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sabato 25 marzo 2017

Decidono le periferie

L’opinione e il voto non si dividono più sociologicamente secondo le due partizioni tradizionali, urbanesimo e ruralità. Evocate in occasione della Brexit, e poi dell’elezione di Trump, sono in realtà categorie da tempo evaporate. Negli Usa come nel Regno Unito la popolazione rurale non supera il 2 per cento della popolazione. E ancora: è una quota della popolazione legata all’agricoltura, ma stanzialmente urbana, non più disseminata in aree isolate piuttosto che in conglomerati.
In via indiretta la vecchia partizione sembra avere influito sia sulla Brexit che sull’elezione di Trump. Nelle 124 contee americane con più di mezzo milione di abitanti, nelle quali risiede il 48 per cento dell’elettorato, Hillary Clinton ha vinto, col 59 per cento dei suffragi, contro il 37 per cento di Trump. Nelle 2.844 contee con meno di mezzo milione di abitanti, il 52 per cento dell’elettorato, ha vinto Trump, col 56 per cento contro il 38 – queste contee hanno contato per il 65 per cento del voto di Trump, i grossi conglomerati per il 35. Sulla Brexit è noto che il massiccio “no” di Londra si è confrontato con un vasto “sì” provinciale.
Nell’ambito di questa divisione, tuttavia, è la nuova categoria della suburbanità oggi prevalente, e decisiva. E, a essa correlata, la vecchia e dimenticata discriminante del reddito. Legata alla vecchia concezione sociopolitica del classismo e quindi oggi trascurata, e invece influente – in Italia si direbbe decisiva.
La condizione suburbana è tipica delle città cosiddette metropolitane, che gravitano, anche su un raggio molto ampio, attorno a un nucleo storico-stabile caratterizzante. Comunità miste, per razza, censo, professionalità. Ma tutte comunque centrate sul vecchio nucleo cittadino, sul quale convergono per l’attività quotidiana, e a cui si sentono legate per svago, consumi e identità. Un ceto interclassista, tradizionalmente e vocazionalmente slegato da fedeltà di partito. Esprime il cosiddetto “voto di opinione”, che dopo aver oscillato, in Italia, lungamente attorno al 5 per cento, sui 2-2,5 milioni di elettori, per tutto il secondo Novecento, ha oggi proporzioni più che quadruplicate, in grado di condizionare ogni elezione. Con la mobilità elettorale, e con l’astensione.

L’astensione è di sinistra - 2

L’analisi differenziata del voto presidenziale americano conferma che l’astensione si collega al reddito e alla perdita dei diritti – come già si era visto analizzando il voto in Italia:
La disamina del voto americano conferma tra l’altro che Trump ha vinto, nell’America meno metropolitana, delle contee con meno di mezzo milione di abitanti,  in tutte le classi di reddito. E più tra i redditi medio bassi: rispetto al 2008 il suo ticket ha incrementato i voti del 7 per cento fra i redditi superiore ai 60 mila dollari, e dell’11 in tutte le altre classi di reddito, 50-60, 40-50, 30-40, e meno di 30 mila dollari (mentre H.Clinton ha perso il 20 per cento del voto nelle ultime tre classi di reddito, e solo il 3,3 fra i più ricchi).
Restringendo la messa a fuoco sulle contee con meno di mezzo milione di abitanti, si vede che il ceto medio alto, con reddito sopra i 60 mila dollari, è andato in massa a votare, con una percentuale elevata, del 64 per cento degli aventi diritto, e un incremento di quasi l’8 per cento rispetto al 2008, al voto per Obama. Con la riduzione del reddito cresce l’astensione, fino a ridurre il voto al 47 per cento degli aventi diritto tra i redditi inferiori ai 30 mila dollari – poco più su, al 51 per cento, nella classe di reddito ben più consistente, fra i 30 e i 40 mila dollari. .

Il romanzo nero del Giappone

Il romanzo storico della fine del cristianesimo in Giappone, duramente perseguitato per mezzo secolo, tra il 1590 e il 1640, dopo aver potuto mettere radici – in qualche modo perduranti, l’autore è nato cattolico, uno di mezzo milione, con tre università, di cui una, quella gesuita, tra le prime – nel mezzo secolo precedente con missionari portoghesi. Dell’ultimo di questi, il gesuita Ferreira, giunge notizia in patria che abbia abiurato. Tre giovani confratelli decidono di partire per appurare la verità. Sarà un viaggio verso il martirio o l’abiura:  i tre diventano due, poi uno. Del quale sapremo alla fine che è morto giapponese. Ma in prigione, sempre sospettato dal governo di Edo-Tokyo di esercitare l’apostolato di nascosto.
Lo shogun Oda Nobunaga favorisce i cristiani, per ridurre il potere clericale dei bonzi buddisti. Nel 1549 Francesco Saverio sbarca a Kagoshima. Ma nel 1587, cinque anni dopo la morte di Nobunaga, lo shogun suo successore Hideyoshi lancia sporadiche persecuzioni dei cristiani. Alla morte di Hideyoshi nel 1598, Ieyasu avvia la serie di shogun Tokugawa, che i cristiani destinano alla cancellazione – a metà Seicento l’opera si può dire completata. Gli shogun sono i dittatori militari che hanno governato il Giappone dal Medio Evo fino al 1868, quindici anni dopo l’arrivo del commodoro Perry con la flotta americana e l’“apertura” obbligata del Giappone al commercio internazionale, avendo perso quell’anno il confronto interno con la dinastia imperiale Mejji, che restaurò i suoi poteri con Mutsuhito, l’imperatore che regnerà mezzo secolo e farà grande e ricco il paese.
Il film di Scorsese, pur seguendo il romanzo scena si può dire dopo scena, dialoghi compresi, ne ha fatto un dramma corale. Sullo sfondo, inevitabile, dello “scontro di civiltà” – della caccia al cristiano in corso nel Vicino Oriente islamico. Il romanzo è un po’ slegato: lettere impossibili da scrivere, con dialoghi impossibili da tenere fra lingue diverse, interrotte a un certo punto da una narrazione semplice in terza persona, e infine da diari di lavoro, di un agente di commercio olandese e del guardiano della prigione cristiana. E un po’ monotono: lo stesso evento –clandestinità e tortura – si riproduce a catena, dipanata da un giuda immondo, un battezzato che tradisce di continuo. Ma ha due fili conduttori avvincenti.
Uno è della speranza. Che i preti cattolici hanno introdotto, a beneficio dei poveri e poverissimi, che in Giappone erano all’epoca tutti. Eccetto i signori feudali che li tenevano in schiavitù, a morire di fame, e per di più tassandoli duramente. Endo fa un quadro sorprendente del Giappone nel Seicento, di brutalità e disperazione – piove sempre, il cielo è scuro, si vive nel fango, il pesce puzza, il mare è grigio e ostile (“se Dio non esiste, come l’uomo potrebbe  sopportare la monotonia del mare e la sua crudele indifferenza?”). I preti sono i primi a portare un po’ di luce, in un mondo che i bonzi buddisti considerano di bestie. Ancora due secoli ci vorranno perché il Giappone si apra – si apra all’Occidente, questo non è detto, ma la speranza viene da qui.

Arnold Toynbee ha su questo aspetto una spiegazione di segno opposto, ne “Il mondo e l’Occidente”. Il governo giapponese, afferma, non temeva tanto le conversioni, ma che la conversione stessa non fosse un atto di fanatismo, e quindi di pericolo per lo Stato, per la possibilità che il fanatico tradisse: “Ciò che temevano gli statisti giapponesi era che i compatrioti che questi missionari stranieri andavano convertendo al cristianesimo occidentale assorbissero lo spirito fanatico della religione adottata e, sotto questo influsso demoralizzatore, si lasciassero adoperare a mo’ di «quinta colonna», come diremmo oggi in Occidente”. Una ricostruzione senza fonti e una spiegazione non circostanziata, probabile esito del pregiudizio antireligioso dello storico.
L’altro filo, più sottile (e quello che aveva colpito Scorsese già da tempo - nel suo piccolo anch’egli, generazionalmente, in colpa con la fede, col linguaggio in cui è cresciuto), è della fede che confluisce all’abiura. Sotto la forza (torture, esecuzioni) per la gran parte del romanzo, con la persuasione alla fine. In un jeu de dupes al confine tra la convinzione, l’indifferenza, la furbizia. Non è contro l’ordine giapponese che il giovane missionario alla ricerca del padre Ferreira ha lottato, “se n’era a poco a poco reso conto”, dice il narratore, “ma contro la sua propria fede”. L’apostasia non dal Cristo ma dalla chiesa: “I suoi fratelli in religione non mancherebbero di condannarlo in nome del sacrilegio”, il narratore lo fa riflettere, “ma se tradiva loro, non tradiva il suo Signore. Lo amava altrimenti che prima”.  
Shusaku Endo, Silenzio, Corbaccio, pp. 224 € 16,40


