Tesesa Meli censisce sul “Corriere della sera” diciassette correnti all’interno del partito Democratico. Sono troppe, ma non sono tutte. Sono una patologia, ma non la più grave.
Delle diciassette correnti censite, con capicorrente e seguaci, dieci sono ex Popolari. Anzi undici contando Rosy Bindi, che Meli non considera. Sono capicorrente cioè senza voti. I voti del Pd sono all’ottanta per cento, forse al novanta, ex Diessini.
Gli ex Popolari proliferano schermandosi dietro la necessità di recuperare il voto di centro. Ma il voto di centro può confluire dappertutto eccetto che nei Popolari. Basta scremarlo: i casiniani e gli ex mastelliani, e le varie tipologie di ex Dc all’interno del partito di Berlusconi. Solo tra questi i Popolari possono recuperare qualcosa, ma del tipo Pisanu, uno che rappresenta solo se stesso e cerca posto, non uno Scaiola o uno Schifani. La proliferazione di capi e capetti tra i Popolari è una riproposizione, all’occhio di tutti, del correntismo della Dc, che anche nelle sue incarnazioni migliori (Moro-Fanfani, Andreotti-Fanfani, Andreotti-Moro, Andreotti-De Mita) fu solo dannoso.
Nell’area ex Pci, a fronte dell’indebolimento dei vecchi capicorrente, D’Alema, Veltroni e Fassino, resta forte l’opzione esterna. Che il partito naturalmente non ha concesso, ma che ogni ex Pci si sente intitolato a prendersi. Vendola è il primo e il più insistente, ma non è il solo. Presidenti di regione, come Rossi, o ex primattori come Chiamparino (il partito del Nord), si ritengono ancora in corsa - Rossi e Chiamparino sono certamente del Pd, ma sono considerati e si considerano esterni.
La frammentazione non è il problema maggiore. Che resta invece la vocazione del Pd. Un’idea o una parvenza d’idea, di programma, di obiettivo. Buttare giù Berlusconi è l’unico. Ma è anche il punto di forza di Berlusconi stesso, che altrimenti, come si vede dalle cronache, sarebbe personaggio debolissimo: dopo di me che cosa?

Tutto mafia il processo del secolo

A una lettura retrospettiva squaderna una verità orrenda: è stato un processo mafioso. Sono mafiose l’accusa, la difesa, la presidenza del Tribunale, la stampa. Non ci sono i morti, ma tutto il resto dell’armamentario sì: avvertimenti, insinuazioni, minacce, ricatti, sempre obliquamente, e negare, negare l’evidenza.
I Salvo sono morti, e dunque Andreotti come roccia sta: mai conosciuti. Negare l’evidenza è massima espressione del potere: la sfida. Con gli stessi testimoni d’accusa, Contrada è condannato, Andreotti assolto. Ma l’obliquità è la cifra della mafia.
Ci sono perfino i piccoli esibizionisti, come è uso nei drammoni di mafia – la mafia li tollera anche nei momenti gravi, per alleggerire i contorni: Giorgio Galli, Scalfari, Pansa. Personaggi che esibiscono senso civico, pur sapendo meglio degli altri in che commedia stanno. Come gli scemi di paese, che si divertono a fare gli scemi.
Lino Jannuzzi, Il processo Andreotti