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sabato 2 ottobre 2010

Unicredit allo scioglimento, con plusvalenze

Il nome è ancora incerto, chi lo chiama Ghizzoni chi Ghizzardi. Ma la fisionomia è precisa. Il nuovo ad a sorpresa di Unicredit è come i suoi patroni Palenzona e Biase, e le tante faccette da giocatori di scopa all’osteria che riempiono il consiglio d’amministrazione. La sorpresa è la nomina. Ma la faccia è rassicurante, è quella che piace ai suoi azionisti delle fondazioni. Che riporterà la banca ai suoi connotati regionali e paesani, una specie di consiglio comunale finanziario.
Ora, c’è chi scommette fra un anno e chi fra due. Ma la posta è lo scioglimento di Unicredit. Della banca transnazionale voluta da Profumo. Perché: che logica ha una banca che è di qua ed è d là? Cos’ha da fare la Polonia con la Bassa, o la Croazia? Sì, il complesso Baviera-Lombardoveneto, il più produttivo del mondo, sì le ali marcianti nel Centro Europa e nel mondo slavo. Ma che ci azzecca una banca di banche? Le banche sono come il prosciutto, vengono bene a Langhirano, a San Daniele, vengono bene con l’aria del territorio.
In effetti, non c’è molto da attendersi: un anno o due, uno guarda Palenzona e capisce. Rampl, il presidente furbastro, naturalmente lo asseconda, per lui è una fine che è una manna, non se l’aspettava. Si è fatte rimettere in sesto le sue banche, la bavarese Hvb e la Bank Austria, e se ne rivà. La banca polacca, che è diventata con profumo la migliore del suo paese, che altro deve attendersi da Ghizzoni, o Ghizzardi? E la banca croata? Che non si sa nemmeno come si chiamino, che ci ha da fare Verona con queste ignote entità.
Era facile dirlo, si sapeva, e in poco più di una settimana viene quasi dichiarato: la banca voluta da Profumo, l’unica banca veramente internazionale, in grado di attirare soci e capitali da tutto il mondo, viene dissolta in favore degli sportelli locali. Del potere politico di questi “sportelli”: sindaci, vescovi, imprese. O Lega, spezzoni Dc, liste civiche. Il neo centro, un po' di qua un po' di là, intoccabili, immarcescibile, più di qualsiasi altra piovra. Magari con laute plusvalenze da spartirsi, perché no, tra scorpori, cessioni, riparti.

Merda a Napoli anche in tribunale

Si morderà ogni giorno la mani la giudice del Tribunale di Napoli che voleva rifiutare il processo a Moggi a alla Juventus, di fronte alla ridicolaggini che ogni giorno si consumano nel suo processo. Come se la monnezza tracimasse dalle strade nelle auguste sale. È una continua commedia degli “impuniti”, procuratori della Repubblica inclusi, omissivi, bugiardi, che la presidente si ritrova a ogni udienza del suo squallidissimo processo. E il giorno dopo il tutto impastato nel moralismo di giornalisti peggiori dei figuri che si ritrova nella sua aula (i giornali sportivi, compreso lo juventino “Tuttosport”, evitano oggi le parti più succose delle deposizioni di ieri, che si sanno per i blog e le cronache locali: non è un caso). Accusatori che si confessano autori delle peggiori turpitudini mentre si eleggono a giudici. Un po’ come i pentiti di mafia, ma senza rischiare nulla. E testimoni in palese malafede, come è di tutto il mondo del calcio.
Ieri si è ritrovata in aula un Baldini, un manager di calcio cresciuto grazie all’inimicizia con Moggi. Che per questo si professa uomo di qualità. E spiega senza vergogna come abbia montato tutta la vicenda con i due o tre altri nemici di Moggi. Citando trasferimenti al Siena e al Messina, nientemeno, fatti o mancati. Dopo avere conosciuto Auricchio, l’autore della famosa inchiesta contro la Juventus, pubblicata dall’“Espresso” a puntate a suo nome, in cui rifà per ogni partita le cronache del lunedì, anzi i Processi del lunedì. Il quale indagava nel 2003 sulle fidejussioni false, della Roma, di cui il Baldini era il direttore, e cioè su di lui Baldini, e ha chiuso l’indagine senza accuse, pur essendo le fidejussioni accertate false. E l’arbitro Collina, che viene nominato a una Inter-Juventus su richiesta dell’Inter ma, dicono le carte dell’inchiesta, su interesse della Juventus. Un arbitro dichiaratamente antijuventino. Uno che si era pensionato con la Opel sponsor del Milan, senza vergogna, e pretendeva di continuare a arbitrare. Del Milan di cui era consigliere, incaricato degli arbitri, il suo “amico ventennale” Leonardo Meani. Con cui concorda incontri riservati col capo Galliani, registrati ma ritenuti ininfluenti. Il quale, interrogato sul Fiorentina-Juventus 3-3 del 9 aprile 2005, una gara a cinque giornate dallo scudetto in cui non convalidò una gol “entrato” di Cannavaro che tutti avevano visto che era entrato, ancora oggi dice tranquillo: “Ancora oggi quando rivedo le immagini non vedo il pallone entrare”.
Inutile fare cattivi pensieri. Che magari Baldini abbia distratto Auricchio dalle fidejussioni false, in cambio di rivelazioni su Moggi e sulla Juventus. Perché entrambi sono dei gentiluomini. Auricchio è un ufficiale dei Carabinieri. Che anzi in questa occasione si è distinto per la promozione da maggiore a colonnello. Forse per avere rinverdito i processi biscardiani, genere appannato, si sa che la sociologia dei carabinieri viene sempre dopo. Mentre Baldini è il direttore generale della nazionale di calcio inglese, nientemeno: carica dalla quale non si è dimesso dopo il fallimento del Mondiale del Sud Africa, facendo valere il suo contratto fino al 2012, incluso. Così come è al di sopra di ogni sospetto la Procura antimafia di Napoli, i cui titolari, Narducci e Beatrice, il Consiglio superiore della magistratura ha premiato con promozioni: che più mafia della Juventus? E anche: perché fare un processo per condannare Moggi e la Juventus? A Napoli, certo, tutto è possibile.

