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sabato 18 dicembre 2021

Appalti, fisco, abusi (212)

La provvigione di agenzia è in percentuale del premio Rca. Un incentivo al “sinistro”? Specie tra assicurati della stessa società (si può denunciare un sinistro portando a testimoni figli, amanti e disoccupati). A spese della società assicuratrice ma a carico finale dell’assicurato. L’Ivass ha molto da farsi perdonare, l’Autorità di controllo sulle assicurazioni. 

La Rca aumenta sempre, anche in questi anni di pandemia. Aumenta a caso. Senza controlli, da parte di un’Autorità che ha mille intrecci – di carriera e perfino societari - col comparto che controlla. E senza indici di riferimento - inflazione, costo del denaro. Veniamo da un ventennio di inflazione zero e costo del denaro prossimo allo zero, e la Rca è raddoppiata. Sono aumentati i sinistri? Anche in anni di pandemia, a circolazione forzosamente ridotta? E chi controlla l’incidentalità?
 
Si dice: si può cambiare assicurazione, se una non dà affidamento. Ma i parametri sono uguali per tutte le assicurazioni, che quindi diventano una specie di carcere di massima sicurezza: impossibile evadere.
 
Le assicurazioni sono una sorta di esattore mafioso: privato cioè, e fuori da ogni regola. La Rca è una sorta di pizzo: è imposta dalla legge, e giustamente, ma senza un indirizzo applicativo, e determinata senza alcun calcolo attuariale, come usava quando l’assicurazione era nell’interesse pubblico, in un mercato concorrenziale.
La polizza è un “pizzo”.  Non contestabile, stante l’abituale disinteresse dei pubblici poteri – “chi ha paghi”: proprio come avviene nei posti di mafia.  
 
La mafiosità è moltiplicata dalla bancassurance. Che propone-impone polizze a nessun effetto. Non molto care, 75 euro per l’assistenza legale, 100 per gli acquisti non rimborsati, anche solo 20  per la protezione sanitaria. Ma non rifiutabili: sono il pane della vita dei funzionari bancari a cui dovete un minimo di attenzione.  

Ecobusiness

L’abbigliamento usa non caro ma non durevole, si cambia a ogni stagione. L’industria dell’abbigliamento produce più anidride carbonica che la navigazione aerea o marittima: fra il 2 e l’8 per cento delle emissioni totali di CO2, a seconda dei calcoli, contro il 2 e il 3 per cento rispettivamente per la navigazione.
La navigazione online consuma il 10 per cento dell’elettricità mondiale, ed è responsabile per il 4 per cento dell’effetto serra – il doppio dunque degli aerei, e un quarto più delle navi. Un’attività, la navigazione internet, che per gran parte si propone per la raccolta dati, da usare a fini commerciali.
Gli Stati Uniti, col 4 per cento della popolazione mondiale, contro il 6 per cento della Unione Europea, e il 18 per cento della Cina, consumano il 16 per cento del totale delle fonti di energia, contro il 10 per cento della Ue e il 26 per cento della Cina. Pro capite, i consumi americani ammontano a 285 gigajoules, contro i 125 della Ue e i 101 della Cina.

Un Marchionne piccolo piccolo

Una iniezione di voglia di vivere. Da un uomo venuto dal nulla e creatore di un gruppo competitivo in un settore intasatissimo, ribaltando la vecchia Fiat e la fallita Chrysler in aziende di successo, immediato. Come per tocco magico.
Ma un film curioso. Dà risalto alla capacità di Marchionne di risuscitare cadaveri industriali. E con rapidità, e con semplicità: parlando con le persone, analizzando i problemi, trovando le soluzioni – le più semplici le più efficaci. Specie negli incisi in inglese, lingua che evidentemente ne favoriva la sintesi: dice sempre molto, in poche parole, nessuna sbagliata. Ma le testimonianze sono limitate. E concentrate su uno o due leitmotiv. Mentre il personaggio è di molti aspetti. Nulla sui genitori, specie la madre istriana. Sui loro molteplici trasferimenti. Sulla sorella maggiore, specialista di italianistica, morta a trent’anni o poco più. Sullo sradicamento, improvviso, violento, a quattordici anni, da Chieti al Canada.
Poco anche, di fatto, sulla sua esperienza di manager. Specie al confronto, che sarebbe risultato molto lusinghiero, con la Mercedes. Chrysler, che Marchionne ha riportato sul mercato in pochi mesi, era stata gestita per dieci anni dalla Mercedes - prima di Fca, Fiat Chrysler Automobiles, c’era il gruppo Daimler-Chrysler. Di cui aveva minacciato l’integrità finanziaria, tanto i manager Mercedes non erano riusciti a farla lavorare – da qui l’abbandono. Ed erano manager di gran conto: Jürgen Schrempp, artefice della fusione, in quegli anni, tra Novecento e Duemila, era “l’onore della nazione”, il manager più miracoloso di tutti i tempi della storia tedesca. E Dieter Zetsche, che gli succederà a capo della Daimler dopo il disastro Chrysler.
Francesco Micciché, Sergio Marchionne. Il coraggio di contare, Rai 3

