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sabato 20 febbraio 2021

L’Europa è con gli Usa, ma non contro Russia e Cina

Niente glamour al primo G 7 di Biden, seppure a distanza, seppure per una prima presa di contatto (era tale anche per Draghi, ma nessuno ci ha fatto caso: l’Italia avrà problemi a uscire dalla politica estera di Grillo, che pure ha tanti “esecutori volenterosi” alla Farnesina). E semmai una constatazione di divergenze: di interessi divergenti, sotto le rassicurazioni.
Il messaggio del neo-presidente si vuole ottimista: tutto in ordine, tutto come prima, Trump è stato  una parentesi, un incidente. Con gli alleti europei, con il clima, con l’Iran (con l’Iran?), e tutti insieme contro la Russia e contro la Cina. Ma non è così. Biden non potrà tornare alla politica delle porte aperte della sua vicepresidenza con Obama, di cui è stata ed è vittima la classe operaia al suo paese. Ma se vuole confrontarsi con la Russia e con la Cina, dovrà farlo da solo. Di fatto, a parole magari no, ma l’Europa, cioè la Germania, non ci pensa.
Angela Merkel dice infine apertamente che la politica del boicottaggio economico della Russia non funziona: non produce effetti, se non negativi. Mentre va avanti sul piano bilaterale nella strategia di fare dela Germania un hub europeo per il gas russo, una sorta di grande agente di promozione commerciale di Gazprom, il feudo più fedele di Putin. E ha appena imposto una sorta di “trattato ineguale” all’Europa con la Cina: un trattato commerciale da cui la Cina avrà benefici, l’Europa non si sa. Pur di vendere qualche automobile tedesca in più.

L’Europa alla deriva, col mercantilismo tedesco

Se gli Stati Uniti possono fare a meno dell’Europa, Nato o non Nato, come già Obama opinava (e Biden con lui) prima del turbolento Trump, anche l’Europa può fare a meno degli Stati Uniti. L’Europa tedesca, degli affari. La Cina è una mercato enorme, e fa ponti d’oro. Le scelte di civiltà possono attendere.
Con Biden il G 7 prende tutto un altro aspetto. Se ne è fatto l’erede di Obama, dopo la parentesi Trump, per riprendere un cammino interrotto. Ma Trump non c’è stato per caso - anche perché la deriva era cominciata col buon Obama, di cu Biden era vice. E non c’è per nulla.
Il liberismo di Obama ha impoverito – letteralmente - i lavoratori americani, portando a Trump. Il liberista – c’è più liberista di un affarista? - Trump ha imposto questioni da cui Biden, ammesso che lo voglia, non può deflettere: il riequilibrio commerciale, e anche politico, con la Cina, e il contrasto all’aggressività della presidenza Xi, manifestamente di stile sovietico, accentratrice e dittatoriale, dopo alcuni decenni di relativo benign neglect, di una quasi libertà di opinione, se non politica. C’è la questione di Hong Kong, e anche degli Uiguri. C’è Taiwan. E c’è mezza Asia, con a capo il Giappone di nuovo militarista, che si arma.
L’Europa invece non c’è: se ci sarà un confronto con la Cina, è dubbio che l’Europa possa o voglia farsi sentire. Il suo senso della civiltà, nella congiuntura attuale e in quella prevedibile, si limita agli affari, vendere uno spillo in più. E a questo fine l’integrazione più agevole è a Oriente, con la Cina, che è già il suo primo mercato, più grande degli Stati Uniti, e con la Russia.   
Il mercantilismo è l’unica politica estera della Germania, anche d a prima di Angela Merkel. Si sa da tempo, come questo sito da qualche decennio segnala, e sempre più non c’è altra Europa che quella a guida e nell’interesse della Germania.

Che bella storia, della bruttezza

Hegel esclude la natura dalla bellezza già nell’introduzione alle “Lezioni di estetica”: la bellezza è solo umana. E la bruttezza - o anche l’orrido è umano? Eco, lontano da Hegel, ne fa un’anamnesi appassionante. Un viaggio di letture inesauribili. Nelle fonti, che ripercorre con acribia sbalorditiva, pur nel suo periodare facile, e nella scelta delle immagini con cui le accompagna – aiutato da Silvia Borghesi. Il diavolo, per esempio, se è un angelo decaduto, non doveva essere bello? Per molti secoli non lo è stato: “La tradizione cristiana aveva cercato di non ricordare che, se Satana era stato un angelo, allora doveva essere presumibilmente bellissimo. Verso il XVII secolo, tuttavia, Satana inizia a subire una trasformazione”. Già con Torquato Tasso, che “a Plutone non riesce a negare una «orrida maestà»”. E poi con Shakespeare, con Marino, e soprattutto con Milton - da vecchio sostenitore della “rivoluzione puritana” non si priva di identificare in Satana “un modello di ribellione al potere”.
E così si procede per mille contesti, circostanze, politiche. Molta bruttezza, specie nelle figurazioni, è femminile. Ma in rispondenza a una “tradizione antifemminile”. Anche la bellezza, per la verità, si direbbe in immagine molto femminile. Ma non ci sono questioni da dirimere. Neppure di definizioni: sulla bruttezza ci sono pochi e non risolutivi tentativi, si procede per opposizione alla bellezza - di cui molto è questione anche in questa “Storia della bruttezza”, a partire da Platone e da Plotino.

Un’opera formidabile, di erudizione e di intelligenza: il lettore è condotto attraverso mille sorprese e scoperte. Anche perché è una storia che non era mai stata fatta. C’è perfino una “lussuria del brutto”, col Decadentismo. E una “bruttezza industriale”, con molti celebratori, compreso il Carducci dell’“Inno a Satana”: Dickens delle “miserie di Londra”, Jack London del “popolo dell’abisso”, E.A.Poe della “folla”, Sedlmayr del “bello tecnico”. Ultimamente il kitsch e il camp – dopo “il trionfo del brutto” con le avanguardie del primo Novecento e del secondo dopoguerra. Anticamente i trionfi della morte, le streghe, i satanismi. Il sadismo naturalmente. E le “filosofie del brutto”: il “Laocoonte” di Lessing, ma di più le tante trattazioni del Sette-Ottocento sul sublime, a partire fa Boileau (“Trattato del sublime e del meraviglioso”, 1674), con “La Tigre” di William Blake (che Borges, si può aggiungere, ha provato a imitare, ma anche Valery) e poi Burke e Shelley, e con Kant, Schegel, Schiller, Schopenhauer, fino a Nietzsche.  
Umberto Eco, a cura di, Storia della Bruttezza, Bompiani, pp. 455, ill. € 16

venerdì 19 febbraio 2021

Ombre - 550

Nessun dubbio che Alex Schwazer fosse stato incastrato da un falso esame antidoping nel 2016, si sapeva, per far vincere i cinesi:
http://www.antiit.com/2016/07/linformazione-dopata.html
http://www.antiit.com/2016/07/la-corsa-delle-beffe.html
Ma niente è successo alla Wada, che ha disposto il falso esame, né alla Iaaf, la federazione internazionale dell’atletica, ora World Athletics. Non vogliamo dispiacere ai Damilano, che allenavano i cinesi? I cinesi pagano? Ricattano? L’atletica si vuole sempre pura, basta condannare qualche russo, con Schwazer? Non c’è niente di buono da ipotizzare in questa vicenda.  
 
Una vicenda ancora più strana perché c’entra la massoneria – o le massonerie. Il Procuratore Capo di Bolzano non ha indagato, ha dovuto fare tutto il giudice. Volendo entrare nella World Athletics ci s’imbatte in Sebastian Coe. Che si ricordava ottocentista smilzo, minuto, che portava le scarpe ma volava agile come un africano, 50 kg. per 1,75, ma si ritrova su wikipedia deputato conservatore, baronetto, Pari a vita, CH, KBE.
   
