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sabato 20 aprile 2013

Ombre - 173

Dicevano Prodi divisivo. E non ha perso l’occasione: “Qualcuno dovrà pagare”, ha detto della sua bocciatura. E non voleva dare ragione a chi lo ha silurato. Saggezza?

Renzi già si vedeva presidente del consiglio, con Prodi al Quirinale. Era sceso per questo imprudente a Roma, pur non entrandoci nulla con l’elezione del presidente, per “rottamare” ogni altro pretendente. Ma queste cose non ce lo dicono.

Non ci dicono nemmeno del compromesso storico, di cui questa è una delle (ultime?) catastrofi. Non un commento. Nemmeno un corsivo, un sommarietto. Poi dice che c’è la censura.

Gotor si fa storico imparziale sul “Messaggero”: “Siamo passati dall’antipolitica all’irresponsabilità”. Non  era quello che nel giorno del post-voto dimostrava a ogni ora del lungo pomeriggio, in uno dei tanti salottini della Rai, di non capirci nulla? Non aveva la “linea”.

Nel giorno della fine del Pd, il “Corriere della sera” ha un grande scoop, il memoriale di Gotti Tedeschi che fa i nomi dei clienti italiani dello Ior. Segreto. Da diffondersi in caso di “incidente”. Uno doverosamente lo scorre, e ci vede solo allusioni a Geronzi , smentite da ogni altro testimone a supporto. Che squallore!
Altri giornali hanno il documento segreto, ma lo prendono per quello che è, il solito “memoriale” del ricatto.

Simonetta Agnello-Hornby evoca Gheddafi su “Repubblica”, a proposito di Margaret Thatcher, e la Corea del Nord. Pur sapendo che è stata il primo capo di governo donna nel vasto e progredito Occidente. E una che ha salvato la Gran Bretagna, letteralmente – che è il paese dove la baronessa vive e prospera. “Repubblica” corrompe anche le baronesse? Le baronesse amano farsi corrompere?

Ovunque si ricorda che Thatcher fu liquidata dal suo stesso partito, non dagli elettori. Come se fosse una liquidazione “morale”, etica. Senza ricordare che invece fu liquidata come commoner, donna volgare, “con la borsetta”.

Amato è “l’ex sottosegretario di Craxi” per il “Corriere della sera”.  Poi si dice l’odio – che il Muro non sia ancora caduto nemmeno per i “liberali” la dice lunga. A che gioco giocano i Grandi Giornali?

Scappano tutti,  i soci indipendenti (fuori dal patto di sindacato) di Rcs, l’editrice del “Corriere della sera”: Della Valle, che ha (almeno) il 9 per cento, e Merloni. Rotelli invece, che ha il 26 per cento, e quindi dovrà sborsare 170 milioni, tace. Lui, benché fuori dl patto nobiliare, è vice-presidente. Pagherà per lui Banca Intesa?
Questo Rotelli senza faccia è sempre più uno pseudonimo di Nanni Bazoli, un porteur.

Della Valle minaccia azioni legale contro il nobile parterre del “Corriere”, per il quale ha speso un paio di centinaia di milioni. È un denunciatore, e non c’è da meravigliarsi. Ma non dice una cosa sbagliata: il piano di ristrutturazione e ricapitalizzazione dell’editrice del giornale “non fa altro che togliere soldi agli azionisti per darli alle banche”. Tra queste le banche azioniste, Mediobanca e Intesa per prime. Una storia molto milanese, si sa già che la cosa verrà messa a tacere – qui non c’è conflitto d’interessi.

Anche il silenzio del sindacato dei giornalisti è molto opportunista. Il piano di ristrutturazione prevede la liquidazione di un terzo dei redattori del “Corriere”, ma quando Della Valle tira in ballo le banche,  i redattori tacciono: ognuno spera di salvare la pelle. Ognuno ha i suoi canali, personali,  familiari, politici, professionali, con le banche.

Si suicida (“buona morte” assistita in Svizzera) il giudice Pietro D’Amico, 62 anni, accusato da De Magistris a Catanzaro di avere divulgato segreti d’ufficio e assolto due anni fa - insieme con gli altri giudici di Catanzaro e un carabiniere accusati dal giudice napoletano “con prove evidenti”. D’Amico aveva lasciato la magistratura dopo l’assoluzione. Ma non era sfuggito alla depressione – i suoi “amici” svizzeri dicono che ha voluto morire per questo.
Le cronache di “Repubblica” e “Corriere della sera” non menzionano De Magistris: l’associazione mafiosa è con De Magistris o con la “giustizia”?

Tre inchieste propagandate con interviste e da Santoro e tre fallimenti: De Magistris a Catanzaro aveva accusato trenta tra politici, professionisti e imprenditori di sinistra in Basilicata (inchiesta “Toghe lucane”),  mezzo mondo politico nazionale (inclusi Prodi e Mastella) con l’inchiesta “Why not” sui fondi europei per la formazione, e con l’inchiesta “Poseidon” sui fondi europei per la depurazione. Tutt’e tre bocciate dal giudice per le indagini preliminari. Non ha pagato per le denunce in tv, e anzi ci ha fatto su una carriera.

Non paga nemmeno la Rai, che tanto spazio e credibilità ha dato a De Magistris. Sugli affidamenti di due personaggi già condannati e screditati – uno dei due perfino in prigione.

Giorgio e Lucrezia Dell’Arti ricordano Teresa Mattei su “Io Donna”. Donna per molti aspetti notevole, partigiana, deputato . Ma evitano di dire il fatto per cui più è nota: che era a Firenze la donna di Sanguineti, per conto del quale indicò ai killer il filosofo Gentile, che tanto la stimava.

Patti Smith si fa le prime pagine nel mondo intero, con foto, andando dal papa in piazza il mercoledì. Perché Francesco presta gratis la sua immagine? Non ai poveri.

Arbasino dice la Thatcher “la donna di ghiaccio del sado-masochismo”. E la Merkel? Le donne sono sadiche? Le donne al potere.

Con la stessa faccia di bronzo con cui dava della puttana a Letizia Noemi, una vergine, Veronica Lario insiste a Milano che 100 mila euro al giorno non le bastano, non mangia abbastanza. Nulla di allarmante, l’impero sopravviverà, anzi in questi giorni pur difficili prospera – “Veronica” è stata con Berlusconi per 29 anni, e tre figli, i due s’intenderanno. Ma una donna così è icona della sinistra. Una donna (infine) liberata?

