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sabato 6 agosto 2011

Problemi di base - 69

spock

C’è chi crede nel peccato non credendo in Dio, i laici buoni, puritani e libertini: ma perché credere?

Si può credere senza guardare, come lo struzzo? E amare?

Sono i Veda e Pitagora che hanno inventato la Tradizione, la Gnosi e la Cabbala, o sono queste che inventano quelli?

Perché le donne sposano gli uomini?

Perché le donne si sposano?

Perché i romanzi e le biografie ci danno il colore degli occhi e dei capelli, e la forma del naso, e non l’altezza e la stazza dei personaggi, che sono invece reali?

Se Bovary è Flaubert, Flaubert chi era?

spock@antiit.eu

Ma se la democrazia è in pieno fulgore

Ferrajoli la prende da lontano, da Tocqueville, Kelsen, etc., in questo numero speciale della rivista che fu “Problemi del socialismo”, dedicato alla Democrazia. Ma in sostanza dà per scontato che la democrazia sia in crisi, e si dilunga sui rimedi. Primo tra essi il metodo elettorale proporzionale. E invece il problema è alla radice: cos’è la crisi, dov’è la crisi? La agita l’opinione pubblica, cioè il “sistema dell’informazione”, ma non sarà esso stesso parte del problema? Lo è, e il problema è l’antipolitica, l’esproprio della politica. Teorizzato e poi preteso da molto tempo, sono già quarant’anni, dalla Trilaterale, il forum di capitalisti e intellettuali sul capitalismo maturo, e dilagante senza limiti (applicato in Italia dai giudici e i giornali, cioè dagli imprenditori e banchieri che fungono da editori).
In principio, per la forma se non di fatto, la democrazia costituzionale non è affatto in crisi, anche senza il proporzionale. Anzi, è nel suo maggior fulgore, anche in Oriente e nell’ex Terzo mondo. Nuove forme sono maturate di partecipazione politica, nelle associazioni e sulla rete, che ne rinverdiscono le strutture. Ovunque la democrazia costituzionale si organizza sul principio schmittiano della governabilità, modulando le leggi elettorali sul plebiscitarismo, sull’esempio della presidenza americana e francese, del premierato inglese, tedesco e spagnolo, in Italia limitato agli enti locali (sindaco, presidente di provincia, presidente di regione), ma questo non è uno sviluppo critico, è semmai un sorprendente adattamento. Senza rischi – “Micromega”, ex “rivista della sinistra”, ha dedicato corposi volumi a “Berlusconi e fascismo”, con partecipanti anche illustri, Barbara Spinelli, Scalfari, Travaglio, Di Pietro, e niente, non ne è venuto fuori niente.
Luigi Ferrajoli, La democrazia costituzionale e la sua crisi, “Parole chiave”, n. 43/2010

venerdì 5 agosto 2011

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (96)

Guseppe Leuzzi

Franco Mosino, simpatico professore di liceo a Reggio ora in pensione, come tutti classicista, ha reinventato Omero, e per questo ambisce al Nobel per la letteratura. Ha mandato i suoi cinque libri a Stoccolma e ora aspetta: è più di un secolo, dice, da Theodor Mommsen, che il premio non va a un filologo. Omero è un poeta di nome Appa. Mosino l’ha scoperto da un acrostico contenuto nel prologo del primo canto dell’“Odissea”. Appa è in greco sia “padre” che “vate” o “poeta”, e quello dei poemi era venuto dalla Colchide a fondare Reggio.
Mosino si diverte, ma la “Gazzetta del Sud” informa seriamente i suoi lettori.

Si prenda Shlomo Sand, lo storico israeliano che analizza l’“invenzione” del popolo ebraico: “Se l’identità è il prisma con cui l’individuo ordina il mondo e che gli permette di costituirsi come soggetto, l’identità nazionale è quello con cui lo Stato struttura una popolazione varia e l’aiuta a percepirsi come soggetto storico specifico”. Rovesciandolo: l’identità è il prisma ordinatore. E correggendolo con l’egualitarismo di base, della condizione: non c’è nazione senza l’identità di sé di tutti i suoi componenti, senza di essa si hanno solo forme di imperialismo interno, inevitabili. E si ha tutto quello che manca al Sud.

Nessun lombardo legge Manzoni, solo professori sardi e siciliani, che lo imparano a memoria.
Nessun lombardo, veneto, piemontese, sa nulla di Garibaldi. Di cui invece i calabresi e i siciliani sanno tutto, anche gli analfabeti, e tutti i meridionali in genere. Che il generale dei due mondi si applicò con cura a sfottere.

Si dice la superidentità degli Stati Uniti legata alla semplice cittadinanza, alla parità dei diritti. Che fu ciò che fece, del resto, la grandezza di Roma. In presenza, bisogna aggiungere, della schiavitù, come già per gli Stati Uniti alla fondazione. Ma la cittadinanza non sempre è stata attiva: anche dopo la guerra che ha sancito la pax americana a lungo ha escluso indiani e neri, e con difficoltà ha integrato i latini e gli slavi. Una forte struttura di comando, o classe dirigente, è probabilmente il migliore pilastro della democrazia.

René Char, Poesie, 156 (“Les apparitions dédaignées” dalla raccolta « Le chien de coeur »):«La libertà si trova nel cuore di chi non ha cessato di volerla, di sognarla, e l’ha ottenuta contro il crimine”.

Killer a mafiosi si fanno pagare in contanti. Per non lasciare tracce. Ma anche per una questione di avidità. L’avidità fisica dei mafiosi, il contatto fisico col denaro: i bigliettoni sono come l’oro per l’avaro, i gioielli per le donne, una sorgente di piacere materiale.

Lega
Vista da domani, l’epoca sarà stata di gigantesche trasformazioni, per la globalizzazione e l’opzione transpacifica che soppiantano l’integrazione atlantica e mettono in ombra l’Europa, avviandone quello che sembra l’irreversibile declino. Perlomeno in termini comparativi: il piccolo continente resta sempre il più ricco, ma è asfittico: da settant’anni non sa più pensare il mondo, nelle scienze umane come in quelle fisiche, e da trent’anni, crollato il sovietismo, non ha più una proposta politica – il comunismo sovietico sarà stato l’ultimo imperialismo europeo. In questo mutamento epocale l’Italia sta dietro a Bossi, Castelli e Calderoli, alle ampolle celtiche, alle panchine etniche ai giardinetti, e all’invasione dei calabresi, forestali e insegnanti. Ma non si può rimproverare a Bossi e Castelli, che sono di Varese, di essere migliori di Milano – Calderoli, che è milanese, perlomeno ha un mestiere, se è dentista..
La liturgia della Lega è ridicola: Pontida, l’ampolla, il matrimonio del mare, i Parlamenti, i ministri. Non si può che riderne. Ma nessuno ne ride. Non c’è nella sterminata passerella degli Zelig, o dei talk show resistenziali della Rai con caricaturista. Nessuno che vi si azzardi. Come nei regimi di vera mafia, dove non si scherza, il viso dell’arme fa parte dell’omertà.
È anche vero che con queste castronerie la Lega raccoglie voti in quantità. Come dove regna la mafia. E che le castronerie rende produttive, spostando soldi, appalti e posti alla Rai, alle Poste, alla Consob, all’Antitrust, ai ministeri, e dove altro metterà gli occhi.

La razza naturalmente non è un fondamento, è indefinibile per una popolazione che da sempre è molto mobile. Se Roma è la più grande città calabrese, Milano è la quarta, o terza, città pugliese, e ci sono tanti paesi lombardi in Sicilia dai tempi di Federico II. Il quale era tedesco. E conformava l’Italia “esportando” l’italiano, negli atti del governo, che sono la base di una lingua, e nella poesia.
Ma appellarvisi evidentemente aiuta, fa squadra.

Com’è vera la postilla di Hobsbawm (“Nazioni e nazionalismo dopo il 1870”) a Gellner, “Nazioni e nazionalismo”: la nazione è “un fenomeno duplice, essenzialmente costruito dall’alto, ma che non può essere compreso se non lo si analizza anche dal basso, cioè a partire dalle ipotesi, dalle speranze, dai bisogni, dalle nostalgie e dagli interessi… della gente comune”. Bisogna tenere conto È peraltro vero – Gellner – che “è il nazionalismo che crea le nazioni, e non il contrario”.

La mafia non esiste
Si potrebbe argomentarlo, come no? La mafia la creiamo noi, attribuendole poteri soprannaturali e durata eterna. L’analisi più intelligente, oltre che umanamente condivisibile al solo contatto-epidermide, per la finezza del linguaggio, è il libro intervista di Marcelle Padovani con Giovanni Falcone. Dove il giudice parla di secondo e terzo livello ma con quel suo sguardo d’intesa, che dice: li conosco tutti bene per quanto sono raggiratori e vigliacchi, teatranti di second’ordine.
I mafiosi uccidono, questa è la loro sola potenza. L’omertà, la contiguità, che castronerie! Mentre noi non possiamo uccidere i mafiosi. Per il resto è malaffare come ce ne sono tanti altri nella vita quotidiana, gli appalti pubblici, che sempre sono truccati, le truffe dei medicinali, il traffico degli stupefacenti naturalmente, gli squalificati ma lucrosi commerci dell’immigrazione clandestina, dei furti di auto, della prostituzione, la vendita delle patenti e dei posti pubblici, lo sconto delle multe. Ma loro possono ucciderci, mentre noi dobbiamo sperare nei carabinieri, è tutta qui la mafia.

L’odio-di-sé-meridionale
La criminalizzazione è opera più spesso dei meridionali, per opportunismo, per averla introiettata.
Non ci sono più nemici dei siciliani dei siciliani stessi. Sciascia compreso. I napoletani, invece, così compiacenti con se stessi, sono feroci con gli altri meridionali, al Sud e al Nord.

Capita d’imbattersi nei rilievi calabresi, nell’Aspromonte, sul monte Poro o nelle Serre, nelle Sile, anche in un modesto trekking, in sorprese storico-archeologiche di grande presa: monumenti affascinanti con grandi storie dietro. La cittadella bruzia detta Castello, nell’altopiano di Zervò nell’Aspromonte. O la chiesetta bizantina di san Giorgio tra i castagni millenari, sotto la Pietra Cappa, sempre nell’Aspromonte. Sopra le piccole Meteore di Natile. I normanni a Mileto, che ne fu la capitale per un secolo. O tutt’attorno a Zungri, poco lontano, il villaggio rupestre dell’età del bronzo ancora intatto, arricchito nel Medio Evo bizantino di una chiesa piena di suggestioni. Tutto ancora in piedi però nella disattenzione. Basterebbero queste cose per fare un patrimonio della nazione. Qui non sono patrimonio dell’umanità, e meno che meno dei locali. Quando i locali se ne interessano, è per distruggere – la chiesetta bizantina di san Giorgio è un caso (per cercarvi un tesoro…).

Il mondo com’era e com’è
Non più di cinque anni fa, il 26 gennaio 2006, il sito poteva registrare:
“Sono bastati alcuni furti in villa nel Lombardo-Veneto che subito si è fatta una legge per uccidere i ladri. Al Sud un secolo e mezzo di rapimenti di persona, intimidazioni a mano armata, ferimenti, incendi, bombe, grassazioni hanno prodotto un apparato statistico, una sociologia da caserma sull’omertà, una serie sterminata di libri sulla miserabilità del Sud”.

