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sabato 9 aprile 2022

Secondi pensieri - 479

zeulig


Complotto – Quello ebraico è in Nietzsche, prima che nei “Protocolli di Sion”. In un abbozzo di lettera a Brandes, che viene fatto risalire ai primi di dicembre del 1888, quindi un mese prima del deragliamento, annuncia un’edizione “manoscritta”, cioè “segreta”, de “L’Anticristo”, “a scopo di agitazione”. E, aggiunge, “dato che si tratta di un colpo mirante all’annientamento del cristianesimo, è evidente che l’unica potenza internazionale che abbia un interesse istintivo a tale annientamento sono gli ebrei – in loro vi è una ostilità istintiva, non qualcosa di fittizio» come in qualsiasi «libero pensatore» o nei socialisti – non me ne faccio un accidenti dei liberi pensatori. Di conseguenza dobbiamo assicurarci tutte le principali autorità di questa razza in Europa e in America – oltretutto un tale movimento ha bisogno del grande capitale. È questo l’unico terreno naturalmente predisposto per la più grande e decisiva guerra della storia”.
In un biglietto successivamente indirizzato a Köselitz (il compositore “Peter Gast”) spiega che “senza ebrei non c’è immortalità - non a caso sono «eterni»”.

Guerra – È polemos, spirito combattivo, ma mosso dalla hubris, la forza incontrollata, la violenza – che meglio riflette il nome moderno, “guerra”, “war”, antico germanico per violenza appunto senza limiti. Si fanno piani di guerra elaborati, si prendono decisioni con lunghi dibattiti, ma in azione, sul campo, è la vita tua o la mia. In un furore “naturalmente” (questione di nervi, acidi, umori, sinapsi) crescente, e sempre meno controllabile. Il virgiliano “nulla salus in bello” non dissuade, non nell’azione - è considerazione previa, a mente ancora fredda.  
È “la forza, non dell’“Iliade” in particolare, ma a partire dall’“Iliade”, la prima guerra descritta, o raccontata. È hubris. Forza incontrollata e incontrollabile se non con una forza contraria. Che nella mitologia viene punita con severità da parte degli dei, ma non per questo si addomestica.

Attinge a un fondo di violenza? A un istinto? Che si può anche pensare di difesa nel mentre che è di attacco, e anche di sorpresa, cioè volutamente cattivo, perfino vigliacco.
Gli dei resto la punivano un tempo, oggi siamo più sgamati – sappiamo che la storia la fa il vincitore.


Non ci possono essere leggi internazionali pubbliche per misurare il grado di violenza accettabile – distinguere gli atti di guerra dai crimini di guerra. Se non nelle forme del diritto penale – che poi sono una: la legittima difesa. Per questo gli Stati Uniti hanno a lungo resistito alla creazione di un tribunale penale internazionale, la Corte penale internazionale dell’Onu all’Aja creata su iniziativa della conferenza di Roma del 1996, con lo statuto  allora deliberato. Che poi hanno variamente boicottato - tagliando i fondi, e ogni forma di collaborazione, imponendo sanzioni - e ora funziona, o non funziona, in dipendenza dalle decisioni americane. Cioè non come vero tribunale internazionale, in riferimento a un diritto internazionale codificato. Se non nell’applicazione, nell’attribuzione di competenza su tutta la terra.    


La Corte internazionale di giustizia, sempre dell’Onu, o Tribunale Internazionale dell’Aja, si limita a deliberare pareri arbitrali, tra parti che vi abbiamo entrambe ricorso, su questioni di diritto internazionale o su problemi di accordi o negoziati bilaterali. 

Nostalgia – Il “dolore del ritorno” dell’etimologia - il ritorno dopo la lontananza, l’esilio, l’ostracismo, l’emigrazione, la fuga, l’avventura, la fuga, compendiato come arduo, difficile, doloroso appunto - si è trasformato nel suo opposto, il desiderio di un ritorno. O non è il “dolore” in questo desiderio? Il desiderio del ritorno, alle radici, alla casa madre, al paese, come pronubo di dolori – problemi difficoltà, incomprensioni, delusioni.


Razze – Gobineau andrebbe riletto, come excursus storico e non prescrittivo o valutativo. Le differenze esistono. Tra gli africani, vittime a loro volta del razzismo persecutorio, le differenze – etniche e anche tribali – sono determinanti. 
 
Si dimentica che il sottotitolo di Darwin, “L’origine della specie per mezzo della selezione naturale”, è: “O la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita”. “Razze favorite” richiama il razzismo.
 
Tradizione – È la radice. Antica, consolidata, ma anche recente, purché abbia attecchito. Anche nella forma della falsa tradizione, purché sia sentita propria – sia un innesto riuscito, “quando le due parti, marza e portainnesto, si saldano in modo duraturo con la formazione di tessuto cicatriziale”, come dice la botanica. Per esempio quella di Walter Scott, dei clan e i quilt scozzesi. E in tutte le forme dell’“invenzione della tradizione” di Hobsbawm – compreso l’inglesissimo cricket per l’ex Commonwealth asiatico.
È un corroborante. Ma inevitabilmente, per la continuità se non per la linfa che lo anima, un forte coadiuvante del seno di comunità, di appartenenza. Perfino nel contrasto e nell’allontanamento, perfino il più radicale, istituzionale, politico, storico, etnico, religioso – il Sud-Est asiatico dall’Inghilterra, dove poi si ritroverà a suo agio, e viceversa.      
 