venerdì 1 ottobre 2010

Il nodo del tempo pieno è la cucina di mamma

"Se sento che si tagliano il tempo pieno e la mensa mi vengono i brividi”, dice Mario Lodi, “il maestro”, al “Venerdì” di “Repubblica”: “Mangiare insieme è anche questo una scuola di democrazia". Ma quando il tempo pieno fu istituito, nel 1974, con la mensa scolastica, questa divenne praticamente l’unico argomento d’interesse dei genitori, e quindi dei consigli d’istituto. E lo è tuttora: da insegnanti, da genitori e da nonni non si ricorda altro di questa rivoluzionaria istituzione, che avrebbe dovuto legare alle famiglia, farla anzi “dirigere” alle famiglie, che le lamentele sul cibo: “Come la mamma, mai!”, detto, più spesso, dalle mamme che non cucinano. E i figli all’unisono: qualsiasi maestra o insegnante ha penato e pena sul rifiuto del cibo a mensa.
Le istituzioni, purtroppo, non riformano la società. Cioè sì, se sono autoritarie, al modo come un Mussolini poteva pretendere perfino che gli italiani fossero bellicosi e in guerra con il mondo. Ma non se sono democratiche. Le istituzioni possono solo accompagnare la società, migliorarla, ma lievemente. I consigli, che dovevano portare le famiglie nelle “loro” scuole, è tanto se hanno capito – cominciano a capire – come sono fatte e ragionano le famiglie.
Anche adesso, dopo i tagli al tempo pieno (che è rimasto, purtroppo - un giorno bisognerà che anche i bambini possano parlare, o comunque ridiscutere l’opportunità di tenere i bambini fermi otto ore: i genitori devono essere liberi di andare a lavorare, ma i bambini possono fare altro che la scuola), e dopo le proteste, le manifestazioni, i tafferugli politici, tutte le attenzioni convergono sui sughi e sulla qualità della pasta. Il pasto a scuola è un fatto complesso, per i numeri intanto (il Comune di Roma fa 180 pasti giornalieri...), per le diete, per i regimi speciali, ma su questo nessuno si esercita - la complessità non è democratica?

È la Russia la tristezza di Cechov

“La Russia comincia nell’anno 862. Ma il principio della Russia civile non c’è mai stato”. Era nel 1895 il dato di fatto del medico scrittore. Per un’anamnesi senza scampo, tra i tanti ragionamenti di progresso, socialista, laico, anarchico, tolstoiano, che riempiono queste paginette, per “l’ignoranza, la sporcizia, l’ubriachezza, l’impressionante mortalità infantile” che connotavano la grande massa del paese, irremovibile. C’è un mondo, una storia, al fondo della malinconia delle narrazioni cecoviane. I continui, quasi quotidiani, sovvertimenti degli sviluppi narrativi e dei caratteri si sono riassorbiti da questa grezza tela di fondo, l’uomo di buona volontà è il granello di un sorite tanto sordo quanto immutabile – poi, certo, Stalin distrusse la tela.
Anton Cechov, La mia vita

Ombre - 63

Per il Gr 2 finiano e per il Gr 3 democratico l’attentato a Belpietro veniva stamani per ultima o penultima notizia, en passant.
Ritornerà pure il “sedicente”, detto del terrorismo? L’ipocrisia della Rai è infinita.

La Procura di Roma non s'interessa della casa di Montecarlo, aspetta che faccia giustizia il principato, e invece mette l'assedio, con fotoreporter, alla casa di Gaucci. Poi si dice che non c'è la giustizia in Italia.
Il problema è che Gaucci, un bancarottiere, finisce per diventare simpatico. Più del procuratore Ferrara, che la giustizia impersona.

Di Pietro insulta un deputato, Berlusconi: “Stupratore della democrazia!” gli urla. Studiatamente – l’uomo del “che ci azzecca” si sa che prova allo specchio l’analfabetismo.
Faccia di bronzo del presidente della Camera. Il Guardiano della Democrazia. È il nuovo Eletto.

Non da ora, da sempre i napoletani vogliono produrre merda. Come tutti del resto, ne hanno diritto. Ma pretendono di non tirare lo sciacquone, troppa fatica. Anzi, per non scomporsi non fanno nemmeno gli scarichi. Era così anche centoquarant’anni fa, e duecento anni fa, Pasquale Villari, storico napoletano, ci ha scritto pagine molto dettagliate.

Lo sanno tutti, a partire dai milioni di segretarie, che le fotocopie si falsificano. Non i giudici di Palermo né i grandi cronisti giudiziari dei grandi giornali, Bianconi, La Licata – “Repubblica” non degna il generale, giusto poche righe nella cronaca locale. E quando il generale Mori gliene fa la dimostrazione in aula, prendono un atteggiamento anodino: lui lo dice, sarà vero?
Poi dice che non c’è la giustizia a Sud: la fanno i Ciancimino. I giudici e i Grandi Cronisti in realtà non sono imparziali, sono complici. Di Ciancimino figlio. Che è un bugiardo e non lo nasconde. Magari per fare un dispetto a Berlusconi, la giustizia al Sud è inflessibile.

Che la Banca d’Italia armi una tagliola al Vaticano, questa era ancora da vedere – indagare per tre anni la banca del papa, e poi non chiedere spiegazioni su alcuni movimenti ma mandare i carabinieri. Non però se si considera che la governa un allievo dei gesuiti.