Sudismi/sadismi
“La Repubblica” 8 febbraio 1999: “Palermo. Mangiare un cioccolatino senza aver fatto lo scontrino è costati a una cassiera 100 mila lire di multa. Altre 500 mila lire dovrà pagare il titolare dell’esercizio commerciale. È successo a Partinico (Palermo), dove un finanziere ha multato una cassiera che aveva mangiato un cioccolattino fuori dal negozio. L’accusa: non aveva lo scontrino.”
Si sapeva che a Partinico, partito Danilo Dolci, era tornata la mafia.

leuzzi@antiit.eu

Delenda Gioia Tauro, il neo razzismo non fa sconti

Abbandonato da Msc, il gruppo svizzero più grande movimentatore di container del mondo, lo scalo trasbordo di Gioia Tauro doveva chiudere. Ora lo scalo ha rifatto un accordo su altre basi con la stessa Msc, che poi è l’armatore sorrentino Gianluigi Aponte, e il futuro torna roseo. Anzi ha fatto migliorare già i conti del primo trimestre, col traffico in crescita a due cifre. Ma questa è la situazione vista dal basso. Chi ne fosse informato attraverso i giornali di Milano, la stampa economica, il ”Corriere della sera”, la stessa “Repubblica”, saprebbe solo della cassa integrazione, in una prospettiva di rovina: mafia, indolenza, incapacità, tecnici mafiosi, assenteisti, lenti. Il che evidentemente è falso.
Non avrebbe invece sentito, l’eventuale curioso, e ancora non lo sa, che i problemi di Gioia Tauro sono nati dalla duplicità di Maersk, secondo grande movimentatore mondiale di container e socio della società di gestione dello scalo calabrese, Mct. In primavera Maersk abbandona Gioia Tauro, senza lasciare la società di gestione, perché ha l’offerta di uno scalo trans-shipment tutto suo a Vado Ligure, con la precondizione che abbandoni lo scalo calabrese. Un progetto tutto finanziato dal governo di Berlusconi, dal ministro Matteoli in persona, e dall’Unione Europea.
Il progetto di Vado non è contestabile, ognuno è libero di fare gli interessi suoi. Anche Maersk: il gruppo, essendo danese, ha pure diritto alla doppiezza, alla doppia morale – il suo sito vanta l’uso dei propri container in Liberia per i rifugiati della costa d’Avorio, il paradiso ha dunque assicurato. Non fosse per due motivi. Uno interno al progetto: due scali d’interesse pubblico non si possono fare concorrenza rovinosa. L’altro esterno: il successo di Gioia Tauro non è mai stato gradito al Nord - e non si vede perché se non nella prospettiva neo razzista che governa l’Italia da un ventennio.
Chi ne fosse informato attraverso i giornali non avrebbe letto nessuna considerazione critica sullo scalo di Vado Ligure. Il finanziamento pubblico è benvenuto. Non c’è intasamento, a mare e a terra, non c’è inquinamento, non c’è problema di costi, in Liguria già opera liberamente nei servizi manodopera immigrata, il sindacato chiude un occhio sui contratti. Gioia Tauro è invece quello che si sa: mafia, inefficienza, incapacità, sprechi. Lo scalo più efficiente del Mediterraneo non ha mai avuto tregua.
Il neo razzismo, intendiamoci, è quello morbido di Milano. Naturalmente non dichiarato, e anzi supererogatorio e ammantato di pietas - la coperta agli immigrati, la bottiglia d’acqua. Che non ha mai dato tregua al Sud, e più da quando impera incontestato sull’Italia e l’opinione pubblica. Per i demeriti del Sud e, con più violenza, per i suoi meriti. “Il Sole” con qualche cautela, il “Corriere della sera” senza freni, che ha anzi promosso commentatore di punta e best-seller della casa editrice, per il livore, l’altrimenti ignoto Gian Antonio Stella.
Dalle grandi imprese di costruzione di Catania vent’anni fa, a Italkali dieci anni fa, e a Gioia Tauro la guerra è stata costante, minuta, insidiosa. I quattro cavalieri sono scomparsi. Per Gioia Tauro l’altero Matteoli aveva prospettato ai politici calabresi un futuro di scalo turistico – giusto per dire che non sa nemmeno dov’è Gioia Tauro, e che non gli interessa. Non ci può essere una storia di successo al Sud – se non per qualche gelataio, in Sicilia, meglio vicino a Lampedusa.

giovedì 4 agosto 2011

Il gigante Yourcenar è una roccia

Una scelta quasi doppia rispetto a quella di Einaudi quindici anni fa (“Lettere ai contemporanei”), che tralasciavano la vita vissuta: metà degli anni passati in isolamento, in un rapporto di quasi clausura con Grace Frick, e non passionale ma di mutua assistenza – è questo il sogno-segno dell’ozio, l’assenza di passione? In un impegno progressista (pace, animali, antifascismo) ma su fondamenta conservatrici (famiglia, religione, antifemminismo). Embirikos, il solo amore documentato, tenta di sapere perché Marguerite ha preferito l’otium alla passione. Lei tenterà di ricostituire l’avventura in un rapporto senile.
Yourcenar avrà amato solo suo padre? È in questa a-patia che la sua vicenda straordinariamente trasgressiva diventa anche accessibile. Straordinaria la forza identitaria – oltre che intellettuale: la stima non rinnegata per Montherlant, Evola, etc.. Anche nella vicenda familiare d’origine. Un gigante. O, al femminile, una roccia. L’estrema sensibilità per la vecchia donna di servizio – che peraltro è sicura di non essere inopportuna, e anzi bene accetta, una volta che si confermi che la bambina è la scrittrice famosa. La rottura mai riconciliata col fratellastro, e con i suoi figli. Eccetto il minore quando questi le si riavvicina. Il legame ricostruito con le Province del Nord. Il rapporto faticoso, da vecchi malati, con Grace. La profonda religiosità, nel senso intimo del cattolicesimo.
Marguerite Yourcenar, Lettres à ses amis et quelques autres, Folio, pp. 930 € 11

Secondi pensieri - 74

zeulig

Analisi – Molti analisti la derivano dalla morte, approfondendone l’etimologia: analio (v.Rocci) è in greco dissolvimento, scioglimento, e la morte è lysis per Platone, dissolvimento.

Bibbia – È straordinaria perché è straordinaria. Un falsario non avrebbe potuto inventarla.

Esegesi – La verità della Bibbia è inattingibile, se l’ebraico della bibbia è scrittura ideografica e fonetica , oltre che alfabetica, essendosene perduta la chiave. Una, cento, mille Bibbie sono possibili, a cominciare dal nome di Dio.
Si può per questo “conciliare la Bibbia con la scienza”: si prende la scienza e la si legge in una Bibbia. Ogni esegesi è semplificatrice (riduttiva), e più quella aperta, informale.

Filosofia – Nel saggio in onore di Vattimo, “A sinistra con Heidegger” (in “Essays in honour of Gianni Vattimo”, 2007, ora in “Micromega” 5/2011) Richard Rorty spiega che Hegel e Heidegger non si insegnano nelle università britanniche e americane, non nelle scuole di filosofia: “Molti filosofi analitici pensano ancora a Hegel e Heidegger come a nemici della libertà umana. L’idea che leggerli possa aiutarci nella riflessione sui problemi socio-analitici è per loro ridicola”.

Giustizia – È l’esercizio della violenza “pubblica” (statale, sociale, popolare). Il ristabilimento di un equilibrio (ordine) attraverso azioni repressive, regolate ma prevaricanti - una “formula estremo orientale”, secondo Guénon, la vuole “compensazione delle ingiustizie con altre ingiustizie”.
Necessariamente sperequata, ma su un piede di eguaglianza. La giustizia è il fondamento dell’uguaglianza, attraverso forti e incontestabili disuguaglianze, di ruoli, di poteri. È orwelliana , “tutti gli animali sono uguali (ma alcuni sono più uguali degli altri)”, ma non caricaturale – può essere beffarda.

È fortemente radicata (storicizzata): la guerra, la faida, le moderne polizie, le attenuanti che diventano aggravanti e viceversa (la legittima difesa, la proprietà, la società corruttrice di Victor Hugo, “Claude Gueux”, l’età, l’ebbrezza, la droga, l reputazione, l’onore, e l’autonomia del giudiziario, o la sua politicizzazione)

Matematica – È piena di niente. Lo zero- che però, spostato a destra, ha potenza indefinita. Le quantità immaginarie, radici di “numeri negativi”. Gi inconcludenti “Principia Mathematica” di Russell.

Omofilia– Importanti studiosi l’hanno praticata e la praticano, senza che ce ne sia una teoria – una semiologia, una fisica, una metafisica, una ontologia. C’è solo l’androgino di Platone, che però è concetto simbolico. L’autocensura è qui più forte della censura?

Peccato – È cristiano, biblico. E ora occidentale e laico, il proprio della civiltà europea-occidentale del secondo millennio – dell’asse bene-male, della struttura etica e politica, della missione o imperialismo. È, con Nietzsche e dopo Nietzsche, preminente rispetto a Dio: si crede nel peccato non credendo in Dio, non si crede in Dio per credere nel peccato.
È il segno, si vuole, della debolezza, della condizione umana. Ma è un meno rispetto a un più – è la fede dello struzzo.

Tommaso Gallarati Scotti, introducendo “Sotto il sole di Satana” di Bernanos, osserva del suo prete-santo: “L’amore dei sensi non può attrarre chidal confessionale ode salire la monotona litania della colpa”. È come se il peccato scacciasse il peccato, e non è possibile, non è vero. È vero piuttosto il contrario: la ratio del peccato è che esso attrae.

Popper – È stato, negli scritti e più al contato personale, il filosofo che sa di non sapere: cristallino.

Santo - È Woytiła. Per la determinazione costante , fino alla follia (dolore, malattia cronica, invalidità). Mista a scienza (accortezza, curiosità, misura). E all’innocenza di cuore.
La capacità fanciullesca di guardare la terra con curiosità, determinazione sempre rinnovata, la serenità nella tempesta, sono il capitale umano della santità, che ne fanno un’intermediazione del divino. Ma tutto sopra un tappeto di preghiera: di fede cioè, di capacità di fede..

Storia – Per Gibbon è “una serie di crimini e follie del genere umano”. Per Namier un “disordine intellettuale”.

Verità – Ce l’hanno i fior, nelle loro variazioni, complesse e semplici Ce l’hanno le farfalle e ogni altro lepidottero. Verissime sono le pietre, per il geologo e l’archeologo. Non ce l’ha il filosofo: sarà la verità della filosofia? Pensare il niente, e anche non pensare – pensare di non pensare. Non senza effetti in entrambi i casi, anche sui fiori, le farfalle e le pietre, i geologi e gli antichisti, ma allora distruttivi.
Può essere la verità filosofica (solo) distruttiva? O dev’essere dell’altro nella cultura della crisi.

zeulig@ntiit.eu

martedì 2 agosto 2011

Il potere eversivo – Italia sovietica 3

La Banca d’Italia e il Quirinale che lanciano la speculazione sul debito italiano mettendo in difficoltà ogni giorno il governo si doveva ancora vedere. Questa non è bassa bottega politica, è golpismo. Draghi e Napolitano si riconoscono come i belli-e-buoni della Repubblica, ma il Presidente è destinato a questo punto ad affondare nella storia con Draghi, che fu l’artefice nel 1992, da direttore generale del Tesoro, che allora lavorava di conserva con la Banca d’Italia, del primo affondamento dell’euro. Pagato tutto dall’Italia, la Grecia di allora, benché avesse i conti in ordine. Con la famosa una tantum, l’Ici, le tasse sul risparmio, e l’attivo primario di sessantamila miliardi, trentacinque miliardi di euro, il più colossale salasso imposto a un’economia – senza alcun vantaggio: l’Italia, vent’anni dopo, ne è ancora indebolita.
Una presidenza della Repubblica che insinua e moltiplica l’insicurezza tenendo il paese nella paura sottomessa non è un fatto caratteriale, Napolitano è sempre stato persona riflessiva ed equilibrata, ma culturale e sistematico, opera peraltro di squadra. E non è il solo grumo di persistenza del sovietismo in Italia, in una con la storiografia, l’istruzione e il giornalismo di comodo, ciechi, faziosi, con la magistratura asservita, con le occhiute polizie politiche. È sovietico l’assetto, un potere eversivo che, all’ombra subdola del pace e bene, si erge a giudice e condanna, per prevenire o scardinare ogni equilibrio e ogni sana aspettativa , all’insegna del vecchio tanto peggio tanto meglio. È stato il sistema di governo prevalente nel Novecento in tre quarti dell’Europa, dal Portogallo a Mosca, e imperversa in Italia incontestato per l’egemonia togliattiana che è sopravvissuta alla fine del Pci. Al’ombra del Vaticano e dello steso ex Pci, del “compromesso storico”. Con le polizie e la giustizia politiche, la proprietà totalitaria delle banche, e l’uso affinato delle tecniche della disinformacija nell’area della libertà: si legga il giornale o si frequentino le librerie non si scappa, se ne esce convinti di avere rubato, estorto, assassinato, e anche, senza piacere, stuprato. Non noi, ma tutti gli altri.
In altra situazione “i banchieri” che chiedono, vogliono, impongono, una “ripresa economica immediata” non farebbero notizia, sarebbero una stravaganza. Tanto più se sono uno solo, Mussari, che poi banchiere non è, è solo ex diessino. O Marcegaglia, che nella Confindustria rappresenta solo se stessa, e quindi si costruisce un futuro da deputatessa dell’Udc. In Italia no, il Quirinale è in allarme – mette cioè in allarme. Non da ora bisogna dire, dai tempi di Cossiga e Scalfaro.
Con Ciampi, che il Quirinale ha voluto a sua misura, la degenerazione sembrava interrotta. Con Napolitano, dopo una prima fase di equilibrio e misura, si è precipitati nella bagarre. Con cose anche non serie: l’insulsa guerra a Gheddafi, o le stanze di Bossi a Monza. Ma utili, in mancanza di altro, a tenere sempre desto l’allarme, cioè a crearlo – tanto tuonò che piovve. Un potere eversivo è inconcepibile, in Hobbes non c’è, ma al Quirinale evidentemente sì.