La ghianda del peccato originale

“L’interpretazione sensuale e sessuale di ‘Genesi III’ nasce così, dall’incrocio dell’ebraismo con la grecità, nell’Alessandria del primo secolo”, con Filone Giudeo, neoplatonico. Beverland, un poligrafo di fine Seicento, la eleverà a sistema, seppure per irriverenza – Antonello Gerbi ne ipostatizza la radicalità in un’“ipotesi Beverland”, e ne fa la lunga storia.
La fase antica dell’“ipotesi” si estende “da Filone a Sant’Agotino e alla Scolastica”, con Clemente Alessandrino, Origene, Sant’Ambrogio, San Zenone di Verona, e in campo ebraico Maimonide.  La ripresa in età moderna avviene a opera di Leone Ebreo, 1532, e Cornelio Agrippa, 1534, mentre Lutero e Calvino riprendono sant’Agostino, quindi con progressione ininterrotta fino ai giorni nostri, “oggetto d’oscura derisone” nel 1678 con Beverland, e dopo. Esprimendo “con mirabile plasticità la fede nell’ereditarietà del peccato”. Rincalzando “la tesi più rigorosa e pessimistica circa l’uomo e il suo destino”. Semplice e chiaro.
Una ricerca dimenticata, di un autore trascurato, ma di dottrina sicura, di giudizio approfondito, equilibrato, incredibilmente lineare. Fondamentale, si penserebbe, per la condizione della donna minoritaria e anzi peccaminosa, oltre che dell’oggetto proprio dell’indagine, del peccato originale. Indiscutibile alla lettura, tutto vi è significante, e anzi lampante. Con “la dicotomia insolubile della Chiesa, istituzione divina e anche politica” (p.31). Ma senza tacere che il “beverlandismo”, l’irrisione libertina, ossia “vedere nell’istinto generativo il peccato stesso” (55),viene da sant’Agostino, il peccato originale ereditario.
Studioso originale del romanticismo, Antonello Gerbi vi ha trovato tra le radici nel Settecento l’“ipotesi Beverland”, specie tra i due fervorosi corrispondenti Hamann e Herder - ma anche nell’“eterno femminino” di Goethe – e poi nella riflessione successiva, dei romantici a titolo pieno. Storico delle idee (fu docente di Storia delle dottrine politiche prima d’imbozzolarsi negli studi economici alla Banca Commerciale del suo amico e protettore Raffaele Mattioli), fervente germanista, autore infine de “La disputa del nuovo Mondo”, tuttora insuperata, Gerbi esordì con gli studi sul Settecento. A 24 anni pubblicava “La politica del Settecento. Storia di un’idea”, col patrocinio di Croce da Laterza, nel 1928. Nel 1932 licenziava “La politica del Romanticismo”, di cui analizza le radici nel Settecento. Dell’anno successivo è questo “Peccato”. Già denso dello spoglio del Migne, l’immensa trattatistica patristica, nonché di tutta la filosofia maggiore, irrobustito da contributi variatissimi, di vescovi sparsi, eresiarchi, profeti, rabbini, pensatori liberi. Documentato (e arricchito in questa edizione) di molteplici fonti figurative. Con una bibliografia, bisogna dire, quasi completamente tedesca, francese e inglese – così è anche della “bibliografia negativa”, o aggiuntiva, delle letture successive cioè ala stesura del libro, che Sandro Gerbi, rieditando l’opera del padre, allega.
Una storia del peccato è di per sé affascinante. Cioè delle concezioni del peccato. Tanto più se il peccato gira attorno alla sessualità, divenendo allora anche sconcertante. Un’ipotesi sacrilega, e tuttavia radicata e ritornante, Gerbi traccia centinaia di “fonti”. Fino a farne una storia anche della sessualità, divenuta inafferrabile tra Filone e sant’Agostino, cioè nel sincretismo ellenistico, poco riflessivo. E una storia alla fine di stupidità, rileggendo le “argomentazioni” in fila, oltre che di eresia – che il peccato sia la generazione… (credo quia absurdum?). La disamina di Gerbi è rispettosa, come si conviene a un dogma religioso, ma non sempre può trattenere il riso, neppure lui. Il serpente ha varie fogge e nature, che non staremo a ripetere. Il frutto proibito, più comunemente una mela, è talvolta banana, fico, e ghianda.
Gerbi ne rileva sempre il fondo eretico. E la riporta a innesti molteplici, più curiosi che riflessivi (p.75): “Il «beverlandismo» nasce dal connubio di teorie elleniche con miti orientali”. Miti che a loro volta, sappiamo da Lévi-Strauss, si formano per incrostazioni, anche casuali o avversative. E anche successivamente sempre all’incrocio, “di “un quid mistico avvinto in lotta con un quid tenero e sensuale” (p.115): l’Alessandria di Filone, il “cristianesimo africano e italiano del IV secolo2, i Càtari,”l’eresia d’Oriente nella Chiesa d’Occidente”, le foci del Reno, quando il Rinascimento invade il Settentrione, l’Olanda di Erasmo, tra teologia e ragione, scientifica e filosofica. Gli incroci si direbbe che accentuano l’intraprendenza, l’ottimismo, e invece in questo caso la penitenza, i sensi di colpa.

Antonello Gerbi, Il peccato di Adamo e Eva, Adelphi, pp. 273, ill., €28


venerdì 19 aprile 2013

Il mondo com'è (133)

astolfo

Democrazia Cristiana- Ora che ritorna – o è immortale (questo sito lo constatava dieci giorni fa,
http://www.antiit.com/2013/04/il-compromesso-ribaltato.html ) – è bene imparare a conoscerla. Calasso ha dieci righe in “L’impronta dell’editore”, p. 106, che valgono un trattato sulla cultura Dc. Nel dopoguerra “i democristiani, con la loro molle e proterva accortezza… avevano lasciato capire che a loro bastava la pura, muta, incessante gestione del potere politico ed economico. La cultura poteva invece amministrarla la Sinistra… Abbandonarono persino il cinema, accontentandosi di vigilare sulle scollature. Mentre non ebbero dubbi quando apparve la televisione – quella sì era roba per loro” (non abbandonarono però i festival del cinema, i premi, e il credito al cinema, la Bnl).
Questo dice anche l’illusorietà del dominio del Pci sulla “cultura”, o della “cultura” stessa così dominata.
D’altra parte Calasso omette di dire, proprio lui che dà all’editoria sostanza sensoriale, visiva, olfattiva prensile (il libro fa dire a Contini “onusto di palpitazione”), e non imprenditoriale, che là dove ci sono i soldi la Dc non molla. Al ministero: nella scuola, all’università e nella ricerca. E qui dove ci sono i soldi: non nella filosofia o altre umanità, o nella matematica, ma nelle miliardarie particelle, astrofisica, energia. Col ministero quindi le cosiddette “istituzioni”: il Cnr, l’Esa, l’Enea, l’Infn, dove corrono i miliardi, sono saldamente presidiati dalla Dc, così come l’Enel, l’Eni, l’Autorità per l’Energia.
La Dc presidia superba perfino il Nobel scientifico. Se è vero – è vero - che ottenutolo con Rubbia, forte della grande quota italiana al Cern di Ginevra, l’hanno vivamente sconsigliato a Stoccolma per altri italiani, quali Cabibbo e Parisi. Il Nobel sente sempre la comunità scientifica del paese dove il candidato opera, e la fisica “democristiana”, Zichichi, Majani e lo stesso Rubbia hanno sempre opposto un muro.

Grillo – O la fantasia al potere. Che non è gradevole, bisognava saperlo.

Internet – Disturba come tutto ciò che è democratico. La rete sicuramente lo è, il sapere condiviso (wikipedia, la biblioteca google, testi e documenti liberi online). Senza però cessare di essere condizionato, come ogni strumento di comunicazione, da chi ha più soldi, più mezzi, anche solo tecnici o strumentali, e più “parole”.

Italia – È un paese che va in tilt per un articolo di giornale, sia esso pure l’ “Economist” o il “Financial Times”, cioè giornali di interessi particolari, le banche d’affari. A opera dei giornali italiani. Come se non si sapesse come nascono gli articoli. La reazione all’“Economist” o all’“Ft” naturalmente ne conferma e consacra l’autorevolezza: dai giornali di paese al presidente della Repubblica, passando per i commentatori, i talk-show, i tg a ripetizione, e sociologi, antropologi, scienziati della politica. Dunque è un paese tenuto deliberatamente in mora dall’establishment, masticando fesserie. O l’establishment è ignorante, che però non può essere.