Si può interpretare, cioè aggiornare, alla luce dei tempi. Ma non rifiutare, pena l’indebolimento. In campo religioso, dove con più asprezza è venuta in contestazione, la sola scriptura protestante ha indebolito e non rinvigorito il ceppo – gli studi, i sentimenti, il legame comunitario - a fronte della tradizione difesa dalla chiesa di Roma. Cha da ultimo (Concilio Vaticano II) ne riafferma il bisogno nel mentre che, per aprire un varco verso l’unione delle chiese, rifiuta la vecchia “duplice fonte della Rivelazione”, Scrittura e Tradizione. Il rifiuto è esso stesso un “aggiornamento”: la Scrittura non si interpreta d a sola ma con l’aiuto della Tradizione.     

zeulig@antiit.eu

La bohème è meglio cantata, al naturale

Opera di Mario Martone nella prima parte della bohème, spensierata, si perde in periferie e giochi di corse, lotte, balli, abbracci. Senza atmosfera, anche la musica vi sembra svaporata. Per non dire dell’incongruo fraseggio ottocentesco, anzi operistico, in bocca a giovani tatuati, in sneakers. L’opera è quella: le manipolazioni per attualizzarla, magari col proposito lodevole di attrarvi i giovani, non potrà che respingerli: è fredda e anche stolida – Mozart ambientato da Branagh in trincea, “Il flauto magico”…
La regia dell’opera in musica è delicata, non sopporta stravolgimenti. La produzione dell’Opera di Roma si riscatta nella seconda parte, in interno. Grazie sì alla personalità fisica dei quattro amici ma soprattutto alla sonorità calda di Mimì, Federica Lombardi, e di Jonathan Tetelman, Rodolfo, tenore naturale, che può cantare come parla - è come il vino naturale, senza solfiti.   
Giacomo Puccini, La Bohème, Rai 3, Raiplay

venerdì 8 aprile 2022

Problemi di base bellicosi 6 - 691

spock


Abduzioni forzate in treni blindati, esecuzioni sommarie, fosse comuni, forni crematori: chi è che copia l’Olocausto in Ucraina?
 
La realtà supera la fantasia nella guerra, o la fantasia fa aggio sulla realtà?
 
Quanto conta l’Europa nella Nato?
 
Stiamo affamando Putin o è Putin che ci affama?
 
In un divorzio litigioso tagliarseli è il rimedio giusto?
 
Col Nord Stream 2 Putin sarebbe stato meno crudele (disperato)?
 
Putin fa la guerra all’Ucraina e continua a mandare fuori il gas, anche all’Ucraina: che guerra è questa?

spock@antiit.eu

Ecobusiness

“Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?” Il dilemma del presidente del consiglio appare provocatorio ma è solo aderente alla realtà. Si fanno – si son fatti – tanti programmi green, ecostostenibili, etc., ma non un modello di riduzione dei consumi, di rieducazione alle pratiche non energivore. L’Italia è diventata un paese ad aria condizionata. Non lo era, ma è bastata un’estate calda nel 2005 per portare al bisogno indifferibile del condizionatore, uno per ogni casa, almeno uno. La macchina che più consuma elettricità.
Analogamente d’inverno, col riscaldamento. Si lamentano inverni poco freddi – non nevica, non piove… - per il cambiamento climatico, e si prolunga il periodo di riscaldamento. Che negli edifici di vetro-metallo a uso ufficio si pretende che vada anche di notte.
La crisi petrolifera del 1973 aveva portato a un modello di sviluppo meno energivoro, di risparmio, giusto le raccomandazioni del Club di Roma. Ma il senso del limite si è perduto, anche in questa che si vuole l’epoca della protezione ambientale.

La meglio borghesia

“Il progresso come falso progresso” era il sottotitolo della prima edizione, Einaudi, subito dopo la morte di Pasolini, titolo e sottotitolo da lui visionati e approvati. Una raccolta, di testi pubblicati sul “Correre della sera” e sul “Mondo” nel 1975, di estrema violenza alla rilettura, dopo quello che è successo: la Seconda Repubblica, o Terza o Quarta, sotto gli occhi di tutti – compresa la mancata verità sul suo assassinio. La sua “mutazione antropologica” dispiegata, non lusinghiera – era quello che Pasolini voleva, contro la “mutazione antropologica” del modesto benesse re dell’Italia operosa (fa male pensarlo coi Di Pietro)?
La rilettura è catastrofica. “Lettere luterane” sono una parte del volume. La prima parte è “Gennariello”, appunti e testi sul “Mondo” come “discorso pedagogico” indirizzato a un ragazzo napoletano, Gennariello per definizione, un prototipo. Non edificanti. Nemmeno simpatici – “il napoletano” come Pasolini lo vede “è simpatico”. Pasolini tornato maestro – scrive sotto una rubrica “La pedagogia” - e il milanesissimo, cioè borghesissimo, settimanale milanese scrivono alla macchietta del napoletano perché a Napoli “sono rimasti gli stessi di tutta la storia”. Una città dove Pasolini si sente a casa. Perché? “Coi napoletani non ho ritegno fisico perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me”. Una questione di marchette? Sembra di sì: “Un giorno mi sono accorto che un napoletano, durante un’effusione di affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel’ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto”.  
L’unica lezione utile, fra le tante prediche contro gli oggetti e le abitudini del consumo, è quella in cui si precisa la posizione sull’aborto: “Naturalmente contro l’aborto, e a favore della sua legalizzazione”. Contro il vezzo allora – e ancora oggi – di fare disinformazione, di un’opinione pubblica ridotta a scandalismo, pettegolismo.
“La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione” è il tema del testo preliminare, una sorta di prefazione, “I giovani infelici”. Con l’ottimo proposito: “Meglio essere nemici del popolo che della realtà”. Specie in questo momento (ma il momento non è sempre speciale?) in cui borghesi e proletari, “le loro storie si sono unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo”. Davvero? Peggio: “Tale unificazione è avvenuta sotto il segno della civiltà dei consumi: dello «sviluppo»”. Un disastro. Difficile da credere oggi, nell’Italia delle nuove povertà, della precarietà – in cui l’Italia e i paesi di stazza e attività analoghe devono arricchire le catene di produzioni globali. Ma Pasolini la pensava così.
La condanna è preceduta da un’anamnesi dei giovani come massa di sciocchi: “quasi afasici”, se non per “urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno”, che “non sanno sorridere o ridere”, “sanno solo ghignare o sghignazzare”. Tutti tutti? No, L’“enorme massa” è “tipica, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud”. E c’era già il terrorismo, a Milano. Giovanile. Il pedagogo vi accenna per i rapimenti dei giudici Sossi e Di Gennaro: “I rapimenti dei magistrati e i pianti delle madonne si assomigliano alla perfezione: anzi, sono in sostanza la stessa cosa”.        
Pasolini è accreditato di estrema verginità intellettuale, e dell’avventatezza dell’eroe, ma è sempre scrittore accorto, quasi millimetrico. Nel dosaggio (uso) dei malumori. La scuola media dell’obbligo dice “un crimine”, mentre è – era ancora nel 1975 – un’università, talmente era generosa, formativa, e presto infatti è stata rimpianta, dopo che è stata dichiarata, come “Milano” voleva, “troppo costosa”. Un’assurdità, tanto per meravigliare il borghese, non per combatterlo – era l’interesse della “borghesia dominante” che in questo Pasolini ritorna a ogni pagina, della borghesia vera.
Il polemista appare sempre abile - Pasolini sarà stato mite, ma non umile, solo a metà evangelico. Di un giornalismo che si muoveva sulla scia e con gli stessi equivoci dello scandalo Watergate americano e del relativo processo – poi rimosso, dopo la demozione di Nixon. Ma si rilegge come l’intellettuale furbo che accusa gli altri di esserlo. Pasolini non poteva credere che il “Corriere della sera”, a Milano, volesse dare il potere al partito Comunista. “Ha ragione” su tutto. Se non che fa l’apocalissi del nulla: del fatto che il reddito pro capite è cresciuto – che è cresciuto modestamente, da “piccoli borghesi” e non da grandi, questa la colpa. La “maggioranza silenziosa” che la grande borghesia allora puntava – Milano ha sempre bisogno di nuovi sacrifici.
La “ragione” dell’abile polemista era peraltro di facciata già all’epoca. A Moro, con l’“Io so” dei precedenti “Scritti corsari”, aveva dato il pretesto di proclamare combattivo nello stesso 1975: “Non ci processerete nelle piazze”. L’ultimo testo rimprovera a Calvino di avere imputato il massacro delle due ragazze romane al Circeo a “una parte della borghesia”, a “Roma”, ai “neofascisti”, e argomenta non si capisce cosa, che la borghesia è meglio e peggio, che Roma è peggio e meglio, e che i fascisti (tutt’e tre i massacratori del Circeo lo erano) sono fascisti e non lo sono. Un testo pubblicato il 30 ottobre, il giorno prima del suo lurido assassinio. Borghese e borghesia erano sue ossessioni, di un linguaggio già allora vieto, ma non per questo sono meno confuse. 
La cosa migliore è la “Postilla in versi”: tre sonetti lievi da maestro di scuola, perfino divertenti.  
 