Quel capitalismo protestante è molto cattolico

Non sancisce nessuna “superiorità”, come ha voluto la vulgata italiana anticlericale o anticattolica. È uno studio del rilancio (ammodernamento) del capitalismo con la Riforma e la Controriforme. Weber rivaluta, nell’ottica della riproduzione del capitale e dell’accumulazione, sia la predestinazione sia la giustificazione attraverso le opere, mettendo in rilievo il pietismo del luteranesimo – che è molto “cattolico”, della Controriforma lombarda dei Borromeo. È vero che c’è molto “nordismo” in Weber, la cui cultura non attraversa le Alpi. Cromwell e i Roundheads, di cui fa grande caso, in fondo, nell’epoca loro, erano appaiati a Masaniello e ai lazzaroni napoletani (v. le medaglie coniate a metà Seicento, e la grande curiosità europea per il sovvertimento napoletano). Weber riflette anche la situazione storica, culturale, a lui contemporanea, tra il Kulturkampf, l’attacco al cattolicesimo, e la debole presenza italiana nella Triplice. Se ha un’ottica deformata, però, mantiene un giudizio equilibrato: rintraccia ciò che nelle diverse etiche protestanti ha favorito il capitale, senza escludere la confluenza-apporto di etiche improntate a altri credi religiosi – M. Weber è notevole storico delle religioni. Il punto centrale è che in area protestante, specie in quella calvinista-puritana, il controllo della chiesa sulla vita civile è stato rigido. Da qui l’elaborazione del senso del dovere in etica del lavoro e della frugalità (thrift). Un di più di sacrifico che viene ripagato allargando la ricompensa a questo mondo (ma per Weber ciò non è importante), tramite la sfida ininterrotta delle opportunità (challenge) e quindi l’ininterrotta opportunità di successo. I cattolici, sottoposti a una gerarchia ecclesiastica complessa, sono invece anarchici, lassisti, lazzaroni, ma con maggio spazi di libertà e d’invenzione, di iniziativa. Oggi che la libertà dal bisogno, dallo sviluppo, non più stringente, si può ritenerlo una dota. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

lunedì 1 agosto 2011

Il regime è delle intercettazioni

astolfo

C’era l’occhio di Dio, un po’ massonico, o “Dio ti guarda”, questo nei tribunali e nei cessi. Per dire che bisogna sempre comportarsi come se, essere perfetti e precisi, non lasciarsi andare, nell’intimità o nella lotta quotidiana, essere sempre gli stessi, sempre all’altezza, puliti e propri. E c’era l’occhio vigile delle matrone ai piani, nei migliori alberghi di Praga, Varsavia e Mosca: la scuola è quella, odiosa, del sovietismo. E dunque cosa cambiano le intercettazioni? Se non fossero un’arte, e un mercato. Non sono un esame di coscienza.
Le intercettazioni non si sa quando né perché cominciano. È lecito ipotizzare, anche per fatti in alcuni casi provati, che un lungo ascolto, a opera di un ufficiale di polizia (dei carabinieri e dell guardia di finanza più che della polizia propriamente detta) in carriera venga messo a disposizione di una Procura interessata.
Detto questo, si è detto tutto: si tratta di spionaggio, che a carico dei liberi cittadini è illegale. Anche se le Procure della Repubblica non lo sanzionano e anzi se ne giovano. Ma in Italia lo spionaggio, nella forma un tempo del dossier ora delle intercettazioni, tiene il luogo dell’opinione pubblica, insieme con le testimonianze dei pentiti di mafia e degli imprenditori falliti, e quindi merita parlarne. “La polizia moderna non teme le parole, teme i fatti”, riflette C. Alvaro in “Quasi una vita”, p. 53: “Ma anche le parole possono servire. Sono poche quelle che sfuggono a questo sospetto. Ed è una fama divulgata ad arte, per dissociare il corpo sociale”. Dissociare il corpo sociale, bisogna pensarci.

Spionaggio, gossip – privacy?
“Quando si potevano fare”. Facendo la cassa per il libro di Peter Szendy, “Intercettare. Estetica dello spionaggio”, libro di difficile reperibilità, la libraia si rabbuia: dà per scontato che ci sia una legge che impedisce le intercettazioni, e se ne rammarica. È una signora informata, solitamente riservata, che nella sua libreria dal nome nobile, “Mondo Operaio”, rende disponibili testi ormai rari di storia della Resistenza, in Italia e nel mondo, da anni con qualche sacrificio (“sopravviviamo con le scuole”), e i tanti libri non di mass market ormai irreperibili altrove. E dunque la malattia è diffusa, lo spionaggio si preferisce alla politica – e a ogni altra cosa, magari, a una passeggiata sui monti, a un buon piatto, o agli stessi affetti: la conoscenza è la passione predominante, ma sotto questo aspetto deviato.
Il processo per prossenetismo a Berlusconi, che la libraia non ama, è tutto intercettazioni. Sia l’atto di citazione di 400 pagine inviato al Parlamento dal Procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati e disponibile online, sia i supplementi d’indagine successivi, arrivati direttamente ai giornali a scadenza calibrate. Non ci sono altre prove, né sono state cercate, se non le telefonate di un nugolo di attricette, oggi escort. Non si può concordare dunque con la libraia: le intercettazioni sono sempre in grande spolvero, e sono anzi la prova maestra – in questo come in molti altri processi. Oltre che motivo di diletto o di passione. E fanno l’opinione prima che la giustizia.
Szendy ne cita alcune di rilievo politico: quelle all’Eliseo (a carico del presidente Chirac) e quelle dei servizi segreti di Tony Blair sul segretario dell’Onu Kofi Annan. Ma ogni elenco è necessariamente in difetto, i casi sono tanti – come dimenticare il Watergate, che costò la presidenza a Nixon? O gli ascolti costanti della Stasi nella Germania dell’Est, di cui si è fatto pure un film premiato, “Le vite degli altri” – qui lo spione s’identifica nella sua vittima, ma è un passo falso, la nobilitazione dello spionaggio, che resta sempre ignobile.
Szendy, che si definisce filosofo dell’ascolto, dà per universale e dominante la passione delle “grandi orecchie”: “Una sorta di fantasma dell’ascolto si è ormai insediato, radicato tanto nei gesti quotidiani quanto nell’attualità politica”. Finita la Guerra Fredda, che fu il grande business delle spie, e senza più l’incubo nucleare, la voglia d’informazione, magari rivestita di controinformazione, dilaga. Szendy elenca alcuni campi di applicazione privilegiati: l’odio tribale e religioso, la proliferazione di armi nucleari, la criminalità organizzata, il traffico di droga. In Italia si possono aggiungere gli affari e la politica, indiscriminatamente. Tutto, insomma. Eccetto, curiosamente, le corna, che ne erano il terreno classico.
L’intercettazione\indiscrezione ha preso a proliferare negli stessi anni, vent’anni fa, in cui la privacy si imponeva. Ma questa come un fatto burocratico, non a protezione della individualità e della libertà. Un esito del leguleismo americano. Che solo produce avvertenza illeggibili, in corpo 6 lunghe sei pagine. Che se anche le leggessimo non le capiremmo. Buone per alimentare le cause. E, in Italia, visibilmente una furbata: dichiarare la privacy protetta, di cui invece nessuno si cura, e autorizzare, nelle tante capziose forme ormai di dominio comune, la diffusione dei dati personali dei clienti a fini di marketing, merchandising, fidelizzazione, con un guadagno.
Oppure, semplicemente, si può dire così: c’è stata un’epoca, tra il 1992 e il 2011, dopo il festival di Mani Pulite, in cui l’Italia molto si divertì. Costituendosi anche comode partigianerie, all’ombra del famoso “resistere, resistere, resistere”, che fu l’urlo di Vittorio Emanuele Orlando (chi era?) e poi della più famosa linea del Piave. Non per il bene pubblico, non necessariamente, né per la verità, ma il divertimento fu assicurato nell’età dell’acquario e del gossip: l’Italia, come sempre vuole, fu la prima e la migliore. Nelle liste di Genchi, funzionario di polizia di Palermo specialista d’intercettazioni, figurava un italiano su dieci: tredici milioni di soggetti intestatari di utenze telefoniche, un milione e 160 mila persone “anagrafate”, e 350 milioni di “righe” di traffico telefonico. La spiata fu la passione generale, contro la quale nessuna legge fu mai possibile: si depenalizzò il furto (in azienda), l’aborto, e perfino la buona morte, ma contro lo spionaggio non ci fu niente da fare, mai una maggioranza parlamentare osò contrastarlo.
Il numero delle intercettazioni giudiziarie disposte nel 2007, secondo l’inchiesta che Massimo Martinelli ha pubblicato sul “Messaggero” a fine giugno 2008, è impressionante: 125 mila, per una spesa di 224 milioni di euro. Non sappiamo per quante ore – molte giornate, a giudicare da quelle che si pubblicano. Contro 20 mila in Francia, appena 5.500 in Gran Bretagna, e solo 1.705 nei terribili Usa della giustizia dominante (i dati comparativi sono del 2005, ma riguardano paesi tutti con popolazione superiore a quella italiana – nel 2005 del resto le intercettazioni erano in Italia già 102 mila).
Impressionante non è il fatto in sé. Contestabile non è l’invadenza, la privacy non è un’esigenza dell’epoca, semmai l’esibizionismo. Come si vede dal fenomeno Facebook, dalla stessa Rete, dalla smania di “partecipare”, in chat e forum: la parte “migliore” della società (bella, o giovane, ricca, colta, intellettuale, potente, o pretendente tale) ama esibirsi invece che nascondersi. Malgrado le tante norme imposte con assurdi regolamenti e costose Autorità, mai il mercato è stato così inflazionato di dati personali, ognuno lo constata ogni giorno, in balia di call center, solleciti mirati, e-mail. Impressionante è la facondia degli italiani al telefono, pur sapendo di essere intercettati. Una voluttà, che talvolta, anzi spesso, diventa vanteria, tutti dicono di essere e fare ben più di quanto possono e perfino vogliono.
Si possono dire anzi le intercettazioni la lingua del secolo. Ogni italiano ne ha fatto in piccolo l’esperienza, negli anni in cui la rete telefonica soffriva di diafonia. Ma l’intercettazione è più di questo atto incidentale, la costrizione ad ascoltare le conversazioni di altri per la sovrapposizione sulla linea principale di una linea secondaria. È un atto volontario, perfino passionale. Ed anche la speranza di essere intercettati. È la parente povera della passione nazionale a sbracarsi in televisione, alla radio, in spiaggia, sul treno, al telefonino sui mezzi pubblici e per strada, dovunque c’è qualcuno che può ascoltare.
Se si esce peraltro dall’intercettazione “tecnica” – audio, video – l’epoca si può dire all’insegna dello spionaggio, cui il pubblico in Italia si adatta, come ogni altro. Il millennio ha debuttato col Grande Fratello che dopo dieci anni continua a dare a (dieci?) milioni di italiani il frizzo del voyeurismo invisibile nelle stanze segrete degli altri, nel tinello e in camera da letto, se sono giovani e generosi di curve e pettorali. Subito imitato da una messa dozzina di analoghi intrattenimenti. Per migliaia di ore complessive all’anno. Dei cellulari si sa che sono una rete precisa al secondo di ogni nostro spostamento o contatto. Di internet si sa che è un archivio quasi totalitario a carico di ogni navigatore o utente. E in forme anche molto precise, quali le abitudini di lavoro e le specialità, e quelle di lettura, frequentazione, consumo, acquisto, vacanza, insieme con gli spostamenti: Google, You Tube e ogni altro motore di ricerca è un grande orecchio molto sensibile, preciso, dettagliato.