Bisogna anzitutto dire che l’italiano è un genere. Recente, di dopo l’unità – altro è l’italiano da Dante, malgrado le deprecazioni, e Petrarca fino a Muratori e Leopardi. Ma di successo. Ed è un autoritratto: l’arcitaliano di Malaparte, e di Longanesi, Montanelli, Maccari, Barzini jr. (e di Bocca, Biagi, Fallaci, Severgnini, è un genere ritornante con l’unità) è un autoritratto. Poiché il genere è di successo, si può dire un autoritratto sociale? Sì e no: sono tutti scrittori mordi-e-fuggi, abili surfisti a beccare l’onda, sapienti certo, disinvolti, accorti. E spregiudicati, sempre dalla parte della ragione, che dicano una cosa e subito dopo il suo contrario. Fanno della loro esistenza un monumento, ora a destra ora a sinistra, ora delatori ora eroi, sempre molto moralisti, e muoiono Arcitaliani. Avendo tutti scritto lo stesso libro.
Poi ci sono quelli che, essendo stati a Parigi, disprezzano l’Italia: D’Annunzio, Malaparte, Sciascia, Calvino. Non senza ragione, si può osare dire, Parigi col treno essendo realtà nota da tempo ormai a tanti. Che però non è quella degli scrittori italiani: non c’è più ordine a Parigi – onestà, dirittura. C’è più consistenza per i gensdelettres: c’è una società intellettuale e anzi letteraria, più riconoscimento, più scambio, non sopraffatti dal cinismo, la misantropia, la paranoia, e quindi un intellettuale ci vive indubbiamente meglio. C’è conversazione. C’è giornalismo. C’è industria culturale, ma nel senso del riconoscimento, della difesa di se stessi. L’intellettuale ha mantenuto in Francia lo status perché ha una consistenza, non si è sfiancato, per il Partito, per la lottizzazione, per la confraternita.
Riassumendo, si può dire questa dell’italiano una crisi dell’opinione, la crisi dell’intellettuale – il paese continua a lavorare sodo.
L’imprenditore viaggia invece, e sa, impara. Anche piccolo, anche ignorante. Quanti industriali che sono poco più che artigiani all’Est, Albania, Romania, India, Cina. Il turista italiano fuori è il quarto o il terzo maggior flusso europeo, benché di seconda categoria (lo fanno viaggiare nella stagione sbagliata), ma apprezzato, perché “se ne intende” (è flessibile) e perché spende. Perfino il prete si può dire una difesa dell’Italia, almeno finche il papato sarà a Roma. L’intellettuale non ha grandi saggi, a parte Eco, non ha columnist, e anche se parla le lingue non sa nulla di sopra Chiasso – la Germania? la stessa Francia?

I libri “contro” si moltiplicano. Essere italiano non va di moda con la Seconda Repubblica, e con la Terza. Due nozioni superficiali (propagandistiche), alle quali quindi l’Italia può sopravvivere. Ma perfino un ex presidente della Repubblica, Cossiga, ha sentito il bisogno di scrivere con Pasquale Chessa una controstoria d’Italia che ha intitolato “Italiani sono sempre gli altri”. Italiano insomma è un’ingiuria.
Nel volume “L’Italia repubblicana vista da fuori”, un’analisi a più mani dei cinquantacinque anni della Repubblica dopo il 1945, curato da Stuart Wolff per il Mulino a fine millennio, lo storico nota nella premessa che la questione settecentesca del “carattere nazionale” è la negazione di ogni vera indagine storica. E che proprio attorno ad essa gira l’opinione pubblica italiana, con risultati deludenti sia nell’individuazione del modo di essere, ora, in concreto, dell’Italia, sia nei riferimenti, grossolani, di maniera, imperialistici (violenti) dei modelli stranieri.

Un capitolo a parte è la nazionalità, poco offerta e molto rifiutata. Si vede fra i più poveri, il subcontinente africano. Entrano, perché è più facile, ma con l’ambizione di passare in Francia, in Gran Bretagna. Anche in Germania benché non ne posseggano la lingua. Specie tra i buoni cattolici: molti usano le missioni, in Africa e nel subcontinente indiano, per entrare nell’Ue, per poi scappare a Londra o Francoforte.

Morale – La questione morale è sempre stata posta dai grandi corruttori: Cavour, la Destra, Giolitti, Mussolini. Mani Pulite ha plurimi punti di contatto: frsi prestare soldi dagli inquisiti, discriminare gli inquisiti, raporti speciali con gli avvocati, confidenze selezionate con i giornalisti, luso della funziione a scopo di carriere. L’antologia di David Bdussa, “L’italiano”, mette non volendo fra i moralizzatori alcuni fra i maggiori corruttori, Montanelli e Malaparte.

Si può dire lo scadimento dell’Italia proporzionale all’abortita questione morale. I libri “contro” sono di due tipi: la fantasia (l’elzeviro, il ghirigoro, le filippiche, o ciceroniane…), e l’incultura, in genere legata al Meridione, alle mafia, a Berlusconi, e ora alla politica tutta. Mentre l’origine è nella questione morale. La questione morale è causa di se stessa. Per essere artefatta, di parte, mirata. Cioè corrotta.

astolfo@antiit.eu

La guerra non può essere pacifica


Nel 1943, poco prima della morte a Londra, Simone Weil riconosce l’errore, “il mio errore criminale di prima del 1939”, pacifista di fronte a Hitler. Un pacifismo di cui ora è in grado di vedere “l’inclinazione al tradimento”, facile preda della propagande, dei servizi d’informazione nemici, segreti e non. Le “Riflessioni sula guerra” sono pacifiste, sul presupposto non smentibile che la pace è sempre meglio di una guerra. Ma se ci fanno la guerra? Nel suo pacifismo Simone Weil si era spinta a contestare la guerra rivoluzionaria, o di liberazione, o giusta.
Il volumetto è la riedizione della raccolta già uscita con lo stesso editore nel 2005, di lettere, note e articoli. Nel mezzo due testi, una “Meditazione sull’obbedienza e la libertà”, a proposito del paradosso della servitù volontaria di La Boétie, contro Stalin. E alcune “Riflessioni sulla barbarie”, contro Hitler. Un testo intermedio, “Riflessioni in vista di un bilancio”, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, è meno autocritico che impegnato sulle cose da fare. L’inguaribile fiducia la porta a un’analisi che si rivelerà profetica: i sistemi totalitari hanno la debolezza di dover mantenere “uno stato di mobilitazione permanente”, pena il crollo.
Qua e là di fa strada il concetto di “forza”, enucleato ancora meglio altrove, “L“Iliade” o il poema della forza”, che è più “veritiero” sulla guerra e la pace. Domenico Canciani, pedagogista, grande “weilista” (“La passione della verità”, Il coraggio di pensare”), ne fa una notevolissima critica nel saggio “Simone Weil dal pacifismo alla Resistenza”, online..
Simone Weil, Sulla guerra, Il Saggiatore, pp. 155 € 9,50
Domenico Canciani, Simone Weil dal pacifismo alla Resistenza, online