Quando Draghi dice: “Sostenere  questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro”, Camelo Lopapa vede su “la Repubblica” il ministro leghista Giorgetti sussultare, mentre “Matteo Salvini – si scorge dalla tribuna – abbassa gli occhi”. Mentre dalla tribuna stampa al Senato non si vede niente, sta alle spalle dei senatori. E poi: è questo il fronte di resistenza anti-leghista: occhi bassi a Roma e viva il parroco (gli affari, la Borsa) al Nord, nella Padania cara a Scalfari?
 
E simbolicamente, non conta più Giorgetti nelle immagini alla destra di Draghi? Mentre non si vede più il Di Maio onnipresente da due anni e mezzo a fianco di Conte, anzi proprio vice-presidente del consiglio. Il governo Draghi non è il governo della Lega e del Pd insieme? Ragionarci costa?
 
Il vero “scandalo” del governo Draghi è la convivenza fra 5 Stelle e Forza Italia. I “nuovi”, “alternativi”, “mai al governo con Berlusconi”, fanno finta di niente: la retribuzione da parlamentare è un terno al lotto.
 
Si difende Prestipino come il solo candidato buono a dirigere la Procura di Roma, anche se i concorrenti hanno più titoli, anche di fatto di onestà e antimafia, e lui è stato nominato col teorema Palamara, delle quote tra correnti parasindacali. Si difende perché è, o si dice, del Pd. Lo difende “la Repubblica”. L’amico del giaguaro? Davvero il Pd è legato al sottogoverno? Alla lottizzazione (di quello che resta) della giustizia?
  
Orrido spettacolo della squadra di calcio italiana con più campioni, i più pagati, la Juventus, contro una squadra portoghese di mezza classifica. Che ha dominato nel gioco e nei gol. Nell’intelligenza e la fisicità. Nella tecnica, benché di atleti sgraziati. Il calcio è sempre un’attività sportiva, non di soldi – è sport di squadra, non c’è che fare.
 
Uno spettacolo orrido, Porto-Juventus, anche per l’insensatezza del calcio d’allenatore, che la Juventus applica da un paio d’anni – lo richiede il medico, la dirigenza, il business? Di “tenere palla”; nel senso di non andare contro l’area e la porta avversarie, ma di portarla davanti alla porta propria, dove, dopo aver evitato un paio di incursioni, il portiere juventino fa una rimessa lunga, cioè dà la palla agli avversari, che l’attendono di fronte e non di spalle. Per questo gli allenatori sono pagati. Anche due insieme, alla Juventus, Sarri e Pirlo.
 
Pirlo è la smania del calcio d’allenatore portata all’incompetenza: si prende un bel nome, anche se non ha mai allenato, e il calcio d’allenatore è fatto. Si dice che l’Italia diffida dell’autorità, dell’autoritarismo dopo Mussolini. I tentativi di ammodernare la Costituzione parlamentare creando un potere esecutivo sarebbero stati bocciati per questo (in realtà no, li hanno bocciati i partiti-comitati d’affari, dei poteri fuori e contro la costituzione). Mentre il principio di autorità si vorrebbe sul campo di calcio?
 
Il dottor Agostino Miozzo, ostetrico dell’università di Harare, in Zimbabwe, coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico che per il governo controlla l’andamento dell’epidemia e decreta aperture e chiusure, vuole chiudere le scuole, dopo avere insistito per riaprirle. E al presidente del consiglio Draghi consiglia, non richiesto, di sostituirsi ai poteri delle Regioni, come se potesse farlo.

Miozzo, presidente del Cts, si era anche candidato a commissario della Sanità in Calabria. Che si penserebbe posto ingrato – tutti vogliono scappare dalla Calabria, giudici e Carabinieri di prima nomina, prefetti, questori - e invece è goloso. Chissà perché.   

Resurrezione nell'abiezione

Anna, bambina e ragazza felice, con un padre amorevole, libera in montagna con la sua bicicletta e il cagnetto per compagno, accudita nel palazzo ai Quartieri Spagnoli dai Gesù con i i riccioli e le Madonnine sorridenti, alla morte del padre affronta la vita da sola, lontana dalla famiglia, dal quartiere e dagli amichetti di sempre, dalla sua città, per il bene e per il male protettiva, nel più squallido dei modi. Costeggiando la prostituzione, clubista alla pole dance, sotto luci stroboscopiche per accentuare le curve, con i privé per arrotondare. Con fidanzati sciocchi, pieni del proprio vuoto, come è ora d’uso.    
Un romanzo di morti e catastrofi, pieno di vita. “Si nasce quando si fallisce” è una sua morale, provvisoria – anche, perché no. Un’elaborazione del lutto, in un’educazione sentimentale e di vita al rovescio, come una diseducazione, una crescita a ritroso. Un’infanzia e un’adolescenza nella memoria felici si scontrano con l’obbligo quotidiano della sopravvivenza: triste, squallido, violento anche. Una celebrazione inconsueta della figura paterna, anche – non più in uso da quando c’è Freud, un secolo? E un incredibile, sempre contromano, romanzo religioso. Non di fede, non argomentata, d’intellettualità e analisi critica: d’immedesimazione, con il Cristo, le Madonne, la Bibbia. È anche, di passata, una dismissione senza più, senza polemiche, del maschio giovane 2020. Cammini non impervi, ma non usati.
Un romanzo di affetti – per ogni verso dunque singolare. Dichiarati, ripetuti, coltivati. Tanto più eccezionali in quanto parentali, l’amore del padre, della nonna materna, delle vedove del vicolo. Come dei compagnucci di scuola, anche loro in disuso. Senza sentimentalismi. Col contrappunto del corpo, del rifiuto quasi del corpo, abbandonato all’abuso, senza sofferenza, anche col convivente vuoto. Una sorta di “apprendistato” di ritorno, di riscoperta e ricostituzione di sé nell’elaborazione del lutto per la scomparsa del sé paterno.
Il racconto si propone all’insegna dell’Apocalisse”: “Quello che vedi, scrivilo in un libro”. E di Bolaño: “E l’incubo mi diceva: crescerai”. Anna, come il Luca Cupiello di Eduardo “ha un problema di accettazione della realtà”. È una che “si guarda da fuori”, in atti e rapporti senza affetto, senza scopo, ma non senza determinazione: “Ci vuole molta forza per partorirsi”, riflette, in quella che sa “traversata contromano nel dolore”. Non un disgraziere, il solito elenco di deiezioni che finora ha informato il millennio, ma un racconto caparbio, creativo. Più che di formazione, un romanzo di rinascita – l’elaborazione del lutto è una rinascita.
Un romanzo-verità, anche. Un romanzo di formazione-verità? Che si presenta al modo di Simenon, dei romanzi “duri”: un apprendistato alla vita senza sviluppi, un orizzonte basso, una tranche-de-vie. Brusco: con l’immediatezza visiva dei tagli teatrali, filmici. E molte “caratterizzazioni”, monologhi animati: della vita di quartiere a Napoli (i funerali, la Pellicciaia, le Madonne e i santi) e di quella anonima a Montesacro a Roma – con un’incursione, alla “New Pope” di Sorrentino, in un Vaticano da balera, con karaoke e fumo. Molto “scritto”, a differenza delle prose coetanee, ma di scrittura nervosa, che bene inquadra e ed espone, senza sovrapporsi o congiurare. Anna bambina e figlia felice, Anna del “qui-ora-così”, e Anna del “pensiero possibile”, che si vede e si spiega – si costruisce? La lettura trasportando immediata nei due mondi, degli affetti e dell’alienazione. Irriducibili eppure conviventi. La rappresentazione della condizione umana al sorgere del millennio?  
Carmen Barbieri, Cercando il mio nome, Feltrinelli, pp. 218 € 16.50

giovedì 18 febbraio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (449)

Giuseppe Leuzzi

Si tiene a Lamezia uno dei maxi processi del Procuratore Gratteri: 325 imputati – altri 91 hanno scelto il rito abbreviato. In un’aula bu nker appositamente realizzata, in cinque mesi, per cinque milioni. Mentre a Palmi, dove si giudicano le mafie della Piana di Gioia Tauro, la giudice Concetta Epifanio, riferisce Giuseppe Smorto sul “Venerdì di Repubblica”, si lamenta: “Tempesto il ministero di chiamate, non mi rispondono nemmeno. Teniamo i faldoni in stanze dove piove, facciamo le udienze col cappotto”.