È la riedizione Garzanti, che ha recuperato le opere di Pasolini, 2015, con una prefazione di Guido Crainz.
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, “Corriere della sera”, p. 225 € 9,90

giovedì 7 aprile 2022

Ecobusiness

Il modello di vita, anche dei Fridays for future, è organizzato per il maggior consumo di produzioni inquinanti. A cominciare dall’abbigliamento, con le scarpe di gomma-plastica, a velocissima obsolescenza, stagionale, e non recuperabili (riparabili) – la scomparsa del mestiere di calzolaio è il danno minore rispetto all’enorme quantità di gomma-plastica non riciclabile da smaltire. O l’uso di bere da recipienti monouso, lattine e bottiglie, di metallo, di plastica, di vetro, non da bicchieri lavabili. Di preferenza fuori dalle mescite, dove l’involucro è recuperabile per il riciclo.
Moltiplica la plastica monouso, oltre il consumo (diffusissimo in Italia, il più elevato al mondo dopo il Messico, paese che pure ha sorgenti innumerevoli e acquedotti nel più piccolo centro urbano), l’obbligo che si fa ai supermercati di fornire alimenti freschi in una un triplice involucro, quasi sempre di plastica. Non per l’igiene, che non ne avrebbe bisogno.
Si è esaurita la spinta per il trasporto pubblico, ormai da parecchi anni dopo lo shock petrolifero del 1973. Senza altre soluzioni per il traffico che la moltiplicazione della circolazione privata. A Roma, tre milioni di abitanti, circolano tre milioni di autovetture – più mezzo milione di motocicli. A Milano, un milione e mezzo di residenti, circolano due milioni di autovetture.

Cronache dell’altro mondo - spensierate (178)

Suv, è sempre boom in America, i nuovi modelli di auto sono tutti della gamma alta, e tutti sul genere suv, cioè ad elevati consumi, di materiali e di carburante. Suv e pick up sono i mezzi in maggiore crescita nel mercato - i suv anche nei mercati europei più ricchi, Gran Bretagna, Germania. I Suv sono dal 2010 il secondo maggior diffusore di CO2 negli Stati Uniti, più del trasporto aereo, peraltro molto fitto e intenso.
Nel 2004 il democratico John Kerry perse la nomination del suo partito per la campagna presidenziale anche perché usava un suv – era sponsorizzato Al Gore, il leader dei Verdi americani, che aveva dato a Kerry anche sei milioni residuati dalla sua precedente campagna presidenziale. Ma poi il suv non è più stato bandito dal politicamente corretto.
La crisi petrolifera del 1973 aveva portato all’abbandono dei “dinosauri” americani, le autovetture da otto-dodici cilindri con carrozzerie faraoniche. Come non detto: il costo della benzina è oggi, nella campagna elettorale americana di medio termine, altrettanto sentito come nella crisi del 1973, ma il consumo è rimasto inalterato. Anche negli Stati – la California sopra tutti – che si vogliono più impegnati per la “rivoluzione verde”. Molto più sentito che la guerra, remotissima.

Cosa Dante vedeva

Un’idea suggestiva, ambientare Dante, con richiami dalla “Commedia”, nella vita artistica dei suoi tempi: cosa Dante può aver visto nelle sue peregrinazioni. In quella di cui poi abbia dato cenno nella “Commedia”.
Un docufilm mostra i luoghi che ha frequentato, a Firenze e fuori – Roma, Arezzo, Siena, Pisa, Lunigiana, Lucca, Bologna, Verona, Padova, Treviso (Treviso ha fornito dei manufatti del Duecento), Venezia, Romagna. Con manufatti originali e con riproduzioni il mondo che a Dante poteva essere familiare. 