giovedì 18 aprile 2013

La sconnessione fa libri felici

Libro svelto, di pronta lettura, raggruppa scritti d’occasione (articoli, discorsi, conferenze), e i medaglioni di alcuni personaggi (Einaudi, Foà tra gli altri - e Vladimir Dimitrievic, geniale direttore di L’Age d’homme, ma altrimenti infrequentabile, è filoserbo). La Adelphi emerge in controluce su una “piccola storia”, a proposito dell’Enciclopedia Einaudi, che Calasso dice affetta da sovietismo (“sovietica era la pretesa, implicita nell’opera, di offrire la versione corretta di come si debba pensare”): “Uno dei responsabili dell’Enciclopedia Einaudi mi offrì un giorno di scrivere la voce «corpo». Gli dissi che mi sentivo onorato e perplesso, ma mi venne anche spontaneo chiedergli a chi  era stata affidata la voce «anima». «È una voce che non è prevista», mi rispose subito, come se avessi chiesto qualcosa di sconveniente. Mi fu chiaro in quell’istante che non ci saremmo mai intesi”.
Non un trattato. Dell’editore Calasso non dice l’aspetto dominante, il mass market, la pubblicità, compresi i premi, le segnalazioni e le recensioni, le “cordate”, le librerie come catene commerciali – solo l’aspetto romantico, rabdomantico. Non  una storia della Adelphi. Manca il boicottaggio anche aspro negli anni 1970. A partire dall’espunzione dei suoi libri dalla librerie Feltrinelli, in una coi titoli Rizzoli, eccetto la Bur, Rusconi e De Agostini, nell’estate del 1969, quando il Lem dell’Apollo allunava nel Mare della Tranquillità – l’Italia è sempre stata un po’ fuori del mondo. È una storia di capacità e di successo, anche se la casa è finita nel gruppo Rcs – per esempio la riproposta di Simenon, 45 romanzi “duri” e qualche Maigret, “stabilizzati su una tiratura iniziale di 50 mila copie”. E una non piccola memoria per la storia dell’editoria, di un’editrice incoerente o informale – l’insegna di Calasso è “sconnessione”. Che non esclude la “forma”, e anzi la coltiva, nella scelta e nella proposta, di grammatura, tonalità (non il bianco Einaudi ma l’opaco, e per le copertine l’imitlin, a rete), colori, copertine, formati (e andrebbe aggiunta la colla, i libri Adelphi sono difficili da maneggiare). Calasso si rifà a sant’Ignazio di Loyola, che lasciò decidere alla sua mula il suo destino, e alla vedica śraddhā, “gesto mentale”, la fede della conoscenza.
L’anamnesi è alla fine pessimista, molto, dietro l’intenzionale difesa dell’editore, sotto il titolo “Faire Plaisir”. E tuttavia i libri ci sono, e si vendono come non mai, in Italia – avendo cominciato a occuparsene nel 1968, nel “Giornale della libreria”, quando le librerie erano un decimo delle attuali, arcigne, infrequentabili, e i libri un centesimo, non si può non rilevarlo. Anche per merito dell’editoria, che ha variato e moltiplicato, come lo stesso Calasso riconosce, il “pubblicabile”, allargandolo ai generi più infidi.
Adelphi si può dire che parla per sé: la Biblioteca e la Piccola Biblioteca sono il catalogo più vivente. Ma di morti, di ripescaggi. Per fare giustizia alla storia contro le tante censure,  ma anche per scelta, del solido, stagionato. Non c’è un autore nato con Adelphi. L’eccezione è forse Pessoa, che “nasce” con Adelphi, sebbene tardi, nel 1979. E il Simenon dei “romanzi duri”, che dopo Adelphi anche la Francia comincia a rivalutare. Ma si parla sempre di morti.
Calasso fa l’elogio del “libro unico” di Bazlen. Ma l’editrice si costruisce anche, e poi si accredita, per le “opere complete”, Joseph Roth, Savinio, Simenon, Blixen, Nabokov, Bernhard, Landolfi, ora Némirovsky e Malaparte, Nietzsche naturalmente, Schopenhauer, molto Heidegger. Unica in altro senso è l’editoria, una delle forme più incerte di imprenditoria. Bazlen che si vuole nume tutelare di Adelphi è rivelatore: se ne è fatto un mito, e sicuramente ne avrà avuto gli stamina, di curiosità, sapienza, amabilità, ma i titoli “unici” con cui fece debuttare la casa editrice, prima che Fuà e Calasso mettessero riparo, sono catastrofici per snobberia, Daumal etc.
Roberto Calasso, L’impronta dell’editore, Adelphi, pp. 164 € 12

Secondi pensieri - 139

zeulig

Castità – Fu eresia per la chiesa, quella dei Marcioniti, gli Encratiti, I Manichei. Negli anni dell’imperatore Gallieno, 253-268, molti vescovi furono perseguitati e linciati come Manichei, in quanto predicavano il celibato. Anche la continenza fu sospetta – figurarsi la castrazione di Origene. La Chiesa aderisce alla condanna del sesso come peccato con riluttanza, come peccato originale – la colpa ineliminabile. E lo sterilizza col battesimo. L’assume quando a sua stessa opera, col Rinascimento, la “carne” non è più maledetta e il peccato originale, il “Genesi” III della Bibbia,  scade a ipotesi rituale.

Destino – Sembra il diminutivo di “desto” mentre ne è l’opposto. Non lo sarebbe nell’etimologia, che implica la destinazione, il senso di una fine non definitiva né ineluttabile, una direzione e una meta. Destinare è in latino “attaccare”. Il Devoto lo fa derivare da de-stanare, a sua volta derivato di stare, “che indica la conclusione di un  processo”, e asserisce “attestato sia pure in forme non identiche in altre aree europee”. Come dire che il suo destino ognuno se lo fa da sé, con opere e omissioni – negligenze, inerzie.

Dio – È un principiante. Collodi lo lamenta, quello di “Pinocchio”: “Per fare l’uomo com’è fatto, non c’era bisogno di un grande artista come il Creatore, bastava anche un principiante”. Ma il Creatore è un principiante. Per forza di logica. Uno sperimentatore, un ricercatore.

È filosofico. Prima e soprattutto che sentimentale o materia di fede.

La negazione più radicale è di Hume: “Tutto ciò che concepiamo come esistente, lo possiamo concepire anche come non esistente. Non c’è dunque un Essere la cui non esistenza implica contraddizione”. Ma tutto questo lo concepiamo a opera dello Spirito Santo?

Giudizio – È la forma mentis che la digitalizzazione potrebbe abolire, la comunicazione “liquida” che elimina la “copia” (giornale, libro) personale, fisicamente separata, un oggetto a sé. In politica (in Italia) lo ha già fatto. Anche in filosofia: un Kant redivivo avrebbe difficoltà a redigere una nuova “Critica”.

Innovazione – Benemerita, valvola del progresso,  è fine a se stessa nel mercato: un’arma di bombardamento. Moltiplicativa. Riduttiva.

Internet – Ha una tale velocità di ricambio di mezzi e procedure, da indurre all’afasia. Per motivi commerciali ma anche per natura. L’interattività è superficiale e irrilevante : l’utente è in realtà più passivo che mai, solo un terminale, per quanto digiti furioso.
Innovativo del linguaggio. Ipertesto non c’è nel Grande Dizionario della Lingua Italiana della Treccani, cinque volumi, del 1987. Ma non delle “cose”, dei concetti, solo delle parole.

È un brusio, ma indistinguibile, un brulicare vago di parole e segni – è l’abolizione dei “bianchi”. Tutte le parole che si scrivono, emanando un senso di pienezza, sono figurazioni (prodromi?) di tutte le parole che si possono scrivere. Indistinte. È quindi la cancellazione della parola, non più significante se non per il contesto, di tempo (generazione, moda). di luogo, di rete (facebook, 5 Stelle, twitter).
È connessione, linkare e taggare sono i suoi meccanismi. Tutto un ipertesto che mai susside, sedimenta. Una navigazione, la parola è esplicita, internet nasce come navigazione, aperta e incerta, magari avventurosa, ma confusa

Legge – Vuole codici specialistici ed elaborati. Che la burocrazia moltiplica fino all’insignificanza. Con l’effetto, quando non è perversa, d’imporre la stessa insignificanza – indifferenza. Cosa si intende per “dominio della legge”? L’arbitrio.

Libertino – Il conio della parola è attribuito a Calvino, che l’avrebbe derivata dal libertinus del diritto romano, l’affrancato. Il Robert la registra nel 1555, nel senso di empio, incredulo, irreligioso: chi non segue alcuna religione, né come fede, né come pratica. Solo un secolo dopo la parola è registrata nel senso di dissoluto, sregolato.  Ha quindi in origine una connotazione servile, di reazione all’asservimento.
“Liberto o libertino è, a Roma”, dice la Treccani, “colui che, essendo stato in legittima schiavitù, è poi divenuto libero” Per accordo col padrone o per decisione di un giudice su ricorso dello schiavo.
La distinzione tra i due termini non è però irrilevante: liberto “indica la situazione del libertino in confronto al suo antico padrone (patronus)”, mentre libertinus si confronta a ingenuus, nato libero.
Gli “Atti degli apostoli” registrano (6, 8) a Gerusalemme una sinagoga dei Liberti.

Nuovo – S’intende diverso. Innovativo è un’altra cosa, che non c’era.