Un altro giudice di Palmi, Antonio Salvati, “da vent’anni in Calabria,”, nota sempre Smorto, “si lascia andare in un forum con le associazioni di volontariato: «L’aula del maxiprocesso  di Lamezia è stata messa su in cinque mesi: per l’ospedale di Palmi il piano è partito tredici anni fa,  e siamo ancora al punto di partenza»”. Al netto della tragicommedia dei commissari risanatori della Sanita infetta in Calabria.

Commentando la figura controversa di Leopoldo III re dei Belgi, prima a capo della Resistenza all’invasione tedesca, poi in qualche modo collaboratore, benché prigioniero, durante l’Occupazione, Curchill scrisse a fine guerra: “Leopoldo è come i Borboni, non ha imparato niente e ha dimenticato tutto”.

L’indotto della mafia
Nelle celebrazioni di Sciascia per i cento anni dalla nascita riaffiorano le sue critiche al maxiprocesso, al primo, quello di Falcone, specie all’uso dei “pentiti”. Ma quel maxiprocesso ha stroncato la mafia. Prova ne sono le terribili stragi successive, e la fine dei corleonesi sanguinari – Messina Denaro compreso che fa da trent’anni, dei suoi sessanta, la vita del sorcio – i colpi di coda sono distruttivi per essere disperati.
A Roma si arresta una banda di narcotrafficanti, una trentina di persone, attiva nelle periferie Est e Ovest della capitale e nell’agro romano a Nord. Capeggiata da uno di Sinopoli, dice il giornale,  “considerato affiliato a Roma del clan Alvaro”. Che imperversa da almeno i primi anni 1960, quindi da sessant’anni.
Lo stesso il loro socio nel narcotraffico a Roma Nord, Antonio Pelle, “capo dell’omonima cosca di San Luca, sempre nel reggino” – come Sinopoli.
Lo stesso, si può aggiungere, del clan Grande Aracri, dell’area jonica, cosentino-crotonese, che il Procuratore di Catanzaro Gratteri persegue con retate gigantesche, di centinaia di persone alla volta – per i quali un maxiprocesso è in corso a Lamezia con poco meno di 400 imputati. Apparentemente senza effetto, se gli arresti in massa si susseguono.
Il problema  non è il maxi ma la qualità delle indagini. Specie se si basano sui pentiti, testimoni di comodo. Una terza grande famiglia di mafia, i Pesce di Rosarno, sono usciti dalle cronache dopo decenni per il ravvedimento di una delle donne di famiglia, una figlia. Basta poco per una vera azione di contrasto alle mafie, e non di luminarie per i media, e per le carriere.
Gli Alvaro, dopo avere stroncato con i taglieggiamenti impuniti ogni imprenditoria nel loro paese e nel vicinato, con la droga investono a Roma da almeno vent’anni, dall’acquisto del Café de Paris a Via Veneto. Con lo storico ristorante George’s, sempre a via Veneto, e l’adiacente grande caffè California in via Bissolati. E una miriade di caffè e ristoranti: il Federico I alla Colonna Antonina e un Ristofood in via Tiburtina, il Gran Caffè Cellini in zona Battistini, un Time Out in Valtrompia, verso Guidonia, un bar Clementi in via Gallia-San Giovanni, e il bar Cami a Talenti.
Grande operazione di polizia dieci anni fa, arresti sequestri, contro gli Alvaro. Grandi valutazioni dei sequestri: il Café de Paris, comprato per 250 mila euro, si dice valere 55 milioni (di fatturato? di avviamento? impossibili), il “George’s”, vecchio ristorante che nessuno frequenta, 50 milioni. In tutto un patrimonio, si dice, di 200 milioni.
Pignatone, il Procuratore di Reggio Calabria che ordina l’operazione, si libera infine dell’ingrata sede per l’agognata Procura di Roma.
I beni sequestrati agli Alvaro a Roma al processo sono stati restituiti, non c’è mafia – non agli atti del processo.
Non si colpisce la mafia – non è difficile, basterebbe prendere i mafiosi, subito – per non colpire l’indotto? Comprese le carriere – se finisce la mafia finiscono le carriere?
 
L’Italia a pezzi
Dopo la pandemia, anche i rimedi hanno una distinta caratterizzazione regionale. Più inefficiente al Nord, per stanchezza, incapacità o presunzione.  Già dai provvedimenti differenziati di lockdown. Per lo svago si è imposta l’apertura di caffè e ristoranti, dove si sta al chiuso, a distanza ravvicinata, uno di fronte all’altro, bisogna togliersi la mascherina, e bisogna parlare a voce alta. E non si è consentita al cinema e al teatro, dove bisogna stare zitti, allineati e non  frontali, e sarebbero  posti ideali per respirare con la maschera. Perché? Perché il business dei caffè e ristoranti è dieci o cento volte quello dei cinema e teatri.
La regione Lazio, cioè la burocrazia indolente di Roma, dimostra che si può fare una campagna di vaccinazioni di massa: il sito di prenotazione ha funzionato, l’organizzazione sembra perfino semplice tanto fila liscia, anche senza le “primule” del design milanese, e si poteva benissimo raddoppiare la somministrazione dei vaccini, l’organizzazione è così decentrata ed efficiente che si potevano dimezzare i tempi, cinque minuiti per somministrazione invece di dieci.
In altre regioni si sposta l’obiettivo, per dire invece di fare. Comprare altri vaccini autonomamente – la tentazione dell’appalto prima di tutto? La variante inglese? La sudafricana, la napoletana, l’olandese? Astrazeneca? Negli Usa (del deprecato Trump) la vaccinazione di massa subito, già da metà dicembre, ha subito circoscritto i contagi: i contagi giornalieri sono crollati sotto i 100 mila, la metà del picco di Capodanno.
Non ci sono molte soluzioni. Ma le poche non piacciono. Tutti improvvisati Napoleoni, gli autonominati “governatori” di regione. Quasi tutti imbonitori, specie i leghisti del Nord: Veneto, Lombardia, Piemonte - che infettano la finitima Emilia. Gli stessi che hanno voluto l’Italia a sanità regionale, per meglio lucrare nel ricco settore.
 
Il Sud senza portafoglio
Solo due del Sud, due potentini, Speranza e Lamorgese, fra i ministri del governo Draghi. C’è anche Carfagna, salernitana, ma ha un ministero senza portafoglio, cioè le serve solo per potersi dire ministro - e riguarda il Sud: un luogo senza portafoglio. Oltre Di Maio, titolare di un ministero che non governa.
Alla scomparsa della questione meridionale succede la scomparsa del Sud politico. Quella si poteva ritenere una buona cosa, eliminare la minorità del Sud, se il Sud fosse – fosse stato, ormai sono trent’anni e più dalla scomparsa – ammesso alle politiche economiche nazionali. Senza rete di protezione, ma avesse una giusta quota di investimenti pubblici. Per esempio le strade e autostrade, le ferrovie, la telefonia, in fibra e anche solo col doppino, il wifi.
Il Sud ha avuto due presidenti della Repubblica in successione, Mattarella dopo Napolitano. Come non detto. Napolitano ha nominato senatori a vita, l’eccellenza del Paese, solo dell’estremo Nord: Abbado, Monti, Cattaneo, Rubbia e Piano – Mattarella sobrio ha nominato Liliana Segre.
 