Alla suggestione contribuisce anche la sede della mostra: la Farnesina, non potendo esibire Raffaello poiché in radicale ristrutturazione (ma è possibile vedere la vivo i lavori di restauro), utilizza i suoi suggestivi ambienti per una mostra evocativa. 
L’Italia artistica nell’età della Commedia, Roma, Villa Farnesina

 

mercoledì 6 aprile 2022

Questa guerra non ce la contano giusta

“Come mai nelle foto satellitari del New York Times, che vogliono essere del 19 marzo, non c’è la neve, che quel giorno a Bucha c’era?”. Toni Capuozzo, che è sempre stato sinonimo di onestà, professionale, non si capacita: la guerra è brutta, è una guerra d’aggressione, ma come ce la raccontano? Non è la sola incongruenza che Capuozzo, come ognuno, può rilevare nell’informazione che ci ha invasi.
Questa guerra, purtroppo, oltre che di carri armati, artiglieria, e missili, è d’informazione. Era già successo trent’anni fa con la guerra del Golfo, ma qui l’“informazione” si supera, fin da prima dello scoppio della guerra, con trovate ogni giorno da script di pubblicità. Come se non bastassero le bombe.
Una migliore aderenza dell’informazione ai fatti migliorerebbe la situazione? La guerra probabilmente no. Ma i contorni della guerra sì. Soprattutto sull’asse Washington-Londra, dove l’informazione viene articolata – con l’Europa un po’ inetta e un po’ smarrita. Perché questo è palese: è ben una guerra all’Europa che si combatte in Ucraina, a spese degli ucraini.
Capuozzo ha animato qualche giorno fa un manifesto di “ex inviati di guerra” contro l’informazione professionalizzata di questo conflitto: “Siamo inondati di notizie, ma nessuno verifica tali notizie”. Non c’è tempo, ogni giorno ce n’è una peggiore, come in un perfetto war drama. La “lettera aperta” degli “ex” è stata firmata da alcune centinaia di giornalisti – tra essi stranamente alcune ex firme di “la Repubblica”, il giornale più schierato.

 

Pasolini si scioglie per Ninetto

Un lamento d’amore, tra rimpianti e invettive, 112 sonetti laschi. Una poesia discorsiva, come sempre in Pasolini, ma infine animata, personale. Con qualche riferimento classico: almeno un calco di Catullo, carme 72, al sonetto 64, “Dicevate un tempo, non molto fa”, e echi di Shakespeare, dei “Sonetti”, forse. Ma di tono molto personale: dell’amore inconsunto per Ninetto, e di gelosia per “l’altra”.   
A partire dal 20 agosto 1971, data dell’annuncio ferale del matrimonio di Ninetto Davoli, Pasolini avvia a Londra, dove si trova per le riprese dei “Racconti di Canterbury”, e prosegue per Bath, Rye e in Italia, fino al febbraio 1973, a rapporto ormai ricucito e consolidato con l’amato, gli dedica  112 “sonetti”, di sdegno e d’amore. Non si tratta di sesso, lo sapete:\ ma di un affetto che come la morte «ha mani adunche»”. Subito e ripetutamente lo specifica: il reato di Ninetto, vuole dire, è più grave.
Pasolini fa la parte della poetessa, come era l’uso nella prima poesia d’amore, rivolgendosi all’amato, benché ragazzo, povero, incolto, come a più riprese precisa, col “voi”, “mio signore”. Poesie scrivendogli a getto continuo, abbozzi non risistemati, ma ferreamente sonetti nell’ispirazione, se non nelle rime e gli endecasillabi, e con quartine a volte scompagnate.
La traduzione di René de Ceccaty, forzatamente formale, richiama Du Bellay, Marot, il Cinquecento francese dei sonetti. Nella misura e anche di più nel tema, la malinconia d’amore – la specie d’amore che si vuole, si canta, malinconico. Ma in forma, come anche allora, “allegra”: risonante, pimpante, malgrado i rancori e le invettive. Siciliano ci trovava la proustiana sofferenza che patisce di sé, che però non si vede, Pasolini è molto oggettivante.
Nel caso di Pasolini la doppia tonalità è in rapporto con il soggetto, il carattere di Ninetto. Che non cessa malgrado tutto d’infondere gioia al poeta abbandonato. La lietezza “è durata otto anni, mica poco.\ Ora in voi è morte, in me pazzia, tutta quella gioia”. Con Ninetto il rapporto resterà intenso: continuerà a lavorare nei film di Pasolini, già destinatario nel 1965 della poesia che chiude la raccolta di prose disparate “Alì dagli occhi azzurri”, anzi lui stesso Alì,  e a frequentarlo, anche a viaggiare con lui, fino a Stoccolma, due giorni prima della morte. De Ceccaty ricorda che “condividevano la stessa camera e viaggiavano come una coppia”. E che, tutto sommato, Ninetto sposandosi “fu più fedele a Pasolini di quanto quest’ultimo gli fosse fedele” – anche se “non intrecciò alcun legame che potesse minacciare il suo rapporto con Ninetto, tuttavia usava e continuò ad avere “una vita sessuale con ragazzi di vita”.  
Un canzoniere in realtà in lode dell’amato, sotto il lamento e il vituperio. Un canzoniere straordinario nella molteplice attività di Pasolini. Non tanto per gli esiti, ma è spontaneo, come viene, più che curato, e non affettato. Animato, da sentimenti e risentimenti personali, quindi “veri”, non atteggiati o programmatici quale è la poesia di Pasolini – incitatoria, polemica, argomentativa. Mossa da paura più che dallo sdegno, in fondo questa lunga meditazione sull’amore per Ninetto è un omaggio. Al “mio festoso Sancho Panza\ ragazzo”, da don Chisciotte dell’amore puro.
Un canzoniere alla Penna - anche se casto - la cui spensieratezza di “diverso” Pasolini ha sempre invidiato. De Ceccaty, come d’obbligo, cita i “Sonetti” di Shakespeare – anche per l’uso del “voi”, che gli richiama il thou dell’inglese biblico. Ma Penna è miglior riferimento: Pasolini stesso accenna a Shakespeare, scrivendo in Inghilterra, ma non ci sono secentismi in questo brogliaccio, tutto o quasi tutto è diretto, anche le citazioni. Più congrua l’altra radice che il curatore ci trova, i provenzali, i trovatori.
È l’unica edizione disponibile dei sonetti per Ninetto. Si può leggere, con la traduzione in francese e con un saggio di René de Ceccaty, in originale – l’unica edizione italiana è quella ricompresa nei “Meridiani”, “Tutte le poesie”.
Pier Paolo Pasolini, Sonnets, Gallimard, pp. 283 € 10,50

martedì 5 aprile 2022

Ombre - 609

La condotta che trasporta il gas russo in Europa (la condotta principale), in Germania soprattutto e Italia, attraverso l’Ucraina, si chiama “Fratellanza”. È attiva tuttora.