C’è una situazione da tragedia, o da grand guignol, o da resa dei conti tra mafiosi, insomma appassionante, da qualsiasi punto la si guardi, nella maggioranza berlusconiana: indagini, accuse, trappole, servizi segreti, deviati e non, ci mancano solo le pugnalate – ma qualche suicidio sospetto già s’annuncia. Ma questo non interessa a nessuno, né all’opposizione né all’informazione. Solo interessano Montecarlo e Santa Lucia, che meritano un viaggio.
Santa Lucia però ha deluso, pur essendo ai Caraibi: gli inviati sono tornati subito via.

A Napoli gli appaltatori della raccolta rifiuti, una cooperativa di ex detenuti, sfascia i mezzi per la raccolta, una sessantina in due giorni. Altri, ignoti, sparano ai conducenti. Ma per il “Corriere della sera” il problema non è questo, è del governo: “Come se per far sparire la spazzatura fosse sufficiente non farla vedere più in televisione al tg della sera”. Opposizione politica? Ma la spazzatura, purtroppo, non sparisce, si raccoglie. E poi non ci sono solo i tg, c’è anche il “Corriere della sera” a dare le informazioni. Ci dovrebbe essere, certo.

Draghi che fa le scarpe a Profumo, all’ombra delle regole, con i libici e senza i libici ma con schieramento univoco, da “Repubblica” al “Corriere della sera”, è tutto il partito Democratico. Un partito dei coltelli, a chi stronca chi.

La cacciata di Profumo dalla più grande banca “europea”, confusa, prepotente, e contraria ad alcune norme di legge oltre che alla buona amministrazione, è normale amministrazione. Se n’è fatto un po’ di gossip e nulla più. Se un’ipotetica, anche piccola, banca del Sud – ora non ne esistono più – avesse osato una cosa del genere, molte prime pagine avremmo letto di sarcasmi e stigmate.
È finita a Milano la riserva di sdegno? Non contro Fini, o contro Berlusconi. Le questioni di denaro non accendono più Milano? No, sono una privativa.

A Milano straripa il Seveso, “come ogni anno”, e invade due linee della metropolitana, una in costruzione e una in attività. Ci vorranno dieci giorni per ripulire le due gallerie. Ma non c’è sdegno, e anzi non c’è nemmeno la notizia.

giovedì 30 settembre 2010

Problemi di base - 38

spock

Chi fa il primo passo non fa anche il secondo?

Come dice messa un prete astemio?

E il violinista mancino nell’orchestra?

Perché non ci sono Cinquecento Fiat con la targa del Vaticano?

Perché le persone che sanno più lingue sono più sole?

Perché gli inglesi, che sempre sono così buoni, sono sempre stati cattivissimi con gli irlandesi?

Perché gli scrittori hanno massimamente e meglio creato personaggi femminili? Non hanno rispetto per le donne?

Perché le donne leggono i romanzi? Perché ci trovano molte donne sorprendenti.

Perché non c’è una biografia della madre di Manzoni?

Perché Sade non ride mai?

spock@antiit.eu

America iperrealista, iperletterata

Iperrealista, la caricatura dell’iperrealismo – oggi sarebbe Woody Allen. Come tutta la letteratura americana da Hemingway e Steinbeck in poi, Faulkner compreso - ma anche prima, E.A.Poe. La straordinaria irrealtà del reale. Non realista – non del realismo, neo e archeo, italico o europeo, legnoso, dolente, accusatorio\assolutorio, di se-stessi-migliori-di-Dio-e-del-mondo, che discende dal verismo e prelude sempre alla Verità Ultima, la Realtà-Verità. Ma salda fantasia, che il reale lega liberamente, per gioco – la letteratura. Iperletterati, questi americani che hanno fatto cento mestieri manuali invece di studiare, così vuole il santino, creatori d’immagini, di parole, e di silenzi, del reale. Sul solido pilastro di cento o mille dollari per un racconto. Che raccoglie abbastanza pubblicità per pagarsi.
Si potrebbe ricostruire dell’America un circolo virtuoso, attorno alla letteratura, e sarebbe altrettanto veritiero, se non di più, di dollaria, i marines, e i predicatori della Bibbia.
John Fante, Chiedi alla polvere

mercoledì 29 settembre 2010

L’antipolitica 140 anni fa

Il ventennio fu allora rovesciato, con la lite nella Destra all’inizio e non alla fine dell’antipolitica, ma per il resto fu lo specchio dei nostri vent’anni: già negli anni 1870-1880 i partiti politici in Italia si eclissarono a favore di maggioranze parlamentari composite e confuse, di destra, di sinistra, e più spesso di destra-sinistra. Con leggi elettorali più o meno analoghe a quelle post-1992. L’elettorato era limitato, prima 600 mila aventi diritto, poi, dal 1882, due milioni, ma l’effetto fu lo stesso: parlamentarismo tanto acceso quanto vuoto, malgoverno. E una gelata dei redditi quale solo questo nostro ventennio poi ha eguagliato. La più grande differenza è che allora si chiamava trasformismo, oggi si pretende una rivoluzione e una Seconda Repubblica.
A giugno del 1886 Giustino Fortunato, rilevando che destra e sinistra “perdettero ogni significato, quel giorno in cui l’unità fu suggellata a Porta Pia e il pareggio dei bilanci proclamato in Parlamento”, da conservatore, sebbene liberale. Ma dopo aver detto con chiarezza: “Non v’ha problema più urgente della ricomposizione de’ partiti politici”. O De Sanctis dieci anni prima, nel giugno 1877: “Oramai siamo giunti a questo, che non sappiamo più cosa è destra e cosa è sinistra, cosa vogliamo e dove andiamo. Ubbidiamo a impressioni momentanee”.
Convenzionalmente, il trasformismo si fa partire dal governo di Depretis, capo della Sinistra storica, che nel 1876 succedette a Minghetti, dopo un quindicennio di governo della Destra storica. Il mondo come gli succedette ricorda la situazione odierna: Depretis formò il governo con la Sinistra e con una parte della Destra, quella che contribuito alla caduta di Minghetti.
Della necessità dei partiti politici fu promotrice allora la Destra, ricorda Fortunato nella stessa occasione: “Fummo in pochi, dieci anni addietro, noi della “Rassegna settimanale”, a richiamare su di esso la pubblica considerazione, e per poco allora non ci si gridò la croce addosso”. La “Rassegna settimanale” riuniva a Firenze Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino, Pasquale Villari, lo stesso Fortunato.