venerdì 24 marzo 2017

San Schaüble

Si tende a farne una figura di culto, mentre è l’esemplificazione della Germania peggiore, livorosa. E imprudente, cioè scopertamente cattiva. I danni che Schaüble ha fatto all’Italia, e alla Grecia, alle economie in crisi, all’Europa tutta, con le sue improvvide, costanti condanne e ammonizioni, in termini di credibilità e di costo del debito, sono enormi. Senza precedenti nella storia politica – che un ministro del Tesoro vada in giro lanciando allarmi, perfino senza fondamento. Per non parlare dei danni della sua politica della lesina, che ha condannato l’Europa al ristagno, mentre il resto del mondo ha brillantemente recuperato i livelli pre-crisi. E tuttavia quest’uomo gode di grande credito.
Schaüble gode di credito, però, solo in Italia. Più che in Germania. Oggi Danilo Taino lo santifica sul “Sette-Corriere della sera”, dandolo in uscita dal governo quale che sia l’esito del voto: “L’Europa sarà del tutto diversa”, ma “non è detto per il meglio”. Mentre Cazzullo sul quotidiano lo dice ancora “preoccupante”. Del giornale milanese come di tutti i media c’è una sorta di complesso germanico. La Germania è un modello di economia, anche se – notoriamente – a spese del resto Ue:  fondi europei senza limiti per le banche, liberi sussidi pubblici alle banche e alla produzione, debito pubblico nascosto nella KfW, la Cdp tedesca, dequalificazione del debito dei paesi altri, Italia, Francia et. al., quello che va sotto il nome di vantaggio comparativo. E va bene anche con paghe da fame: la rappresentazione è talmente positiva che i giovani corrono dal Sud a farsi pagare 5 euro l’ora nella gelida Rostock o nel Wuppertal i lavori meniali e di manovalanza che a casa rifiutano a 10 euro l’ora.
Ma di questo la colpa non è di Schaüble. Non è tanto Schaüble in causa. Che è stato con Kohl brillante politico, padre con Lamers, nel 1994, del progetto di Europa a più velocità che ora prende corpo. Con la differenza che il progetto venne allora rifiutato dal governo Kohl perché la Germania appena riunificata era ancora debole, mentre ora viene rilanciato da una Germani molto forte e sicura – ma questo è un altro argomento. Schaüble aveva allora una buona concezione della politica. Come ministro è stato un disastro, da ogni punto di vista: nazionalista, recessivo, distruttivo. Ma non non è nemmeno questo il punto. Andrebbe aggiunto che un ministro non ha in Germania molta autonomia rispetto al cancelliere – così come non ce l’ha la banca centrale, la Bundesbank. Schaüble è Merkel. È l’unico dei “rottamati” della Cdu che Angela Merkel ha recuperato. Ma nemmeno questo interessa qui.
In causa è la sudditanza, psicologica e politica, dei governi come quello italiano alla Germania di Schaüble. Che deriva probabilmente dal ritorno prepotente del vecchio democristianesimo, per cui il mondo non conta. Cioè conta, ma come vincolo esterno: il famoso maestro che ci fa i compiti. Ma sicuramente è sudditanza culturale: cioè dell’informazione, dei media. Che non sanno quello che succede, e che ognuno vede, solo sanno che la Germania ha ragione, e la giornata è guadagnata.

Ombre - 359

Il 95 per cento delle università americane è inaccessibile a studenti di famiglie con meno di 70 mila dollari di reddito annuo. Potrebbe essere in questa esclusione l’origine – una delle origini .- del populismo.
Il reddito medio americano è di 53 mila dollari.

Commovente Rampini che da quindici giorni martella i lettori di “Repubblica” con la sua teoria di come e perché Trump fu intercettato in campagna elettorale - il “Watergate di Obama”, come il neo presidente vorrebbe labellarlo: “Le intercettazioni ci furono ma non ordinate dal presidente, bensì dovute e condotte indipendentemente dalle agenzie di controspionaggio per prevenire contatti con potenze straniere”. Fulmine!

Da cinquant’anni, dalla guerra al Vietnam, è di prammatica, ogni dodici-quindici anni, il declino della potenza americana - di un paese che è da solo il 25 per cento della ricchezza mondiale. Ma il capo dell’Fbi Comey che, senza essere Edgar Hoover, va al Congresso per ricattare i presidente presenti e futuri, questo è proprio da basso impero.
Uno che non sa nemmeno che cos'è la Gazprom.

Il prefetto del pretorio che si ribella al Senato non è una novità. Ma la (non) reazione del Congresso Usa al capo dell’Fbi sì. E della stampa. Tanto più se, com’è probabile, non è cattiva.

La Procura della Federcalcio ha incolpato Andrea Agnelli e la dirigenza della Juventus di aver lavorato per la ‘ndrangheta, la malavita calabrese. Ma non l’abbiamo saputo – l’abbiamo saputo quando Agnelli ha convocato una conferenza stampa per sfidare la Procura. Anche qui per sudditanza alla Juventus?

Ma la sudditanza alla Juventus non è cosa di cronisti sportivi – quelli giudiziari non sanno nemmeno chi sono gli Agnelli? No, ormai anche i cronisti giudiziari, per quanto spregiudicati, si rendono conto che quando è troppo è troppo. 
Del resto, scorrendo i nomi della giustizia calcistica, sembra proprio una congrega napoletana, del “pazziamme”. A cominciare dal capo, il famoso prefetto Pecoraro che voleva importare il modello monnezza da Napoli a Roma.

Volevano libero il posto di capostruttura detenuto da Raffaella Santilli, senza rischiare il ricorso per demansionamento immotivato, e hanno creato lo scandalo per una cosa da ridere – minima comunque al confronto del trash feroce che si vede e si sente in Rai. Campo Dell’Orto e Monica Maggioni uniti nella lotta. Il potere Rai è sempre lo stesso, molto ipocrita.
È anche l’ipocrisia del Pd, di cui Dell’Orto è referente. Poi Renzi si lamenta che la gente non va a votare il Pd.

La dirigente Santilli, messa nel mirino perché fece carriera con Del Noce, è però una molto confessionale: cura il papa, Padre Pio, Assisi, Madre Teresa. Sarà una bella partita Dell’Orto-Vaticano.

Solo che – prima o dopo Santilli? – i due prodi dovranno colpire Paola Perego, la conduttrice del programma incriminato. Sposa di Lucio Presta. Procuratore di molti dei migliori numeno uno tv. Presta e Perego passeranno alla concorrenza? Sarà la più grossa battaglia dei media.

“Ancora 600 mila civili in città”, a Mosul, racconta Lorenzo Cremonesi sul “Corriere della sera”. Dopo tre anni di assedi e bombardamenti, e famiglie in fuga, lunghe teorie di sfollati, profughi. Mosul aveva 600 mila abitanti tre anni fa o quattro, all’avvento dell’Is. Che guerra ci raccontano?

Grasso denuncia sul “Corriere della sera” il vicino dei coniugi Deambrosis-Carsano, di Mirabello Monferrato, che li ha denunciati “perché avevano lasciato per un attimo la loro bambina a dormire sul seggiolino dell’auto, mentre portavano in casa la spesa”. Sette anni di processi, e ora la bambina definitivamente tolta ai genitori e in adozione.
Ma è peggiore il vicino invidioso, o i tanti giudici del tribunale e della Corte d’Appello di Torino, che a genitori affettuosi, che quella bambina avevano fortissimamente voluto, preferiscono una famiglia di adozione – ancorché molto influente?

E che dire dell’inimitabile Melita Cavallo, la giudice minorile teorica della famiglia aperta? E degli stessi giornali, che i genitori naturali dichiarano “genitori nonni”, per dire il disprezzo. Compiacenti, la Cavallo e i cronisti, con la procreazione commerciale, tramite donatori di seme e madri fecondatrici, tutto scelto, all’asta. Che ne sa questa Cavallo della paternità, e della maternità? In che mani siamo? 

Succede di fermarsi in macchina su certe strade di Roma, inavvertitamente, come quando una strada diventa all’improvviso sterrata, una pista, e si deve cercare il verso migliore sul quale proseguire. Come è possibile che una città sia talmente disamministrata? Non ci sono vigili urbani, municipi,  comitati di quartiere? Non gliene frega nulla?
Grillo non è una soluzione, ormai si sa, ma che brutto sintomo. 

I dipendenti dell’ambasciata americana a Roma fanno il retake dei giardinetti del Ponte Nomentano, la pulizia. Accumulando dieci pesanti sacchi. Sotto l’occhio compiaciuto, riferiscono orgogliose le cronache romane, dell’assessore all’Ambiente del Comune di Roma, Pinuccia Montanari. È l’orgoglio anti-yankee?
È il nuovo modo d’intendere la cosa pubblica: voi lavorate, l’assessore vi complimenterà.

I terremoti sono anche americani: ogni anno causano danni agli edifici per cinque miliardi di dollari. Ma non lo sappiamo.