Sicilia
Camilleri, come già Sciascia, rivendica una “amizicizia siciliana”. Ma come un mistero, “un po’ complesso”, che scioglie assimilandola al rapporto fra gemelli, una sorta di immedesimazione. Intuitiva, senza bisogno di parole. “Tra siciliani”, spiega in “I detti di Nené”, “un vero amico non deve chiedere all’altro una qualche cosa, perché non c’è bisogno, in quanto sarà preceduto dall’offerta dell’amico, che ha intuito…”. Da qui, dall’immedesimazione, le rotture terribili: “Già mettere un amico nelle condizioni di fare una richiesta indica un’amicizia imperfetta”.
 
È siciliano, palermitano, il campion mondiale di Glovo, le consegne di cibo a domicilio – pizze e panini. Lo fa da vent’anni, ha cominciato a vent’anni, per passatempo. Faceva anche il dj ma con le consegne ci guadagna, abbastanza. La voglia non manca. L’applicazione neppure.  
 
Nick La Rocca, cornettista virtuoso e bandleader, nato a New Orleans da genitori del trapanese (a New Orleans si dirigevano a fine Ottocento i siciliani di Palermo eTrapani), è l’autore di “Tiger Rag”, il brano che impose il ragtime, lo stile New Orlenas. A capo della Original Dixieland Jass Band – la parola era allora più vicina al significato originario, derivato dal francese jaser, eccitare. Jelly Roll Morton rivendicherà poi la paternità del brano, un arrangiamento, disse ad Alan Lomax, di una quadriglia francese. Ma la prima incisione di “Tiger Rag” è stata di La Rocca e la sua band.
 
Mario Praz la trovava perfetta: “Il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo. In Sicilia, il retroscena storico è profondissimo, e la varietà del paesaggio supplisce alla relativa ristrettezza spaziale, sicché si potrebbe facilmente sostenere che quello di Sicilia è il viaggio perfetto”.
 
La meraviglia dei viaggiatori è una costante: “Per chi un viaggio in Sicilia non ha rappresentato un premio, o quasi il compimento di un voto? L’uomo non ha cessato, neanche nei tempi storici, di favoleggiare sulla Sicilia, che è la terra stessa del mito: qualsiasi seme vi cada, invece della pianta che se ne aspetta, diviene una favola, nasce una favola.” - Cesare Brandi.
 
L’immagine della Sicilia era prevenuta e di maniera già nel 1963 per Sciascia – che pure se ne dilettava: sommerso da un profluvio di film sulla Sicilia, ammoniva (“La Sicilia e il cinema”, poi in “La corda pazza”), lo spettatore dovrebbe cominciare a chiedersi “che cosa la Sicilia non è”. L’anno successivo stroncherà Germi, “Sedotta e abbandonata”, per avere tratteggiato una Sicilia che non esisteva.
Sciascia si è detto presto infastidito dalla sicilianità, che pure aveva elogiato, seppure in forma di “sicilitudine” – “categoria metafisica, condizione esistenziale o stato antropologico dell’essere siciliani”. Nel 1964, stroncando il film di Germi, e una ricerca dell’antropologo Tentori (“Le svergognate”), lamenta una Sicilia acculata “al delitto d’onore, votata al mito della verginità”. Di cui lui, nato nel 1921, nella Sicilia “profonda”, non conosceva nessun caso. Ma non rinunciava, in altro ambito, alla “linea della palma”, che sale, sale.
 
Rieditando il “Padrino III”, per i trent’anni, Francis Ford Coppola ha cambiato il titolo, “Mario Puzo’s The Godfather Coda: the Death of Michael Corleone”, la morte di Michael Corleone, perché invaghito di un altro finale: Corleone seduto su una sedia nel cortile del palazzo, meditabondo, su questa considerazione che lo spettatore legge sullo schermo: “Quando i siciliani ti augurano «cent’anni» è un augurio per una lunga vita… e i siciliani non dimenticano”. La Sicilia come condanna a morte in vita. Ma i luoghi del “Padrino III”, sopra Taormina, sono infinitamente riconoscenti a Coppola per il film.

leuzzi@antiit.eu

Ma come si parla male

Le parole sono importanti. Chi parla male pensa male e vive male”: Nanni Moretti, “Palombella rossa”, serve al critico per aprire il tema dell’impoverimento del linguaggio. Della “lingua di platica”, già allora - parliamo di venticinque anni fa.
La Porta ripropone il problema che Orwell poneva già alla fine della guerra (sulla rivista “Horizon” di aprile 1946), “Politics and the English Language”, da lui stesso subito poi, 1948, ripreso in chiave universale, la “neolingua” del romanzo “1984”. Ponendo il problema “in alto” più che in basso, dei gerghi: “Il basic di Aldo Biscardi (chi era costui? n.d.r.) è, anche foneticamente, imbarazzante, ma siamo sicuri che lo stile ruvido-alpino di Giorgio Bocca e  e il classicheggiante periodo ipotattico di Eugenio Scalfari (autori presenti in antologie scolastiche) migliori davvero il nostro uso dell’italiano?” Dopo aver lamentato “le intimidatorie «intrusioni citative» e gli insopportabili «ammiccamenti grafici» di Massimo Cacciari”. Compresi i filisteismi imperanti – questi tuttora – della Leggerezza e la Semplicità. Se non che non è esercizio grato, “la critica ai tic verbali è diventata anch’essa un vezzo midcult”, avverte subito lo stesso critico.
Un inventario, divertito e divertente, benché all’insegna di “divagazioni morali su modi di dire e frasi fatte”, come da sottotitolo. Sui modi di dire di Fine Millennio. Preceduto da un saggio di buone intenzioni cattive. Attorno al “piccolo borghese”, il peggio del peggio, e all’“amoralismo e opportunismo di massa”, robe che sono tutto e tutti eccetto noi – il lettore e l’autore. Con l’ironia oggi stonata sul posto fisso – ma già allora i licenziamenti fioccavano a milioni (Checco Zalone l’ha appuntita meglio, “il posto” della fissa s’intende pubblico). O l’ironia anch’essa sballata sull’università da abbattere, che da allora, con le riforme berlingueriane e berlusconiane è stata privata di fondi e non fa più un concorso a cattedra, se non per i “locali”, gli amici degli amici – gli studenti sono affidati ai precari, e i precari si trovano belle tenures (carriere) negli Usa e perfino in Gran Bretagna, perfino in Spagna, e naturalmente in Germania, anche se qui ci vanno in pochi, per il clima. Mentre a Berlusconi è succeduto Grillo, pensare, un nano cresciuto sulle spalle del suo Berlusconi “psiconano”.  Non c’è limite al peggio?
Il “piccolo borghese” per troppo tempo ha ottuso la critica. Mentre è l’epoca ormai da tempo - da Tienanmen e anche prima della globalizzazione, con l’ubbia del mercato, cioè del consumo, impellente, rapido, autofagico - della spesa compulsiva e dell’obsolescenza quasi immediata, della dissipazione. Per i belli-e-buoni dela Repubblica come per i piccolo borghesi. Delle narrazioni di sé e dei piaceri. Cosa resta dei tanti nomi che La Porta leggeva trent’anni fa con interesse, Nove, Palandri, Demarchi, Brizzi Brolli? Della sua sociologia, tanto spiccia e confusa quanto diffusa come linguaggio politico? Dell’autoreverse – che c’è sempre stato dopo Proust, quindi da un secolo, di ognuno che si crogiola nella sua storia? Della “Generazione Me”, che invece è finita subito nell’imbuto, le Generazioni Y e Z, senza futuro. E non per improvvida veloce autogenesi, ma per l’improvvisa bonaccia, proprio come in Conrad, con i venti passati al “mercato”. Era anche l’epoca di un “ritrarsi (relativo) dei dialetti”, che invece oggi imperversano, impoveriti e impoverenti.
Il cambiamento c’era e c’è, enorme. Basta pensare al passaggio dal critico militante all’ufficio stampa. O all’irrealtà di un Parlamento grillesco, senza il senso del ridicolo del comico antiparlamentare. Indubbiamente “non c’è problema” è problema che si ripropone. La rilettura di La Porta serve in absentia: a che ci siamo ridotti?
È anche l’effetto del radicalismo, sempre fuori fase. Curiosamente, perché La Porta fa frequente ricorso a Christopher Lasch, il sociologo americano critico del radicalismo (liberal) americano, e del narcisismo. È così che il tema del linguaggio sembra argomento salottiero, da conversation piece, di umori e malumori, divertito e divertente, ma non incisivo. Vagando fra due spettri, la società di massa e piccolo borghese. Ora, la società è sempre di massa – a meno che non sia delle “preziose ridicole”. E il borghese è sempre piccolo, anche il grande.
Il pamphlet è in realtà del mondo intellettuale, specie di quello letterario, di vezzi e vizi. “Come stai, cosa stai scrivendo?” “Uno di questi giorni ci si vede?” “Lo criticano perché sono invidiosi”, “Spettacolarizzare, bisogna spettacolarizzare” “Il problema è un altro”, “Torniamo a sognare, mandiamo al potere l’immaginazione”.
L’analfabetismo di ritorno sarebbe stato argomento più serio. A  fine Millennio, il programma Ocse per la valutazione delle competenze nella popolazione adulta, dava per l’Italia due milioni di analfabeti, 13 milioni di semianalfabeti, che sanno firmare ma non capiscono quello che leggono, e 13 milioni di analfabeti di ritorno. Poco meno della metà della popolazione.
Filippo La Porta, Non c’è problema