Omosessualità – La sua progressione va in parallelo con l’appannamento della condizione femminile, più che di quella maschile. Nella teoria e pratica dei ruoli, e nell’immaginario. La cultura omosessuale, quella lesbica compresa, è anti-femminile: maternità e ruolo materno negati, femminilità sfidata, ogni tipo di femminilità, non se ne prospetta una buona, e naturalmente ogni posizione di rendita – il fascino – annullata.
Si può vedere a Pisa una mostra di Anna Anni, morta due anni fa, che nessuno sa chi sia, malgrado una mostra l’avesse riproposta a Firenze già sei anni fa. Costumista teatrale e del cinema però eccelsa, collaboratrice dai suoi primi vent’anni con le maggiori celebrità, a partire da Orson Welles con due o tre film. Ma compagna di lavoro e di vita (camere condivise, appartamenti), all’Accademia a Firenze e a Roma in via Margutta, di Zeffirelli, Bolognini, Tosi, Sequi. Che l’hanno apprezzata molto nel lavoro, e poi in morte, come una piccola bestiola.

Politica – In quest’epoca di radicale discredito (ma in Italia a opera dell’opinione più screditata, quella dell’ “informazione”, che purtroppo ha infettato pure gli studi, da troppo tempo ridotti a bavardage) si ripropone in controluce nell’accezione di Croce (Aristotele), che dividendo le funzioni umane in animali e spirituali, le prime dice pertinenti all’economia, le seconde alla politica, la più etica – Croce direbbe vicina all’eticità pura.
Detto in controluce sui costi e gli scandali della politica la relazione sembra impossibile, ma lo scandalismo che l’attornia non è un’operazione di verità. In larga parte è artefatto, in più è fazioso.
La faziosità procede per circolo vizioso, a spirale: in reazione alle spinte demolitive, la politica stessa si arrocca nella faziosità.

zeulig@antiit.com

Storia di De Magistris, il novissimo


Poiché imperversa il “nuovo”, val la pena fare la storia di De Magistris, il “novissimo” subito naufragato a Napoli – portandosi dietro purtroppo la città, che in questi giorni ospita la prestigiosa America’s cup, ma nessuno la sa o gliene frega. L’ex giudice non ha l’inventiva dell’ex comico, ma più rapidamente è riuscito a ottenere quello che voleva, il comando della sua città. Se non che la sua storia è semplice, troppo, si capisce che non sappia che fare. Una storia di carrierismo e di fallimenti, da ultimo l’inabissamento di Napoli, e il suicidio del giudice D’Amico, da lui accusato e vilipeso sapendo che era innocente.
Benché nobiltà di toga - “magistrato figlio di magistrato, nipote di magistrato”, come amava definirsi in carriera - De Magistris era stato confinato a Catanzaro. Succede, anche i magistrati di toga, anche i napoletani, all’inizio li mandano lontano. Ma impaziente volle bruciare le tappe attaccandosi alla politica. A casaccio, cioè senza appigli reali. E a sinistra – allora il giudice non nascondeva le simpatie destrorse che il giustizialismo comporta. Liquidò la giunta regionale, che in Basilicata è di sinistra, e mezza Procura di Potenza. E si attaccò al governo Prodi.
Della caduta del governo Prodi nel 2008 De Magistris fu l’autore e non De Gregorio, con parole e opere. Con atti giudiziari avventati e abortiti, cioè, ma con molte interviste. Spesso da Santoro, alla Rai. Col patrocinio di Di Pietro, altro fascistoide finito a sinistra. Per abbattere Prodi puntò, da napoletano verace, contro l’intruso Mastella, che è di Benevento e di Prodi era ministro della Giustizia, addirittura. A Prodi e Mastella fece ascendere una non precisata “loggia massonica coperta a San Marino”, costituita allo scopo di gestire i fondi europei per la formazione professionale in Calabria. Una cosa molto ridicola, ma è difficile dimostrare l’inesistenza di una “loggia massonica coperta a San Marino”, e questo bastava ai suoi patrocinatori in Rai per avere ragione. Tanto più che a De Magistris i testimoni d’accusa non mancavano, un lui e una lei imputati e condannati per la cattiva gestione degli stessi fondi.
Per un paio d’anni De Magistris fece la legge sui grandi giornali e alla Rai. Finché non ottenne l’agognato trasferimento a Napoli. E poiché i suoi ex colleghi a Catanzaro ne ridevano, li denunciò alla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Che pronta mandò una colonna mobile di notte a Catanzaro, 425 km, 850 andata e ritorno, a occupare la cittadina e perquisire gli uffici giudiziari – da qui la disgrazia costata la vita al giudice D’Amico.
A Santa Maria Capua Vetere De Magistris doveva il colpo da maestro contro Mastella – e Prodi. Non potendosi nulla contro Mastella, quella Procura aveva messo sotto accusa la moglie di moglie di Mastella. Il ministro della Giustizia reagì nervoso, e il governo cadde. Le tre inchieste di De Magistris invece furono tutte rigettate dal giudice istruttore.
Il problema con De Magistris è che la sua non è una storia isolata. E anzi fa opinione.

mercoledì 17 aprile 2013

Letture - 134

letterautore

Bassani – Il più accanito denigratore del “Giardino dei Finzi Contini”, prima del “Liala” che l’algido Sanguineti gli appioppò a Palermo nel 1963, fu Vittorini. Ma Vittorini non ha nulla che oggi regga al confronto – è illeggibile, con tutta la buona volontà. Anche come lavoro editoriale dobbiamo di più a Bassani: il “Gattopardo” naturalmente, e il primo catalogo Feltrinelli.

Dante - Poeta dell’intelligenza (Getto), più che delle passioni (De Sanctis, Benigni)? Perché non tutt’e due?

Erotismo – Quello cartaceo è in crisi – a causa della crisi? Già le varie “Sfumature” erano deboli, un Ersatz stinto. Il “dibbattito” aperto da D’Orrico per passare l’estate su “Sette” è stato più che altro una palestra di exempla cervellotici. Eco in “Costruire in nemico”, parlando diffusamente del suo Victor Hugo (pensavamo che l’Eco dei romanzi fluviale si rifacesse a Dumas? Sbagliato, era Victor Hugo) trascrive alle pp. 181-83 “una delle vette della letteratura erotica” di freddezza inimmaginabile. Ci sono gialli, niente più storie d’amore. Nemmeno politicamente corrette, per esempio omosessuali – le più gelide di tutte, molto puritane.
 
Gruppo 63 – Fu meglio rivisitato per il quarantennale, dieci anni fa. Tutto è stato detto allora da Umberto Eco. L’idea fu di Balestrini: rifare in Italia il Gruppo 47 tedesco, di letterati che si riuniscono periodicamente per leggere i loro lavori e criticarsi l’un l’altro (“faremo schiattare un sacco di gente”). Non un grande programma - una delle prime riunioni del Gruppo 47 consisté nel far piangere Ingeborg Bachmann, trattandola come oca, perché era bella e brava. Ma una novità: la sovversione attraverso l’establishment. “Il Gruppo 63 è stato l’espressione di una generazione che non si ribellava dal di fuori bensì dal di dentro. Non è stata una polemica contro l’establishment, è stata una rivolta dall’interno dell’establishment”. E una forma d’illuminismo padano. Di una generazione favorita dalla data di nascita, gli anni 1930, e per questo molto avvantaggiata sulle precedenti, che avevano perduto gli anni del fascismo, della guerra, e della irta ricostruzione, col mondo a portata di mano. Eco ricorda che nel 1963, a trent’anni, fu introdotto nel diorama della nuova critica europea dal “Times Literary Supplement”, alla pari con Emilio Cecchi, nato cinquant’anni prima di lui e stimato anglista di professione (che commosso si celebrerà in due elzeviri sul “Correre della sera”).
La celebrazione di Eco si conclude con un lapsus, per il suo curioso apoliticismo (apolitismo? apotismo?). Eco, che è di sinistra, si vuole felicemente fuori della politica. L’irrisione, lamenta, verso il Gruppo 63 fu ripetuta e dura “a sinistra”, senza considerare che “alcuni, per esempio Sanguineti”, erano”esplicitamente schierati a sinistra”. Cioè col Pci, che Eco non nomina. Lo stesso “l’estetica del realismo socialista”, che la rievocazione variamente irride, è senza padri.