L’antipolitica
Discutibile è la violenza istituzionale. Che attraverso le intercettazioni dilaga senza alcun limite di legge. Anzi facendosi scudo della legge. Le intercettazioni non sono una novità, la “patria del diritto” è da tempo la patria dei servizi deviati. Da almeno cinquant’anni, da quando la lotta armata contro il comunismo si trasformò in bega politica quotidiana (la storia della Repubblica non è nel complesso onorevole). Ma ora non ci sono più limiti, neppure politici o di parte.
In politica le intercettazioni sono l’antipolitica. Orwell, che sarà la coscienza europea degli anni 1930-1940, le ha così identificate, le narrazioni russe della diaspora e dell’emigrazione post-1973, oggi dimenticate, lo hanno testimoniato con ampiezza. La open diplomacy di Wilson, il presidente americano della prima guerra mondiale, la diplomazia delle carte scoperte, è solo un accorgimento retorico e anche un trucco, a complemento della politica di potenza, e là dove i rapporti, internazionali e interni, restano regolati dalla potenza e non dal diritto. La Società delle Nazioni che Wilson ha creato e l’Onu che ne ha preso l’eredità, sono un’esperienza modesta, se non nel senso di interinare le decisioni delle grandi potenze, per interessi imperiali. Wikileaks lo ha provato ultimamente nel momento del trionfo stesso della indiscrezione: è stato il peggiore servizio reso ai servizi segreti.
In Italia due grandi reti d’intercettazioni private si sono manifestate, nel secondo decennio del ventennio, oggetto a loro volta d’intercettazioni legali e quindi di processo pubblico: quella Telecom e quella palermitana di Genchi. Anche se con le solite bizzarrie italiane, per cui ogni cosa dev’essere di destra o di sinistra. Quella Telecom, derubricata a reato personale del dirigente Tavaroli, è stata perseguita. Quella palermitana, rubricata di sinistra, verrà invece assolta. Nessun dubbio che entrambe fossero illegali. Ma la passione dello spionaggio libero si vuole di sinistra: come diritto all’informazione, e quindi diritto di libertà. A favore di Genchi sono state tenute manifestazioni pubbliche. Una, a Bologna il 28 marzo 2009, a iniziativa di Beppe Grillo, il moralizzatore, e di Salvatore Borsellino, uno dei fratelli del giudice assassinato dalla mafia in carriera politica a sinistra – mentre il giudice era dichiaratamente di destra. Senza scandalo politico, bisogna dire, perché tutti sanno che le intercettazioni sono la norma, a sinistra e a destra. Ma il fatto è questo: l’intrigo, arma politica caratteristica della destra, è da un quindicennio prerogativa esclusiva degli (ex) comunisti. Ed è fattore non minore della debolezza della politica, o della sfera pubblica (l’opinione pubblica), la quale viene con questo artificio lasciata al mercato – che, senza controlli, come si sa, è ladro e assassino.
Non c’è nulla di male nelle intercettazioni, in teoria. Contro i malviventi possono anzi essere utili: un mondo tutto intercettato renderebbe impossibile il pizzo, e dunque la mafia – appena la richiesta minacciosa è profferita , il malvivente intercettato viene subito reso innocuo, senza obbligare la vittima del ricatto a esporsi con denunce e testimonianze. Non fosse che l’intercettazione è essa stessa strumento di ricatto. Criminale, ma anche politico e giudiziario. Una deriva sconvolgente: che la magistratura possa usare le intercettazioni per doppi e tripli giochi, ricatti e vendette, come avviene. Nell’impunità e senza scandalo, anzi con distinti ruoli di prim’attore.
Perché intercettare, c’è poco da dire, è spiare. E il mondo dello spionaggio è orrendo. Una serie di thriller d’autore, da Graham Greene a Le Carré e Sanantonio lo ha reso appassionante, ma la natura dello spionaggio resta quella che sempre è stata, traditrice. Anche quando è patriottico: la linea di demarcazione resta sottile col malaffare, volendosi la spia un personaggio torbido. Intimamente corrotto. Nell’Urss era detto “il secondo mestiere più antico al mondo”, figlio del primo – la prostituzione.
Lo schema delle intercettazioni è semplice: si parte da un caso giudiziario anonimo, una semplice denuncia per smarrimento di documenti. Si parta da uno dei cinque milioni di denunce che a Napoli non sono ancora prescritte ma non sono state mai aperte. E si indirizzano le indagini sulle persone o gli ambienti (azienda, partito, istituzione) che si vuole colpire. Con abbondanza di intercettazioni telefoniche e ambientali. Ciò avviene solitamente a iniziativa di un magistrato: l’illegalità in Italia si vuole legale. Ma ci sono casi di dossier che si sono trascinati di Procura in Procura, finché non hanno trovato un magistrato interessato. A opera solitamente di faccendieri, che offrono il prodotto pronto. Berlusconi è il soggetto che più va, e che Berlusconi palesemente è sempre intercettato, su tutti gli aspetti della vita quotidiana in mancanza di reati, poi alcune Procure ne montano un caso. Napoli per esempio ha montato l’inutile Berlusconi-Saccà, la camorra addebitata a Cosentino per conto di Bocchino, e una prostituta che asseriva di essere andata a letto, gratis, con mezzo governo. Ma molti dossier sono opera di carabinieri o finanzieri, almeno a sentire gli stessi, ne parlano liberamente. Non illegali nemmeno questi: sono – sono presentati – come collaterali di altre inchieste. Le intercettazioni hanno soppiantato ogni altra forma d’indagine criminale, e sono largamente preferite dall’apparato repressivo: si fanno a tavolino, con gli straordinari conteggiati, si trascrivono con accortezza, e aiutano la carriera verso i servizi segreti, molto meglio remunerati, nonché dotati di fondi spese. Sanno di Orwell e di Leviatano, ma non importa: la democrazia italiana, ex fascista, ex sovietica, si vuole totalitaria.
La verità che tutti sanno ma non si può dire è che le intercettazioni sono opera il più delle volte di quello che una volta si chiamava sbirro. Che apre, con l’ausilio di una lettera anonima, che più spesso si scrive, o di una “confidenza”, sempre anonima, l’indagine che ha deciso di effettuare. O anche con le famigerate Note di servizio nelle quali un capo stazione può scrivere tutto, senza obblighi di prova. Dopodiché due strade si aprono. O si cerca da un procuratore della Repubblica in sintonia l’autorizzazione alle intercettazioni - per un mese, ma nessuno poi controlla se durano anni com’è l’uso. Oppure l’ufficiale o il sottufficiale procede in autonomia, anche con le intercettazioni, e poi si cerca un procuratore della Repubblica che ne sia ghiotto e le spesi. L’ex ministro socialista Formica, che è stato anche alle Finanze, così lo spiega a Aldo Cazzullo sul “Corriere della sera” il 30 luglio 2007: “Vige la pratica dell’autorizzazione in bianco: prima si fanno le intercettazioni, poi si riempiono i moduli in base ai nomi e alle circostanze scoperte; formalmente i diritti sono rispettati”.
Era il metodo del Sifar, le cui intercettazioni, seppure a fini eversivi, erano regolari. Che il Sifar le usasse per discriminare la sinistra, mentre è ora la sinistra che se ne avvale contro la destra, non cambia la natura dell’atto. E perpetua le perverse attitudini dell’apparto repressivo. Il fatto che dei ricorrenti “servizi deviati” di un tempo si siano perse le tracce deve solo accrescere l’ansia.
Giravano negli anni Settanta e Ottanta del Novecento in sala stampa alla Camera, a disposizione dei cronisti che ne volessero fare uso, nastri registrati di ministri e banchieri, più spesso con indiscrezioni pecorecce. Ultimamente si conoscono almeno due dossier di grande eco che hanno girato mezza Italia prima di approdare alla Procura compiacente, quello di Moggi e quello di Saccà. Entrambi approdati a Napoli, quello di Saccà è stato poi archiviato, quello di Moggi è all’origine dello scandalo che si conosce. E nel quale qualcuno degli stessi accusati si è riconosciuto, con patteggiamenti e giudizi abbreviati. Ma il dossier in sé, benché costruito da un ufficiale dei carabinieri il cui nome è un programma, Auricchio, in un vero processo non servirebbe a nulla: centinaia di migliaia di telefonate scandagliate non provano un solo atto corruttivo, uno scambio, anche solo un’intesa. Hanno però già prodotto una condanna, benché prima del processo, con pene anche molto pesanti, contro alcune squadre di calcio e a vantaggio di altre, contro alcuni dirigenti e arbitri a vantaggio di altri – tra essi un arbitro sicuramente corrotto.
Senza contare i danni della selettività, che però è più un questione di giustizia (di giustizia negata o ineguale): l’intercettazione di un solo individuo, anche quando le connessioni lasciano pensare ad altri soggetti di reato. Nelle intercettazioni sul fallito acquisto di Bnl da parte di Unipol, sono state selezionate quelle fra D’Alema e il banchiere Consorte, ma non quelle fra Cossiga e D’Alema. L’intercettazione selettiva va contro i diritti e la legge: se le intercettazioni sono disposte a carico di un’azienda e non delle concorrenti; se delle intercettazioni disposte per una parte del mercato si tiene conto solo di quelle a carico di un’azienda; se delle intercettazioni disposte a carico di un’azienda si trascrive solo una parte.
L’abolizione della vita privata per la classe dirigente, imprenditori, manager, politici, è giustificata con la lotta alla corruzione. Ma pretestuosamente, come ognuno sa: è ondotta su basi politiche. E, alla Procura di Milano per esempio, dalla parte più corrotta della città. Che fa le pastette sia per non fare i processi che per farli. Devotamente asservita ai poteri reali: la banca, la finanza, i giornali, e alcuni imprenditori selezionati. L’elenco degli imprenditori parte dalla Rcs (è diventato importante averne una quota anche piccola per questo, perché assicura l’impunità), e comprende De Benedetti, Tronchetti Provera, i Moratti, Bazoli (il primo uscito senza neanche un avviso dalla bancarotta Parmalat, benché fosse stato il primo a sottrarvisi quando già era nota, seppure non aperta giudizialmente), e perfino Zunino, Gavio e altri interessi minori legati al partito Democratico. I poteri forti, che gli ideologi sciocchi del mercato si affanno a dire non esistenti, sono ben legati alla Procura.
Questo nel quadro della più generale sovversione costante che assicura il potere dell’incredibile Procura di Milano e di altre succedanee, ora in primo luogo Napoli – una città, come si sa, che non ha nessun problema, se non perseguire la corruzione fuori città. Le intercettazioni sono un capitolo della giustizia politica che ci governa. Che è la negazione della giustizia e della politica. Ed è il problema vero dell’Italia, che non ha giustizia e non ha politica. Che la disinformazione, di cui le intercettazioni sono parte rilevante, copre occupando la cosiddetta opinione pubblica, mai così privata in questo paese come in questi anni, con falangi dominanti di cronisti giudiziari, ai quali ogni giorno le pagine vengono fornite perfino titolate.
Lo schema è anche semplice. Si mette sotto tiro di volta in volta un cinghiale di passaggio, ora Berlusconi, per lasciar passare inosservato il fiume della corruzione. Sorgenia, la società di De Benedetti, registra come contratti le semplici manifestazioni d’interesse alle telefonate dei suoi promotori, quando riesce a carpirne le utenze. Ai quali poi carica un chilowattora più caro del 40-50 per cento - con la scusa che è un chilowattora verde… Con l’avallo, bisogna dire, dell’Autorità per l’Energia, che considera contratto una semplice risposta alle telefonate di Sorgenia – una costosissima Autorità mantenuta coi soldi pubblici. O si prenda il caso della Rizzoli Corriere della sera quindici anni fa. Nell’ammanco di 1.300 miliardi i semplici revisori dei conti, che non hanno alcun potere d’indagine se non quello di leggere le carte fornite dall’azienda, individuarono cinque reati, per un ammanco complessivo di 42 miliardi. La Procura di Milano non fece nessuna indagine di polizia giudiziaria, e dopo un decennio dichiarò chiuso il procedimento. Inutile chiedersi cosa fece la Consob, che pure aveva anch’essa denunciato la mala gestione. Il procedimento civile fu archiviato alla sezione di Giuseppe Tarantola, il giudice inflessibile famoso per avere condannato Cusani al doppio della pena chiesta dal Pubblico ministro, che ora presiede giustamente la Corte d’Appello.
Le intercettazioni non si sa quando né perché cominciano. E qualsiasi maresciallo dei carabinieri o sottufficiale di finanza, qualsiasi ufficiale in carriera, qualsiasi procuratore della Repubblica può distruggere chiunque gli aggrada, senza mai pagarne la colpa. L’ascolto, insomma, era ed è un potere sempre “deviato”: parziale, non significante (non nel senso della verità), e il più delle volte calunnioso o ricattatorio.