mercoledì 17 febbraio 2021

Secondi pensieri - 442

zeulig


Comico
– È inafferrabile? “Fino all’età di cinquant’anni, e per tutta la ma giovinezza”, scrive Eco nell’autobiografia intellettuale che apre il volume a lui dedicato già nel 2017 nella “Library of Living Philosophers”, e ora edito in italiano, “La filosofia di Umberto Eco”, “ho sognato di scrivere un libro sulla teoria del comico. Perché? Perché ogni libro sull’argomento non ha avuto successo. Ogni teorico del comico, da Freud a Bergson o Pirandello, spiega alcuni aspetti del fenomeno, ma non tutto. Questo fenomeno è così complesso che nessuna teoria è o finora è stata in grado di spiegarlo completamente. Quindi mi sono detto che mi avrebbe fatto piacere scrivere una ver a teoria del comico, e in effetti h scritto alcuni saggi sul comico e l’umorismo. Ma poi il compito si è rilevato disperatamente difficile. Forse è per questo motivo che ho scritto «Il nome della rosa», un romanzo che parla del libro aristotelico perduto sulla commedia”.
Ma poi finisce per collegare il riso alla coscienza della morte. Partendo da fatto “che siamo gli unici animali che sanno che devono morire”: “Probabilmente per questo ci sono religioni e rituali”. E. di più, “ridiamo”: “Ridere è il modo radicalmente umano di reagire al senso mano della morte”. Si ride allora come si è religiosi, e rituali? Per una forma di scongiuro? Di allentamento della tensione, di disinnesco? Eco non ci arriva, ma ne fa una sorta di arma di pace: in quanto “reazione al senso umano della morte”, “il comico diventa un’occasione per resistere alle tragedie, limitare inostri desideri, combattere il fanatismo”. Un’occasione o un modo? Non solo: “Il comico (sto citando indirettamente Baudelaire) getta una diabolica ombra di sospetto su ogni proclama di dogmatica verità”. O non dell’inutilità della verità, se tutto è vanità, come voleva l’“Ecclesiaste” della Vulgata (non del ritraduttore Ceronetti), e insegnava Filippo Neri.
 
C’è il comico per sé, nei fatti, negli eventi, nei linguaggi. Comico a fronte di un’altra realtà, degli stessi fatti, eventi, linguaggi, sottintesa ma presente, che si ritiene – è per pratica e consenso – reale, a fronte della rappresentazione diversa, e per questo comica che ne viene fatta.
Comico a volte per mancanza del senso del ridicolo – del limite. Del troppo, esagerato. Nel senso cattivo, dell’attacco, l’offesa, la distruzione. E in quello buono, del consiglio, la partecipazione (empatia), la protezione, la cura.
 
Dialetto  - “Un grandissimo numero di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche - quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare sentimento di esse” – Pirandello, “Prosa moderna”, 1898. Camilleri lo spiega in “Cos’è un italiano?” (ora in “Come la penso”): “Semplificando, di una data cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i sentimenti”. Ma forse vuole dire “i sentimenti e il concetto”. Nelle sue sfumature: un concetto che è più concetti sottili. Spesso senza bisogno di dire: il dialetto è anche sintetico e ellittico. Perché più significante, concettualmente.
Il dialetto è “il principale donatore di sangue” della lingua, dell’italiano – Camilleri, ib., p.245
Ritornando sulla questione ne “I detti di Nené”, di Nené inteso Camilleri, lo scrittore spiega che “con la lingua del cuore, che non è soltanto del cuore ma è qualcosa di ancora più complesso, succede una cosa appassionante. Lo dico da persona che scrive. Mi capta di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana”.
Aveva principiato dicendo: “Il dialetto è la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare”. Conclude allargando l’obiettivo: “Non è solo una questione di cuore, è anche di testa. Testa e cuore”.
È pur sempre una lingua “chiusa” – tanto più significante in quanto chiusa. Tra persone e ambienti ristretti, anche se rivolti all’ampio mare.  Nasce e si nutre in una scena ridotta, dagli orizzonti bassi. Una lingua, si direbbe, inwarding, più comunicativa ed espressiva che molteplice, inventiva, innovativa.
La lingua ha bisogno d’innovazione? Si. Più che di tradizione, di sensi nascosti e anche complessi? Non nascosti, impliciti, multipli, sottili? La novità non saprebbe non essere complessa.
 
Marx - L’ultimo platonico. Hegeliano naturalmente, nell’impianto, ma in un sentito platonico – ideale, idealistico, risolutivo. Fautore della filosofia (rivoltata, ma sempre filosofia, completa, totale) in politica: della soluzione definitiva.
 
Hartmut Retzlaff, già direttore Goethe a Roma, editando con Eleonora de Conciliis il pamphlet di Jean Paul contro Fichte, “Clavis fichtiana seu leibgeberiana”, ci trova in appendice tutto il primo Marx, gran lettore di Jean Paul: l’alienazione e il feticismo della merce, “i termini cardine della critica delle merce nel primo volume del «Capitale»” - molti studi sono stati fatti in argomento. E poi dopo: “L’uso metaforico delle Charaktermasken (termine che origina nella Commedia dell’Arte), come parametro di una sociologia dei ruoli ante litteram, e il termine Fetichismus per descrivere l’autoriduzione delle società evolute a un primitivismo percettivo, risultano decisive per la sociologia del tardo Marx”.
 
Memoria – Opera come una quinta teatrale, quando la scena usava fissa. Come una serie di quinte, da cui soggetti e eventi escono ed escono.
 
Natura – Non è bella, e anzi è l’assenza di bellezza. Hegel la esclude dalla bellezza già dall’introduzione alle “Lezioni di estetica”: la bellezza è solo umana. Dell’occhio? Che vede i colori, le trasmutazioni, i cieli, le ombre – solo l’occhio umano è in grado di analizzare la natura, di dirla, che si una nuvola passeggera o un terremoto di forza imbattibile, fuoco, lapilli, cenere. 
 
Nella sua lezione “La bellezza” alla Milanesiana del 2005, Umberto Eco ne fa come una scenografa a contrasto del sublime. Una natura, si potrebbe aggiungere, che già dai tempio di Lucrezio è l’orrido: tetragona e minacciosa, non amica sorridente.
Eco parte dall’assunto: “L’esperienza del bello presenta sempre un elemento di disinteresse”. Di interesse non personale, o di possesso: spassionato – si apprezza il bello senza volersene appropriare. E conclude – col pittore Caspar David Friedrich – con l’assolto distacco da una natura insieme incombente e remota: “Forse la maggiore affermazione del disinteresse estetico è stata fatta proprio nel periodo in cui, con l’esperienza del sublime, pareva si celebrasse il nostro coinvolgimento negli scatenamenti dell’orrore o della maestà degli eventi naturali”. Cita Friedrich in quanto pittore del sublime naturale, di fronte al quale mette in scena spettatori umani, in una sola posa: “L’essere umano è di spalle e, per una sorta di messa in scena teatrale,  se il sublime è la scena, egli sta sul boccascena, dentro allo spettacolo ma rappresentando la parte di chi sta fuori dello spettacolo”. Di chi non è parte della natura, “in grado di sfuggire al potere naturale che potrebbe sovrastarci e distruggerci”.
 