“Aachen, in italiano conosciuta come Aquisgrana”, scrive il “Corriere della sera” per presentarne il concittadino illustre, il candidato socialista alle elezioni Martin Schulz. Ma non era Aquisgrana prima di diventare Aachen – che vuol dire la stessa cosa, sempre di acqua si parla? O la Germania viene prima di Roma?

Ci salverà il populismo di sinistra

Viviamo in un regime postdemocratico, costruito con sapienza – Formenti dice in una guerra civile – contro il lavoro. Bisogna bloccare questo bulldozer, ribaltarlo. Il populismo è benvenuto, poiché i partiti politici della stessa sinistra sono parte di questo attacco al lavoro. Solo bisogna riconvertirlo a un’azione di sinistra.
Formenti, già di Autonomia Operaia, teorico post-marxista del plusvalore nell’era digitale, ipotizza un “sano” populismo, di sinistra. Che abbatta coi simulacri politici – i partiti – la stessa ideologia del liberismo, che pretende di moltiplicare le risorse, mentre invece le distrugge. Come arrivarci Formenti non dice, se col protezionismo, e quindi a che costi. Ma l’assunto politico è semplice e inattaccabile: il lavoro ha perso tutte le difese che si era costruite in un secolo e mezzo, l’economia è debole e malaticcia. Non c’è più alcuna rete di sicurezza, e le paghe ristagnano: il reddito e le aspettative si contraggono, il liberismo esclude e non include.
La diagnosi non è isolata, rientra anzi in un trend già robusto. Da molti viene contestata la correlazione tra l’insorgenza nazionalista o identitaria col liberismo. Ma questa insorgenza c’è, ed è più forte nei due paesi guida del liberismo, Usa e Regno Unito. Di quel che si chiamava il ceto medio. Che, impoverito e proletarizzato, ha ingrossato a dismisura e soprattutto rianimato il mondo degli esclusi, tendenzialmente remissivo e estraneo al processo politico. La sua reazione è stata evidente e vincente nel referendum britannico sull’Europa, e poi nel voto per Trump. Confusa, contraddittoria, tutto il peggio che si vuole, ma robusta. E a sentire i sondaggi duratura, non pentita.
Formenti, lui come ogni altro, nonché il problema dei costi, non si pone neanche quello della globalizzazione: se non è giusto l’accesso del Terzo mondo, i quattro quinti dell’umanità, al processo produttivo, e cioè alla ricchezza, mondiale. Poiché è di questo immenso Terzo mondo che il liberismo si è fatto e si fa scudo per disorganizzare il lavoro.
Formenti, inoltre, continua l’uso improprio del concetto di “egemonia” di Gramsci. Che lega, surrettiziamente, alla massa, al numero - un tempo si sarebbe detto alla classe. Mentre è una nozione complessa, che fa largo posto all’intelligenza (un tempo la critica), la formazione, l’inventiva, l’iniziativa.
Ma è certo che la globalizzazione e l’egemonia non possono darsi - continuare a darsi - a scapito della democrazia sociale, e della democrazia tout court: il populismo non viene dal nulla (un tempo si sarebbe detto: sarà fascista se non sarà socialista).
Carlo Formenti, La variante populista, DeriveApprodi, pp. 288 € 20

giovedì 23 marzo 2017

Il mondo com'è (298)

astolfo

Derivati – Una “bomba” creata da Clinton, così come la crisi bancaria del 2007, effetto della radicale deregolamentazione da lui decisa. Quanti sono i derivati, dove sono e come andrà a finire nessuno lo sa: questa estenuazione della tecnica finanziaria produce effetti e mano a mano che viene a scadenza: come un sasso lanciato in aria che colpisce dove capita. Tutti gli enti locali e le banche che vi avevano fatto affidamento ci hanno rimesso – a vantaggio unicamente dei fondi hedge. E il peggio, si pensa, deve ancora venire.
È uno dei lasciti della presidenza Clinton, che coi banchieri Rubin e Summers, suoi ministri del Tesoro, deregolamentò all’eccesso banche e istituti finanziari. In un documentario per la Pbs (Public Broadcasting Service), il network americano di tv pubbliche, “The Warning”, visibile su youtube, un ex consigliere d’amministrazione dell’ente pubblico deputato al controllo dei futures, a Commodity Futures Trading Commission, Michael Greenberger, ricorda così i controlli: “Zero trasparenza, nessun obbligo di riserva di capitale, nessun limite alle frodi né alla manipolazione del mercato, zero regolamentazione degli intermediari”.

Femminismo – Ha avuto ragione d’essere soprattutto nei paesi anglosassoni, soprattutto nelle professioni liberali, professionali e manageriali. E cioè nella cultura che si professa all’avanguardia di tutte le libertà. Parte di tutto il processo produttivo, in fabbrica e nei servizi, a carattere manuale, le donne  erano escluse fino alla guerra dalla professioni e dalle carriere, sia nel settore pubblico che nel privato, tecnico o manageriale. In Gran Bretagna furono poco tollerate e poche all’università fino alla seconda guerra mondiale. Negli Usa fino agli anni 1960 – se non in università separate, di poco spessore didattico (con l’eccezione di Chicago, che la donne ammise ai corsi subito dopo la sua fondazione nel 1892), e a uso personale e familiare, non di preparazione alla vita pubblica. Tutti gli anni 1960, che pure furono quelli della contestazione giovanile e studentesca, videro una resistenza strenua delle istituzioni universitarie, e per esse delle tre grandi, Harvard, Yale e Princeton, alla “coeducazione”. All’ammissione cioè delle donne  agli stessi corsi, con gli stessi sviluppi, degli uomini. I primi corsi aperti alle donne datano a Harvard dal 1963, a Yale dall’autunno 1967, a Princeton l’anno dopo.
Harvard aveva un college femminile, il Radcliffe. Fondato nel 1879 come Harvard Annex, il Radcliffe restò però totalmente separato. Anche quando, a partire dal 1940, fu avviata la coeducazione: le femmine potevano frequentare i corsi dei amschi ma nel rapporto di una a quattro. E non avevano accesso alla biblioteca: maschi e femmine non potevano studiare insieme, ma a questo effetto le femmine venivano private della biblioteca.
Princeton si aprì alla coeducazione dopo che nel 1968 un buon numero di matricole ammesse, 132, tutti maschi naturalmente, optarono all’ultimo per Harvard a motivo della mancata coeducazione. Per lo stesso motivo, il calo delle iscrizioni,Yale aveva ceduto nel 1967: “La nostra preoccupazione non è tanto quanto Yale può fare per le donne ma quanto le donne possono fare per Yale”, annunciò il presidente del’università, Kingman Brewster. Che accentuò pressioni e concessione al Vassar Colle, altro college femminile di prestigio come il Radcliffe, perché si trasferisse a New Haven.

Islamismo – Il radicalismo islamico è un prolungamento – e un rovesciamento – del radicalismo europeo dei passati decenni? Era la tesi peregrina di Ernst Nolte, lo studioso del fascismo, sempre teso a cercare precedenti alle ignominie europee del Novecento (ma in questo caso a prolungarle nel mondo islamico), ma anche di un islamista riconosciuto come Olivier Roy, oggi docente all’università europea di Firenze, dove dirige un gruppo di studio Middle East Direction. Roy, famoso per aver sostenuto che “non serve a niente conoscere l’arabo per lavorare nelle periferie popolari”, amplia questo concetto anche al terrorismo: non è di diversa natura del ribellismo europeo e occidentale, giovanile, frutto di deprivazione e abbandono. In contraddittorio con Gilles Kepel, altro islamologo francese, su “La lettura”, sostiene che la violenza islamica è la stessa delle periferie urbane americane e europee. E insomma che l’islamismo, inteso come mobilitazione violenta e dogmatica dell’islam, totalitaria, anzi imperialista, poiché porta la guerra negli Usa e in Europa, a tutto l’Occidente, è un falso concetto. L’islam non c’entra, “le biografie dei terroristi mostrano come essi non abbiano una formazione religiosa”. Sostiene anzi che “gli islamisti (cioè i Fratelli Mussulmani) non sono mai passati al terrorismo, e quando li si lascia entrare nel gioco democratico si rivelano elementi di stabilità come in Giordania, Tunisia, Marocco” – dimenticando però che Giordania e Marocco sono due monarchie molto autocratiche, e che i Fratelli Mussulmani hanno fatto molto terrorismo per prendere il potere in Egitto e in Tunisia, e in Egitto anche dopo aver vinto le elezioni.
All’estremo opposto, con Kepel e Alexandre Del Valle, il geopolitico della nuova destra francese, Daniel Pipes. Già professore a Harvard, una formazione al Cairo all’avvento di Khomeini a Teheran, e una buona dozzina di libri sull’islam. Da “In the Path of God”, 1983, che tracciava l’islam politico nei suoi 14 secoli di storia, al recente “Militant Islam reaches America”. Oggi presidente del Middle East Forum, che pubblica un “Middle East Quarterly”.
Daniel Pipes viene bene per capire la politica di “confronto” aperta da Trump con l’islam radicale. La sua divisa sembra accomodante: “L’islam militante è il problema, l’islam moderato la soluzione”. Ma senza sottovalutare l’islam nel suoi insieme. La cui radicalizzazione, indirizzata nell’ultimo quarto di secolo contro l’Occidente, contestualizza con più realismo. Da qui le sue conclusioni più citate, da islamofobo – appellativo che rifiuta. La più citata recita: “L’islam militante deriva dall’islam, ma è la sua versione misantropica, misogina, trionfalista, millenarista, antimoderna, anticristiana, antisemita, terrorista, jihadista, e suicida”. Temperata dalla constatazione: “Fortunatamente, richiama solo tra il 10 e il 15 per cento dei mussulmani, e questo significa che una sostanziale maggioranza preferirebbe una versione più moderata”. Ma non è finita, il ragionamento si conclude così: questa “ideologia totalitaria”, anche su arruola “solo” un 10-15 per cento (grosso modo 100-150 milioni in tutto il mondo) dei mussulmani, “si ritiene il solo rivale, e l0inevitabile successore, della civiltà occidentale”.  
Nell’insieme, già nel 1994, con l’11 Settembre impensabile, ma col khomeinismo saldamente in campo, Daniel Pipes così sintetizzava il suo tema  di studio: “Il Medio Oriente sempre più emerge come una regione che sviluppa ed esporta problemi, inclusi radicalismo politico, terrorismo, droga, armamenti non convenzionali, e teorie cospirative”.