Novecento, un secolo di rose parodistiche

Il libro dei veleni. In parodia doppia: il libro veleno, e la lettura ottocentesca (Eco è studioso di Dumad padre) del Cinquecento. La lettura realistica, cioè, del secolo che faceva la realtà con la letteratura. Parodia dunque del libro-romanzo in varie forme. A specchio del Novecento, secolo di parodie – anche nel nome: un’efflorescenza di parodie.
Ma le digressioni di Dumas, anche le più insensate, l’amante che non è amante, la cacca, i banchetti, le segrete, i complotti senza fine, si leggono avidamente. Quelle di Eco, la scolastica, l’Inquisizione, la geografia conventuale, la pubblicazione del libro, le gerarchie, non si leggono. È la materia che cambia tutto? I temi a largo pubblico, dei “familiari” come dei best-seller, sono intessuti di usi e costumi aristocratici, meglio se regali, di amori, vendette, malattie, destini impossibili, e non di filologia né di filosofia.
Dunque, un romanzo per gli happy few. Ma non è un romanzo di qualità, “scritto”. Ed è stato venduto a milioni di copie. È l’effetto di un buon marketing? Del nome e della simaptia di Eco? È il sangue di Cristo, o il Cristo sanguinante, come dimostra l’epigono surclassatore Dan Brown. In forma di rosa, croce, eccetera, l’esotico dell’esoterico.
Umberto Eco, Il nome della rosa

martedì 28 settembre 2010

Vita inerte di Cavour

Il classico di Cavour è una vita inerte – il vecchio Thayer è ben più ricco e vivace. Una vita politica, limitata all’Unità. In contesti solo politici, e limitati all’Unità. Dell’Unità limitata a Torino, al gabinetto di Cavour, e a quello di Napoleone III. Cavour non ha passioni. Non c’è Milano, non c’è il papa, non c’è la Toscana. Paradossale è l’assenza del Sud, di qualsiasi Sud - non c’è neppure quello di Farini e poi di Pasquale Villari. “Con «la vostra entrata a Napoli», scrisse Cavour a Farini, «l’epoca dell’unificazione si può dire compiuta. Proverete una grande emozione. Ve la invidio»”: questo è tutto. Il Sud, dice lo storico siciliano, porrà soprattutto un problema di gestione delle luogotenenze garibaldine – un’anticipazione dei Fanfani-Moro, Moro-Andreotti, Craxi-De Mita, i duelli della Repubblica.
Rosario Romeo, Vita di Cavour

Letture - 41

letterautore

Asor Rosa – È ipocrita, e non lo sa.
Ma non è antisemita, ovviamente. Mentre l’antisemitismo è l’unica cosa che gli si rimprovera. L’ipocrisia è generale?
Problema: si può essere ipocriti involontari? Sì, è la grande colpa del Pci.

Casanova – La “Storia della mia vita” rifà le “Confessioni” di Rousseau: stesso ritmo, stessa superficialità (saviniana), stessa malizia – delle digressioni etiche più che degli exploits narrati.

Céline – Ha l’odio del declassato. La disperazione anche. Esemplare del carattere contraddittorio (anarcoide, schizoide) del fascismo. Anche della piccola borghesia. Del fascismo come reazione dei ceti medi declassati (Gobetti, Salvatorelli).

Cinema - È la forma aperta: la luce. Malleabile, estensibile, leggibile all’infinito. Quanto legnose, a contrasto, convenzionali, artificiose, inverosimili, le sceneggiature ragionate, posate, “teatrali”. La luce rompe ogni convenzione, anche il tempo è indipendente, aggiustabile. Ed è – sembra – la memoria: quella del testimone oculare, la moltiplica, la dissolve, la concentra.
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Dante – Dante tedesco è anche in Michelet nella “Storia di Francia”, che il ghibellino dice uomo del legame feudale, del giuramento di sangue, della devozione affettuosa, il Tedesco. E anche Dante, aggiunge. Come opposto all’uomo della legge e della ragione, il Francese.
Singolare lettura non tanto del ghibellino quanto del guelfo. Una forzatura, per volerlo assimilare al Francese, al fondo superiore?
Ne viene un Dante non molto filosofo, raziocinante.

Donna– È il desiderio dell’uomo, in letteratura. È in letteratura opera di uomini. Che vi si proiettano, è facile dirlo. Le donne delle scrittrici sono molto diverse: Lafayette, Duras, Jelinek, Bachmann, Tamaro. O non ci sono: Yourcenar, Millar, Highsmith - e le poetesse, Labé, Merini, Cavalli, Sachs.

Karamazov – È cattivissimo e disinvolto, la lettura prima è autobiografica. Dostoevskij padre, che faceva frustare sia i contadini che lo salutavano che quelli che non lo salutavano (“sono sfacciati in entrambi i casi”). Pur essendo un possidente di mezza tacca, ubriacone, stupratore, morto con la testa fracassata e il sesso schiacciato tra due pietre. Dostoevskij, che odiava questo padre, è i due fratelli maggiori. Alioscia è un terzo Dostoevskij, o il fratello Michaìl?

Malaparte – “La pelle” è l’ambiguità della liberazione – inconscia? Malaparte è un liberatore.
Tutto vi è predisposto per un revisionismo radicale: bombardamenti, aggressione sessuale, fame.