Immagine – Prevale oggi nella presentazione di ogni personaggio, sia leggero,o politico o economico, sui testi e la biografia vera. Di Belèn quando stava con Corona, come lui antipatica, e di Belèn beniamina degli italiani a Sanremo. O del Berlusconi universalmente antipatizzante, “preso” dal sottinsù preferibilmente, mussoliniano, o altrimenti gonfio, smorfioso, etc. - curiosamente pure nelle sue televisioni. Ma è ricetta antica. Massimo Firpo ne fa sul “Sole 24 Ore” una disamina appassionante sull’immagine di Machiavelli. Che quando è antipatico, nel Cinquecento, viene figurato “torvo e infido”, sotto le specie di una “testina spelacchiata” stampata sul frontespizio delle opere pubblicate a Venezia in quattro volumi nel 15401541 - e che invece, lo studioso ha accertato, raffigura un Fino Fini, tesoriere degli Estensi a Ferrara, “brutto, arruffato e spigoloso personaggio”. Nel Sette-Otocento invece, affermandosi il riscatto italiano contro lo straniero, il segretario fiorentino si raffigurò nell’immagine più nota, severa ma complice, ricavata probabilmente dalla maschera mortuaria.

Machiavelli – L’ermeneutica di Machiavelli è un’arte a sé. Inferiore forse solo all’esegesi biblica, per varietà d’intepretazioni. Isaiah Berrlin apre il suo “La questione Machiavelli” così: “C’è qualcosa di sorprendente già nel numero di interpretazioni delle opinioni politiche di Machiavelli. Esistono, anche ora (Berlin scrive nel 1971), più di una ventina di teorie importanti su come interpretare “Il principe” e i “Discorsi”. Un destino, continua Berlin, che Machiavelli condivide con altri pensatori che agitano l’opinione e la dividono, Platone, O Rousseau, Hegel, Marx. Ma “Platone scrisse in un mondo e in una lingua che non siamo certi di possedere”, mentre gli altri “sono teorici prolifici, in lavori che sono scarsamente modelli di chiarezza o sostanza”. Mentre il “Principe” è un libro breve, e “singolarmente lucido, succinto, e pungente – un modello di chiara prosa rinascimentale”. Il problema con Machiavelli è che è disturbing.
Anche sul “realismo”, la meno contestata delle disposizioni di Machiavelli, Berlin trova che c’è da sottilizzare: “Il professor H.L. Trevor-Rops”, scrive in nota, “attira la mia attenzione all’ironia del fatto che gli eroi di questo supremo realista sono tutti, interamente o in parte, mitici”.
Quanto alle applicazioni del “machiavellismo”, tra forza e inganno, quello di Federico il Grande di Prussia Berlin si chiede quanto non debba “al suo mentore Voltaire”.

Curiosamente, latita nella vasta ermeneutica l’ambizione letteraria di una vita, e lo spessore della stessa. Coltivata molto più che la scienza politica in sé. Anche la lettura e il commento degli antichi.
Ma latita tutto Machiavelli, in questo cinquecentenario del “Principe”, almeno in Italia. Non per colpa sua, si direbbe, non è il solo segno di disattenzione: è il Paese che è mediocre e senza interessi.

Se ne è fatto molto il caso per il sovietismo, l’uso disinvolto dei mezzi più distruttivi a fini giudicati costruttivi.  Berlin, studioso del sovietismo, ne ha trovato per “un solo esteso trattamento”, in una introduzione, che ebbe breve vita, di Kamenev al “Principe”, nel 1934. Per la “quasi dialettica” presa di Machiavelli sulla realtà della politica – potere e libertà – fuori dalla “fantasie” metafisiche e teologiche” Kamenev ne faceva un ottimo precursore di Marx, Engelsn, Leni, e Stalin. Un giudizio che sarà usato contro di lui da Vyshinsky, il suo accusatore nel processo liquidatorio.

Morselli – Risuscita in libreria con “Roma senza papa”, suo unico titolo. Con una fascetta nuova fiammante: “Un libro profetico”. A ogni morte di papa?

Pound – Trova un primo assestamento, dopo il girovagare curioso in Italia e Francia, a Londra, che usciva dalla sonnolenza vittoriana. Con le più disparate compagnie. La rivista “The Egoist” di Dora Marsden (1914-1919), di cui fu una colonna, era nata come “The Freewoman” (1911-12), poi “The New Freewoman” (1913). Dora Marden era uscita dalla Wspu, Women Social & Political Union, delle sorelle Pankhurst.
Nel coevo vorticismo, animato da allo scrittore-artista poliedrico Wyndham Lewis d aultimo con la rivista “Blast”, Pound si trova in compagnia di Rebecca West e Ford Madox Ford. Vorticismo, nel manifesto di W.Lewis, è “una rappresentazione dall’esterno di forze cinetiche, priva di manticismo, un’organizzazione di superfici”. Molto futurista:  nella forma del vortice Lewis intendeva esprimere la deflagrazione - blast è scoppio.

letterautore@antiit.eu

Non c’è rimedio al debito che abolirlo

Sul tema del debito – è “sostenibile”? - è utile un appunto di Simone Weil al tempo del breve governo del Fronte Popolare delle sinistre in Francia, tra il 1936 e il 1938, che lei stessa intitolava «Abbozzo di una teoria della bancarotta» - disponibile online, tra gli “Écrits historiques et politiques”:
“La parola «bancarotta» è una di quelle che si usano con imbarazzo, che suonano male, come adulterio o truffa. Quando si pronuncia riguardo alle finanze del proprio paese, si parla volentieri di «bancarotta umiliante». Si possono cercare scuse a una bancarotta, si possono trovare ragioni di attenuare tale o tale responsabilità, ma nessuno pensa che la bancarotta non proceda in qualche maniera da un peccato; nessuno considera che essa possa costituire un fenomeno normale. Già il vecchio Cefalo, per far capire a Socrate che aveva condotto una vita irreprensibile, gli diceva : «Non ho ingannato nessuno, e ho pagato i miei debiti». Socrate, maligno, dubitava che questa fosse una definizione sufficiente della giustizia. Il cittadino medio – e noi siamo per la maggior parte del tempo cittadini medi – applica volentieri allo stato il criterio di Cefalo, almeno per quanto concerne il secondo punto; perché sul primo, nessuno chiede a un governo di non mentire.
“Proudhon, nella luminosa opera di gioventù intitolata «Che cos’è la proprietà?» prova col ragionamento più semplice e più evidente che l’idea del buon Cefalo è un’assurdità. L’idea fondamentale di Proudhon, in questo libretto troppo ignorato, è che la proprietà non è cattiva, né ingiusta, ma impossibile. E intende per proprietà non il diritto di possedere un bene qualunque, ma il diritto molto più importante di prestarlo a interesse, qualsiasi forma prenda questo interesse: affitto, mezzadria, rendita, dividendo.
“La dimostrazione di Prudhon riposa su una legge matematica molto chiara. La messa a frutto del capitale implica una progressione geometrica. Il capitale, non rendesse che l’1 per cento, s’accrescerebbe tuttavia secondo una progressione geometrica in ragione di 1+ . Ogni progressione geometrica genera grandezze astronomiche con una rapidità che sorpassa l’immaginazione. Un calcolo semplice mostra che un capitale che non rendesse che l’interesse derisorio dell’1 per cento raddoppia in un secolo, e si moltiplica per sette in due secoli; e con l’interesse ancora modesto del 3 per cento è centuplicato nello stesso spazio di tempo. È dunque matematicamente impossibile che tutti gli uomini di un paese siano virtuosi alla maniera di Cefalo per due secoli: anche se una porzione relativamente piccola dei beni mobili e immobili fosse affittata o investita a interesse, è matematicamente impossibile che il valore di questa porzione centuplichi in alcune generazioni. Se è necessario all’ordine sociale che i debiti siano pagati, è più necessario ancora che i debiti non siamo pagati.
“Dacché esistono la moneta e il prestito a interesse, l’umanità oscilla tra queste due necessità contraddittorie, e sempre con un’incoscienza degna di ammirazione. Se ci si divertisse a riprendere tutta la storia conosciuta presentandola come la storia dei debiti pagati e non pagati, si arriverebbe a capire buona parte dei grandi avvenimenti passati. Ognuno sa che, per esempio, la riforma di Solone a Atene, o la creazione dei tribuni a Roma, sono effetti dei torbidi provocati dall’indebitamento eccessivo della popolazione. Che si tratti della popolazione o dello Stato, non c’è stato mai altro rimedio all’indebitamento che l’abolizione dei debiti, aperta o mascherata…
“La nozione di contratto tra lo Stato e i singoli è un’assurdità in un’epoca come questa”.
Simone Weil, Esquisse d’une apologie de la banqueroute, online

martedì 16 aprile 2013

Perché Baudrillard è scomparso?