Manca singolarmente agli islamologi la considerazione dell’11 settembre come l’evento epocale che fu, ed è, per il mondo islamico tutto: non una Pearl Harbour ma un Blitzkrieg spettacolare, vinto senza resistenze. Manca pure la fanatizzazione diffusa, in tutti i paesi europei, Italia compresi (Amri e altri), e negli Usa, di un’infinità di “cani sciolti”. Anche presso le comunità islamiche più integrate e meno “identitarie”, in Gran Bretagna e negli Usa. Con l’adozione di facili attacchi, come il mezzo motorizzato da Nizza in poi. Tutti segni non di isolamento o follia ma di psicologia e intendimento comuni.

astofo@antiit.eu

L’Europa è antipatica e anche dannosa

Le banche in crisi, da quattro anni ormai, sarebbero già state ristrutturate se a occuparsene fosse stata la Banca d’Italia invece della Bce? Sicuramente sì.
Il risparmio avrebbe abbandonato le banche, dove non è più assicurato? Il risparmio sarebbe stato punito, con gli interessi negativi e il bail-in? Sicuramente no – qui siano nella stupidità più che nella cattiveria.
L’accordo con la Libia sull’immigrazione illegale di massa sarebbe stato raggiunto se a occuparsene  fosse stato il governo italiano invece che la pletora europea? Sicuramente sì – l’aveva già fatto Berlusconi, quindi sette anni fa, con esito immediato.
Il debito italiano non sottoposto allo stillicidio di critiche tedesche e bruxellesi, nonché alle bacchettate della Bce, avrebbe avuto un esame di solvibilità fattuale e un rating migliore? Probabilmente sì. Eccetera.
L’economia si sarebbe già ripresa senza l’Europa? Sì.
Si celebrano i sessant’anni dei Trattati di Roma a Roma senza alcuna emozione in città e nel massimo disinteresse. Non ci sarà alcuna cerimonia pubblica. Si dice per motivi di sicurezza, in realtà perché non parteciperebbe nessuno: emoziona ancora sentire “Il Piave mormorò”, non si sa che pensare di Hollande, Merkel e soci – non c’è nemmeno uno straccio di musicista che abbia pensato d’illustrarsi con un inno europeo.
C’è disattenzione ma anche risentimento. I sondaggi dicono che il sentimento europeo non è mai stato vivo come in questa occasione, ma i partiti anti-Ue - magari europeisti, perché no -  raccoglierebbero oggi secondo gli stessi sondaggi il 60 per cento del voto.
L’Europa ha molte colpe. Ha – avrà – anche i suoi benefici, ma da tempo non si vedono. Non c’è del resto cosa che possa piacere dell’Unione Europa al comune cittadino, se non Schengen, il viaggio senza passaporto, e la moneta unica come biglietto unico.
Le colpe sono del resto peggiorate dalle evidenti parzialità - in fatto di banche, moneta, politiche fiscali, immigrazione - della Bce e della Commissione di Bruxelles: tra Nord e Sud Europa, tra Germania e Italia, tra eletti e reprobi.

La mafia dell’antimafia

Il titolo è un gioco di parole, sul gergo legalistico, ma in questo suo ultimo libro Sciascia si diverte poco. È qui questione di mafia, ma più della mafia dell’antimafia, già allora, articoli e interventi che ha selezionato su questo tema specifico: “Questo libro”, avverte, “raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia”. Aggiungendo: “Spero che venga letto con serenità”, ma beffardo, sapeva che non poteva esserlo.
Con alcune bordate. L’antimafia è “strumento di potere”, attraverso al tensione che crea e alimenta – chiunque vive al Sud lo sa. Il suicidio di Rosario Nicoletti è un esito della “cultura del sospetto”, allora di scuola a Palermo, tra i gesuiti e fuori – Nicoletti era il presidente democristiano della Regione che Sciascia apprezzava per l’onestà. Del generale Dalla Chiesa, assassinato qualche anno prima nell’agguato di Palermo, continua a non apprezzare i metodi investigativi. Di più, qui si dispiace che il generale si fosse appropriato dell’identità del capitano dei carabinieri Bellodi che è un po’ l’eroe del “Giorno della civetta” – il modello, spiega in dettaglio, è l’allora maggiore Candida. È l’effetto di una polemica bruttissima sollevata contro Sciascia dal figlio del generale, il sociologo Nando. Per ultimo un rimbrotto a Scalfari, che non lo aveva difesa in quella polemica – benché fratello probabile di massoneria. E una testimonianza umana e civile in favore di a Adriano Sofri accusato di omicidio.
Senza perdere l’umore. “Il giorno della civetta” dice un’illuminazione a “una seduta cui avevo assistito alla Camera dei Deputati”. Il “boss dei boss” Michele Greco è preso appena ricercato. Uno. Due: in confronto a Licio Gelli il suo potere è minimo. O gli eroi della “sesta” giornata, a cose fatte. Con molta cognizione di causa. “La mafia” è già un dramma di Luigi Sturzo giovane prete, 1900, “rappresentato in un teatrino di Caltagirone”, mezzo disperso nel lascito. Resta insoluto il mistero della parola “mafioso”, da Manzoni registrata nel “Don Chisciotte” - “quando si imbatteva in parole o espressioni ancor vive nel dialetto milanese” - che però in Cervantes non si trova.
Sciascia amava le polemiche, e per questo le sue raccolte non narrative oggi si fanno insieme leggere e rifiutare. Senz’altro aveva conoscenza diretta e avvertita delle cose di cui qui parla: la mafia e la politica italiana. Ma giudizio non sempre acuto. Specie in fatto di mafia. Qui richiama con orgoglio la sua definizione del 1970 (nella prefazione a Henner Hess, “Mafia”), che, è vero, resta la più esaustiva: “La mafia è un’associazione a delinquere, per fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria e imposta con mezzi di violenza tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo stato”. Ma ne trae una conclusione sbagliata: ora la mafia non è più intermediaria ma soggetto attivo, e nell’intermediazione tra il cittadino e  lo stato non gode più della stessa sicurezza di cui godeva prima. Il che è vero. Ma non nella parte finale: da qui l’eversione, l’attacco allo stato, con gli assassinii di Terranova, Reina, Mattarella. No, non eversione, ma “avvertimento”, da gergo mafioso: tentativo di ricreare la vecchia situazione, facendo paura al ceto politico che lo Stato aveva a sua volta impaurito – le vicende degli ultimi presidenti della regione Sicilia prima dell’attuale lo confermano.
Un riesame del tutto fuorviante aveva peraltro proposto subito dopo l’introduzione  a Hess, nel 1972, in un testo ripubblicato ora come “Storia della mafia”, su “Storia illustrata”. Con le due mafie, la buona e la cattiva. Con l’eroicizzazione dei mafiosi – alcuni, certo, non tutti. Con lo Stato-mafia già allora. Con una storia molto sicula (“traggediatrice”) dei Mille, di incredibili forzature – i “picciotti” mandati a Garibaldi dai capimafia è una delle tante (mandati per infeudare l’isola al “Nord commerciale e industriale”, proprio così). Lo scrittore era orgoglioso, nella corrispondenza con Calvino e Einaudi, di aver fatto della mafia per primo materia narrativa. M il tutto mafia è anche peggio della mafia dell’antimafia, e anzi ne è il cardine.
Il titolo, oltre che tribunalizio, fu anche “effettuale”, parola che Sciascia amava: ai primi di novembre del 1989 licenziava la raccolta, il 20 era morto.
Leonardo Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Adelphi, pp. 205 € 24

mercoledì 22 marzo 2017

L’Fbi al comando

Profumo di ricatto al Congresso, senza maschere. Lunedì il capo dell’Fbi James Comey ha parlato in audizione pubblica davanti alla Commissione Intelligence della Camera e ha annunciato,  non sollecitato, che il Bureau sta indagando sui legami tra gli uomini di Donald Trump e la Russia. Così non potrà essere licenziato da Trump.
Siccome Trump è un osso duro, che lo accusa di averlo intercettato in campagna elettorale per ordine di Obama, oggi ammette: “Sì, è possibile che sia stato intercettato, ma in modo accidentale”. Come dire: non  siamo responsabili delle intercettazioni, ma le abbiamo in serbo.
In campagna elettorale, sicuro che avrebbe vinto Hillary Clinton, aveva aperto un’indagine su di lei.
Questa è una novità totale, per l’America che “fa” la democrazia in mezzo mondo, dall’Ucraina all’Afghanistan. Edgar Hoover, che pure ricattava i suoi presidenti, non aveva mai osato tanto, non al Congresso, non in campagna elettorale.
E poi, Hoover avrebbe sapito di Gazprom, la maggiore compagnia petrolifera mondiale, e il pilastro del potere di Putin. Che invece Comey non ha mai sentito nominare.
Si salverà la democrazia col prode Trump?