La spirale della paura
L’intercettazione è antica, lo spionaggio si è sempre praticato. La Bibbia ne porterà un centinaio di casi. Sun Tzu, “L’arte della guerra”, ne ha redatto un decalogo nel 500 a.C. la cui tipologia e le definizioni sono già quelle in uso ora, anche nell’età dell’elettronica. È del resto sapienza antica che “anche i muri hanno orecchie”. Szendy espone in dettaglio le tecniche di questo primo manuale dell’arte. Che è poco variata. Soprattutto gli accorgimenti dell’agente doppio o, appunto, dello sbirro.
Se ne è fatta anche la filosofia. E la letteratura. La letteratura va in questo senso costante, dall’orecchio di Dionisio alla “Torre” e altri racconti di Kafka, al “Re in ascolto” di Calvino: non c’è verità nel segreto carpito, è solo un atteggiarsi del potere - sapere per controllare. In filosofia Szendy è di poco aiuto. La sua riflessione è piuttosto sull’ascolto musicale: “Le nozze di Figaro”, “Orfeo e Euridice”, “Il flauto magico”, il “Woyzzeck”, il jazz, e una serie di rappresentazioni, dal frammentario “I segugi” di Sofocle ai film di Brian De Palma e David Lynch, a “La conversazione” di F. F. Coppola, col gigantesco Gene Hackmann sempre in ascolto - ma di conversazioni familiari. Ma, seppure frammentariamente e nel mezzo della lettura musicale, dà una chiave: il francese ha “ascolto”, écoute, termine più pregnante per tutte le forme di spionaggio. Mentre l’inglese ha overhear, origliare o ascoltare inavvertitamente non visti, pratica che Szendy trova di molti personaggi shakespeariani. Inoltre, dà ottime tracce di lettura: dall’“ecotettonica” del fantascienziato Kircher al “Panopticon” di Bentham (senza dimenticare il tubo d’ascolto di Leibniz al centro della casa), lo sguardo totalitario dell’utilitarismo liberale, che Foucault rilegge a lungo in “Sorvegliare e punire”, e fino a Barthes, che ne tratta sotto il titolo “Ascolto”.
Bentham, nella lettera XXI del “Panopticon”, l’edificio (prigione, casa di correzione, ospedale, scuola, oggi si direbbe il Grande Fratello, o il Truman Show, il film di Jim Carrey) che garantisca una visibilità totale e costante degli occupanti, distingue il suo progetto dall’Orecchio di Dionisio: L’oggetto di quella “trovata” era di sapere cosa dicessero i prigionieri senza che essi lo sospettassero. L’oggetto del principio d’ispezione è esattamente l’opposto: è non solo farli sospettare, ma essere sicuri che qualunque cosa facciano è risaputa, anche se non volessero. L’oggetto del primo caso è scoprire: prevenire quello del secondo. Nel primo caso la persona che detiene l’autorità è una spia, nel secondo un controllore. Uno che decontestualizza, a fini pratici, di giustizia, di ricatto, pedagogico, ai quali il “principio d’ispezione” è inteso - la lettera XXI è dedicata alle scuole.
Bentham, dice l’enciclopedia, “argomentò a favore della libertà personale ed economica, la separazione di stato e chiesa, la libertà di parola, la parità di diritti per le donne, il divorzio, i diritti degli animali, la fine della schiavitù, l’abolizione delle punizioni fisiche, il libero scambio, la difesa dall’usura, restrizioni ai monopoli, tasse di successione, pensioni e assicurazioni sulla salute, creò l'Università di Londra, la prima laica, distinta cioè dalle tradizionali università inglesi, religiose, di Oxford e Cambridge”. E nel mezzo “ideò un nuovo tipo di prigione, che chiamò Panopticon”. Insomma un benefattore dell’umanità, del cui “occhio di Dio” non si può pensare male. Il Panopticon di Bentham è peraltro contemporaneo del Panorama, il diorama cilindrico nel quale il ritrattista inglese Robert Baker esibiva i suoi dipinti, del 1787, alla vigilia della rivoluzione, al culmine dell’illuminismo – o all’inizio della sua deriva positivista, “risolutrice”.
Barthes ne sa naturalmente spiegare la fenomenologia, anche se in il suo saggio “Ascolto”, ora nella raccolta irriverente “L’ovvio e l’ottuso”, Szendy dice “una spirale della paura”: “Mentre per secoli è stato possibile definire l’ascolto come un atto intenzionale di audizione (ascoltare significa voler ascoltare, in modo pienamente cosciente), attualmente gli si riconosce il potere, quasi la funzione, di esplorare terreni sconosciuti”. Come dire, siamo aperti a tutte le sorprese, riservandoci di cogliere fior da fiore: “L’ascolto è stato, per definizione, applicato; oggi gli si chiede piuttosto di lasciar manifestare”. Una riedizione, prosegue Barthes, dell’“ascolto panico”, ma non a fini mistici, bensì di conoscenza applicata. Ancillare, a voler essere espliciti: uno strumento, nel quadro della più vasta strumentazione che è il governo o gestione dell’opinione.
Barthes lo dice strumento di liberazione: “Non c’è più da una parte chi parla, si confida, confessa, e dall’altra chi ascolta, tace, valuta e sanziona”, ma tutti ascoltano e sono ascoltati. Cosa che non è possibile. Il “luccichio” dell’ascolto, che Barthes ipotizza liberato dai suoi antichi “luoghi”, in realtà vale per questi luoghi, “del redento, del discepolo, e del paziente”, tutti in vario modo asserviti, quanto di più lontano dalla liberazione. Al più si passa dai “luoghi di reclusione” o “internati”, le società disciplinari di Foucault, tra Sette e Ottocento, alla contemporanea “società di controllo”, di cui le intercettazioni a fini di normalizzazione sono l’ingrediente principale, spiega Orwell in più punti, segnatamente in “1984” .
Orwell sintomaticamente non esiste in queste celebrazioni dell’“ascolto”: il sovietismo non è esistito, non esiste, le banche dati delle cellule, delle sezioni, delle federazioni, delle direzioni del Partito, le cistke, assise pubbliche incrociate, e i Morosov, i bambini all’ascolto dei padri. Presentando l’edizione italiana di Szendy, Marco Filoni, studioso di Kojève e della cultura di destra, blogger de “Il Fatto”, il giornale delle intercettazioni, sancisce anzi d’acchito la felicità dell’“ascolto”: “C’è una sorta di felicità, di piacere immenso, nello spiare”. La arricchisce coi tubi di Leibniz, “quando immaginò, ben prima che Bentham descrivesse il Panopticon, una palazzo dotato di tubi segreti, tali da permettere al padrone di casa di ascoltare tutto quanto veniva detto e fatto tra i suoi servi e suoi ospiti”. E la esemplifica col personaggio di Nabokov nel racconto “Occhio”: “Un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue”. Una felicità poco affrancante. La “verita” delle intercettazioni è nel film “La conversazione”, racconto filosofico di Francis Ford coppola. Il Grande Orecchio Gene Hackmann, tornato a casa dopo una giornata di ascolto e trascrizione, si sgranchisce suonando il sassofono, finché non viene raggiunto da una telefonata in cui gli si fa ascoltare la musica che sta suonando… Questo non si può dire in Italia, dove l’intercettazione è sinonimo di liberazione. Ma allora è da chiedersi da che cosa?
La nota editoriale alla traduzione di Szendy comincia col darne un’immagine derisoria. “Un filosofo francese ripercorre la storia e l’estetica della sorveglianza uditiva da Gerico a Tony Blair, tra spie travestite da confessori, talpe dai grandi orecchi sensibili e delatori di professione”. Ma conclude inneggiante: “Un’analisi attuale e necessaria, soprattutto in un Paese in cui – da Moggiopoli a Vallettopoli, dal Tiger Team di Telecom ai “furbetti del quartierino” (e ovviamente alla serie successiva d’intercettazioni di Berlusconi, n.d.r.) – cronaca e storia sembrano sovrapporsi alla pratica dell’intercettare”. In cui cioè l’intercettazione non è più un mezzo per arrivare alla verità ma la verità stessa, o realtà. Non una buona filosofia.
L’uso sapiente dello spionaggio è però mutato da Sun Tzu: è pervasivo. Non si applica più al nemico, è universale. Per aver manipolato il destinatario, che è sempre il manipolatore, parte attiva, e nel caso del re addirittura sovrana, la fonte della giustizia. Szendy lo stabilisce in partenza: “Dire che sono in ascolto equivale a dire che sono anche, e forse soprattutto, una talpa”. Ed è superficiale: è pettegolezzo.
Nulla di male neanche nel pettegolezzo, divertirsi è lecito. Come virtù politica lo elogiava del resto Eco nel “Costume di casa” già nel 1972. Al pettegolezzo, argomentava, si è portati quando non abbiamo opportunità di discussione pubblica (politica). Se non che non si fa per nessun fine, né a fini di giustizia, ma di parte, basandosi su “dati di fatto” che sono confidenze, indiscrezioni, pettegolezzi. Su Calciopoli per esempio, che si svolgeva tra Torino, Milano, Firenze e Roma, con ampio corredo d’interventi e di chiacchiere, che la giustizia napoletana ha ora problemi a provare. Sulle intercettazioni a sua disposizione nei forum di Kataweb si potevano del resto leggere subito cose di questo tipo:
“Il 19 luglio 1992 il giudice Borsellino veniva dilaniato da una bomba mafiosa con gli uomini della sua scorta. Un carabiniere, dopo qualche ora, si avvicinò ai resti dell'auto e raccolse la borsa del magistrato. Ora è indagato a Caltanissetta per avere trafugato l'agenda di Borsellino con gli appunti sull'omicidio Falcone e probabili spunti sulla trattativa tra Stato e mafia. Quel carabiniere è Giovanni Arcangioli: è lui a coordinare le indagini ed avere istruito le intercettazioni.
“Al suo fianco c’è Aurelio Auricchio (oggi colonnello, n.d.r.). Anni fa venne accusato di avere manipolato intercettazioni telefoniche. Lui querelò per diffamazione chi lo accusava di taroccare le intercettazioni, ma i tribunali gli diedero torto. Gli investigatori (Arcangioli e Auricchio) che hanno lavorato alle intercettazioni sono uomini di assoluta fiducia del generale Mori, capo del Sisde.
“Il fratello del generale dirige le attività di “sicurezza” di Mediaset (guarda un po’). Per farvela più semplice. La procura di Napoli chiede di fare delle intercettazioni sul mondo del calcio. Il Sisde guidato dal generale Mori, amico di Berlusconi (il fratello lavora in Mediaset), decide di affidare l’incarico ad Arcangioli e Auricchio. Che al termine delle intercettazioni decidono di passare il tutto alla Procura di Napoli (avranno trascritto tutte le telefonate o come ha fatto già in passato Auricchio, alcune sono state manomesse?).
“L’ex capo del governo sta applicando una delle sue tante strategie mediatiche: il giorno dopo le elezioni gridava al furto. Ora, grazie a questo finto scandalo continua a recitare la parte della vittima. Il destino di alcuni personaggi è segnato. Provate a sostituire il termine “Moggi” con “Fiorani” o Ricucci e capirete cosa potrà succedere.
“Ho sempre avuto la passione per gli intrecci, ma ci vedo un nesso”.
Letture anonime, non di magistrati, non di generali dei carabinieri. Godibili.
Ma le intercettazioni non si fanno senza danno. Si pubblicano telefonate di questo a quello, e indiscrezioni varie, di abusi, sessuali e non, licenze e inganni, in cui non è più il potere che attraverso i suoi apparati droga l’informazione. È la giustizia, con i giornali. E non certo in omaggio alla libertà di stampa e al diritto all’informazione: il vizio è sempre quello delle veline di stampo fascista. Gli scandali politici venivano alimentati dal fascismo attraverso i giornali, ai quali il regime forniva in esclusiva le notizie e i materiali di corredo. La Repubblica naturalmente non è il fascismo, c’è la costituzione e c’è il mercato. Ma l’abitudine è rimasta: le prerogative costituzionali dei magistrati e il mercato convergono nel commercio delle notizie. Commercio non necessariamente a scopo di lucro, i magistrati non sono tombaroli – non sono ladri: a loro basta un semplice barbaglio di carriera, sociale e politica se non professionale.
Si prenda l’ultimo caso, l’inchiesta, sempre napoletana, della P 4, anche se non va più sui giornali – anche i Procuratori a Napoli sono incostanti. L’ambasciatore e storico Sergio Romano non considera “rilevanti penalmente”, cioè reati, le telefonate da e con Bisignani. Nella rubrica delle “Lettere” che tiene sul “Corriere della sera”, così spiega il 27 giugno al lettore triestino Pietro Anelli: “Caro Anelli, anche a me sembra che le intercettazioni pubblicate dai giornali avranno tutto sommato una modesta rilevanza penale. Non sono, in buona parte, documenti giudiziari e non serviranno verosimilmente a celebrare il processo di una improbabile «P4». Ma sono documenti sociologici e antropologici di grande interesse. Dimostrano anzitutto che esiste al vertice del Paese una cerchia di persone fragili, insicure e credule che si affidano, per la soluzione dei loro problemi, alle miracolose doti di un sensale con lo stesso spirito con cui un malato ripone le sue speranze in un santo o in guaritore. Queste persone appartengono alle istituzioni dello Stato, ne sono titolari e custodi, ma preferiscono le vie traverse del percorso confidenziale e informale. Delle due l' una. O sono straordinariamente ingenue, o le loro conversazioni con Luigi Bisignani rivelano l' esistenza di un quadro pubblico disastrato in cui nessun problema può essere affrontato con naturalezza, franchezza e serietà nelle sue sedi naturali. Anche il linguaggio delle conversazioni è sgangherato: frasi nervose, periodi spezzati, grammatica incerta, ammiccamenti, rabbia, insulti, parole volgari. Questi non sono reati, beninteso. Ma lasciano nel lettore il sospetto che le stesse persone, quando parlano in pubblico, recitino una parte, e che la loro vera natura sia quella sbracata delle conversazioni telefoniche. Il confronto con la P2 è improprio, ma esistono alcune analogie. Nella loggia segreta di Licio Gelli vi erano persone che avevano un piano e lavoravano a realizzarlo. Ma una buona parte di coloro che ne divennero membri erano soltanto uomini che non avevano più fiducia nello Stato ed erano alla ricerca di una polizza d' assicurazione per calcolo, opportunismo o, più semplicemente, paura del futuro. Le ultime intercettazioni danno l' impressione che anche oggi vi siano uomini e donne che pensano al loro personale futuro piuttosto che a quello del Paese”.
L’ambasciatore Romano è sempre brillante. Ma al telefono dev’essere noioso: sempre preciso, soggetto, predicato, complemento, subordinate e congiuntivi, oltre che sempre padrone di se stesso, anestetizzato.