venerdì 17 dicembre 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (477)

Giuseppe Leuzzi

“La quasi totalità dei corsi di genere si concentra nel Nord Italia (il 74 per cento del totale), mentre solo sporadicamente essi sono attivati nelle università del Centro (10 per cento) e del Sud Italia (14 per cento)”, Andrea Martini, “Femministe e non soltanto studentesse” (in “L’università delle donne”).
 
“Lo scontro con la realtà avvenne a Milano”, spiega a Candida Morvillo sul “Corriere della sera” Beatrice Venezi, la giovane (31 anni) e già affermata direttore d’orchestra, a proposito dei suoi studi, provenendo da Lucca dov’è nata. “Ho tentato due volte l’esame di ammissione per il corso di direzione d’orchestra. La prima volta al mio posto venne preso un collega che era allievo di un allievo di un docente del Conservatorio”. Sarà stato un docente meridionale?
“Ma non solo”, continua Venezi: “La possibilità che una donna salisse sul podio era vista come bizzarra”. A Milano. A Napoli Venezi sarebbe stata ammessa con giubilo - anche a Palermo.
 
“Il Nord tra 50 anni si spopola, ma il Sud di più: si desertifica”: è la previsione dell’Istat in base ai flussi demografici e immigratori al 2070, che “La Lettura” propone domenica. La popolazione diminuisce al Nord dell’11,9 per cento, al Centro del 20,2, al Sud di ben il 32,8 per cento, un terzo. Si risolve così, per svuotamento, la questione meridionale?
 
La scoperta del caporalato - al Nord
“Ora il caporalato dilaga anche al Nord”. Non ora, c’è sempre stato, ad Arzignano, a Pescantina, anche in Val di Non, ma poi ovunque in agricoltura e nelle lavorazioni velenose, e nell’edilizia economica, dovunque c’è bisogno di molta manodopera, a pochi euro.
“Ora”, dice “la Repubblica” ci sono i controlli - disposti probabilmente per una faida politica, tra la ministra dell’Interno Lamorgese e il suo predecessore Salvini, dato che l’esito dei controlli viene ridotto ai presunti abusi della moglie di un prefetto nominato da quest’ultimo al dipartimento per l’Immigrazione.
Al netto delle perfidie ministeriali, il fatto è questo, ora e anche prima: le 2.139 ispezioni del biennio 2020-2021, poche, pochssime, hanno rilevato irregolarità nel 68 per cento dei casi al Sud, Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, e del 78 per cento al Centro-Nord, Abruzzo, Lazio, Umbria, Toscana, Marche, Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte. Non è questa la sola differenza: la differenza maggiore è che le ispezioni, secondo gli stessi conti di Marco Patucchi, che per il quotidiano ha fatto l’inchiesta, sono state 1.512 al Sud, un terzo della popolazione, e solo 986 al Centro-Nord, negli altri due terzi. 
 