Torneremo alla guerra fredda per il comodo dell’Fbi?

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (320)

Giuseppe Leuzzi

A parte le saghe – tarde – si trova poco della gloria dei vichinghi: ciondoli, qualche sasso, resti di barche, nessun documento, nessuna testimonianza. Il “National Geographic” ci fa una monografia,  ma le foto sono poche, tutte ricostruzioni – ipotesi e fantasie. E tuttavia l’Europa si vuole vichinga: fallita al scoperta dell’America, si trovano ora vichinghi dappertutto in Europa. In Scozia, Inghilterra, Francia, Spagna, tutto l’Atantico, il Baltico naturalmente, e i grandi fiumi. Soprattutto gli slavi si vogliono vichinghi, polacchi e russi. Anche qui il Sud rimane fregato – il Sud dell’Europa in questo caso.

Al largo della Scozia i pescatori si sono attrezzate per guadagnare qualche sterlina facendo “vedere” i delfini: portano i turisti con barche veloci, con protezioni robuste contro il freddo, in escursioni anche di ore, perché i delfini sono pochi e rari, e si aiutano vicendevolmente via radio nella ricerca. Attorno alle Eolie i delfini sono “troppi”, disturbano la pesca, e gli eoliani vorrebbero sterminarli.

La Procura della Federcalcio ha incolpato Andrea Agnelli, il figlio di Umberto, e la dirigenza della Juventus, la squadra della famiglia Agnelli, di essere al soldo della ‘ndrangheta. Nientedimeno. A quando la regina Elisabetta al soldo della ‘ndrangheta?

Ma c’è un ma. Quella della Federcalcio è una Procura molto “napoletana”. Come ovunque dove c’è da non lavorare, un lavoro molto ambito.

“Pizzo” significa becco, secondo Mario Puzo, “Il Padrino”: “il becco di un qualsiasi piccolo uccello come il canarino”. Lo desume dal’espressione “fare vagnari u pizzu”, ammollare il becco. E “mafia” fa dire in origine “rifugio”. Prima di “diventare il nome dell’organizzazione segreta che sorse per combattere i dominatori che avevano schiacciato il paese e la sue gente per secoli”.
E non c’è altra mafia, “Il Padrino” fa testo.

Marcello Cimino, lo sbandato bruciato vivo a Palermo, era anche un modesto e inventivo letterato della stessa città, col quale è capitato di condividere, in epoche diverse, gli studi al fiorentino istituto di Scienze Politiche “Cesare Alfiere”. Celebrato ancora in morte, nel 1990, da Michele Perriera nel libro-intervista “Marcello Cimino, vita e morte di un comunista soave”. Ma nessuno fa cenno all’omonimia, nessuno lo ricorda più. Palermo non ha memoria delle cose buone.

La regione speciale.
Per più versi la Sicilia è speciale sempre. Nella salve periodica di insolenze sul Sud, affidata questa volta  a Paolo Mieli invece che a Stella, il “Corriere della sera” ha lunedì alcuni fatti non inesistenti.
Dei 29 mila vitalizi ai politici, oltre a metà, 16.500, sono a carico della Regione Sicilia. Di che fare un bilancio – i vitalizi costano nel totale Italia 1,41 miliardi l’anno.
Su 23 mila forestali, 3.500 hanno condanne definitive per svariati reati, anche per incendio doloso, qualcuno per associazione mafiosa - molti comunque per reati contro il patrimonio, a danno di vicini, concorrenti, parenti.
I 23 mila forestali della Sicilia sono più di tutto l’arco alpino – questa è mancata a Mieli.
La spesa per “materiale informatico e tecnico” della regione Lombardia ha ammontato nel 2016 a 112 mila euro, quella della regione Sicilia a 1,7 miliardi. Questa andrebbe accertata – spendere quasi due miliardi per la cartucce delle stampanti? - ma in qualche misura dev’essere veritiera

Il Sud ignoto ai suoi
Nella generale esecrazione dei Borboni da parte degli illuministi napoletani figura la scarsa o nulla conoscenza del Regno stesso, al di fuori di Napoli. Che però era percorso, parliamo del coevo secondo Settecento, da torme di visitatori e viaggiatori. Per lo più non italiani, è vero. Che si “avventuravano”, oggi si pretende, come in una “natura selvaggia”. Ma ne uscivano indenni e anzi generalmente entusiasti, sempre arricchiti. Di esperienze e di conoscenze.
L’imprenditore agricolo, innovatore di parecchie colture, ed economista Domenico Grimaldi, del ramo di Seminara dell’omonima famiglia di banchieri genovesi (Seminara era stata anche proprietà degli Spinelli), imputa ai Borboni la poca conoscenza del Regno. Ma il governo era attivo, e anche efficiente. Si vede nelle ricostruzioni dopo i terremoti, nell’innovazione tecnica, nell’organizzazione produttiva. Erano piuttosto gli illuministi di Napoli a non conoscere il Regno. Grimaldi no, era uomo d’esperienza, anche se aveva studiato a Napoli, ma i suoi compagni di studi, a scuola da Genovesi, ed amici illuministi, Mario Pagano per esempio, Gaetano Filangieri, Melchiorre Delfico, lo stesso Jerocades, che veniva da Tropea.

Quando la poesia veniva dal Sud
L’industriale e scrittore Antonio Giusti fa un ritratto, in “Memorie scompagnate”, di Roberto Lerici, l’editore, suo amico di gioventù, “uno che si lasciava trascinare dall’entusiasmo per i suoi autori”. Lo coglie ad attività già avviata: “Per diversi mesi viaggiò su e giù per la Calabria solo per incontrare un vecchio poeta sconosciuto e convincerlo a pubblicare con lui. Era Lorenzo Calogero”. Che non era vecchio, ma la cosa è inimmaginabile oggi. A parte il fatto che non esistono editori alla Lerici.
Tramite Calogero, scrive ancora Giusti, Lerici “conobbe anche Pizzuto”. E fu l’apice della sua ambizione di editore: “In quel periodo Roberto non parlava che de “La signorina Rosina” e di “Si riparano bambole”, del colpo grosso che aveva compiuto”. Che lo portò al fallimento.
Erano gli Sessanta, ma di quale secolo? Oggi non sarebbe possibile, un editore milanese non s’incapriccerebbe di un siciliano, per principio.

Il leghismo è dei media
Savini a Napoli incontra le ostilità che ha incontrato a Bologna, a Firenze, qualche volta anche a Roma, dove pure è di casa coi suoi amici ex fascisti. Ma quelle di Napoli devono essere violente, brutali, da censurare, da perseguire, con largo schieramento di opinioni. La libertà di opinione e di parola è sacra, etc.
Non si finisce di ordinare (documentare) lo sfascio leghista. Due tentativi, molto argomentati,
e ancora non si finisce di farne il censimento.
La fonte più perfida, pregiudiziata e fomite di pregiudizi, è il giornalismo. Il migliore, il più grande, il più apprezzato, da Montanelli in giù. Dei Grandi Inviati ma anche dei corrispondenti locali, proni a recitare la lezione, del “Corriere della sera”, di “Repubblica”, dei tg nazionali, di “Striscia la notizia”, della grande editoria. Il Sud è un luogo paurosamente, costantemente, perversamente, di abominazioni: corruzione, ignavia, prepotenza, violenza, maleducazione, stupidità, sporcizia.