Massa – La cultura di massa, dice Pound (“Murder by capital”), ha qualcosa del cristianesimo: la ricerca di ciò che è nascosto. Ma questo è lo scopo di tutta la cultura. Quello che Pound vuole dire è la sua sorpresa che anche la massa possa andare cercata nel mistero. Concezione aristocratica? No, perché è il mistero che aggredisce e limita la persona, quindi anche la massa.

Marx – Ha cancellato il male, facendone l’opera di alcuni malvagi. E questo non è bene, non è stato bene e si è visto. Non è ottimista, ma è un fondamentalista della ragione. Non critico cioè (ragione critica è il marxismo negli Usa).

Poesia e prosa – La prosa è architettura, forma complessa. Questi sono tempi di scrittura (comunicazione) non di prosa. E di poesia, intesa come abbellimento della scrittura, ghirigoro.
Il problema della poesia è di uscire dal simbolismo, il parnaso, l’ermetismo, la ricerca della parola giusta nel suono, l’intonazione, la pausa. E quindi è intrappolata nella lirica, e nella sentenziosità – la poesia civile di cui c’è abbondanza nei proverbi, anche in rima, o con finalino a sorpresa.

Pound – S’identifica in Dante: culto dell’amicizia, onnivorismo culturale, passione politica accesissima, assorbimento nel presente, il nomadismo radicato, un distinto eunuchismo sensuale, attenzione all’ideale, trascuratezza negli affetti. Il suo destino personale è anche ben più tragico. Ma non ha trovato un Boccaccio, il lettore che lo spieghi e un editore che lo imponga.

Nell’ “Abc dell’Economia” propone una liberazione che è in realtà una sovietizzazione: è a Lenin (la Repubblica dei Consigli, Bela Kun) che, inconsapevolmente, Pound pensa per il suo mondo senza moneta. Ma: 1) non è l’economia del tempo libero che presuppone il comunismo (un’economia veramente liberata, non l’esasperazione che si fa del tempo libero nel mercato)? 2) bisognerà accettare che c’è molto in comune fra soviet e fascio (burocrazia hegeliana). Mussolini vantava la più alta socializzazione dell’economia dopo l’Unione Sovietica,

Romanzo - Prospera sulla “mancanza”: incertezza, desiderio, memoria. È un modo, debole, di riempirla.
È popolare perché è alla portata di tutti. Il primo gradino della coscienza (autorappresentazione) essendo la fabulazione, raccontare e raccontarsi: rappresentare.
Divenne presto, e smisuratamente, soggetto di parodia: Rabelais, Grimmelshausen, Ariosto, Cervantes.

Sironi – Una spugna, da Rembrandt a Braque, De Chirico (o De Chirico prende da lui?), Campigli (id.), e infine all’arcaismo sardo delle origini. Lettore non casuale di Schopenhauer e Nietzsche, Heine e Leopardi. Il risultato è l’espressione migliore del Novecento, costruttivista, perfino stentorea, e decostruttivista.
È arte fascista. Ma perché il fascismo era committente dell’arte: quanta architettura, scultura, pittura, musica, cinema, letteratura, non ha fatto esprimere, nel senso di avere coltivato gli artisti, di avere creato occasioni e luoghi di coscienza e eminenza? La sua mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma a fine 1993 era superiore, in locali meravigliosamente ampi e luminosi, in un’area (viali, parchi) mozzafiato, ma i romani non l’hanno apprezzata – niente a che vedere con le code e le liti per i soliti quattro Van Gogh: la Repubblica è distratta.

Tomasi di Lampedusa – Singolare che il lamento più convincente contro il “gattopardismo” venga da un aristocratico – da uno a 360 gradi, non da un compagno di strada, nemmeno da uno folgorato dalla democrazia. Pirandello, che ci aveva provato con più foga cinquant’anni prima, non ha colpito. Bisogna ripensare il ruolo effettivo, se non gli stessi interessi, del popolo e dell’aristocrazia nel progresso economico e sociale.

Etica e politica del “Gattopardo” sono già in Palmieri di Micciché, “Pensieri e ricordi”. Con lo stesso ritmo, anche se con una punta di enfasi. Il fascino del “Gattopardo” è nei personaggi (lo splendore, l’inadeguatezza, la morte) e non nel messaggio – non è un romanzo politico (il suo romanzo politico era stato già raccontato più volte).

Yourcenar – È cresciuta con Maeterlinck, la sensibilità umbratile (i personaggi “allusi”) è quella. E soprattutto con D’Annunzio: in aggiunta alla classicità, la lingua e il modo di vita lo spiegano, il cosmopolitismo, la sensualità coltivata, benché temperati dalla frugalità americana dell’età matura.

L’indifferenza, se non è disprezzo, verso la madre, morta per farla nascere, viene dal rigetto, se non è paura, del matrimonio? Dell’unione sotto qualsiasi forma. La cura maniacale (trasposta in Grace Frick, e questo è terrificante) della propria minuta biografia, della corrispondenza, delle note di lavoro, ne dicono l’egotismo forsennato.

Zenone lodava (Sesto Empirico, “Schizzi pirroniani”, 170) egiziani e persiani perché sposavano le sorelle e le madri. C’è un incesto nella sessualità indistinta e pervasiva di Yourcenar?
Zenone è personaggio inventato. Ma il filosofo è in Montaigne, 1168: “Si dice che Zenone ebbe a che fare con una donna una volta sola nella vita, e che per urbanità, per non sembrare disdegnare tropo ostinatamente il sesso”.