Già, perché? Variante degli ottimi testi essenziali de L’Herne, l’aureo lascito di Baudrillard è catastrofico, nostalgico. Contestabile. La dissoluzione dell’immagine nel digitale, dall’analogico al digitale, sintetizza la dissoluzione del reale nel virtuale. Bene.“La fotografia di Barthes “testimoniava un’assenza senza appello, qualcosa che era stata presente una volta per tutte”, il digitale “è in tempo reale e testimonia qualcosa che non  ha avuto luogo, ma la cui assenza non significa nulla”. Ingegnosa paroleria,  specialità dell’hortus conclusus tra la vecchia Rive Gauche e le università della banlieu, il ghetto intellettuale – in Francia si vuole ghetto. “Lo stesso destino mentale minaccia l’universo mentale e tutta l’estensione del pensiero”. Quando mai?
Partito sociologo, Baudrillard finisce sommerso dalla “sparizione del soggetto”. In “una soggettività da fine del mondo”. Volteggiando in “una soggettività diffusa, aleggiante e senza sostanza” – tutto sempre ben detto – “ectoplasma che tutto avvolge e trasforma in un’immensa superficie di riverberazione” – parole su parole – “d’una coscienza vuota, disincarnata” - ma di che stiamo parlando? – “in cui tutte le cose rispendono di una soggettività senza soggetto” – una soggettività senza soggetto? – “ogni monade, ogni molecola presa nelle maglie di un narcisismo definito, di un ritorno-immagine perpetuo”. È solo di tante consecutio analoghe.
L’”arte” o strategia della dissoluzione è pervasiva, perché “analizzare significa, letteralmente, dissolvere”. E così siamo alla “dissoluzione dei valori, delle realtà, delle ideologie, dei fini ultimi”. Delle ideologie sì, ma i valori? la realtà? i fini utimi? O la catastrofe non sarà l’effetto, più che del virtuale, della caduta del Muro? È da allora che la realtà è scomparsa per Baudrillard, la prima visione del vuoto la ebbe nella guerra del Golfo.
Questo naturalmente qui non si dice. Il mondo scompare da quando viene scoperto, col telescopio di Galileo e il calcolo matematico. Anzi, “il mondo reale inizia a scomparire nello stesso momento in cui inizia a esistere”. Nascendo morimur, dicevano già i romani, che non erano molto buoni filosofi – non ci vedevano bene? O, volendo, l’entropia di Teilhard de Chardin, l’evoluzione come perdita. O altrimenti la sparizione è successiva, col linguaggio: “Rappresentandosi le cose, nominandole, concettualizzandole, l’uomo le fa esistere e al tempo stesso le fa precipitare verso la loro perdita, le distacca sottilmente dalla loro realtà nuda e cruda”. Che non è il nichilismo tedesco di Heidegger o della Nach Neuzeit di Romano Guardini, qui c’è una “realtà nuda e cruda”, addirittura. Che Baudrillard esemplifica nella “classe”, la classe di Marx.
Jean Baudrillard, Perché non è già tutto scomparso?, Castelvecchi, pp. 53 € 7,50