leuzzi@antiit.eu

Il terrorismo islamico è europeo

Il primo radicalismo è il comunismo, il secondo il fascismo. I tre accomunando l’esigenza di preservare la tradizione contro la modernità dissolutrice. Ma anche viceversa, come vedremo: i tre radicalismi traggono infatti origine dal giacobinismo, dall’illuminismo, dalla pretesa in generale di ribellarsi, se non di rivoltare il mondo. Tesi non nuova, questa dei “pensieri totalitari” come derivati dall’illuminismo, e non peregrina, ma in questa applicazione si legge con fatica, e anche con irritazione. Lo stesso Nolte ne ammette i limiti, in particolare la poca conoscenza del mondo islamico. Ma non anche la macanza di rispetto?
Si parte da lontano, dall’origine del male, dalla ribellione cioè dell’uomo contro il suo creatore: “Se è giusta la tesi degli ideologi islamici, secondo la quale l’islam null’altro è se non il ritorno dell’essenza ribelle dell’uomo contro l’armonia dell’universo creato da Dio, allora il concetto di «trascendenza», inteso come qualcosa di negativo, e dunque da negare, si lascia usare in maniera non diversa da come venne usato da Lenin e Hitler”. Un pasticcio. Tanto più se, come appare, si lega alla mania del secondo Nolte, di assottigliare l’eredità del nazismo: il radicalismo, del bolscevismo, del fascismo, dell’islam, non è un attacco al capitalismo, né all’ebraismo, né al cristianesimo o all’Europa. No, “è piuttosto un «qualcosa» presente nel capitalismo, che è stato a lungo preso in esame da pensatori ebrei e non ebrei: la ricchezza più interiore, o meglio, il destino vero dell’uomo, che va «oltre se stesso», cioè […] la trascendenza, la necessità di porsi in un rapporto emozionale con il mondo nella sua interezza”.
Poco di intelligibile. Ma anche poco di reale. Forse solo la notazione che l’islam fondamentalista ha studiato Marx e Lenin. Marx sicuramente no, Lenin sì. L’ha fatto l’ideologo egiziano dei sunniti, dei Fratelli Mussulmani, Sayed al Qutb. Nolte dice che l’ha fatto anche Khomeini. Khomeini non studiava, meno che mai un autore o un politico non persiano. Ma alcuni degli ayatollah che lo affiancarono, tra essi l’ayatollah Behesti, ex imam a Amburgo, sì – Behestì si era incaricato di innovare il diritto islamico alla condizione urbana e industriale della società, ma morì in un attentato di una fazione islamica anti-khomeinista.
Si chiude con una storia un po’ assurda dei legami-confronti tra Europa o Occidente e islam. Partendo da Napoleone in Egitto. Dopo averla menata per metà libro con l’ennesima divagazione sui massimi sistemi, fascismo, sovietismo, illuminismo, senza che c’entri l’islam nemmeno per caso. Una confusione. In interventi giornalistici paralleli Nolte voleva la globalizzazione “il nuovo totalitarismo”. E ai peccati del capitale dichiarava di preferire l’islam – come se l’islam fosse anticapitalistico.
L’irritazione deriva dalla presunzione, molto “europea” di leggere l’islam in chiave etnocentrica: come se di là non avessero corpo e anima. Una pretesa dissolutrice nel mentre che si vuole di riconoscimento, di accettazione di un’alterità, di una compartecipazione alla storia.
Ernst Nolte, Il terzo radicalismo. Islam e Occidente nel XXI secolo, Liberal, pp. 400 € 23 

martedì 21 marzo 2017

Letture - 296

letterautore

Aneddoto - Il petit fait vrai di Stendhal, più che il personaggione centrale, Barthes dice che “fa sentire il reale” – il Barthes delle “Mitologie” quotidiane: il dettaglio che fa l’emozione.

Europa – La fine del’Europa era già ossessione di Chateaubriand due secoli fa, delle “Memorie  d’oltretomba”.

Generi – Quelli della narrativa si classificano, ma mai abbastanza. Sono dieci in Dante, Epistola XIII, l’ultima, quella a Cangrande che nomina la “Commedia. ). Ne aveva cinque nella vecchia arte poetica: poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus.
Cinque i vecchi generi anche dell’arte filosofica: diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus.

Geometrie – Sono anche letterarie. La più famosa è quella di Goethe, delle “Affinità elettive”. Ma Kierkegaard ne ha una precisa, anche se inversa, della vita geometrizzata: “Il quadrato è la parodia del circolo: la vita e il pensiero sono un circolo, mentre la pietrificazione della vita prende la forma della cristallizzazione. L’angolare è la tendenza a restare statici: a morire”.

Gusto – È ritenzione? Senso del limite: “Il gusto è per sua essenza misurato, sobrio, guardingo; preferisce il meno al più, pronto a schivar un difetto piuttosto che ad arrischiar una bellezza”  (Cesarotti, introduzione a Giovenale).

Indiretto libero – Il discorso indiretto libero Contini dice invenzione del realismo francese, “lo «style indirect libre», invenzione nel quale i più illuminati grammatici, da Bally a Thibaudet, esaltarono la massima rivoluzione rappresentativa della lingua moderna” . Lo dice presentando A. Banti, “Artemisia, p.IX).

Montaggio – “Il montaggio è il segreto della narrazione” (Benjamin).
Leni Riefenstahl: “Ordinare le inquadrature in modo che venga sempre accresciuto l’impatto della scena precedente”.

New Journalism – Se ne decreta negli Usa la fine, con l’ultimo Talese e anche prima. E si può quindi dire che da noi sia passato senza tracce.. Giusto Pupi Avati e, in parte, in un sentito tragico, i Taviani. Altro non si registra, se non i confusi ritratti apologetici di Biagi, anche di mafiosi. Oppure, alla Saviano, i “rapporti” di poteri incorporei, senza spessore, di questure e caserme: percentuali, presunzioni, deduzioni, informatori, generalizzazioni.

Populismo – Non si può affiancarlo a Hitler, all’“irresistibile ascesa di Arturo Ui”, è un’altra storia. Però, rileggere Brecht non guasta.
Senza pregiudizio: la lettura Brecht concede “a canone sospeso”, come notava Barthes.

È un difetto di ruminazione – si mangia troppo in fretta? Un eminente analista disse a Jaspers nell’estate del ‘33: “L’ascesa di Hitler è il maggior atto psicoterapeutico della storia”. Era un ebreo? Non importa. “Questo uso sbagliato di psicologia, psicoterapia, psicoanalisi e il modo a esso collegato di pensare, sono un’epidemia del mondo occidentale”, rifletté il filosofo ripensandoci, “a causa della quale innumerevoli uomini sembrano andare in rovina come esseri umani dal punto di vista esistenziale”. A causa della decadenza, o gusto della morte. Cos’è l’uso sba-gliato? Che non si rumina più, dice Jaspers: “Ciò che viene in maniera offensiva detto «ruminare» è piuttosto la «ripetizione», attraverso la quale la nostra esistenza ha un peso nel tempo, è ciò che forma la nostra storicità. Ciò rappresenta la costituzione storica, che dall’Antico Testamento ha pervaso la nostra esistenza occidentale”, scioccamente derisa dai moderni, con il loro “piatto razionalismo e una psicologia superficiale”.

Proust – Passate le malinconie, lascia il più delle volte un gusto amaro: nomi, famiglie, Ebenbürtigkeit, “storie familiari”, genos inventati, passioni da jet-set.

Si può pensare la “Ricerca” una colossale satira. La stessa antologia di Bernard Léclair, “L’humour de Marcel Proust”, si legge solo in questo sesno – non si ride molto, anzi affatto. Altrimenti tutto rasenta il ridicolo: la gelosia in mille pagine (mille! di uno, il narratore, che non è mai stato innamorato, si sa, si sente), i froci, le lesbiche, le puttanelle, i borghesi pieni di sé, il padre-Cottard, la madre-Verdurin (o madame Straus e le altre madri alternative), gli stessi duchi, a loro volta snob. Ma non senza compassione, che ne è la chiave: l’autoconsolazione – tutta satira non reggerebbe.

Satira - La satira tiene due ore e mezzo, la lunghezza di Aristofane.
Anche Rabelais si legge a pezzi – e perché è Rabelais.
L’ironia non regge una narrativa, solo l’aneddotica.

Sinistra sinistra – Mary McCarthy ha a un certo punto un improvviso straniamento rispetto agli ospiti della sua festa, i suoi invitati: la sinistra anti-comunista, la minoranza di una minoranza.