Ed ecco la turista, trentasei anni per femore
In vacanza a Diamante nel luglio del 1971, Giani Rodari così ne scriveva a Daniele Ponchiroli, suo amico e referente alla casa editrice Einaudi: “Mi trovo, come tu sai, nelle Calabria, in incognito. Uso qui il mio nome di riserva, quello di Conte di Santu Lussurgiu. Ti risparmio le deformazioni tirrenico-cosentine di questo illustre casato. In paese sono chiamato U Santu, O’ surdo, O’ Surcio, O’ Connell – chi sa per quale miracolo metafonetico – Beniamino”, recependo gli slittamenti tra i suoni chiusi del dialetto cosentino. “Il brigadiere dei carabinieri”, continua Rodari, “quando allude a me (con la nota discrezione della Benemerita), si serve dell’epiteto: O’ Dottore L’Ussurioso (sic! Compreso l’apostrofo, che nella sua pronuncia di Calascibetta è calariconoscibilissimo)”. L’inventore di tante filastrocche e storie buffe per bambini ha mediato subito l’obbligo locale, sociale, dello scherzo bonario, la “zannella”.
“Ti lascio immaginare quanto ciò sia per giovare al turismo”, continua Rodari nella lettera a Ponchiroli, dopo essersi descritto come la rara avis turistica: “Tedeschi in vista nessuno. Tedesche, una sola. Trentasei anni per femore. Per giunta, degustatrice di tramonti”. Lo scrittore le recita due quartine alla Heine, sui tramonti, la turista cade stecchita, la Guardia di Finanza per evitare lo scandalo “la fa passare per una stecca di sigarette di contrabbando dimenticata dai pescatori di Belvedere Marittimo. È stata rivenduta con discreto utile per l’erario”. Il miraggio del turista era anche un altro topos molto calabrese, la Regione avendo investito a vuoto in tre quattro grandi campagne per la promozione dei suoi tesori naturali - i pochi che non ha deturpato con l’abusivismo di necessità.
Rodari è contento della vacanza: “Qui sono buoni i gelati, i gamberi, i calamari, i cedri, i fusilli, le ricotte”. Ma “i materassi no: usano certi materassi a molle che ti svegliano ogni quarto d’ora con colpi al bersaglio grosso, è come dormire sui fichidindia”. E “alle 23 il Comune toglie l’acqua. La ridà alle 4 del mattino: allora essa si precipita nella cassetta del water con dieci o dodici atmosfere di troppo. In un attimo siamo tutti in aperta campagna, avviluppati in coperte di pura lana vergine: l’imitazione del terremoto è spaventosamente perfetta”. Tutto vero, sembra una cronaca di oggi. Eccetto che l’acqua non viene tolta alle 23 ma alle 19, anche alle 18. 

Calabria
Scrivendo a Giulio Bollati il 22 novembre 1962, allora direttore di Einaudi, Gianni Rodari menziona “una bella cosa che mi sta tanto a cuore. Si tratta, no so se ti ricordi, dei giochi di due bambini in Sila; intorno a quei giochi si stanno agitando tanti fantasmi emozionanti, e c’è perfino un titolo, «Il cane di Magonza» (che è figliolo illegittimo e per errore di Gano di Maganza)”. Il libro nascerà postumo, e non non sarà una narrazione specifica, ma una raccolta, sotto questo titolo, di prose di varia natura, racconti, favole, saggi, brevi, dispersi tra varie fonti. La Calabria non c’entra, ma ha dato al piemontesissimo Rodari un’ispirazione, pur in un soggiorno breve e occasionale.  
 
A metà di un sentiero Ionio-Tirreno tra il Golfo di Squillace e quello di Lamezia, un cammino di 55 km., “Kalabria Coast to Coast” (??), il secondo giorno, alla seconda tappa, Antonio Polito attraversa col suo gruppo una dozzina di chilometri della faggeta di Monte Coppari, “un’esperienza unica, che consiglio a chi volesse immergersi in un’atmosfera magica da Excalibur”. Se non che “sul tronco di moltidi questi meravigliosi faggi” trova impresso “un marchio con un numero”: è un progressivo, fino a 250, dei faggi che saranno abbattuti per fare posto a un “parco eolico”. Cioè a pale giganti, che fanno molto rumore e poca elettricità – una rendita per avventurati investitori che paghiamo in bolletta come “oneri di sistema”. Una distruzione doppia.
 