La Russia in guerra contro l’Ucraina continua a restare fuori dalle cronache. Agli inizi si poteva capire, per l’effetto sorpresa, ma ora che la guerra s’impantana? Abbiamo avuto poche immagini di proteste, poi più niente – le solite chiacchiere dei servizi inglesi su chi è scomparso e chi è ricomparso. Eppure la Russia è un paese aperto, ci vuole il visto ma è automatico. Perché si rappresenta la guerra da un solo punto di vista?

S’impersona la Russia nell’orso. E mai l’immagine è stata tanto veritiera come oggi: è lenta, imprevedibile, e non parla. Sulle atrocità di Bucha, vere o false che siano, chiunque avrebbe detto qualcosa. Mosca si limita a dire che sono false, o comunque non attribuibili ai suoi soldati, ma non mostra, come dovrebbe e potrebbe, le prove.
È vero che l’Ucraina fa largo ricorso alle agenzie pubblicitarie, americane e inglesi, per la gestione della guerra, ma allora tanto più per questo.   
 
Si fanno molte trasmissioni in tv giustamente sulla guerra in Ucraina. Dove però le persone, sia gli esperti ma anche gli stessi ucraini, espatriati o profughi, sono distessi, sorridono, ridono.  


Ucraina e Russia hanno una peculiarità in comune: sono i due paesi europei dove la corruzione è più diffusa e vasta, secondo le classificazioni annuali di Transparency. L’Ucraina viene al posto 122  (su 180), la Russia al 136.


Cadaveri disseminati dai russi si scoprono a Bucha in una coreografia macabra, per le strade, artigliati dalla morte nelle pose più varie. Mentre il presidente ucraino indirizza i premi Grammys per le canzonette americane. La guerra è comunque brutta, ma perché questa sembra teatrale, artefatta? Forse per l’improntitudine dei “presentatori” palesi: giornalisti, inviati, esperti, tutti all’unisono, palesemente imbeccati da una sola fonte. Anonima. Mai una testimonianza diretta.

Bonomi, Confindustria: “Siamo in recessione tecnica”. Nessuna eco. L’inflazione crescerà è si manterrà a lungo. Come non detto. Non è materia da social e quindi non è. Sarà l’anno zero dell’informazione, l’ennesimo.

“la Repubblica”, giornale di sinistra sempre più impegnato nelle poltrone a Roma, dopo il Festival del Cinema attacca l’ospedale Spallanzani: “Ignorate età e condanne”, titola “la Repubblica-Roma”, su tre pagine, “l’attuale direttore generale f.f. confermato per tre anni alla guida dell’Istituto. Il professore 67nne, già processato per corruzione e danno erariale, passa all’unanimità”. E assolto no? “la Repubblica” è il giornale che si ritiene la coscienza della sinistra.  

“La vera distruzione è arrivata dopo la guerra”, sospira con Raffaele Oriani, sul “Venerdì di Repubblica”, Zlatko Dizdarevic, che a Sarajevo dirigeva il giornale coscienza della città, “Oslobodeje”. Degli slavi non si sa cosa penare.  

L’Inter vince a Torino senza mai tirare, solo sulla faccia degli avversari, grazie a due arbitri. I migliori. Che fanno di tutto per far vincere l’Inter, almeno una mezza dozzina di errori, o soprusi. E danno l’impressione di non farlo apposta: “confusi”, si dice per dire, più che cattivi. Che calcio è questo? Poi si lamentano che non lo vede nessuno, in Europa, giusto i poveri italiani. Del calcio, chi se ne frega? Ma è ben un segno di come si è ridotta l’Italia.
 
La storia della Nazionale italiana che non riesce nemmeno a qualificarsi per i Mondiali di Calcio ha dell’incredibile, per la superficialità e insieme la prosopopea. Un’accolta di sbandati senza un minimo di tecnica di squadra che presume di sé l’onnipotenza. Senza umiltà, senza impegno. Di un calcio che si vota spensierato alla marginalizzazione – è sulla via di essere cancellato dal grande circuito dei diritti tv. Si veda la Rai, che ha impegnato 150 milioni per i diritti del Mondiale e non incasserà quasi niente – puntare sull’Italia è perdente.  


Di TikTok ce ne sono due. Uno social, di svago, per l’Occidente, è una serioso, scienza, tecnica, come usava in Urss, per la Cina. Come non detto.

 

Le ultime cronache romane di sesso, la ragazza abusata dai compagni alla festa di Capodanno, la preside che s'incapriccia dello studente, riducono tutto ai social. Si fa l’amore per fotografarsi e messaggiarsi, per potersi poi postare sui social. L’ultima passione è l'esibizionismo.

 

La fantasia sopravvive alla guerra

Come far digerire, con un occhio a Fellini, il genere horror da un pubblico più vasto, tra commedia, satira, e storia. Una storia che trova tutti partecipi, il rastrellamento degli ebrei romani a metà settembre del 1943, e la Resistenza.
Una piccola compagnia di girovaghi scalcagnati, l’uomo-scimmia, la donna elettrica, l’albino, il Nano, del circo Mezzapiotta che nessuno va più a vedere in guerra, trova rifugio nel lussuoso circo hitleriano a Roma Berlin. Che il direttore pazzo ha votato a una fine neroniana, in fiamme. Finché non intervengono i Nostri, sotto la forma del Gobbo della Resistenza.
Un film tirato via, malgrado la lunghezza, composito, con poche trovate originali, forse solo un paio d’interpreti, l’albino Pietro Castellitto e la ragazza elettrica Aurora Giovinazzo – è un’altra Gelsomina. Ma in qualche modo funziona, attrae. E un parallelo incongruo fa emergere, tra il cinema e l’illusionismo – tra esistenze peraltro reali e immaginarie. Di reale c’è la guerra: fame, precarietà, distruzione.   
Gabriele Mainetti,
Freaks out, Sky Cinema