Octave Pirmez, “Archivi del Nord”, prozio materno, è un autoritratto?

letterautore@antiit.eu

lunedì 27 settembre 2010

Il mondo com'è - 46

astolfo

Borghesia – Si è annessa la libertà (mercato, concorrenza, innovazione) mentre è solo il ceto degli affari. Che si fanno normalmente (tendenzialmente) a danno degli altri. Solo la legge può garantire il mercato. E quindi (posto che il mercato la favorisca, ma anche senza mercato) la libertà.
In Italia manca, si dice. Lo dicono i borghesi, ma è vero: non si leggono libri, non si comprano giornali, non si discute, non si conversa, non si comunica. Ma che c’entra tutto questo con la borghesia? La borghesia, anche in Francia dove si legge molto, e in Germania, anche in Inghilterra o negli Usa, si occupa di affari. Suo compito è di farli bene, nel senso di far crescere la ricchezza. Se trovasse un affare, cioè uno stimolo, intellettuale o spirituale nella cultura in Italia e lo trascurasse, allora sarebbe colpevole. Ma lo trova? È tuttavia vero che la borghesia manca, in due modi. Numericamente, essendo un paese di microimprenditoria e di self-made men, è piena di baüscia strillanti e lagnosi e non di uomini e donne d’affari. Qualitativamente, essendo i valori privilegiati quelli dell’arricchimento, che non fanno la borghesia.
Si caratterizza la borghesia con Marx, per il gusto al comando, seppure democratico. Mentre è fatta di scettici che non si riconoscono, e quindi disfattisti, catastrofisti. Esempio: Manzoni. Tipicamente cioè si nega. Questa è la borghesia contemporanea, di quando ha usato dire “è borghese”, che vaga senza ruolo e senza potere. Il borghese classico, quello di Marx, naturalmente è l’opposto: sempre scettico, detto anche protestante, e uno che anzi fa professione di non avere fede nelle opere, ma attivissimo, poiché il risultato delle sue opere, la ricchezza, prende per grazia di Dio.
Dopo Marx s’intende d’altra parte borghese uno sfruttatore conservatore. E piccolo borghese il frustrato, golpista, fascista. Ma è una distinzione che non funziona. Non funzionano (non sono vere) neanche le qualifiche. Il borghese non è – non per definizione – un conservatore. Il proletario per dire, se esiste, lo è di più. Il piccolo borghese è sicuramente un frustrato (isolato, insicuro) ma nelle stragrande maggioranza (Pensionati, casalinghe, artigiani) è progressista, legge “Repubblica”, guarda Rai tre, vota Democratico.
La distinzione più proficua, che spiega anche perché tanto accanimento politico è stato inutile,
è fra il borghese neo aristocratico, quello del “segmento del lusso” in termini commerciali, e il piccolo borghese accumulatore sterile. Il borghese perde, spesso, ciò che ha. Ma accumula cultura: memoria, linguaggio, buongusto, tolleranza, socialità. Il piccolo borghese vive solo la dimensione quantitativa del denaro (comprare, accumulare, o anche solo arrivare a fine mese), e quindi la soffre. Vuole piantare paletti e piloni di sicurezza, ma è irretito dalla precarietà e dalla povertà relativa.
La povertà relativa è ambigua, ma il piccolo borghese non lo sa pensa sia suo dovere sfidarla. E cioè perdere. La strumentazione depressiva è feroce, da circolo vizioso. Il piccolo borghese si differenza dal borghese, è cioè insicuro, vociferante, piagnone, protestatario, asociale, perché manca di strumenti e spessore culturale, conoscitivo, cognitivo. Che non apprezza – o non può permettersi, essendo impegnato a comprare cose.

Capitalismo – Farlo protestante, anzi meglio, calvinista, come vuole la vulgata italiana, è un’ingiuria a Calvino. Per il quale la grazia è una segno d’illuminazione religiosa, non una certificazione degli affari.
È anche proiettare all’indietro una situazione eminentemente vittoriana. È solo nella cultura vittoriana – anglicana, episcopaliana – che la religione si esprime nei valori sociali: moralismo, pruderie, colli alti, mutandoni al ginocchio, e le tendine alle finestre. Alta moralità significava elevata socialità, quindi buona borghesia. Dio era allora un notabile, e che di meglio per rappresentarlo di un protestante britannico, uno che governava le onde?

Città – Se la città era il luogo della sicurezza e vita facile (il piacere, il consumo, l’esibizione, e tempi di lavoro ordinati), ora che non lo è più perché non viene abbandonata? Perché è ora il luogo del challenge, che spesso è solo durare – giusto per tenere in scacco la nevrosi e il sangue marcio, il più a lungo possibile. È in questo la stupidità del’epoca, non nel neo scientismo.

Colonie – Sono un imprinting, per quanto poco siano durate. A specchio dei coloni. Somalia, Eritrea e Libia ripetono, ingigantiti dalla copia, i difetti degli italiani, aggressivi, cinici, prepotenti, bisognosi, incapaci d’amministrarsi, con una capacità politica sempre mediocre. Erano così prima degli italiani? Sarebbe ancora più sorprendente. Ma l’Etiopia, dove gli italiani sono stati poco tempo e c’è solo un inizio di assimilazione dei loro vizi, è dimostrazione al contrario dell’imprinting coloniale.

Complotto – Alla fine, può essere solo dei giudici.
Il complotto deve avere una razionalità - donde l’indigenza delle teorie del complotto, seppure ascendibili a nomi celebri, Marx, Nietzsche, Freud. Una mafia le giustifica, ma solo in parte. Ci deve essere un capo, un patto, una struttura, un meccanismo sanzionatorio. Che la mafia possiede , ma non al punto da controllare così tanti traditori o infiltrati quanti sono i pentiti, o i nuovi mafiosi, i concorrenti a perdere. La speculazione per via di complotto, invece, è una contraddizione: la Spectre, sia pure finanziaria, può essere solo una persona, massimo due, il segreto è dirimente. E il complotto dei giudici? Questo è possibile, perché gli apparti giudiziari sono separati, quindi “segreti”, e istituzionali, cioè dotati di potere autonomo: Né hanno bisogno di cose o fatti: essendo intellettuali, marciano sulle idee e la politica, su semplici echi, indicazioni labili.