Il cancro dell’opinione
Unanime e scandalizzata e la riprovazione di Murdoch, e più della sua manager ex segretaria Rebekah Brooks, tanto rossa e determinata, bella donna e per questo insopportabile, perché hanno spiato al cellulare principi, attrici e calciatori per i loro giornali di pettegolezzi. “Intercettare i telefoni è un brutto reato”, sermoneggia l’Italia. Eccetto che in Italia evidentemente.
La vera differenza è che Murdoch e la sua ex segretaria non stampavano cose false – “montate”: tagliate, cucite, ammassate. Murdoch non spreca la carte, mentre l’effetto massa sembra fare aggio in Italia su ogni considerazione di costo. Forse in ottemperanza alla nota massima “calunniate, qualcosa resterà”. Una devozione?
La sfera privata e il libero giudizio, da sempre il fondamento della democrazia, sono ora perseguiti, ma non da destra come ci si aspetterebbe, da sinistra. Mussolini, che non si può apprezzare in nessun modo, ammetteva le barzellette, ora non più: il controllo si vuole totale, fino alle imprecazioni involontarie, e per questo è considerato morale, impegnato, progressista. Una volta, non molto tempo fa, prima che ci venissero a governare gli sbirri, origliare non era di buona educazione. Ora le migliori librerie e i migliori giornali non ci ammanniscono altro. Se non le testimonianze calibrate dei pentiti di mafia, o degli imprenditori falliti - i testimoni privilegiati sono in genere mediatori d’affari, concorrenti incapaci, ricattatori, grassatori, bancarottieri.
È evidente che non viviamo una bella stagione: avremo vissuto settant’anni senza guerre, non che si vedano, ma siamo caduti in bassa fortuna, manipolati da giornalisti e giudici di nessuna moralità, di quelli che “ammazzerei mia madre per…”, e dal pagliettismo. Si vuole il fenomeno un adattamento della cultura americana del Vendicatore, dei Marlowe, dei detective, della verità che abbatte l’ingiustizia, ma è solo pettegolezzo: al bar, al mercato, in strada, e sui mezzi pubblici non se ne percepisce altro odore. Per pettegolezzo del resto i media li vendono, non curandosi di conseguire alcuna ingiustizia.
Non un casalese è stato arrestato e condannato grazie alle intercettazioni, uno di quei terribili personaggi che ingombrano le librerie. Né un mafioso o uno della banda della Magliana. Nemmeno uno di quegli incredibili latitanti trenta e quarantennali, anche se hanno fatto numerosi figli, li hanno avviati agli studi o alla professione, hanno sposato le figlie, hanno condiviso i matrimoni, i battesimi e le malattie in ospedale della famiglia, sempre numerosa, eccetera. L’unico sequestro di persona nel mitico Aspromonte in cui sono state usate le intercettazioni, quello della signora Sgarella, ha dimostrato che la temibile Anonima era una famiglia di balordi – il sequestro Sgarella è stato l’ultimo, ma di intercettare i banditi non si è più sentito parlare, si rischia di prenderli? Le intercettazioni, nessuno della miriade di gialli che occupano le librerie ne fa caso. Né le dieci o dodici fiction investigative che si ripetono in tv, di carabinieri, poliziotti, giudici, preti e guardiamarina, che per questo forse si ripetono ogni anno sempre con successo. Le intercettazioni che si sono fatte valere, e con che dettaglio, sulla preparazione della strage di Duisburg non l’hanno evitata.
E la ragione è semplice: un’intercettazione su cento, forse, si giustifica con ragioni d’investigazione. Le altre nascono e s’ingravidano all’insegna del dossier, la pratica poliziesca che condiziona la politica dagli anni del piano Solo – il ricostituente della Repubblica è il veleno, in forma di segreto, e appunto di ricatto. Ma l’origine è fascista.
Le intercettazioni, un tempo in sospetto per le “deviazioni” acclarate dei servizi segreti, sono dopo Mani Pulite il metodo d’indagine preferito: non ci sono più indagini ordinarie, o denunce documentate, né impegni precisi e delimitati dei responsabili di polizia giudiziaria. Sono un metodo sempre produttivo, ma a fini di scandalo: se non c’è reato c’è sempre turpitudine, negli altri. Danno lustro: quante carriere sulle intercettazioni. Sono comode: piuttosto che lavorare, e magari rischiare, gli sbirri fanno orario d’ufficio e danno appalti, a minisocietà d’informatica e tecnici del suono, il figlio, il nipote, l’amico del figlio, e a dattilografe, interpreti, specie dai dialetti, abili trascrittori. Poche centinaia di euro, ma questo è il grosso della corruzione in Italia.
E pur così diffuse non bastano. Di Pietro, che su Mani Pulite ha costruito un partito ed è stato ministro, se ne è lamentato ancora ieri: “Nel ’92 noi arrivavamo la notte e la stampa veniva a sapere il giorno dopo. Oggi, invece, gli atti delle inchieste vengono pubblicati passo dopo passo sui giornali – e questo è un bene perché l’opinion e pubblica dev’essere informata – concedendo però un vantaggio agli indagati”. Non bastano perché la repressione non è mai abbastanza, anche se in teoria c’è una costituzione. Poiché non è di giustizia che si tratta ma di regime, di esercizio incondizionato del potere – si discute periodicamente, da un cinquantennio ormai, di regime, a volta a volta democristiano, craxiano, berlusconiano, trascurando quello delle intercettazioni che invece ci governa tranquillamente da un ventennio.
Si fa finta - la sinistra fa finta! in Parlamento! nei tribunali! - che le intercettazioni siano opera di giustizia mentre sono, e tutti lo sanno, opera di dossieraggio, cioè di spionaggio. Quanti cronisti non si sono visti offrire dei dossier completi? Con cassetta, con trascrizione rivista redazionalmente.
Non c’entra la giustizia con le intercettazioni, se non nel senso deteriore che essa ha acquisito in Italia dal processo a Sofri in poi, quasi vent’anni. Mentre tre gravi deficit di democrazia si sono con esse costituiti. Della legalità, sacrificata ai dossier. Della giustizia. Dell’integrità delle forze dell’ordine. Si conferma che la vera questione morale è in Italia, dal 1992, di chi si avvantaggia della questione morale. Di chi si pretende società I che surroga la politica in ogni sua piega, dalle signore girotondine ai compagni reduci e a tutti i furbi: il combinato media-giustizia, con gli speculatori in veste di parroci e editori della questione morale, singoli e bancari.