lunedì 4 aprile 2022

L’Asia si astiene, e molta Africa

Esprime curiose evidenze il voto all’Onu sulla guerra della Russia all’Ucraina, che le curiosità del primo momento hanno offuscato.
La mozione di condanna della Russia è passata con 141 voti, il 78 per cento dell’Assembela. E con soli quattro voti contro, in aggiunta alla Russia: Bielorussia, Eritrea, Siria, Corea del Nord. I 35 astenuti e le dodici assenze, però, configurano una sorta di geografia poliica quantomeno lontana dall’Europa, se non filorussa.
Tra le assenze quella di un probabile no, del Venezuela, dovuta a un motivo specifico: non ha pagato le quote annuali che deve all’Onu, e quindi è sospeso dal diritto di voto. Ma significativa è l’assenza del Marocco, pure per il resto “occidentale” e molto legato all’Europa. Di cinque paesi africani in aggiunta al Marocco: Etiopia, Guinea, Guinea Bissau, Camerun, Togo, Burkina Faso. E di Azerbaigian, Uzbekistan, Turkmenistan.
Il resto del Centro-Asia è tra gli astenuti: Armenia, Kazakistan, Kirghisistan, Tajikistan. Astenuti anche i tre quinti dell’Africa – che con le assenze fanno un cospicuo gruppo. Per la condanna: Egitto, Libia, Tunisia, Capo Verde, Ciad, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Gambia, Ghana, Kenya, Lesoto, Liberia, Malawi, Mauritania, Mauritius, Niger, Nigeria, Ruanda, Sao Tomé, Sierra Leone, Somalia, Zambia.
Con la Cina, importanti defezioni la mozione ha visto in Asia, seppure in veste di astensione:  Bangladesh, India, Iran, Iraq, Mongolia, Pakistan, Sri Lanka, Vietnam – in aggiunta a tutto il Centro-Asia.
Con Cuba si astengono anche Bolivia, El Salvador e Nicaragua.

Gas, sanzioni e infrastrutture

Il gas dalla Russia continua ad arrivare, malgrado la guerra e le sanzioni.
Dalla Russia arriva oltre la metà del gas consumato in Europa occidentale - soprattutto dalla Germania, e poi dall’Italia (28 miliardi di metri cubi, il 40 per cento del gas importato.
L’Italia non ha riserve di gas – sono residue e di ridotto potere calorico. Se ne estraevano 21 miliardi di metri cubi nel 1996, solo 3 l’anno scorso – si può arrivare a un massimo di 5 miliardi di mc.
Il gas naturale liquefatto (lng) promesso da Biden costa il 20 per cento in più, e richiede investimenti elevati e concentrati per gli impianti di rigassificazione sul territorio nazionale. Impianti complessi, soprattutto per la sicurezza, con tempi di costruzione da tre a cinque anni.
Il gnl costa di più - quello promesso da Biden di circa il 20 per cento - e inquina.
Il gas russo copre il 40 per cento delle importazioni, circa 28 miliardi di metri cubi sui 76 consumati nel 2021.
Germania e Italia sono i maggiori acquirenti in Europa di gas russo, rispettivamente per 14 e 10 miliardi di euro nel 2021.
L’Algeria può aumentare le esportazioni di gas verso l’Italia solo marginalmente, in ragione della definita capacità di trasporto del gasdotto, giù utilizzato al massimo, e per avere riserve di gas sempre più ridotte.
La Libia ha riserve molto più consistenti, e il gasdotto in essere, Greenstream, ha una portata teorica di trenta miliardi di mc., ma non nelle condizioni attuali, di semiabbandono. Dopo l’attacco Nato alla Libia nel 2011 il gas trasportato da Greenpeace è crollato a un ammontare irrilevante, sui 2 miliardi di mc..

La bellezza e la voglia di morte

“Suono e senso”, nota Seamus Heaney in una nota che introduce alla raccolta, era il proprio di Sylvia Plath, la sua ricerca poetica. Ricercatrice di effetti musicali dapprima. Nel primo “Suicidio”, a Egg Rock, ha sette “a” di fila – “salt flats,\ Gas thanks, factory stacks – that landscape…” – John Frederick Nims ne analizza in dettaglio le tecniche. Ma presto risucchiata nell’esperienza non felice, comunque insoddisfatta, di vita, nel rimuginio. Suicida forse per una delusione d’amore. Di sicuro per una tendenza già manifesta.
Sotto l’icona femminista – che probabilmente non le avrebbe fatto piacere - un’opera, una poesia, inevitabilmente segnata dalla fine. Dal suicidio a 31 anni, nel 1963. Felicemente passata da Boston a Londra, sposata con un poeta, il “poeta laureato” inglese Ted Hughes, madre di due figli.
La vicenda personale, compresa l’avvenenza, segna l’opera, peraltro non profusa: quando Sylvia muore ha solo quattro o cinque di vita attiva, di creazione poetica e narrativa. Robert Lowell la incontra nel 1959 a un corso di poesia a Boston. L’anno dopo si pubblica la sua prima raccolta di versi, “The Colossus”. Un’altra segue a ruota, “Papaveri a luglio” – tre raccolte si pubblicheranno postume, la prima a opera del marito, Ted Hugues: “Ariel”, “Alberi invernali”, “Attraversando l’acqua”. L’11 febbraio del 1963 Sylvia si uccideva. Lei stessa racconta ne “La campagna di vetro” di avere scritto “pagine e pagine di sonetti e villanelle in un semestre, per un solo corso”.  Studiosa, tuttavia, e studiata. Nella prima raccolta, “Il colosso”, più che nelle ultime.
Prima lieve, poi incerta, infine “confessionale”, quasi un’autoanalisi, della ritornante voglia di morire. Senza colpa, la retrospettiva che Sylvia si fa delle voglie di suicidio si segnala per la mancanza di colpe o cause, o di sensi di colpa.
Con l’originale a fronte e molti materiali, un’edizione curata da Anna Ravano.
Sylvia Plath, Tutte le poesie, Oscar, pp. 898 € 24

domenica 3 aprile 2022

Letture - 486

letterautore


Aborto – Edie Kerouac-Parker, la prima moglie di Jack Kerouac, lo liquida in quattro righe, compresa la prima vista dal dottore, il rinvio di due mesi, e il “travaglio forzato” – “il bambino (di Kerouac, n.d.r.) era un maschio con i capelli neri”. Annie Ernaux ci ha scritto sopra un racconto  “L’evento”, ora diventato film Leone d’oro a Venezia, e ne parla profusamente in atre narrazioni, “La donna gelata”, “Passione semplice”, “L’amante russo”: come un  fait divers tra i tanti. È un trauma per l’uomo, per il maschio?
 