Uomo senza qualità - L’uomo che si cerca (“senza qualità”, “senza fisionomia”, “indifferente”) ricorre per tutto il Novecento italiano: Pirandello, naturalmente, e Svevo, Palazzeschi, Borgese, Moravia, lo stesso Calvino.

letterautore@antiit.eu 

L’Europa senza velocità

Donald Sassoon, l’autore di “Cent’anni di socialismo” e del massiccio “La Cultura degli Europei”,  fa l’elenco dei problemi dell’Europa nella celebrazione dei Trattati che l’Acadmie Royale de Belgique ha anticipato:
L’Europa non ha maturato una cultura, un welfare e una difesa comuni. E rischia nel negoziato con la Gran Bretagna la disintegrazione della stessa UE, se Londra potrà uscirne con comodo e convenienza. Londra che da sempre, dapprima col mercato comune parallelo, poi con l’adesione, ha lavorato per rallentare, indebolire, disintegrare l’unità europea.
Una diagnosi che è quasi una soluzione - lo storico non lo dice, ma questo è il senso: senza la Gran Bretagna il vecchio disegno europeo può riprendere vigore. È questo anche il senso della proposta di Schaüble e Merkel, dell’Europa a velocità variabile.
L’ex segretario di Altiero Spinelli e ambasciatore a Berlino Armellini fa della proposta tedesca il nucleo della sua riflessione sulla rivista “Formiche”, “Perché l’Europa a due velocità” – in realtà a velocità variabile: non c’è solo il discrimine dell’euro, anche le politiche dell’immigrazione o della libera circolazione faranno la differenza, e poi la farà la difesa:
L’Europa a velocità variabile darà all’Europa orientale, soprattutto, che ha voluto entrare nell’Unione subito e senza condizioni per paura della Russia, il tempo e lo spazio di gestirsi secondo le proprie convenienze, argomenta Armellini. Anche questo è vero, è possibile.
La Germania è un’altra
Ma il nodo non è la Gran Bretagna. Né l’immaturità dell’ex blocco sovietico. Il punto nodale è che l’Europa è ora un’altra rispetto al 1957. Un fatto semplice, di cui però non si tiene conto. Quella era l’Europa Occidentale, tagliata in due e minacciata dalla guerra fredda. C’erano due Germanie, e i russi a Berlino. La novità, e ciò che ha bloccato l’Unione, è la riunificazione tedesca – Londra semmai è stata quasi europeista in tutti questi anni, specie i dieci di Blair. È un’altra Europa perché è un’altra Germania.
Nel 1957 la Germania Ovest aveva bisogno dell’Italia come della Francia. Ora non più, e anzi sopporta male l’Italia alle costole. L’Europa ha continuato sull’aire della fondazione fino a Maastricht. Che si sovrapponeva alla riunificazione tedesca, nei primi anni difficile e stentata. Ma i germi erano con quell’evento posti, dello squilibrio che poi si è imposto. Nei quindici anni dell’euro la Germania ha accumulato due biliardi (milioni di miliardi) di euro di avanzo primario, il resto d’Europa 2,7 biliardi di deficit.
Non c’è nessuna collegialità al comando dell’Europa, non più, da quando Angela Merkel, la nuova Germania, è al comando a Berlino. Ma già da prima, col suo predecessore, il socialista Schröder. Nei quindici anni dell’euro

Le due velocità morali

Nell’edizione curata dallo stesso Jankélévitch nel 1971, la raccolta s’intitola “L’imprescriptible”. Si compone del saggio intitolato “Perdonare?”, 1965, da cui il titolo italiano, sulla imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità. Di un’evocazione della Francia di Vichy, la strana pace sotto l’occupazione tedesca, e della resistenza, “Nell’onore e nella dignità”, un testo pubblicato nel 1948 sulla rivista di Sartre, “Les Temps Modernes” . E di due brevi discorsi sulla resistenza, tenuti in ambito accademico in occasioni celebrative.
“Perdonare?” è un’invettiva contro la Germania, sdegnata ma argomentata. Pensatore e polemista, uomo d’azione e di organizzazione, molto attivo nella Resistenza, poi strenuo paladino di Israele,
Jankélévitch si era appena segnalato per il saggio “Perdonare”, per il quale resta più famoso, sull’“assoluto della legge dell’amore”. Ma sapendo pure che “il perdono è forte come il male, ma il male è forte come il perdono”. È il caso della Germania, dice, contro la quale la requisitoria è molto viva.
Jankélévitch non è mosso dal nazionalismo, francese o sionista. Lo sdegna la mancata elaborazione del lutto in quel paese, se non in forme sbrigative e perfino revansciste. L’albagia e l’ipocrisia, di Heidegger segnatamente e della gente comune. L’incapacità di dire mi pento: “Ci hanno mai chiesto perdono?” è uno dei capitoli. L’assurda pretesa di comprarsi l’assoluzione, con qualche restituzione e qualche pensione. Senza mai rivivere lo sterminio deliberato di ebrei, slavi, nomadi. Il genocidio è imprescrittibile perché inespiabile. Ma se non si prova nemmeno a espiare – “ci sono molto pochi innocenti fra questi milioni di tedeschi muti o complici”?
Non c’è preconcetto, è una constatazione. In più punti Jankélévitch non sa spiegarsi la cosa: “Che un popolo bonario sia potuto divenire questo popolo di cani arrabbiati, ecco un soggetto inesauribile di perplessità e stupefazione”. Ma non allenta la polemica: “Ci si rimprovererà di comparare questi malfattori ai cani? Lo confesso, in effetti: la comparazione è ingiuriosa per i cani”. Questo perché non c’è contrizione, non c’è analisi seria di come sia potuto accadere: “Aspettiamo ancora il gesto solenne di riparazione o di sconfessione che una così terribile responsabilità morale imponeva agli intellettuali tedeschi, ai professori tedeschi, ai filosofi tedeschi, e anche (ho voglia di ridere) ai «moralisti» tedeschi”.
Lo sdegno va ancora più in là, alla credibilità del pensiero tedesco. Analizzando Vichy, la rassegnazione e anzi la spensieratezza dei francesi nei quattro anni di occupazione, Jankélévitsch ne fa l’effetto di una manomissione di lunga data, logica e etica: “Il vecchio machiavellismo tedesco, specializzato da sempre nell’interversione dei contraddittori, ha giocato da virtuoso”.
Il dibattito sulla prescrittibilità dei crimini nazisti si tenne nel 1965, a vent’anni dalla fine della guerra. Il parlamento francese poi votò per l’imprescrittibilità. Analogo dibattito in Germania si risolse allungando la prescrizione di cinque anni, al 1970. Poi, nel 1969, poco prima della scadenza, un nuovo prolungamento fu deciso, di dieci anni: la Colpa sarebbe durata quindi fino al 1979.
Entrando nel fatto, in effetti, la cosa appare incomprensibile, e quindi sospetta. La Germania avrebbe potuto ragione a Jaspers, che il crimine contro il genere umano, imprescrittibile, aveva decifrato. Senza danno. Ma sarebbero stati liberi subito per sempre, e allora si sono dati un nuovo termine. Seguivano il magistero del dottor Kiesinger, il cancelliere ex nazista, buon cristiano, secondo il quale c’è un crimine maggiore e uno minore, un milite SS non è Himmler. Fu così che i tedeschi, che si erano liberati con la denazificazione, cancellarono la macchi o nuvola all’orizzonte.
La Colpa in sé è discutibile. Bisogna stare con la filosofa Salomé, con “la prevenzione innata contro ogni sentimento di colpevolezza”. Ma non dopo Hitler. La Germania invece non fa dell’Olocausto un humus, un terreno di coltura: niente ne germoglia, una filosofia, un dramma, un romanzo. E col tempo lo porrà, è inevitabile, nel conto della storia, del dare e avere.
È il succo dell’argomentazione di Jankélévitch. Il dibattito sulla prescrittibilità fu molto polemico. Le obiezioni furono dure: neppure l’Olocausto è imprescrittibile, si disse, che dire allora della Bomba Usa, voluta da fisici ebrei? È il rischio che Jankélévitch denuncia nella breve introduzione: “L’antisionismo è l’antisemitismo giustificato, ma infine alla portata di tutti, è il permesso di essere democraticamente antisemita. E se gli ebrei fossero essi stessi nazisti? Sarebbe meraviglioso. Non sarebbe più necessario compiangerli, avrebbero meritato la loro sorte”. Che è mettere le mani avanti, sulla storia successiva di Israele, ma non del tutto a torto. L’Europa è a più velocità per molti modi, principale il modo d’essere.
L’equivoco di Jaspers, si può aggiungere, che la colpa aveva classificato nel dopoguerra,  apre la scorciatoia, della colpa che è individuale e non “collettiva morale” né “collettiva metafisica”. Certo che no, ma in tribunale, non nella vita né in filosofia. L’onere non era minore, farsi laboratorio di un’altra umanità. Ma la Germania ha voluto restare la stessa, solo più ordinaria, legata al marco invece che alla filosofia. Resta figura retorica il “fratello Hitler” di Thomas Mann  malgrado la straordinarietà, priva di senso reale. I tedeschi ebrei si direbbero morti tedeschi, ma le morti non hanno lievitato, nessun tedesco s’aggira nei campi o se ne impregna. Gottfried Benn, che ha la stessa biografia di Heidegger, e in più è l’ultimo uscito dalla Pepinière, l’accademia prussiana gratuita dei medici militari, è divenuto dopo Hitler il Poeta della Nazione, premio Büchner. La colpa di Heidegger è questa, che il suo metodo rivoluzionario, pensare il pensiero, ha trascurato - per primo bisogna dire, per dare la misura dello uomo e del metodo – questa nuova possibile storia. L’ha azzerata: nel suo gergo: poiché non se ne parla, l’Olocausto non è.
Vladimir Jankélévitch, Perdonare?

lunedì 20 marzo 2017

Problemi di base europei - 319

spock

La Germania propone l’Europa a più velocità: cioè con la marcia indietro?