Usava la ferrovia Paola-Cosenza (quando per Cosenza non era stata disposta la più grande diversione autostradale, sulla Salerno-Reggio Calabria, l’unica autostrada non rettilinea), di cui Malvaldi, “Bolle di sapone”, fa un piccolo capolavoro: “Era a cremagliera. Come quella di Saline di Volterra. Ma una delle linee più torte del creato. La fecero prima della Grande Guerra. Era una ferrovia complementare, cioè la fecero coll’avanzi, e in più i terreni erano tutti franosi. Ci voleva un’ora e mezza per fa’ trenta chilometri scarsi”. Poi si dice la questione meridionale.
 
A Sinopoli si è presentata per il Comune, dopo l’ennesimo scioglimento del consiglio per mafia, una sola lista. Con un solo motivo di campagna elettorale: che non andasse a votare il 40 per cento prescritto in questi casi degli iscritti alle liste elettorali, pena la cassazione del voto. Rischio non connesso all’unica candidata, l’avvocato Francesca Sergi, ma al fatto che degli iscritti il quaranta per cento sono residenti all’estero – quelli iscritti all’Aire (Anagrafe Italiana Residenti all’Estero), con chissà quanti non iscritti.
 
Di fatto, nella Sinopoli di oggi si parla di non molti aventi diritto al voto, 1.468 residenti, con un quorum dunque a 588 votanti. Che la candidata unica ha superato, ma non abbondantemente. Sinopoli, già sede di Pretura, con avvocati e villette di avvocati, con la palma, ora borgo degradato, è da oltre mezzo secolo dominata dal clan degli Alvaro. Che governano, con la violenza e con la furbizia, su mezzo versante tirrenico dell’Aspromonte, fino a lambire i territori limitrofi di Seminara, Cosoleto, Delianuova, Santa Cristina, Oppido Mamertina. Indisturbati evidentemente.
 
Francesco Misiano, di Ardore, vulcanico socialista rivoluzionario di tutte le battaglie nel primo Novecento,  rifugiato infine in Unione Sovietica, è celebrato dal paese di origine con un premio alla carriera cinematografica, per l’attività di produttore e distributore cinematografico (160 lungometraggi e 240 documentari prodotti, istitutore in Germania di Eijzenštein) che svolse a Mosca - dove peraltro “cadde in disgrazia” nelle “purghe” del 1936, anche se morì prima  del processo, di malattia. Il cinema unisce, la politica è un passato che non passa? 
 
La “figura del calabrese” è tracagnotto, riccioluto, robusti, mentre la regione ha molte squadre nei campionati di basket nazionali, di seria A e B, e di pallavolo, maschili e femminili.
 
L’attuale provincia di Reggio, più o meno, con appendici tra Vibo e Catanzaro, la vecchia Calabria Ulteriore, sotto l’istmo Lamezia-Catanzaro, è stata di rito e lingua greci fino al Cinquecento. I riti erano già latini per lo più, dal tempo dei Normanni, XIImo secolo, ma recitati in greco, che era la lingua popolare. Questa parte della Calabria pullula di nomi legati al pope - “papa”: Papaleo, Papalia, Papasergio, Papasidero, Papafava…   
Molte parole di uso comune lo ricordano, e soprattutto certe terminazioni, che però ora si rifiutano. Si diceva Africoti per gli abitanti di Africo, che ora invece si chiamano africhesi, con un dubbio, e insignificante, francesismo. Lo stesso per i Santolucoti, che ora si fanno chiamare sanluchesi. Per i Natiloti etc.   
Perfino le “bagnarote” ora si leggono più spesso bagnaresi. Anche se la parola denominava un mestiere (la commerciante ambulante, col cesto – la mercanzia – in testa) piuttosto che la provenienza. Che era peraltro più spesso Solano o Pellegrina, più che Bagnara.
 