Pasolini era un pompinaro
È volgare, ma è questa la verità di una intercettazione che fosse stata fatta, per un anno, con microfoni ambientali, foto all’infrarosso, webcam, a carico del poeta, che ogni paio d’anni veniva regolarmente processato. È la verità delle intercettazioni e dei testimoni, generalmente falsi, delle maggiori inchieste italiane. I cui moventi, siano esse opera effettivamente delle magistrati napoletani, come pretendono, oppure di uffici speciali dei carabinieri, della finanza, dei servizi segreti, ancorché forse anch’essi napoletani, restano oscuri. “Se anche ai tempi di Pasolini ci fossero stati i telefoni azzurri e i cellulari in mano ai minorenni”, scriveva Arbasino che gli è stato amico al “Corriere della sera-Roma” il 23 aprile 2006, “come si realizzerebbero adesso i convegni, le commemorazioni e i dibattiti?” Sarebbe istruttiva, se non interessante, una vita giudiziaria di Pasolini, anche senza le intercettazioni: da quella di Siciliano, che però trascura questo aspetto, si evincono una diecina di reati a lui addebitati dal 1949 al 1975, un nuovo processo in media ogni due anni, da cumulare ai precedenti. Oscuro non è che Pasolini usasse i marchettari, “Petrolio” ne è pieno. Ma fare di un vizio privato materia di inchiesta giudiziaria, a spese dell’erario, con tanti efferati delitti che restano impuniti, nonché di saggi giornalistici e filosofici sì.
Non è il solo punto interrogativo. L’altro è la confluenza destra-sinistra in questa presunta opera moralizzatrice. È evidente – “io lo so”, direbbe Pasolini – che la centrale è unica. La furia moralizzatrice è oggi di sinistra forse per perbenismo. Forse: c’è infatti anche un mercato delle intercettazioni, dentro e fuori Telecom. E questo, che non è un punto interrogativo, fa dei moralizzatori al meglio degli stupidi.
L’argomento si può affrontare in altro modo: le intercettazioni si leggono sui giornali, li rendono indispensabili rispetto alla tv. Sono anche le sole cose che si leggono sui giornali, in politica, in cronaca, nello sport, negli spettacoli. Perfino nella cultura, seppure in forma di diari e epistolari di autori e artisti, che vi si esprimono in libertà. Ma che c’entra la giustizia? Perché dedicarvi le sue (nostre) risorse e dissiparvi il suo status?
È anche vero che i media sono sempre più parte dell’apparato repressivo e non dell’opinione pubblica – o che l’Opinione è apparato repressivo, tanto più duro per essere subdolo (avvertito, flessibile). L’opinione pubblica è la tipica realtà virtuale, non la coscienza vigile della nazione di cui si è filosofato. È finzione. È più spesso sopraffazione, del più dritto (capace) ma anche del più potente e del più ricco. Dittatura non debole, perché identifica la politica, ma non veritiera – falsa, ignorante, incosciente, autoriproduttiva. È il fascismo contemporaneo. Non manesco, ma altrettanto violento e invadente.
Il problema comunque resta: perché tutto questo è di sinistra? Cioè è giustizia, che è il fondamento del socialismo. Furio Colombo ha un “Elogio delle intercettazioni” (in “Micromega 5\2206). L’elogio è propiziato all’epoca, 2006, dalla intercettazioni del “re sporcaccione” Vittorio Emuanuele di Savoia, del segretario di Fini, della moglie di Fini, “e del colorito assortimento di imbrogli da telefilm, dal casino al casinò”, in “un’azione giudiziaria contro il malaffare così saldamente fondata su prove, documenti, e confessioni”. E invece poi finita nel nulla. Lidia Ravera, che è buona scrittrice, sa di che parla: “È una nuova forma letteraria, l’intercettazione”, scrive sullo stesso numero di “Micromega”, il genere troiaio. Furio Colombo, che è stato sociologo dei media prima di diventare deputato Ds e direttore dell’“Unità”, invece si smarrisce, dice tutto e il contrario, e conclude: “Per fortuna ci sono i giudici”. Ma Furio Colombo, intercettato vent’anni fa, sarebbe risultato il presidente di una società di ladroni, la Fabbri-Ifil. Un giorno che Romiti, per dire, stanco di dover combattere una vita con Umberto Agnelli, protettore di Furio, avesse deciso di raccontare al telefono come la Fabbri dell’Ifil faceva gli utili. E come, presidente Furio, rifilò alla Rizzoli Corriere della sera il famoso “pacco” che le costerà un buco di 1.300 miliardi. Se ci fossero state le intercettazioni i giudici non avrebbero potuto non giudicarlo. Per fortuna, in questo caso, della legge.
Le vergini delle intercettazioni sono in genere uomini. Che si scandalizzano. Non delle intercettazioni, ma del contenuto di esse. Alcuni sono gentili, Colombo lo è per natura, ma in genere sono uomini massicci, tricofili, per quanto curati, di carattere, giusti come i crociati, come i fascisti, il genere improsatore, stupratori legali. Alcuni sono veri e propri fascisti, di opinione politica, tra i magistrati e i giornalisti, nonché nelle cosiddette forze dell'ordine. Una costante delle intercettazioni, certo casuale, è che i giornalisti specializzati sono ex fascisti - e che tutti sono diventati colonne dei giornali e dei talk show (ex) comunisti: ma il problema qui non è la sinistra politica, sono le intercettazioni.
Non è casuale la scelta di questi intermediari da parte delle fonti, né la mentalità benpensante degli stessi giornalisti. Forse non ci sono percorsi occulti o segreti, ma una comunicazione avveduta e anzi studiata sì. Qualificato di giornalismo migliore, nuovo, civile, d’inchiesta, di denuncia, impegnato, è invece un modo subdolo per tenere la sinistra al guinzaglio. Va bene per questa strana nuova sinistra, che dalle sue nuove radici romane si può qualificare di pariolina o balduina, bene, a modo, sensata e sapiente: molti spettacoli, gratuiti, e letture di Dante, niente rumeni, morte ai politici, ladri, ruffiani, corrotti. Questa pubblicistica immiserisce il voto, che è l’unica risorsa della sinistra, la politica - la sinistra, una sinistra vera, ha solo la politica, non ha banche, giornali, bombe, veline, intercettatori, non può averli, o altrimenti per uno scopo non suo.
È comunque immorale la moralità di certi moralizzatori, che possono servire ugualmente Berlusconi e i suoi giudici, Agnelli e “l’Unità”, De Benedetti e Madre Teresa. E col loro modello e santo Indro Montanelli essere di centro, di destra e di sinistra tutto insieme. La furbizia è la virtù nazionale, nulla da eccepire. Si arriverà del resto un giorno alla pubblicazione di tutte le telefonate intercettate dalla centrale milanese di Telecom, il divertimento può continuare all’infinito.
Ma se l’intellettuale ha una virtù, è quella dell’onestà.
Sul piano politico le intercettazioni fanno scandalo soprattutto per la loro irrilevanza. I loro fautori sono piccoli intellettuali e piccoli lestofanti, nulla a che vedere col loro capo Di Pietro. Che, se voleva mettere dentro qualcuno, ce lo metteva. Lo scandalo di queste intercettazioni è che non servono a mandare dentro Berlusconi, e forse non ci puntano. Non servono all’ennesimo golpe giudiziario. Non servono a nulla. A opera di giudiciotti provinciali, che sognano a occhi aperti il carattere cubitale del “Corriere della sera”, chi si somiglia si prende. Danno solo un Ersatz di organismo a onanisti e prefiche della lettura. Nelle stampe del Settecento era guardare dal buco della serrature: ai marpioni si rizzava, le gentildonne alitavano – ma il petto allora dovevano avere prosperoso. Mille, centomila, un milione d’intercettazioni sui sospiri più intimi di Berlusconi e mai una cosa che lo mandi in carcere e ce ne liberi. Qui ai marpioni forse non si rizza nemmeno, sono tutti sdegno, e sdegnati si assottigliano – Di Pietro per questo dev’essere così spesso irritato, avrà l’impressione di gestire fuscelli alitanti, senza petto.

La legge del Leviatano
Quando non è spionaggio, infatti, l’intercettazione è disinformazione. Senza scandalo: delazione e ricatto sono gli strumenti della democrazia italiana - la nostra società “aperta” si realizza attraverso la sistematizzazione del sospetto. Ciò avviene con costanza e scopertamente da Mani Pulite in poi, il golpe strisciante contro la politica in atto da vent’anni. Ma sono almeno quarant’anni, dal centro-sinistra, che ogni tentativo di legalità viene costantemente deviato o respinto. Dal disarmo della polizia si è passati alla strategia della tensione. Il divorzio e il voto a Berlinguer sono finiti nel terrorismo. Il codice garantista di procedura penale è finito nelle indiscrezioni, le intercettazioni, le chiamate di correo. Il golpe strisciante radicalizza ciò che prima veniva solo sussurrato – e in chiave andreottiana, scettico-ironica: il governo minimo, attraverso la crisi, o l’impossibilità della politica. Il moralismo attacca di facciata la politica, a meno che non sia quella onesta alla Bertinotti (“ho ragione e mi metto da parte”): è un plotone d’esecuzione puntato. Un tempo contro i grandi sommovimenti, ora contro anche le virgole che disturbano. Con spreco di richiami alla Legge, allo Stato, mentre è solo un piccolo, squallido, leviatano. Nulla è più personale, c’è un reato per ogni comportamento, con licenza quindi di allargare i controlli alle abitudini di letto delle veline (corruzione), alle raccomandazioni (voto di scambio), alla moviola del calcio (Juventus), agli incontri in Sardegna o al ristorante fra politici (inciucio).
I poteri non sono oscuri, che agitano il sospetto come strategia dichiarata, e anzi occupano ogni giorno la televisione. Giornalisti Rai – corrotti per definizione: raccomandati, lottizzati – si ergono trinariciuti insieme con le vestali ex missine del giornalismo d’assalto. Non il meglio di una nazione, anche se questa è l’Italia. Ma con un difetto d’origine in Mani Pulite, un vero e proprio golpe, di cui la sinistra s’è resa ostaggio. La sinistra che non ha mai governato, caso unico in Europa, ha coperto col suo credito un’ondata distruttiva della destra più oscura, malevola, illiberale. Non nelle aule parlamentari forse, ma nella cultura sì, nell’opinione, nel modo d’essere. L’ultimo intrigo, arma imbattibile, è la questione etica. Il moralismo richiede molto pelo sullo stomaco, le anime semplici che vi si avvicinano ne sono distrutte.
Il moralismo è regola durissima di vita, più che dittatoriale. La logica moralista, non c’è modo di difendersi, è un bulldozer. È lo stato di polizia. Scompare la nozione di crimine, scompare il diritto, tutti siamo colpevoli, quelli che dobbiamo essere colpevoli. Ed è giusto che si sappia, si dica. Si uccida, anche.
Anche se, bisogna dirlo, sono giudici che riconoscono a occhio i galantuomini dai criminali: sono infatti gli stessi che non hanno mai indagato il vero affare Sme, quello tra Prodi e De Benedetti, le cui malefatte sono state documentate in diecine d’inchieste giornalistiche. Non per disattenzione, ma per cavalcare meglio la rivoluzione – per i benpensanti tournés rivoluzionari la rivoluzione è qualcosa che sa di Amici\Nemici, la famosa teoria politica di Schmitt che poi è quella della mafia. La giustizia in Italia viene sempre in ermellino. Molto autorevole. Autoritaria. Non vuole sentire ragioni. Nel senso letterale e anche oltre. La sentenza 29350 della Cassazione, del 2006, stabilisce: “Le intercettazioni sono una prova anche quando sono criptiche”. Una prova, non un indizio.
I giudici si appassionano molto. Di calcio, di politica, di diritto, di diritto soprattutto, sono legulei congeniti, ma più spesso di scemenze. Le dimensioni del bagno, nelle procure, nei tribunali, le piante ornamentali, il parcheggio riservato, il posto barca al porticciolo. In un caso famoso di un giudice ministro perfino i fiori su un balcone. Per queste cose diventano vendicativi all’estremo, fino al killeraggio. Beninteso di carta bollata. Le cose che sono ovvie per tutti, per esempio che la trascrizione dev’essere fedele alla telefonata, e che le telefonate debbano essere “tal quale”, senza nemmeno un “salto” di un nanosecondo, è per loro oggetto delle più assurde semantiche. Qualsiasi montatore o doppiatore di cinema sa che la trascrizione è l’arma più sbirresca che ci sia, qualsiasi spettatore di cinema sa che non solo il tono o l’accento di una parola può cambiare il significato di una storia, ma anche un sospiro, magari trattenuto. Il giudice no, il giudice prende la trascrizione per verità, solo lui: lui è la Verità.
Qualsiasi elettrotecnico sa che una registrazione è la prova più malleabile. La trascrizione intanto è una selezione, e questo non c’è bisogno di Eco per spiegarlo: qualsiasi verità si può montare, nessuna speciale abilità è richiesta, basta saper fare il montatore, tagliare e cucire, su una massa di suoni o di immagini, ognuno ne fa l’esperienza ogni giorno, negli equivoci della conversazione ordinaria. Quanto al documento originario si adultera con facilità, basta lo scarto di una frazione di secondo, l’abolizione dei rumori di fondo, l’introduzione di rumori, il fading di certe parole, o di una voce (in genere quella femminile, la donna non sarà colpevole ma è tentatrice): il bagaglio delle alterazioni è infinito e infinitesimale, e si fa con niente. Una registrazione che si faceva circolare in sala stampa alla Camera nel 1980 trasformava le conversazioni tra un grasso ministro socialista e una donna di grande fortuna con imprenditori giovani in convegni libidinosi attraverso lascivi rumori di fondo, improbabili al telefono.
Le intercettazioni sono poliziesche, non è vero che siano casuali. Non è vero che sono sviluppo dell’azione penale, la quale invece è circostanziata e non casuale. Non s’indaga su un’ipotesi di reato. Si sta ad ascoltare un uomo (non ci sono delinquenti donne?) in tutti i momenti della giornata, su tutti i telefoni che usa, con chiunque parli, di qualsiasi argomento parli. Non si indaga nemmeno su un affare, un settore di affari, un’azienda, un ambiente di affari, ma per mesi e anni, ventiquattro ore su ventiquattro, su quella sola persona.
L’abuso è un fatto. In Italia nel 2003, dichiarava il Garante della Privacy Francesco Pizzetti a metà 2005, si sono fatte 77.500 intercettazioni ufficiali, in Germania 25 mila, negli Usa 1.442. A un costo nello stesso 2003 di 255 milioni di euro. Cui andrebbe aggiunto il costo delle finte indagini sulla fuga di notizie. E il costo, molto sostanzioso, della stessa Autorità della Privacy, che evidentemente non protegge nulla, anzi ci impone di firmare una diecina di volte, in banca, all’assicurazione, in ospedale, dopo aver letto diecine di fogli dallo stile incomprensibile e a corpo 6, quello che un volta si faceva con una sola firma.
È la conferma che l’Italia non si è ancora desovietizzata. Incatenata al doppio linguaggio, all’ipocrisia,alla dissimulazione, non esclusa la violenza che tutto ciò comporta. Sia pure a mezzo dei maggiori giornali nazionali. Per quanto desovietizzata è termine sbagliato, si fa torto all’Urss, l’Italia non ha mai avuto uno Stalin. Pretastica sarebbe più giusto, proprio dei preti che si pensano inventati dall’anticlericalismo e invece sono veri e vivi insieme a noi, alla Corte Costituzionale per esempio, al Consiglio Superiore della Magistratura, senza tonaca e senza dirittura morale o coerenza, ma sempre untuosi, unti dal cielo, per sacramento, e quindi nel giusto.
Ai costi esterni, in appalti e consulenze, sono peraltro da aggiungere, cosa che si ha cura di evitare, i costi generali. La magistratura non ne tiene conto perché è abituata ai privilegi. Alle sedi di rappresentanza, con grandi spazi e grandi piante, grandi garage, grandi bar a prezzi minimi, e il minuto mantenimento a esse connesso. E l’auto di servizio anche per il più modesto giudice, grazie all’uso generalizzato delle scorte: ogni servizio di scorta costa, oltre all’auto di rappresentanza, ai carburanti e alla manutenzione, anche otto giornate lavorative al giorno, di due agenti su quattro turni di sei ore – per le semplici tutele il costo del personale, pur dimezzato, è di ben quattro giornate lavorative al giorno.
L’indiscrezione è l’odio, la lingua residua degli esclusi. Che più si allontanano dalla caduta del Muro meno trovano un’idea e uno stimolo. Formidabile la loro assenza nella costituzione in corso delle vecchie-nuove oligarchie: banche (tutte Centro, insomma “Dc”), Procure della Repubblica, giornali. Ma più si fanno astiosi, e forse infami (dossier, manipolazioni, intercettazioni). Mai storia di perdenti è stata peraltro più disprezzabile. Per gli eccidi, di altri comunisti, dei poveri, degli stranieri, e per l’ipocrisia. Per la miseria umana (la servitù volontaria, la delazione, il gregarismo, l’inumanità)? O perché questo “comunismo” è ancora tra noi?