Scientismo – Ritorna imperioso e anzi è dominatore, dopo l’eclisse seguita alla biologia razzista, alle guerra tedesche e all’Olocausto. Un neo scientismo i cui inizi si possono anche datare, ai primi anni 1970 con le leggi per l’aborto. Ma non ha argomenti né orizzonti diversi dall’eugenetica del primo Novecento, che aveva coronato lo scientismo ottocentesco: la buona morte, il controllo e la selezione delle nascite.

Vino - È una droga? Molti giovani muoiono ubriachi al volante, e il codice della strada punisce più di un bicchiere. Il vino è sempre stato un inebriante. Da ultimo con Baudelaire, che polemizzava a distanza di quasi mezzo secolo con Brillat-Savarin, la “Fisiologia del gusto”, 1825, facendone il sollievo e l’ispirazione del solitario. Il vino è per Baudelaire ricordo e oblio, gioia e malinconia. È una via della trasgressione, uno dei paradisi artificiali: è una droga.
Baudelaire rimproverava a Brillat-Savarin di non aver parlato bene del vino. Il filosofo del gusto diceva il vino parte dell’alimentazione, e mangiare, mangiare bene, è un atto conviviale. Il suo effetto, a differenza degli altri cibi, è di “amplificare” leggermente il corpo, di renderlo “brillante”, ma non di più. Mangiare si fa in compagnia, si regge con la conversazione, per la quale bisogna ben essere presenti a se stessi. Ed è quindi semmai un antidroga.

astolfo@antiit.eu

Tutto è l'opposto

La bellezza è putrefazione, l'amore è violenza, eccetera. Su un gioco di parole certo irresistibile: la Venere (nudità) dei Mmedici e la Venere (nudità) dei emdici. Molto seminale: sull'asse Medici-medici quante scoperte non sono possibili? Un concentrato del'irrealtà - circolarità - della retorica post-fenomenologica, franco-heideggeriana. Una sua rappresentazione farsesca, tanto più in quanto involontaria.
Georges Didi-Hubermann, Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà

domenica 26 settembre 2010

Il fascismo è fuorilegge, ma Fini presiede la Camera

Fini annuncia che si dimetterà da presidente della Camera se l’appartamento di Montecarlo risulterà di proprietà del “signor Tulliani”. Ma poi non si dimette. Accusa mezzo mondo di malaffare, compresi i parlamentari (“sono uno dei pochissimi a non avere ricevuto un avviso di garanzia”). Accusa i servizi segreti di essere deviati, facendo finta di non essere stato lui a dirlo. Ha per l’isola di Santa Lucia, che comunque ha una sua dignità e sta all’Onu, un ghigno di disprezzo, molto razzista. Insinua: “Io non ho conti all’estero, a differenza di altri”, cioè di Berlusconi. Fonda un partito contro Berlusconi, cioè contro il governo e la maggioranza di governo. E manda due luogotenenti a dire ogni giorno che Berlusconi e i suoi rubano, corrompono e manomettono le leggi, cioè il Parlamento. Trascura di dire che ha raccomandato la suocera e il cognato alla Rai per due contratti in cambio di niente, due milioni di euro in un anno e mezzo. E vuole fare il presidente della Camera, che sarebbe I, un notaio. Ora, il fascismo è proibito per legge, e allora, com’è che Fini è il presidente della Camera? E, come lui si esprime, non “molla l’osso”.
I finiani si chiamano futuristi, che finirono fascisti ma si volevano senza partito. E anche questo concorre: com’è che dei senza partito presiedono la Camera?
Un discorso debole, quello delle mancate dimissioni. Anche perché nessuno dubita che la cognata e la suocera non siano quelli, non se li è inventati Feltri. Ma con la certezza dell’impunità. Il golpe continua.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (69)

Giuseppe Leuzzi

Garibaldi brigante
A maggio Annita Garibaldi, pronipote dell’Eroe dei due mondi, nipote diretta di Ricciotti, figlia del suo quinto figlio Sante, durante la trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa, ha detto che il nonno Ricciotti nel 1861 ritenne necessario combattere coi briganti: “Mio nonno a Caprera si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i Briganti”. Ricciotti avrebbe combattuto nel territorio di Castagna, in provincia di Catanzaro, in cui operava un gruppo di briganti capeggiati dal garibaldino Raffaele Piccoli. Una rivolta che andò avanti fino al 1870.
Ricciotti Garibaldi, il figlio unico di Giuseppe e Anita, era nato in Uruguay nel 1847. Aveva quindi nel 1861 solo 14 anni. Ma nessuno storico se la sente di smentire Anita jr.. D’altra parte lo stesso lo stesso Giuseppe Garibaldi scriveva a donna Adelaide Cairoli nel 1868, la madre dei martiri: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esser preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
La richiesta va rinnovata: perché Napolitano non apre per il centocinquantenario gli archivi della lotta al brigantaggio, se non sono stati distrutti?