Il debito è privato, privatissimo, consolidiamolo

“Solo il debito resta pubblico” è un refrain pubblicitario, e uno slogan politico, di destra estrema. In realtà “pubblico” va inteso qui all’inglese, come privato. Il debito è privato, privatissimo, pagato da tutti i cittadini, anche dai pensionati a 500 euro. Mentre si preannuncia un’altra “manovra”, cioè un altro prelievo. A conferma di ciò che si sa ma non si dice: che le tasse non colmano il debito ma lo aumentano. 
Una forma di consolidamento è necessaria. Andava fatta prima della partenza dell’euro, ora è difficile, ma va fatta. Una riduzione cioè dell’esposizione. Le formule sono tante. La più efficace sarebbe l’eurobond, la trasformazione dei debiti nazionali.
L’Italia ne ha esperienza. Fu italiano il primo consolidamento moderno del debito, subito dopo l’unità, a opera di un dimenticato (per questo?) ministro delle Finanze, Antonio Scialoja. Il 2 maggio 1866, in reazione alla caduta delle quotazioni dei titoli del debito pubblico italiano alla Borsa di Parigi, per una delle tante crisi commerciali, Scialoja proclamò il “corso forzoso”, ossia la temporanea inconvertibilità. Al contempo il ministro obbligava la Banca Nazionale, antenata della Banca d’Italia, a fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni – l’odierno acquisto Bce a sostegno del corso del debito. E subito dopo emise un prestito redimibile forzoso, a carico delle banche.
Qualche estratto da anti.it aiuterà:
“Nel 1926, richiamato alla presidenza del consiglio dei ministri per risolvere una crisi di eccezionale gravità che bloccava il funzionamento dello Stato, Raymond Poincaré fece il 3 agosto una “manovra” da undici miliardi di franchi, cioè impose undici miliardi di nuove tasse. E il 7 agosto creò una Cassa d’ammortamento del debito pubblico che, prendendo il testimone dai Monopoli di Stato, utilizzerà le tasse sul fumo e le lotterie per ammortizzare i buoni della difesa nazionale 1914-18, e rimborsare anticipatamente o convertire le rendite anteguerra, più le anticipazioni, rateizzandole, della Banque de France. Lo Stato riprese a funzionare e dopo diciotto mesi Poincaré poté varare il franco che porta il suo nome, e che per oltre mezzo secolo è stato il mark-up della tesaurizzazione - nonché il tema di dottorato di A.O.Hirschmann, il ragguardevole cognato di Eugenio Colorni e Altiero Spinelli, “Il franco Poincaré”.
“Il 21 giugno 1928 alla Camera dei Deputati Poincaré ricordava lo scoraggiamento dell’Assemblea due anni prima, quando aveva cominciato a delineare il piano fiscale, e i risultati acquisiti: “La politica d’ammortamento e di consolidamento facoltativo non è stata affatto, come si è preteso talvolta per ignoranza o malafede, una politica d’indebitamento. Essa è consistita, al contrario, nella sostituzione di prestiti rimborsabili a breve termine, e di conseguenza minacciosi e pericolosi, con prestiti a lungo termine automaticamente ammortizzabili, che non hanno, di conseguenza, niente di minaccioso. Con l’effetto di rafforzare rapidamente il credito dello Stato”. Nonché le esportazioni, valendo il franco Poincaré un quinto del vecchio franco germinal.
“In precedenza lo stesso Poincaré, non volendo affrontare il problema, aveva puntato sui debiti di guerra della Germania, come se fossero esigibili, col suo famigerato “la Germania pagherà”, in quella che chiamava “Verdun finanziaria” - Verdun essendo la Vittorio Veneto della Francia. Esagerando, era arrivato a sostenere che la Germania alimentava l’inflazione per sottrarsi agli impegni. Per questo, a gennaio del 1923, occupò militarmente la Ruhr, come “pegno di produzione”. La Germania si fermò, non poteva nemmeno riscaldarsi, e si ebbe l’iperinflazione. Il cui effetto, oltre la fame dei tedeschi, fu il crollo del franco, e dello stesso Poincaré, nella primavera del 1924. Il Cartello delle sinistre che gli succedette, presieduto dal radicale Herriot, lo Zapatero dell’epoca, si inimicò col suo acceso laicismo i cattolici, che decisero di non sottoscrivere più un franco del debito, e la Banque de France. La Francia andava avanti con gli anticipi della banca centrale. La quale era però privata, e doveva far guadagnare i suoi duecento azionisti. Che erano le duecento famiglie più ricche della Francia, molto religiose, cattoliche e calviniste. Il Cartello di Herriot vivacchiò un paio d’anni, ma dovette cedere al cosiddetto “muro dei soldi”: non era mai successo che un governo in Francia cadesse per una questione di soldi.
“In Italia Mussolini aveva adottato una Cassa per l’Ammortamento del Debito Pubblico interno dello Stato – dopo avere beneficiato dell’abbuono del debito estero contratto in guerra dall’Italia con Stati uniti e Gran Bretagna – un anno prima di Poincaré. Ma con effetti non risolutivi, anche se la situazione era notevolmente stabilizzata in Italia rispetto al resto d’Europa......
Meno spesa, meno tasse
“Dopo la Grande Guerra, l’Italia più che la Germania sembrava predestinata a un rapido fallimento. Nel 1914 il debito pubblico era il 75 per cento del pil. Nel 1918 era il 150 per cento del pil. Un primo tentativo di ammortamento del debito, con la patrimoniale fortemente progressiva del 1920, fallì: il gettito fu esiguo. Le cose si trascinarono fino al fascismo, sotto il quale com'è noto l'Italia riguadagnò la fiducia degli ambienti internazionali, specie di quelli finanziari. Mussolini, col suo ministro De Stefani, ricavò molto più della patrimoniale con la riduzione della spesa, e il contenimento delle tasse. Nel 1926 De Stefani poté vantare un debito pubblico al 50 per cento del pil. Ma sapendo che era per effetto soprattutto del condono del debito estero da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Da qui il progetto di una Cassa d’Ammortamento, che il nuovo ministro del Tesoro Volpi realizzerà un anno dopo. Abbastanza per riportare la lira nel gold standard, con la famosa Quota Novanta (92 lire, esattamente, per una sterlina).
“Nel 1936, per finanziare la guerra in Etiopia, Mussolini emise un prestito doppiamente forzoso sugli immobili. I proprietari di immobili furono obbligati a sottoscrivere un prestito venticinquennale in proporzione al valore degli immobili stessi. Una imposta immobiliare straordinaria fu levata per il sevizio del nuovo debito.
“Le vie della finanza sono imperscrutabili, dal punto di vista della giustizia e della politica. La "manovra" di Mussolini nel 1936 è certo roba da fascismo, seppure anticapitalista: il prestito forzoso è odioso, e anche autoritario. E tuttavia è meglio, è meno ingiusto e più democratico, di una imposizione fiscale elevata, la più elevata al mondo, che a ogni manovra – ogni sei mesi – si aumenta.
La Spa del debito
“Nel 2005 l’ex ministro delle Finanze Guarino ha proposto un consolidamento sotto forma di una società per azioni, alla quale conferire i tanti attivi non esigibili dello Stato. Una società privata, fuori cioè dello Stato. In grado di produrre utili, e di raccogliere quindi un conveniente numero di sottoscrittori privati. Questo grazie al conferimento di un patrimonio che Guarino stimava in 450 miliardi, pari al 35 per cento del debito (di allora). Forse addirittura in 600 miliardi, pari al 45 per cento del debito, che così sarebbe sceso sotto la soglia virtuosa del 60 per cento del pil.
Era una stima prudente: il patrimonio pubblico, dello Stato e degli enti locali, si valuta in 1.800 miliardi. Togliendo dal computo i beni artistici, e quelli locali, difficilmente mobilitabili, l’Agenzia del Demanio calcolava all’epoca che beni per 450 miliardi si potevano agevolmente mettere sul mercato: partecipazioni, quotate e non, immobili, crediti. Il debito sarebbe stato abbattuto a mano a mano che le quote di Debito Spa venivano vendute agli investitori. Per un controvalore stimato appunto fra i 450 e i 600 miliardi.
“Il professor Guarino era un ex democristiano, senza più autorità, per di più ministro dell’infausto governo Amato nel 1992, e la sua proposta non ebbe fortuna. Lei stesso ridusse l’attivo ipotetico della Debito Spa a 60 miliardi, e poi non ne fece nulla. Inoltre, Guarino prevedeva che fossero le banche e le grandi imprese italiane ad avviare il successo di Debito Spa nel mercato, prendendone una quota di almeno il 10 per cento, e oggi le banche non sono in condizione di farlo, né le grandi imprese totalmente private, Fiat, Telecom, Pirelli, Autostrade, eccetera. La pratica, da lei passata al governo Prodi, fu affossata perché “economicamente priva di senso”. Ma il professor Messori, consulente di Prodi a palazzo Chigi, riteneva che in forma specializzata e non aggregata, con una serie di holding e non una sola, il progetto potesse riuscire.
Cassa d’ammortamento
“Una Cassa d’ammortamento è, insegna Jean-Baptiste Say, al cap. 30, “Sui prestiti pubblici”, del suo  Catechismo d’economia politica, “un mezzo per sostenere il credito del governo”. Domanda: “Che cos’è una cassa d’ammortamento?” Risposta: “Quando si mette un’imposta per pagare gli interessi di un prestito, la si mette un po’ più alta di quanto è necessario per pagare questi interessi, e l’eccedente è confidato a una cassa speciale che si chiama cassa d’ammortamento, la quale lo utilizza per riacquistare ogni anno, ai corsi di mercato, una parte delle rendite pagate dallo Stato. I ratei delle rendite riscattati dalla cassa d’ammortamento sono quindi versati in questa cassa, che li impiega, così come la quota di imposte che le viene attribuita a questo scopo, per il riacquisto di una nuova quantità delle rendite”.
“Say non amava il debito pubblico: “Un governo che vende delle rendite per appropriarsene il prezzo vende in realtà il reddito dei cittadini”. Non molti anni prima del suo “Catechismo”, nel 1776, una Cassa d’ammortamento era stata creata, col favore di Turgot, a fronte di un debito pubblico che all’improvviso apparve colossale, con lo scopo di rassicurare i sottoscrittori. Malgrado la Cassa, la Francia finì nella Rivoluzione. E la Rivoluzione, che si può anche dire provocata dall’instabilità finanziaria, finì negli assignats, cioè nella cancellazione della moneta”.
Se Prodi al Quirinale
Ma Prodi oggi, dovesse andare al Quirinale, probabilmente non obietterebbe. Successivamente alla proposta Guarino da lui bocciata, infatti, Il Mulino bolognese, un think tank  nel quale il Professore ha molto spazio, ha redatto “Debito pubblico”, una pubblicazione a cura del professor Musu, che è assolutoria e anzi incitatoria. No, categorica: “Il risanamento finanziario connesso a un processo di riduzione del debito pubblico può essere paragonato alla produzione di un bene pubblico, di un bene cioè del quale tutti i cittadini possono godere simultaneamente e in modo non reciprocamente esclusivo”.

lunedì 15 aprile 2013

Problemi di base - 139

spock

Morire per De Magistris? (Evidentemente si può)

Perché De Magistris, uomo di destra, è portato dalla sinistra?

E Di Pietro?

Olli Rehn ci è o ci fa?

Ma chi è Olli Rehn?

Perché Mrs. Thatcher, pure largamente antipatica, è disprezzata solo dai conservatori?

Se “non esistono i fatti”, Nietzsche cos’è?

Perché i filosofi non sono umili (servitori della verità)? 

spock@antiit.eu