C’è una grande differenza tra le province, quanto a reddito, iniziativa, operosità (applicazione), e gestione della cosa pubblica. Reggio Calabria è rimasta indietro sotto tutti i profili rispetto a Cosenza, Catanzaro, le stesse Vibo e Crotone, le nuove province. Nell’edizione 2020 di Eduscopio, il rapporto annuale della Fondazione Agnelli sulla qualità delle scuole superiori (una ricerca basata sull’indice Fga, che misura il rendimento dei licenziati negli studi universitari o nel lavoro), dei quindici istituti superiori censiti in Calabria, per cinque categorie (Classico, Scientifico, Linguistico, Tecnico-Economico e Tecnico-Tecnologico), solo uno è di Reggio, il classico Campanella, terzo nella sua categoria.

leuzzi@antiit.eu

Quanto Dante si divertiva, con le parole

Una compilazione spassosa ma anche sapiente. Lotti, lessicologo per diletto, sa creare collegamenti, individuare richiami, riprese, prestiti e quant’altro, per una lettura godibile.
Dante è l’inventore dell’italiano anche nei suoi termini, a detta dello stesso poeta, “puerili”, “silvestri”, “lubrichi”, “aspri”. Il poema chiamava del resto Comoedia, con rimando alla radice di comico, per dire di un poema “volgare”, cioè semplice. Comprensibile ai più. A mo’ di introduzione, Lotti può elencare un centinaio di espressioni non tanto ovvie che però sono parte integrante, usata correntemente, dell’italiano. Inventivo molto: il “fantino”, da “fante”, bambino, ragazzo, e il “fantolino”. Il conio. La cloaca. La chiappa. Il cesso. L’epa. I dindi. Fesso. Gabbo. Ghiottone. Gozzo. Grattare. Groppone. Ingozzare. Ingrassare. Intronare. Ladro, ladrone e ladroneccio. Lercio, lordo, lordura. Merda (giù usato da Iacopone da Todi), merdoso. Muso. Natiche, nervo, pancia, poppe. Porco e porcile…
Molte invenzioni di Dante non sono entrate nell’uso. “Accaffare”. “Acceffare”, “Accoccare”. “Mazzerare”, dall’arabo. Specie le derivate dal provenzale: “Acismare”, dal provenzale “acesmar”…. – ma “bordello, da bordel, “sozzo” da sotz.
Un prontuario divertente, anche per chi di Dante non ne può più: ne viene fuori un poeta lieve, che si diverte con le parole.
Gianfranco Lotti, Come insultava Dante, il melangolo, pp. 217 € 12

giovedì 16 dicembre 2021

Secondi pensieri - 466

zeulig

Complotto - Il complotto è oggi realtà per apporti plurimi. Per essere il ricamo della storia, la traccia dell’antichista e del filosofo, la partita a scacchi che ricostruisce e disegna la trama. L’ipotesi è la cosa più sicura, tutto il resto è cao-s-uale. È la causa di Heisenberg - o ne è l’effetto. Il principio d’indeterminazione, Wittgenstein vi s’imbatté senza riconoscerlo: criticare è perturbare, analizzare è trasformare, riflettere trasforma il problema. È come in artiglieria, molto influisce l’osservatore. E il percorso: i venti, le ondulazioni del terreno, gli effetti ottici. Per l’impossibilità accertata di subordinare la verità di un enunciato al suo assetto formale. Ci sono tante verità quanti sono i percorsi per arrivarci. Lo sa per primo lo scrittore, la cui opera varia per le stesse condizioni materiali dello scrivere, oltre che per lo stato di salute e l’umore. Freud, dice Auden, “in nome suo viviamo ormai vite diverse” – anche se, Woody Allen l’ha scoperto, a tenerlo su è l’industria dei divani. Un percorso è l’irriducibilità del caso o del disordine. E poi? Niente, non si esce dall‘unitas multiplex, il complotto eccolo qua. E si creano martiri, non per la causa, per il nemico. È straordinario.
Il complotto è francese, e senza radici. Affiora nel Duecento per “assembramento”. Entra nel vocabolario politico, e nell’italiano, nell’Ottocento: “La voce s’è diffusa durante la Rivoluzione”, dice il Battaglia. Anche prima veramente, con Rousseau. Ma da destra, l’Enciclopedia Sovietica non ne parla. E di una certa destra: non c’è nella Treccani di Gentile, che salta dalla Compiuta Donzella dei Siciliani a Compluvio. È invece l’idea del mussulmano Guénon, secondo il quale l’irruzione della modernità nel Cinquecento, con la scoperta dell’America o con la Riforma, in aspetto di razionalità, è dovuta a un colpo di mano architettato in segreto. Non dice da chi. Ma pochi mezzani restano. Se Dio s’è ritirato dal mondo (Hegel), con la Tradizione (Evola) e la Filosofia (Heidegger), non si capi-sce cos’è avvenuto in questi due secoli, né dove la Storia si nasconda.
Ma in ogni complotto c’è un che d’infantile. È stato detto e sarà vero: il complotto piace. Per la sua natura di giallo, che spiega ogni cosa senza dover essere vero. Una scuola vuole del resto il giallo, e dunque il complotto, in ogni forma logica, per il vincolo di causa ed effetto. La colpa di Heisenberg sarebbe di volercene privare, così presto - è appena un secolo, uno e mezzo con Poe, che l’umanità si gode il giallo e la logica. Ma questo è il limite dell’epagoge, inductio, che necessita di una quantità di cose per porre il principio logico, universale. Quante devono essere le cose – quando il granello si fa sorite? Per un esito che si può sempre rovesciare. Si può pensare un giallo fatto di deduzioni e controdeduzioni, che si alternano per duecento pagine, quanto il romanzo si vuole lungo. O di un monte di fatti cui un altro monte di fatti si contrappone. Ma questo è altro genere letterario, il volgare “visto dall’uno visto dall’altro”. Né vale l‘inverso, l’apagoge, che non è, pur forbita, onesta ed è molesta. Ne è maestro Socrate, di cui Atene si liberò con sollievo. L’apagoge è l’abduzione, tecnica avvocatesca: si assume la tesi dell’interlocutore per vera, per poi, unendola ad altre proposizioni note per vere, dimostrarla palesemente falsa, in contrasto con la natura delle cose (argomento ad rem) o con altre affermazioni dell’interlocutore (argomento ad hominem). Si dice che Sherlock Holmes ne è maestro, e invece evidentemente la evita.