Storia – È invenzione dell’Europa.
È traditrice per lunga tradizione. Per Kant in un punto preciso della sua “Antropologia dal punto di vista pragmatico”. La dove s’imbatte, nella “Historia Concili Tridentini”, in questo punto: Erant ibi etiam 300 honestae meretrices, quas cortigianas vocant”, c’erano anche trecento meretrici oneste, che si chiamano cortigiane. Com’è possibile, nella sola Trento, si chiede Kant. Ma il Concilio si svolse per lo più lontano dalla città. E la “Historia Concilii Tridentini” è opera tarda. Di un cardinale, Pietro Sforza Pallavicino, ma in polemica con la storia di Paolo Sarpi.


zeulig@antiit.eu

Che paura, la libertà dell'Fbi

La storia della guardia privata che all’Olimpiade di Atlanta evitò una strage localizzando per tempo un ordigno esplosivo e allontanando la folla dei partecipanti all’evento musicale cui presenziava nel servizio d’ordine. Che l’Fbi, per mostrarsi sollecita e capace, si sforza in tutti i modi, anche illeciti, s’incolpare dell’attentato. Un giovanottone appassionato di armi e di polizia, con qualche problema fisico e di locuzione. 
Un film agghiacciante – asciutto, spietato, come è dell’ultimo Eastwood. È stato presentato come una critica dello strapotere dei media. Che ci sono, importuni, fastidiosi. Ma non cattivi. Il film è un atto d’accusa contro la polizia federale. Sdegnato, perfino eccessivo - si fatica a credere a tanta disumanità: si fanno riunioni come nel “Padrino”, e senza eufemismi o circonlocuzioni. Ma senza che l’Fbi abbia potuto protestare, i fatti evidentemente sono andati come Eastwood li racconta.
Un film come questo si dirà che solo l’America può produrlo e apprezzarlo, un paese libero. Ma nessuno ha pagato per il falso processo a Jewell – non c’è stato in realtà processo, l’Fbi non aveva elementi, lo ha fatto condannare con indiscrezioni pilotate ai media. Con Jewell come, ultimamente, con il Russiagate, costruito dall’Fbi, e alimentato attraverso i media, su un dossier di un ex agente britannico, pagato. O come con l’arresto dieci anni fa di Strauss-Kahn per “tentata violenza sessuale”, su confidente della stessa Fbi. Il paese delle libertà è il paese delle libere, incontrollabili, polizie.   
Clint Eastwood, Richard Jewell, Sky Cinema

martedì 16 febbraio 2021

Ecobusiness

Si compra una macchina ibrida che costa niente con i soldi pubblici, e si va a benzina. Chi ha il garage, con colonnina di ricarica? Chi ha la pazienza di ricaricare? Quante macchine sono in ricarica ai punti Enel? Semplice, no?
La Panda City Cross costa 15.300 euro, hybrid 8.400. La Lancia Y Ecochic costa 15 mila euro. Ibrida costa 12 mila – ibrida con incentivo 10 mila.   
Metà dell’acqua degli acquedotti si disperde per falle nelle condutture. La dispersione si calcolava in “poco meno” del 30 per cento a fine Millennio, e in “poco meno” del 40 pe cento nel 2011, l’anno del referendum, si cacola in “poco più” del 50 per cento oggi. Nel decennio niente è stato fatto per rinnovare la rete idrica, ferma al dopoguerra. Anche se le tariffe, comprensive della quota fissa, particolarmente elevata per colpire le “seconde case”, sono mediamente aumentate in tutta Italia del 20 e anche del 30 per cento.
Si vantano gli sciacquoni del bagno duplici, con una cassetta per la pipì e una più grande per la cacca, ma qual è il risparmio di acqua? Si usa la protezione ambientale per vendere prodotti inutili.  
Sostenibilità, circolarità, ambiente sono indirizzi finanziari e industriali. Che fanno tesoro dell’esigenza sempre più diffusa di protezione e pulizia dell’ambiente. Non è il viceversa. Le politiche ambientali sono le politiche industriali all’epoca degli investimenti pubblici per l’ambiente: si lavora spesati, con  larghi incentivi.
Sono le uniche politiche industriali ammesse: da molti anni gli incentivi ammessi senza limiti - e senza controlli – in Europa sono quelli ambientali. Ma sono anche (molto) remunerativi: per le fonti di energia rinnovabili, per esempio, i benefici di questa politica di incentivi sono altissimi.
Fa differenza, che l’ecologia sia una politica industriale (ora anche finanziaria) piuttosto che ambientale? Sì, nelle priorità e nei costi: proteggere l’ambiente comporta forti sprechi, a beneficio dei commissionari, e una scala di priorità falsata. Non si rifanno gli acquedotti, come non si assesta il territorio contro frane, alluvioni, terremoti perché non sono priorità industriali – di industrie e settori industriali che pesano sulle decisioni pubbliche.

Camilleri chiacchierone felice

“Nené” Andrea Camilleri si racconta, come ha usato fare negli ultimi anni in numerose pubblicazioni. Qui nella trascrizione di un’intervista del 2006 per l’allora RaiSat Extra, raccolta da Francesco Anzalone, suo ex allievo di regia all’Accademia d’Arte Drammatica, e da Giorgio Santelli. Senza, notava lo stesso Camilleri alla prima pubblicazione in volume, nel 2013 (per Melampo, poi ripresa da Feltrinelli), “pause, espressioni, movimenti delle mani mani e del volto”, la mimica, le immagini che arricchivano il filmato. Supplite dalle illustrazioni a tutta pagina per ogni aneddoto di Claudio Sciarrone. Ma non senza il brio: più ripetitivo che inesauribile, ma sempre felice.
Gli aneddoti sono quelli noti ai lettori, dell’adolescenza fascista, la guerra, la fame, gli americani, compreso il gelido – “fituso” per i suoi soldati siculo-americani – generale Patton, il comunismo, l’Accademia di Arte Drammatica, conquistata con difficoltà, e presto perduta, per un’avventura nel dormitorio femminile durante il campo estivo, Orazio Costa, il dialetto. L’amicizia, tarda e non facile, con Sciascia, un mutangolo e un chiacchierone – “eravamo diventati amici e avevamo spesso delle discussioni feroci” (“«Cammillè’», mi chiamava Camilleri con due emme”). Il lungo purgatorio in attesa di un editore - caso unico fra  gli scrittori iscritti al Pci - da cui non Sciascia ma Ruggero Jacobbi lo trasse fuori, nel 1980, con Gina Lagorio – due socialisti, ma questo Camilleri non lo sa o non lo dice.
Con un ricordo nuovo di Stefano D’Arrigo, l’autore del “capolavoro nato” “Horcynus Orca”, che “si appropria” della madre di Camilleri (qui Camilleri ha mancato – taciuto? – il nodo dell’aneddoto: che la propria madre di D’Arrigo era una prostituta). Dell’onorevole Alessi, che rifiutò i 200 mila voti dei separatisti, quelli del bandito Giuliano, per la Dc, e fu per questo emarginato dal partito. Di Martoglio e Pirandello, per dire dell’“amicizia in Sicilia”. Di Nick La Rocca, il jazzista cui si deve “Tiger Rag”, nientemeno, a Palermo per una rimpatriata.
Con qualche tradimento di memoria. Nel 1947 butta dal finestrino del treno la commedia “Giudizio a Mezzanotte”, con cui aveva appena vinto il premio Firenze, presidente Silvio D’Amico, perché “scopiazzata da Sartre” – nel 1947 era difficile: chi era Sartre? E con un giudizio particolarmente avverso alla “liberazione” degli americani: “Con gli americani la mafia tornò al potere”. Con un utile repertorio dei personaggi citati.