Anglo-fiorentini – Il caso più preclaro, con Vernon Lee, è forse Helen Zimmern, “mediatrice culturale” si direbbe oggi tra Germania e Italia con la lingua inglese. Nata in Germania e presto cittadina britannica con la famiglia emigrata, aiuterà Nietzsche, conosciuto e frequentato a Sils-Maria, a farsi conoscere in inglese, da Firenze dove si era da tempo stabilita. Collaborando per i migliori periodici britannici. Tradusse anche molto, dall’“Edda” fino ai tedeschi contemporanei – si deve a lei l’introduzione di Schopenhauer nella cultura di lingua inglese. E molto anche dall’italiano (Goldoni, De Cesare, et al.). Di letteratura e arte italiane tenne conferenze in Germania e in Inghilterra. A lungo collaborò con il “Corriere della sera”. Sorella della femminista Alice, agitò molto la causa italiana contro le potenze austro-tedesche.
Conobbe Nietzsche a Sils-Maria nel 1886, quando si era stabilita a Firenze. A lei scriverà Nietzsche due anni dopo da Torino, perché divulghi la sua “rivoluzione” in inglese. Nietzsche ne ha grande stima, e in più momenti del suo felice e poi infelice autunno a Torino le scrive o si propone di scriverle lettere ammirate.
La Fondazione Corriere della sera le ha dedicato una raccolta di articoli, “Corriere di Londra. 1884-1910”, a cura di Caterina Del Vivo. Che spiega: “Il Corriere le riconobbe una posizione di assoluto rilievo tra i suoi collaboratori, con diritto di firma e ampia libertà di affrontare uno spettro di temi al suo tempo quasi assoluto appannaggio maschile”.
 
Bernini – Nietzsche lo accomuna a Wagner nell’aborrita décadence, la creazione artistica di testa invece che come gioco spontaneo, già in ““Umano, troppo umano”, 2, 62 segg.. Così pretende a fine 1888, poco prima del crollo psicofisico, scrivendone ad Avenarius: “Décadence e berninismo nello stile di Wagner”. Riferimento che non si ritrova in “Umano, troppo umano”.
 
Flaubert – Nietzsche lo trova, come uomo, “pascaliano” – del Pascal dell’“io è sempre odioso”: “Flaubert, una riedizione di Pascal ma come artista, con alla base questo giudizio d’istinto: “Flaubert est toujours haïssable, l’homme n’est rien, l’oeuvre est tout”, Flaubert è sempre odioso, l’uomo non è niente, l’opera è tutto.  
 
Giovanni XXIII - La “chiara, familiare, lieta ombra” cui ha dedicato “Il Vangelo secondo Matteo” Pasolini definisce in una conferenza “manzoniano”. Per dirne l’elevazione. I suoi “motti di spirito” 
trovando “caratterizzati da uno spirito completamente nuovo, vorrei dire d a uno spirito genericamente manzoniano, da una semplicità manzoniana” – dalla “posizione progressista e dialettica che ha avuto il Manzoni rispetto al cattolicesimo”, con “i suoi riferimenti con la cultura europea, con il giansenismo, etc.”. 

 
Luzi – “I poeti ermetici tipici si proclamavano cattolici. E, in genere, tutto il Novecento italiano. Ma cattolicesimo e provincialismo coincidono” - Pasolini, su “Nuovi Argomenti”, nn. 44-45, maggio-agosto 1960. Poeta ermetico tipico nel 1960 era Mario Luzi, che Pasolini non si sa perché disprezzava, che non si proclamava per nulla “cattolico”, seppure lo era. E certamente non era provinciale, anzi il meno provinciale di tutti, certamente meno di Pasolini – navigava nella poesia spagnola del Novecento, nel simbolismo francese, nella poesia francese del dopoguerra – Éluard, Char, etc.
 
Marx – Pasolini lo svuole spiritualista e non materialista - “Marxismo e cristianesimo”, conferenza-dibattito a Brescia 13 dicembre 1974, in “L’eco di Brescia,18 dicembre 1964: “Nel fondo dell’azione di Marx c’è un profondo spiritualismo”.
Ma non solo Marx, Pasolini i comunisti voleva religiosi: “Non soltanto c’è questo profondo cristianesimo alla radice di ognuno di noi, ma la religione, che è stata espunta, respinta dai comunisti per un secolo, cacciata dalla porta rientra d alla finestra”.
 
Nietzsche – Si voleva “il più grande psicologo dell’eterno femminino”. In questa forma se lo fa dire da Strindberg, altro radicale antifemminista, suo tardo ma entusiasta lettore, come ne scrive a Overbeck, il 29 novembre 1888 da Torino: “Mi ha mandato la trasduzione del suo Père (con una entusiastica prefazione di Zola), che in realtà riesce a esprimere in modo grandioso la mia definizione dell’amore” – “l’amore tra i due sessi è lotta”.   
 

Operetta – Genere dimenticato e disusato (sostituito dal musical), Nietzsche lo considera  in più occasioni il genere musicale più raffinato e delicato, dopo che è arrivato al rifiuto di Wagner, del grand opéra.
 
Paolo VI – “Il nostro eminentissimo Amleto”, lo chiama il papa suo predecessore, Giovanni XXIII.
 
Pasolini – “Non leggo più, come Fellini… Anche al cinema non ci vado mai. È finita, è finita”. Detto nel 1963 a Arbasino, che ne riferisce in “Sessanta posizioni”. Una forma di misantropia?
 
Poste – Il 27 novembre 1888 Nietzsche scrive da Torino al suo editore a Lipsia per chiedere indietro la prima parte di un manoscritto, volendo apportarvi delle modifiche. L’1 dicembre lo ha già ricevuto. Ma non è la parte che lui pensava di dover modificare. Scrive di nuovo per chiedere l’intero manoscritto. Il 6 dicembre scrive che l’intero manoscritto è stato riletto e modificato, ed è stato rispedito.
  