Grecia – Una civiltà di pontieri, per Simone Weil in guerra, nel 1942, nutrita dall’utopia occitana (“L’ispirazione occitana”), tra il “messaggio dell’Egitto”  e “la sua rivelazione propria: la rivelazione della miseria umana, della  trascendenza di Dio, della distanza infinita tra Dio e l’uomo. Ossessionata da questa distanza, la Grecia non ha lavorato che a costruire dei ponti. Tutta la sua civiltà ne è composta. La sua religione dei Misteri, la sua filosofia, la sua arte meravigliosa, la scienza che è la sua invenzione propria e tutte le branche della scienza, tutto queste cose furono dei ponti tra Dio e l’uomo”.
“Per l’Egitto” il percorso a Dio “fu la carità del prossimo, espressa con una purezza che non è mai stata sorpassata: fu soprattutto la felicità immortale delle anime salvate dopo una vita giusta, e la salvezza per l’assimilazione a un Dio che aveva vissuto, aveva sofferto, era morto di morte violenta, era divenuto nell’altro mondo il giudice e il salvatore delle anime”.

Sogno – Una ruminzione di immagini. L’unico connettore delle immagini oniriche è di un’attività cerebrale automatica alla rinfusa, non governata dalla ragione allo stato cosciente, del complesso degli stimoli cerebrali creati dall’istruzione, dall’imprinting, dai meme, dall’esperienza (dal vissuto).  Connessioni casuali, disordinate, intermittenti (incompiute, non significanti, non concettualmente, lacerti di “discorso”, con le collegate sensazioni di piacere, fastidio, ansia, paura. Collegate non a un disegno\discorso compiuto ma a frammenti, disomogenei. E solo quando i frammenti convergono verso una sensazione unica, di sorpresa, piacere, sofferenza, paura possono avere (si può loro dare) un senso nella veglia.
Lo stato di veglia può influire sul sogno se gli stimoli cerebrali convergono, in misura e per tempo prolungati, su un oggetto-tema-sensazione. Sia il sogno di stamani, piccolo incubo, breve e acuto, dell’automobile che non ritrovo dove l’ho parcheggiata, della ricerca affannosa, in un ambiente urbano notturno, illuminato fiocamente, dove la gente affluisce per divertirsi, finché non la trovo, con le ganasce, messa di traverso sopra un marciapiedi, di un viale solitario e buio. Si può dare al sogno valore-i simbolico-i, ma il breve incubo viene dopo giorni di astio contro i vigili urbani, per una multa sbagliata e comunque eccessiva, di soldi e punti, per un’interpretazione volutamente (tra ghigni e lazzi, di vigili donne peraltro) sbirresca del codice che alimenta indignazione e rabbia, e voglia di rivalsa, che però si sa impossibile perché “il Prefetto dà ragione ai vigili” (avvocato). Per che altro si sognerebbe, di primo mattino, prima del risveglio, la macchiana bloccata dalle ganasce, di notte, in sosta in un viale deserto?