Il costo delle radici
Andrebbe riesaminata la protervia dell’emigrato, che sempre si ritiene in credito col paese d’origine, la regione, la famiglia. Un punto è già chiaro: la bilancia dei pagamenti dei ritorni degli emigrati è un grosso salasso per le terre di emigrazione.
Il ritorno si fa per periodi sempre più ridotti, da qualche anno due o tre giorni, per Ferragosto, giusto per vedere la mamma, o il padre. Con sempre meno figli al seguito. Comunque sempre senza spendere. Non per il cibo, che viene fornito dalla famiglia. Né per altri generi voluttuari, che un emigrato non può trovare rispetto a ciò di cui può disporre fuori. Forse per la benzina, ma non necessariamente.
La famiglia di origine invece spende molto per questi ritorni. Grandi pasti. Regali per tutti, anche per chi non è venuto. E una serie di provviste che, apprezzate o meno, ma costose, appesantiranno il viaggio di ritorno: olio, vino, insaccati, formaggi, dolciumi, ricordi. Qualcuno si porta anche la carne, in sacche-freezer, pagata dai parenti.
Il saldo negativo può non essere indifferente. Si ipotizzi con ogni probabilità una spesa media per ogni ritorno di 500 euro. Per 100 mila ritorni in Calabria o in Sardegna, il saldo regionale per questa voce è negativo ogni agosto di 50 milioni – di 100 milioni se i ritorni sono 200 mila. Per la Sicilia i ritorni ipotizzabili sono il doppio, e così pure lo sbilancio.
A ciò si può aggiungere l’invio periodico di generi alimentari e di conforto, sempre a senso unico, dalle famiglie al congiunto emigrato, di vino, olio, agrumi, dolciumi, con aggravio di spese di corriere. Il saldo dei pagamenti dell’emigrazione postbellica, non di necessità, continua a essere negativo ancora per lunghi anni, un paio di generazioni. Fino a che si perde la nostalgia e l’uso del ritorno.
Se ne può anche inferire che le radici, se servono all’emigrato, alla sua igiene mentale e alla sua autostima, implicano un costo non indifferente e continuato per la terra d’origine.

L’odio-di-sé meridionale
“Il porto dove si svolgono i traffici della mafia. Il porto di Gioia Tauro, città capoluogo della mafia, dove sono state scoperte tonnellate di tritolo in un container. Il più grande porto di container del Mediterraneo”, strillava gioiosa alle 15.30 di giovedì una voce femminile annunciando le news di “Baobab”, trasmissione impegnata di Radiorai Tre, rete impegnata. La notizia è che, tra tutti i porti di transhipment (trasbordo) di container, solo a Gioia Tauro sia stato individuato e neutralizzato il carico di esplosivo. Ma per la Rai la cosa è importante solo perché può dire in qualche modo che il più grande porto container del Mediterraneo è mafioso.
Il porto canale di Gioia Tauro, ben progettato e ben gestito, peraltro da società genovesi, milanesi, tedesche, da sempre ha suscitato rancori. Anche perché, oltre a moltiplicare il transhipment attraverso uno scalo italiano, a danno di Algeciras, Barcellona e Porto Said, ha preso traffico ad alcuni scali del Nord Italia. Ma i giornali locali, la “Gazzetta del Sud”, “il Quotidiano”, “Calabria Ora”, non ne hanno opinione diversa. Non ne sanno molto, e non si curano di saperne. Di un porto che è la grande più realtà industriale della Calabria e a questo punto, dovesse la Fiat andarsene da Pomigliano e Termoli, anche del Sud. I tre giornali unicamente sono interessati a metterci la mafia. Non si può dire per storditaggine: si faranno leggere solo se il porto è della mafia.

La Scozia è un buon esempio di sottosviluppo indotto. La tradizione quale oggi la conosciamo che nobilita la Scozia, dai clan alle musiche, fu inventata di sana pianta (H.Trevor Roper in “L’invenzione della tradizione”), nella prima metà dell’Ottocento, in clima cioè di revanscismo nazionale, nella parte meno nobile della Scozia, le Highlands. Ci vuole poco, basta la convinzione. Per un paio di secoli l’Inghilterra lo aveva impedito, qualificando gli scozzesi di pastori, selvaggi, ladri di pecore. Al punto che gli stessi scozzesi lo dicevano di sé, lo poetavano perfino.

Calabria
Philippe Séclier, il fotografo francese che riedita “La lunga strada di sabbia”, ha trovato appeso nella bottega del barbiere di Cutro un fotoritratto di Pasolini “radioso”. “La lunga strada di sabbia” è il diario del viaggio di Pasolini per i duemila chilometri delle coste italiane in quattro o cinque giorni dell’estate del 1959. Il poeta vi diceva Cutro “un posto da banditi”. Ma piace sfottere, ed essere sfottuti.

L’impetuoso Campanella e il metodico Telesio considerano Aristotele “il tiranno dell’ingegno umano”, contrarissimi all’autorità sovrimposta alla scienza. I primi e a lungo i soli. A conferma della “natura inquieta e altera dei calabresi”? (G.Galati, “La poesia dialettale calabrese”).

Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella, i calabresi più eminenti, sono di spirito infiammato,. Molto intuitivo, poco coltivato – uncouth. O allora, Cassiodoro, estremamente remissivo.

I calabresi terragni che ora popolano il Canada e l’Australia nel Quattrocento erano a Tripoli, Tunisi, Algeri, e a Costantinopoli in una Nèa Calabria.

Catanzaro ha avuto dal 1497 un habeas corpus, caso unico in Italia, imposto a un re Ferdinando di Napoli: un cittadino non poteva essere imprigionato fino alla pubblicazione della sentenza di condanna, la città non pagava le tasse che non aveva votato. Ne dà notizia Charles Didier, “Viaggio in Calabria”, che ne fu informato nel 1830, quando girò la penisola a piedi, ed è l’unica fonte.
Didier dice che la costituzione fu imposta al re di Napoli Ferdinando. Che però, se era Ferdinando II d’Aragona (Ferrandino) era morto già l’anno prima, nel 1496. Nel 1497 il re di Napoli era Federico d’Aragona.

I calabresi trovava il patriota Paolo Mattia Doria tre secoli fa, chiedendosi perché la penisola fosse afflitta dalle dominazioni straniere, “di mezzana cosa incapaci: o sono fortissimi o vilissimi, o dottissimi o ignorantissimi”. E anche: “Sino che stanno nell’ignoranza, sono a’ vizj soggetti, ma sprigionato il lor talento, sono abilissimi”.
Si dice anche delle popolazioni di montagna. E forse questo è la Calabria, con tutto il suo mare e i suoi greci: un blocco di montagna. Non solido, anzi soggetto a terremoti e frane. Non inscalfibile quindi, e anzi malleabile. E anzi instabile, soggetto agli umori.

leuzzi@antiit.eu