Zola – “In fine dei conti è un italiano moderno – rende omaggio al verismo…” – Nietzsche scrive a Strindberg, da Torino, il 29 novembre 1888. Un “italiano”, scritto in italiano, che però non sarebbe “razza latina”? Fra i tanti rimproveri che Nietzsche muove a Zola (aveva prefato la traduzione francese de “Il padre”, che Strindberg aveva mandato in omaggio a Nietzsche, da grande ammiratore) c’è di fare “una questione di razza” il rifiuto dell’introspezione dei personaggi, dell’“astrazione”: “Finché in Francia c’è stato del gusto, si è sempre rifiutato quello che Zola vuole: è proprio la race latine a protestare contro Zola”.   


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L’Unione del niente

Non si chiama più mercato comune, si chiama Unione Europea, ma è solo un mercato comune. Il resto è tutto forma e apparato: consigli, conferenze, parlamenti. Ognuno fa per sé, tira la coperta Europa per i suoi interessi, e per il resto fa a modo e interesse suo.
Allargandosi senza limiti, ora anche alla Moldavia e alla Georgia, l’Europa è sempre meno un luogo unitario, una federazione di fatto se non di diritto, e sempre più soltanto una comunità commerciale, di libera circolazione di merci e persone: conviene fare parte del grande spazio economico europeo, di un mercato grande, piuttosto che di uno piccolo. E nemmeno quello forse è un titolo determinante, se la Gan Bretagna ha trovato più conveniente uscirne. 
Nessuna decisione politica è possibile, stante il potere di veto di ogni singolo membro. Il nucleo originario, di europeisti convinti, in Francia, Germana, Italia e Benelux, non conta più, o non ha idee o voglia. L’Italia ha perso idee, potere e smalto. L’asse Francia-Germania ha fatto bene fino alla creazione dell’euro, poi non più – specialmente inetto nella gestione Merkel, della crisi bancaria quindici anni fa, e dell’Ucraina della “rivoluzione” del 2014. L’Europa à al di sotto di qualsiasi evento, come ora la guerra della Russia all’Ucraina: non sa farsi valere né militarmente né politicamente, agitando le sanzioni economiche come fosse un’arma, mentre sono in larga misura a suo proprio danno.  


Appalti, fisco, abusi (218)

Il made in China ha sempre qualcosa che presto non funziona: il decoder, la moka, il telefono da tavolo, il tostapane. Tutti, in neretto, developed and designed in Italy, e poi, in corpo illeggibile, made in China. In commesse evidentemente non controllate. Oppure controllate ma non abbastanza, con clausole facilmente eludibili del capitolato di appalto. Basta poco, un metallo non della esatta caratura, una plastica non di una certa robustezza, una limatura anche millimetrica in più o in meno. E poi si sa che cinesi vanno di corsa, il controllo di qualità non è il loro forte. E, come tutti, puntano a ottimizzare il guadagno.
 
Se si reclama, la cosa non suscita non suscita reazione: l’apparecchio inefficiente viene sostituito – un telefono da tavolo è capitato di averlo sostituto cinque volte nei due anni di durata della garanzia. Si sa che la globalizzazione è un fatto commerciale e non produttivo, di qualità. Ma il made in China consente ricarichi così enormi?
 
Le bollette di dicembre ok. Quelle di febbraio (dicembre-gennaio) pure. Ora le bollette di aprile (febbraio-marzo) e il disastro di cui ci hanno bombardato giornali e tg non si vede. Anzi i prezzi sono diminuniti seppure di poco, per kWh o mc. Superficialità? O recezione acritica di speculatori e spioni per anticipare prezzi futuri - di spioni servi degli speculatori?
 
Da codice penale l’anticipo alla pompa del future del petrolio a 130 dollari al barile, fantaeconomia, col carburante caricato per quasi un mese di mezzo euro, da 1,70 a 2,20. Un aumento folle, per ampiezza e senza basi - su una forma di speculazione, che non ha nulla che vedere con i prezzi reali della merce.
Senza nessun intervento, nemmeno un appunto, nemmeno una predica, dell’Arera, l’agenzia pubblica che controlla il mercato dell’energia. C’è voluta una legge del governo che fiscalizzasse il mezzo euro. Incredibile ma vero: speculazione libera, da pagare col fisco.
 
Fanno tenerezza i conteggi dei centesimi, un centesimo, due centesimi, nell’estratto conto della banca – nella fattispecie Unicredit ma è prassi comune. A un tasso sulle giacenze dello 0,0010 per cento. Assortito dalla ritenuta fiscale del 26.0000% imponibile sul ventesimo. Ma quante pagine e quante ore lavoro si spendono per il ventesimo? La banca non ha nulla di meglio da fare? Non si può dire che le giacenze non sono remunerate, a meno di accordi specifici?
E che vorrà dire 26 con quattro zeri?

Toghe intoccabili

Un pamphlet agile sui problemi della giustizia di cui in cronaca. Dal Csm correntizio agli accordi sottobanco (caso Palamara), alle troppe avventure giudiziarie di giudici, alle nomine difficili e contestate negli uffici giudiziari. E alle avventure politi che dei giudici, perché no.
“Da Tangentopoli al crollo della magistratura” è il sottotitolo. “Mani Pulite” doveva essere la cura, e invece è diventata una malattia: la giustizia politica. Nordio, ex magistrato, che non ha fatto la carriera che si meritava perché professionalmente oculato, non la chiama così. Parla di “controllo dei partiti” e di “tutela del Paese”. Ma è giustizia politica, sbirresca, da paese di terz’ordine.
Un sistema, anche, che non si può dire all’ultimo atto, visti i problemi che la riforma del sistema, pur reclamata da tutti, “non s’ha da fare”. Con questo governo unanimistico, o quasi, come con i precedenti governi, di destra, e di sinistra: i giudici stanno bene così, anche se il sistema loro stessi a volte dicono marcio, tanto lo è per più evidenze: carriere, nomine, Csm, “sistema Palamara”, “caso Davigo”, e i giudici capipartito, Di Pietro, i palermitani, i ministri della Giustizia. Il giudice italiano è un “impunito”, si direbbe a Roma. Anche ora, a fronte di referendum che potrebbero far saltare il banco dell’intoccabilità.  
Carlo Nordio, Giustizia ultimo atto, Guerini e Associati, pp.183 € 18,50