Non si è fatta l’Europa quando c’era e contava, si vuole farla ora che non c’è più?

O è il nome nuovo della Germania?

E quando la Germania sarà turca, come faremo?

Si celebra l’Europa a Roma senza Theresa May, e la moda?

O assisteremo a un miracolo, a Roma è abituale, la resurrezione di un cadavere?  

Germania-Italia, chi disprezza compra?

Se non con l’Italia, con chi la fa l’Europa la Germania?

spock@antiit.eu

Recessione - 62

Il salario reale è diminuito negli anni dal 2009 al 2016 di uno 0,3 per cento, il salario medio (Istat).

L’occupazione aumenta, ma solo per effetto dell’aumento dell’età della pensione.
Nel 2016 il lavoro è cresciuto di 431 mila occupati fra gli ultracinquantenni – il numero corrisponde  grosso modo a una classe di pensionabili. Mentre è diminuita fra i 15 e i 34 anni, di 68 mila unità, e tra i 35 e i 49 anni, di 111 mila unità.

I dati sull’occupazione sono falsati dalla metodologia europea (Eurostat), che si vuole ottimistica: è considerato occupato chi, nella settimana della rilevazione, ha “almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività (con o senza contratto)”.

La produttività è in calo: “Fatto 100 l’anno 2000, l’Italia è scesa nel 2016 a quota 94,5. La Germania è a quota 109,2, la Spagna a102,1” (“Corriere della sera-L’Economia”).
Non si fanno investimenti. Si lavora in attività senza valore aggiunto – terziario non avanzato.

Diminuisce il reddito anche in termini nominali. Il pil pro capite era nel 1998 di 26.356 euro, è stato nel 2016 di 25.543 euro (Istat-Eurostat)
Era in Germania di 27.757 euro nel 1998, è stato nel 2016 di 34.000 euro. In Francia è passato da 29.157 a 32.649 euro. In Spagna da 20.691 a 23.755 euro.

Céline agente di Hitler

Ma davvero Céline ha scritto il “Viaggio al termine della notte”? Taguieff e Duraffour rovesciano l’assunto: non come mai l’autore del “Viaggio” è diventato antisemita, ma come è possibile che l’antisemita Céline abbia scritto il “Viaggio”? Non dicono che non l’ha scritto, ma il senso è quello. È uno dei paradossi della loro storia: il racconto è di Céline agente di Hitler in Francia, che s’inventa e agita il “pericolo giudaico” e il “pericolo rosso”.
Annunciato da tempo, questo ritrato di Céline “militante pro-nazista dell’Ordine Nuovo” s’impone antitutto per la taglia. Un libro di 1.200 pagine, di cui 500 di note, è serio. Taguieff e Duraffour sono due specialisti di storia del razzismo e dell’antisemitismo. La loro bibliografia è enorme. I titoli ci sono. Ma l’assunto – la domanda iniziale e conclusiva - è insidioso, parecchio, specie al di fuori del caso Céline: la pretesa di ristabilire “la verità storica” contro “la leggenda letteraria”, come da sottotitolo, “Légende littéraire et verité historique”. E il libro si presenta troppo disinvoltamente “definitivo”: Céline è da sempre antisemita, quindi collaboratore dei tedeschi e delatore, infine iniziatore del negazionismo. In copertina una sua foto in gruppo davanti al parigino Institut d’Études des Questione juives. “Più di conosce l’uomo Céline, più si presi dal disgusto e dal disprezzo”, assicurano gli autori.
Ma il compito resta da fare. Duraffour, filologa  un po’ legnosa, ha letto Céline di fretta. Taguieff è nuovo filosofo un po’ troppo giornalista. Per ora, a carico, c’è solo la denuncia, nell’ottobre del 1940, del “medico straniero ebreo non naturalizzato” (poi corretto in “negro haitiano, dovrebbe normalmente essere rinviato a Haiti”) Joseph Hogarth, per prenderne il posto nel dispensario municipale di Bezons - dove Céline effettivamente esercitò fino al 1944. Il libro è dedicato al Dr. Hogarth.
Céline è in contatto, se non ne è sovvenzionato, col Welt-Dienst hitleriano, il “sevizio mondiale” dell’antisemitismo, perché alcuni suoi conoscenti lo sono stati, Henry Coston, Louis Darquier “de Pellepoix”, Henri-Robert Petit. Si fa presentare a maggio del 1938, a Montréal, come “ospite d’onore” a un convegno delle Camicie Blu di Adrien Arcand, politico canadese filonazista. È descritto da Jünger nelle sue memoria parigine come un assetato di sangue ebraico  - così a dicembre 1941, all’Istituto Germanico: “Dice quanto è sorpreso che … non impicchiamo, non sterminiamo gli ebrei” – nel dicembre 1941? Céline sapeva della Soluzione Finale, già nel luglio-agosto 1942. Frequenta durante l’occupazione i collaborazionisti de Brinon e Doriot, e una serie di tedeschi: l’ambasciatore Abetz, gli ufficiali SS Hermann Bickler e Arthur S. Pfannstiel, chiede e ottiene d’incontrare il comandante SS Karl Bömelburg, ha il sostegno e l’ammirazione del direttore dell’Istituto Germanico, Karl Epting - autore nel 1942 di un saggio ammirato dei romanzi di Céline ma niente di più: Epting visse indisturbato in Germania dopo la guerra. De Brinon presenta Céline a Bömelburg come “il più utile difensore del riavvicinamento tra la Francia e la Germania nazional-socialista” – che quindi era da fare
Céline era anche un delatore. In quella che definisce “una leggenda”, di Céline colpevole solo “di parole”, Durassour trova le prove della delazione. La denuncia, indiretta, tramite cioè lettere a giornali, di Robert Desnos, del dottor Mackiewicz, segretario dei medici del dipartimento Seine-et-Oise, di Serge Lifar, e a un’assembela doriotista della dottoressa Howyan, sua collega nel 1940 al dispensario di Clichy, dove allora Céline esercitava.   
Terzo, Céline è l’iniziatore della polemica negazionista. Già nel 1950 ne enuncia i temi: la favola delle camere a gas, la propaganda semita, i tedeschi vittime degli Alleati (bombardamenti) e dell’Armata Rossa (saccheggi, stupri). E la pratica nella Trilogia del Nord: “Da un castello all’altro”, “Nord”, “Rigodon”. Nonché in lettere, testi occasionali, interviste.
Tutto questo attaccando Céline a Wagner e a Schopenhauer. Alla giudeofobia religiosa o cristiana. A quella antireligiosa dell’illuminismo, Voltaire, D’Holbach. A quella anticapitalista, da Marx a Sombart. A quella razziale e nazionalista. All’antisemitismo propriamente detto, di Rosenberg e Hitler. La prima parte situa peraltro Céline nell’“ondata antiebraica degli anni 1930”.
Di Céline non resta nulla. Ma sono tutte cose, al suo posto, che il lettore non sa avallare. Il librone procede con l’enfasi dell’errore giudiziario, che accumula materiali su materiali in assenza di un fatto netto, fin dall’introduzione. Molto è ricostruzione, quasi tutto in un contesto non storico – è vero che la storia dell’Occupazione tedesca a Parigi non si fa, ma molto è noto.
Céline resta quello che era. Uno che non era antisemita e lo è diventato. Per il suo pacifismo, che gli ha fatto vedere pericoli ovunque, anche con gli occhiali dei “Protocolli di Sion”. È pure vero che un francese negli anni 1930, anche del Fronte Popolare del detestato (da Céline) Léon Blum, non aveva bisogno di Hitler per essere antisemita - questo il volume lo documenta. Ma del tutto improbabile “agente d’influenza” della Germania: Céline è sempre l’anti-boche della prima guerra, il mangiatedeschi – è il filo della Trilogia del Nord, non il negazionismo. Anche se l’antigermanesimo è ambivalente – nella fine analisi che Jankélévitch ne fatto in “L’imprescriptible” (“Personare?”), “L’ammirazione malsana del militarismo tedesco, dell’ordine tedesco, della scienza tedesca… faceva il fondo del vecchio complesso germanofobo”.
Hermann Bickler, che lo ha frequentato molto da compagnon  durante l’occupazione, ha lasciato delle memorie, di cui una parte è stata pubblicata in Germania, che ne fa il ritratto forse più convincente: “Un realista triste. Che importa se questo proveniva dalle origini celte di questo originario della Bretagna, oppure dai suoi anni di familiarità col lato buio dell’esistenza umana”. Nella pratica medica quotidiana, nei problemi fisici residuati della guerra, nello squallore della vita privata – nell’appartamentino di Montmartre che Bickler pure idoleggiava: “Appariva a volte in quei momenti, all’immagine dei suoi libri, come un cinico crudele. In realtà, era caloroso, e poteva in quanto amico essere di una cordialità incomparabile. Ma non si faceva illusioni sugli umani”.

Pierre-André Taguieff, Annick Duraffour, Céline, la race, le Juif, Fayard, pp. 1.182 € 35