Andrea Camilleri, I racconti di Nené, Zolfo, pp. 209, ill. € 20

lunedì 15 febbraio 2021

Cronache dell’altro mondo – divistiche (93)

Bruce Springsteen ha guidato ubriaco? Una guardia lo attendeva al varco nel parco Gateway National Recreation Area, e lo ha arrestato. Anche se il suo tasso alcolemico è risultato solo dello 0,02, un quarto del limite legale. Poiché è stato arrestato si dovrà fare un processo, non subito. L’arresto è servito alla stessa guardia che se ne vanta, e ai media di destra di inondare i social di accuse e dileggi, con buon diritto. E alla case automobilistiche concorrenti di Fca (Jeep) per bloccare un riuscito spot pubblicitario con Springsteen. Che potrebbero aver pagato la guardia, ma questo non si dice.
Dos Passos, “Un mucchio di quattrini” (“The big money”), ultima parte della trilogia “U.S.A” tradotta a suo tempo da Cesare Pavese, così  racconta la nascita del divismo, con Valentino, alla morte del divo: i produttori della star “progettarono di fare una grande cosa del suo ben reclamizzato funerale” ma “la gente nelle vie era troppo impazzita”. A New York, dove l’attore morì giovane, a 31 anni, centinaia furono i calpestati, dai cavalli della polizia – “nella calura (Valentino morì un 23 di agosto, n.d.r.) i poliziotti persero la testa”: “Masse pigiate si gettarono sotto gli sfollagente e gli zoccoli dei cavalli”. La cappella funeraria fu distrutta alla ricerca di qualcosa, anche solo un pezzo di vetro o di legno, in memoriam: “Si sfondarono vetrine, macchine ferme vennero rovesciate e frantumate”. Le ambulanze non ebbero un attimo di tregua, tra “donne svenute e ragazze calpestate, degli epilettici ebbero attacchi, i poliziotti raccolsero frotte di bambini perduti”.
Questo subito. Poi l’eccitazione si sgonfiò – successe a Valentino come succede per ogni manifestazione popolare americana, dall’orgoglio nero a quello trumpiano. Fu organizzato un treno funebre per portare la salma a Hollywood. “A Chicago ancora altra gente venne malmenata per vedere la bara”, racconta Dos Passos, “ma se ne diede notizia nelle pagine interne. Il treno funebre giunse a Hollywood a p. 23 del «Times » di New York”.
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Non c’è giudice senza colpa

“È impossibile a un presidente di corte d’Assise di giudicare il suo proprio processo”. Ma il giudice Llomond lo fa. Un ritratto di giudice di corte d’Assise, su un caso passibile di pena di morte. Che si giudica mentre giudica: il giudice finisce per porsi nelle vesti dell’accusato, per la prima volta dacché fa il giudice. Ben più intrigante, nella sua semplicità, del più famoso “Maigret e i testimoni reticenti”. Anche se con una falla: il marito di una donna con molti amanti, anche occasionali, è accusato di averla uccisa in casa e poi trasportata sui binari della ferrovia sopraelevata per fingere l’incidente o il suicidio, mentre in quelle ore lo sappiamo molto ubriaco, con  difficoltà a tenersi in piedi da solo, e addormentato ai piedi della scala di casa verrà trovato la mattina dal commissario di polizia, dopo la scoperta del cadavere.
Il varco dunque è stato aperto dalla istruttoria, ma è troppo semplice per Simenon, che non scimmiotta il giallo alla Christie, del chi è stato. Quello che racconta è altro: come il giudice in corte dì Assise può dirigere la giustizia in aula, per esempio ribaltare l’accusa, poiché gestisce gli interrogatori dei testimoni, dei quali conosce già, dagli atti, le deposizioni. Lo stesso che da anni redige sulla colpa una riflessione sempre più corposa, a mano a man che ne ritarda la pubblicazione, “Sull’evoluzione del concetto di colpevolezza”.
È anche un racconto, in questo straordinario, di come un giudice irreprensibile possa identificarsi, sulla sola debolezza di una influenza che lo rende febbricitante, nella colpa. In tutti gli aspetti di colpevolezza del caso che sta gudicando: l’infedeltà coiungale, sua e della moglie, l’alcol, l’insocievolezza personale, la possibilità, il rischio, il desiderio di morte.
Uno degli ultimi romanzi scritti da Simenon – finito di scrivere il 27 settembre 1954 – nell’autesilio americano, per matrimonio, e per sfuggire all’acrimoniosa epurazione postbellica.
Georges Simenon, Les témoins, Livre de Poche, pp. 188 € 6,20

domenica 14 febbraio 2021

Letture - 448

letterautore

Autobiografia – Fuorviante la dice Zanzotto nella postfazione a Leiris, “Età d’uomo”. Zanzotto fra i tanti, ma lui con una ragione: il lettore “si troverà in continuazione dirottato da illusorie prospettive, falsi fondali, giochi di specchi,  cartelli di cui è stata cancellata la scritta o mutata la freccia direzionale” – senza contare le “allucinazioni”, le “contraddizioni”, le “quinte” teatrali. Ricordi essenzialmente narrativi – esumati ed elaborati in quanto artifici narrativi.
 
Eurocentrismo
– “È un vezzo del nostro eurocentrismo,  un sintomo di presunzione oltre che di ignoranza, l’immaginare che tutti i mali del mondo li abbiamo generati noi”, Federico Rampini, “Oriente Occidente”, 170.
 
Italiano
– Nasce giuridico, col “Placito” di Capua (“Sao ko kelle terre per kelle fini ke ki….”) nel secolo X, ma è presto volgare, nel senso volgare della parola, “coatto”, se  una delle prime diciture volgarizzate rintracciate è quella  di San Clemente a Roma: “Fili de pute, trahite!”, tirate, “Gosmari, Albertel, trahite! Falite dereto co lo palo, Carvoncele”, Carboncello, spingi di dietro col palò. Fatto dire su un affresco datato tra il 1084 e il 1100 dal prefetto Sisinnio, accecato da papa Clemente perché contrario al cristianesimo professato dalla moglie Teodora, ai suoi servi, accecati anche loro dallo stesso papa, mentre sono impegnati a trascinare una colonna di pietra adagiata al suolo.
 
Lavoro
 Si direbbe laico. Disprezzato dalla Bibbia – opera pastorale, di nomadi? - è lodato da Esiodo - “Le opere i giorni” sono una defensio del lavoro. Ma già Omero celebra nell’“Iliade”, luogo che pure si direbbe inappropriato, il “poema della forza” di S. Weil (o la “forza include il lavoro?) – insieme, ancora una volta, col famoso “mare colore del vino”: “L’arte, e non la forza, fa il buon boscaiolo; con l’arte il pilota, sul mare colore del vino, guida la nave veloce, battuta dai venti; con l’arte l’auriga vince l’auriga”.
 
Libreria
– Allontana dai libri invece di avvicinarli? I librai, e i commessi di libreria, sì, secondo Orwell (“Memorie di libreria”): personalmente amava tutto dei libri, scrive, “ma appena andai a lavorare in una libreria ho finito di comprarli”, se non occasionalmente, e solo libri di estremo interesse. “Visti in massa, cinque  diecimila insieme, i libri divennero uggiosi e anche un po’ fastidiosi”. E poi, “un libraio deve raccontare bugie sui libri, e questo provoca avversione”. Senza contare che deve passare il tempo “a spolverarli continuamente e e a trasportarli su e giù, di qua e di là”.
 
Nietzsche
- “Non un filosofo”, lo decreta Camillo Langone sul “Foglio”, leggendo Sossio Giametta – “l’immane «Saggio sullo Zarathustra»”. Perché, che altro è? Era poeta e musico, anche filologo, ma ben un filosofo. Tutto a ruota libera, un dilettante.
 