La “follia dell’abitazione”
Nel racconto “La torre” Kafka fissa il fenomeno, nelle specie di una talpa, che impazzisce per localizzare la fonte di un rumore che la infastidisce nella sua tana. Come Harry Paul-Gene Hackmann della “Conversazione”, e come il “Re in ascolto” di Calvino, la talpa è ben maestra dell’ascolto, che pratica con costanza, in casa e fuori, riconosce i rumori, sa riportarli alle fonti, ma non risolve il suo problema. È che, conclude Szendy, “a forza di entusiasmarsi, decostruendo e ricostruendo senza sosta la struttura in cui alloggia, l’ascolto finisce qualche modo per ascoltarsi, cioè per cedere all’autosuggestione. In un crescendo di ipotesi l’udito ipogeo sembra trasformarsi in immaginazione, in follia dell’abitazione. Erige con metodo teorie, ognuna più cieca e falsa delle altre, e a misura delle strutture così costruite, costruzioni teoriche…, demoltiplica l’oggetto del suo ascolto”.
Ne “I segugi” di Sofoche, il primo giallo della letteratura occidentale, come già nell’“Inno omerico” di analogo soggetto, un giallo alla Poirot, da “celluline grige”, si indaga il furto delle vacche di Apollo. Commesso da Ermes. Che le vacche aveva fatto avanzare all’indietro, a passo di gambero, per confondere le tracce. Ermes, il ladro, ha inventato e suona per i segugi la lira, con la quale li incanta. Ai segugi che le chiedono cosa sia mai quel suono, la dea dei luoghi Cillene risponde che è una bestia morta. Coro: “Ma come credere che questo sia il suono di una bestia morta?” Cillene: “Credimi; anzi, solo morta ha avuto la voce; da viva era muta”.
“L’umiltà del male” è un ossimoro, il fortunato saggio di Franco Cassano, il male è insidioso e letale: conviene sporcarsi le mani piuttosto che stare ad ascoltare – sporcarsi le mani tanto per dire, sarebbe un altro ossimoro, insomma muoversi, fare le prove, guardarsi allo specchio, con occhio sinottico, panoramico, comparatistico.
Peter Szendy, Intercettare. Estetica dello spionaggio, Isbn, pp. 189 € 9,90

domenica 31 luglio 2011

Le parole hanno occhi

“Nata per guardare oltre le oche, nei campi”, si diceva Rosa Luxemburg. Hertha Müller non era nata per “fare la guardia alle mucche”, senza orologio, fino al passaggio del quarto treno della giornata, che significava le otto di sera, e fin da bambina se ne separò, in un mondo suo.
C’è anche un mondo agreste di estrema indigenza, negli anni 1960, nel Banato che non è la zona più arretrata della Romania, uno di quei paesi dove il comunismo è stato persecuzione. Qui di una comunità tedesca e tedescofila, hitleriana non pentita, ma di buoni lavoratori e del poco che avevano accumulato, nelnome di un socialismo che è solo dittatura. Di estremo interesse nella rappresentazione che una diecina d’anni fa ne dava la scrittrice ora illustre. In questo libriccino che però ha lasciato senza parole, pur contenendo il travolgente “In ogni lingua dimorano altri occhi” oltre il testo del titolo, in traduzione eccellente, firmata Fabrizio Cambi, a giudicare dalle (mancate) reazioni: il Muro resiste in Italia, anche al Nobel.
Hertha si racconta, ci racconta, le sue favole da bambina. Della scoperta del mondo cominciando dalle parole. Che emergono sottili, radicali, angoscianti, di giorno con le mucche lungo la ferrovia, che tante novità apporta, di notte ai piedi del letto, accanto alla stufa. E a un certo punto diventarono terribili, quando il re rosicchiato degli scacchi intagliati dal nonno s’incarnò nella tortura e l’assassinio, specie nella forma beffarda del suicidio. Ma questa è la verità.
Di Hertha Müller la Germania apprezza soprattutto il linguismo, la capacità di dare senso alle parole e concretezza al linguaggio, anche quando innova, il lessico, la costruzione, il senso. I migliori interpreti del tedesco nel Novecento saranno dunque stati due marginali o “minoritari”, entrambi proveniente dalla Romania, alla scrittrice neo premio Nobel per la letteratura, tedesca del Banato, va affiancato Paul Celan, il poeta originario della Bucovina. Due parlanti un vecchio dialetto, Celan essenzialmente lo yiddisch, Müller poche parole in versione corretta, che affrontano la lingua come un architetto le figure, con sicuri criteri ma ogni volta innovativi.
Qui Hertha Müller si applica al senso, ed è travolgente anche in traduzione. Opera non minore, malgrado la brevità e l’originaria occasionalità (sono due articoli-conferenze), di narrazione densa: un’esposizione adeguata dovrebbe essere una borgesiana riproduzione. Di un’infanzia vissuta nel “nudo venirmi incontro della caducità”, in campagna, territorio che sempre s’intende vitale e invece è morto, “nel cerchio vorace delle piante”, o nel “fiorente banchetto di cadaveri” che sono i fiori, il granturco: “Ogni paesaggio si esercitava alla morte”. Senza sbocco: “Non è vero che ci sono parole per esprimere ogni cosa. E non è neanche vero che i pensieri sono fatti sempre di parole” – cosa vera anche per Celan: l’indicibile può essere soverchiante. Sperimentando fin da bambina “nomi veri”, per esempio per il cardo da latte.
O la scissione è provocata, e anche questo vale a maggior ragione per Celan, nell’intelligenza e nell’espressione, dalla doppia o tripla appartenenza. Nel primo contributo, Hertha Müller paga infine un tributo alla rumenità. Alla lingua rumena, con esempi esilaranti di come si dice in rumeno e come si dice in tedesco. E a una visione che si può dire rumena del mondo e della poesia – una presenza che ha inciso il Novecento europeo in tutte le sue novità, dada, surrealista, espressionista, della crisi, del “ritorno del religioso”, o semplicemente d’autore: “Nei miei libri non ho ancora scritto una frase in rumeno. Ma si capisce che il rumeno scrive sempre con me perché mi è cresciuto nello sguardo”. A Berlino Helga sarà libera da questi fantasmi. Eccetto che per l’albicocco, che a Berlino non c’è per il clima, ma uno è riuscito a spuntare e crescere rigoglioso, a ridosso dei binari del ponte dello S-Bahn, inattingibile e tuttavia a ogni passaggio liberatorio e persecutorio.
Un’altra condizione peculiare della Nobel sveva di Romania – che Hertha Müller condivide con Ingeborg Bachmann, anch’essa tedesca dei margini, della Carinzia  - è quella di figlia di un padre volontario in una guerra senza onore, non pentito. Che ne determina una fragilità irrimediabile, nell’incertezza che non è agevole liquidare. 
Hertha Müller, dopo il Nobel, ogni tanto compare sui giornali, raramente ma prima era ignorata, e si invita a dare lustro ai festival. Ma non se ne parla. Perché non se ne parla? Se ne occupa la piccola casa editrice Keller di Rovereto, specializzata in testi di qualità, da quando la scrittrice era sconosciuta, ma è ancora una scoperta.
Hertha Müller, Il re s’inchina e uccide, Keller, pp. 95 €12

La metafisica della modernità

Un solo articolo, le poche pagine che danno il titolo alla raccolta, il primo di Guénon, nel 1909, a 23 anni, nella rivista da lui creata “Gnosi”, è una metodologia netta (la verità delle parole) e già una filosofia definita. Partendo dalla difficile partizione dell’unità nella dualità – “si Deus est, unde malum?”
Se il Non-essere è il nulla, non c’è che dirne. Diverso è “se si considera il Non-essere come possibilità di essere; l’Essere è la manifestazione del Non-essere così inteso, ed è contenuto allo stato potenziale in questo Non-essere. Il rapporto fra il Non-essere e l’Essere è allora il rapporto fra il non-manifestato e il manifestato”. Che si perfeziona nel secondo o terzo numero della rivista: “Al di là dell’Essere c’è il Non-essere”. O: “Al di là del manifestato c’è il non-manifestato”. Ma “il Non-essere non è il Nulla, è invece la Possibilità infinita, identica al Tutto universale, che è al tempo stesso la Perfezione assoluta e la Verità integrale”.
La conoscenza vi è già estesa del non detto, della cultura che non c’è: “Secondo la Kabbala l’Assoluto, per manifestarsi, si concentrò in un punto infinitamente luminoso, lasciando le tenebre intorno a sé; questa luce nelle tenebre, questo punto nella estensione metafisica senza limiti, questo niente che è tutto in un tutto che è niente, se si può dir così, è l’Essere in senso al non-essere”. Questo punto luminoso “è l’unità, affermazione dello Zero metafisico”. Incontrovertibilmente, in breve: “La differenziazione dell’Assoluto in Essere e Non-essere esprime soltanto la maniera come ci rappresentiamo le cose, e niente di più”.
Il Demiurgo è la figura del tutto - e sarà figura fertile nel Novecento, in Burzio, Rensi, Cioran tra i tanti, al fondo anche Jünger. “Tutte le creature sono contenute nel Demirugo… perché la creazione ex nihilo è impossibile”. Senza un criterio necessario: è un errore diffuso in Occidente “credere che non ci sia più niente quando non c’è più forma, mentre è la forma che non è niente e l’informale che è tutto”. Naturalmente bisogna risalire a Pitagora, il grande rimosso, come peraltro il Socrate-Platone faceva. Non senza sbavature: Guénon contesta ogni spiritismo e teosofia, per poi difendere una non spiegata Confraternita H.B.of L. – la fantomatica Hermetic Brotherhood of Luxor.
Resta il fondo d’incomunicabilità della spiritualità tradizionale, e più dell’“insegnamento vedântico”, che Guénon parte per contestare, in uno scritto del 1940 (“La diffusione della conoscenza e lo spirito moderno”) e finisce lui stesso per confermare, il “mondo moderno” dicendo impermeabile alla spiritualità: “Fra lo spirito tradizionale e lo spirito moderno non può esservi in realtà alcun accordo”. Con la “separatezza della «ragione»” del Settecento, con quella della “scienza” e del “progresso” nell’Ottocento, con quella della “vita” ai rimi del Novecento, con “la discesa nell’«infrarazionale, con il cosiddetto «intuizionismo»” . O con l’idealismo come opposto al realismo – “non solo Platone non è né «realista » né «soggettivista» in alcuna misura, ma sarebbe impossibile essere più integralmente «realista» di lui” (questo nel saggio fondamentale “La superstizione del «valore»”). È, all’ombra dell’orgoglio della metafisica, la constatazione radicale e dettagliata della civiltà della crisi – del compiacimento della crisi. Guénon non propone un sistema, pur rivendicandosi orgogliosamente metafisico in tanta pseudo razionalità, le perplessità dei molti si giustificano per il suo vezzo di essere “altrove”, nella massoneria, nell’islam, ma è impareggiabile decrittatore. Della modernità più che della tradizione.
René Guénon, Il demiurgo e altri saggi