Orientalismo
–All’opera è precoce e inesausto – almeno finché se ne sono fatte. Dominante. Rampini lo data da “Madame Butterfly”, quindi al primo Novecento – l’opera di Puccini è del 1904. Ma un cospicuo catalogo figura già dal Settecento – probabilmente il tema più frequentato dai librettisti d’opera – certo per venire incontro ai gusti del pubblico.
Riprendiamo in proposito quanto questa rubrica (“Letture”, 286) aveva pubblicato l’1 gennaio 2017:
“L’opera è mediorientale prevalentemente. In quantità se non in qualità. L’opera in musica, il melodramma. Specialmente agli inizi del genere, ma fino a tutto l’Ottocento. Sulle tracce della letteratura d’evasione, dei primi romanzi - seriali: “Artameno il gran Circasso”, 8.500 pagine, dieci volumi, “Almahide la schiava regina” otto, “Ibrahim il gran Bassa” quattro.
“Semiramide è protagonista di almeno un centinaio di opere in musica. Il solo Metastasio ha un catalogo interminabile di e sul Medio Oriente – se ne può dire anzi uno specialista preventivo: “Adriano in Siria”, “Alessandro nelle Indie”, “Achille in Sciro”, “Demetrio”, “Zenobia”, “Ciro”, “Artaserse”, “Didone” e “Catone in Utica” (la questione mediorientale copre anche il Nord Africa). Coi tanti Antigono, echi della maschia Antigone di Sofocle, Armide, Zaire, Zaide, Zelmire e Giuditte trionfanti – che però è un altro genere: l’amante nastratrice è universale. Händel gli fa concorrenza, anche lui operista fluviale: “Almira”, “Radamisto”, “Giulio Cesare in Egitto”, “Alessandro”, “Siroe”, “Jephtha”, “Serse”, “Tolomeo”, “Esther”, “Berenice”. Anche Mozart ne fu contagiato: “Idomeneo”. “Thamos re d’Egitto”, “Mitridate re di Ponto”, “Zaide”, “Il re Pastore”, “L’Oca del Cairo”, “Il ratto del serraglio”. Di più Rossini, che però fu più prolifico: una “Semiramide” ovviamente, “Demetrio e Polibio”, “Ermione”, “Adina”, “L’italiana in Algeri”, “Maometto Secondo”, “Il Turco in Italia”, “Armida”, “L’assedio di Corinto”, “Aureliano in Palmira”, “Ciro in Babilonia”, “Mosé in Egitto”, rifatto ampliato in “Moïse et Pharaon”, “Ricciardo e Zoraide”, “Zelmira”.
 
Popper
– Fu solo nel 1973 o 1974 che si tradusse infine “La società aperta e i suoi nemici”, trent’anni dopo. Da editore specialista, di pedagogia. Quindi a uso dei magisteri?
Noi non vogliamo sapere che il socialismo è totalitario, la colpa è di Stalin.
 
Scozzesi – Sono scozzesi alcuni dei maggiori scrittori e pensatori inglesi, che caratterizzano le lettere inglesi – l’indipedenza della Scozia costringerebbe a rivedere le varie “storie”: Walter Scott, Conan Doyle, Robert Louis Stevenson, Cronin, James Barrie (“Peter Pan”), , Muriel Spark, Bruce Marsahll, Macpherson (“Canti ossianici 
”). E Duns Scoto, John Knox, David Hume, Adam Smith, Adam Ferguson, Carlyle, James Frazer.

Stelle – Da una a cinque, in rete e sui giornali, dicono quanto una cosa è buona e quanto nuova, un libro, un film, e da qualche tempo anche un piatto (alimento cucinato). Generose in gastronomia, sparagnine per i libri e i film: non ce n’è uno proprio buono. l critici più generosi, quando un libro, un film, anche una messinscena a teatro sono proprio buoni arrivano a quattro stelle.

Il critico ne sa sempre di più dell’autore? La stagione – ma si direbbe il secolo, la parsimonia di stelle dura da decenni – non è propizia alle arti? La prima è la giusta, è per la cultura come allo stadio, si va dal 4 al 6, non c’è mai un calciatore che merita l’eccellenza - al più 8, quando ha fatto quattro gol, da solo: il critico, solitamente nel calcio largo di sedere e un po’ obeso, è severo.

Le stelle sono comunque più sincere, se non veritiere, della recensione. La quale, prendendo una pagina, non può che essere lusinghiera – non esiste stroncatura lunga una pagina: il critico dovrebbe lavorare.
Ma, poi, la stroncatura non esiste: i media sono solo veicoli pubblicitari.

letterautore@antiit.eu

Gadda voleva solo scrivere un giallo per il cinema, per fare soldi

Il “Pasticciaccio”, interminato, avrebbe avuto ben due colpevoli, uno del furto e uno dell’assassinio. Con un unico movente, la cupidigia, l’avidità del povero – non un senso di giustizia: Gadda, pur affaccendato soccorritore dei poveri, era ben conservatore di spirito.
È la prima sceneggiatura di Gadda per un film con la trama del “Pasticciaccio”: il palazzo degli ori è la casa dei ricchi, per antonomasia, nella Roma dopoguerra. Molto più dettagliato rispetto all’analogo trattamento ora recuperato, intitolato “La casa dei ricchi”. Il luogo è sempre quello, il “palazzo” più invidiato di Roma, la materializzazione della ricchezza. Con Gadda psicologo-analista: “Il folle donare è sintomo clinico delle sindromi schizofreniche, il disperdere più o meno vanamente gli averi”, spiega a un certo punto tra parentesi.
Pubblicato da Alba Andreini nel l983, ripreso dieci anni dopo da Giorgio Pinotti in “edizione critica”. La Nota di Andreini è la migliore lettura del volume – il trattamento è affastellato, dettagliatissimo, di troppe scene e varianti.
Il cinema attraeva molto Gadda – lui come altri letterati dopo la guerra, Flaiano, Pasolini, Sciascia i più noti - anche per la possibilità di tirarsi fuori dal bisogno. Andreini riporta una testimonianza di Bonsanti, secondo la quale già nel 1942 Gadda pensava a un film giallo, ne aveva parlato a Firenze, aveva avuto un incontro con Giovacchino Forzano, titolare della Tirrenia Film, e  gli avrebbe mandato un soggetto o “trattamento” – gli archivi della Tirrenia però non ci sono più.
Il cinema, e un racconto “giallo” per il cinema, furono comunque coltivati a lungo da Gadda, come testimoniano numerose corrispondenze e alcune testimonianze. Specialmente quella che Andreini porta di Giorgio Zampa, il futuro germanista che, giovane segretario di redazione de “Il Mondo” prima edizione (quindicinale culturale fiorentino, diretto da Bonsanti, Montale, Loria, Scaravelli), frequentava anche l’Ingegnere. Zampa ricorda che il soggetto, o trattamento, sulla base della parte di romanzo già pubblicato su “Letteratura” nel 1946, fu redatto da Gadda nell’estate del 1946, o 1947, un’estate da lui passata a Fiumetto, in via Concordia, n. 16, con Gadda e Bigongiari.
Per facilitargli la stesura del copione Zampa gli procurò il manuale “Come si scrive un film”, di Seton Margrave, tradotto da Bompiani nel 1939. In precedenza, nel 1946, Zampa ricorda di avere portato a Gadda gli articoli del giornale “Il Risorgimento liberale”, il quotidiano di Mario Pannunzio, sul caso Stern – un caso di cronaca di grande risonanza, che occupò molto spazio del quotidiano nel mese di febbraio (due anziane sorelle massacrate in casa, forse da una donna di servizio con una sua amica, per rubare soldi e gioielli), che avrebbe dato a Gadda il filo per il racconto aveva in mente.
Carlo Emilio Gadda, Il palazzo degli ori, Einaudi, pp.114 € 10,50