Sublime La nozione di un errore. Non falsa, non necessariamente, ma curiosa. Un errore di attribuzione fertile, a Cassio Longino, il retore del III  secolo d.C., consigliere e insegnante di greco della regina Zenobia di Palmira, maestro di Porfirio e interlocutore di Plotino (ma non convertito al platonismo), condanno in fin di vita dall’imperatore Aureliano, quello che introdusse a Roma il culto del Sol invictus, cioè di Mitra, per  suggerimenti d’indipendenza da lui avanzati alla regina Zenobia. Diventato famoso per l’attribuzione del trattato “Del sublime”, presto però riconosciuto non suo. e tuttora di anonimo. Che peraltro non era il sublime in arte, ma di qualcosa – hypsos è vetta, cima - che sfidasse il cielo.  La versione secentesca di Nicolas Boileau lo renderà tema obbligato dei Lumi. e di Burke, Kant, Hegel, e una pletora successiva - fino a Lyotard: “rappresentare l’irrappresentabile”.

zeulig@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo – carcerarie (159)

Non si fa il processo agli attentatori dell’11 settembre. Cioè si fa, ma con estrema lentezza, una o due sedute per anno.
Gli accusati, detenuti nel carcere militare di Guantànamo, nela base della Marina Usa a Cuba, sono cinque: Khaled Sheikh Mohamed, Ammar el Beluchi, Waalikd bin Attash, Ramzi bin Al-Shibh, Mustafà El Hawsawi.
I cinque sono in carcere dal 2002. Tutti si sono formati negli Stati UJniti, alcuni anche alla simulazione del volo.
L’accusato più importante, il primo, detto KSM, un saudita di buona famiglia, come il. Capo di Al Qaeda, Bin Laden, catturato nel 2002 in Pakistan, era sotto osservazione da tempo, e secondo fonti interne all’Fbi avrebbe potuto e dovuto essere arrestato molti ani prima. Era indagato per le bombe al World Trade Center nel 1993, e per un primo piano di attacco ad aerei civili americani in volo nel Pacifico, nel 1995. Nello stesso anno poteva essere arrestato in Qatar, ma l’Fbi fu dissuaso dalla diplomazia americana, per non creare problemi con l’emirato.
Conduce il processo in questa fase un magistrato militare, il colonnello Matthew McCall, l’ottavo impegnato a istruirlo. A settembre si è tenuta un’udienza, durata due giorni. Dopo due anni di pausa, per causa del covid.
C’è opposizione negli Stati Uniti a questo processo. Studi legali legati all’esercito contestano la giurisdizione speciale creata per il caso – col pretesto della extraterritorialità della base di Guantànamo. Il processo dovrebbe essere tenuto davanti a un tribunale Federale. Oppure sulla base della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, che consente una corte marziale - ma vieta processi di diritto penale nazionale.
Gli avvocati della difesa puntano a invalidare il processo a causa delle torture subite dagli accusati nei primi anni della carcerazione. 

Eduardo tascabile

Carlo Cecchi, che molto ha lavorato con Eduardo, ci riprova, a sdoganare l’opera dall’autore-attore. Le pause, i silenzi, gli sguardi dell’attore Eduardo sono inimitabili, ma i suoi testi mantengono una loro pregnanza.
La farsa del mago illusionista Zik Zik, un pasticcione. Cecchi l’ha già sperimentata, e la ripropone all’Argentina nella forma ormai sua classica, dal 2007, con Angelica Ippolito, con le scene e i costumi di Titina Maselli. Un testo giocato sulla parlata, napoletana, più che sullo svolgimento, che è un pretesto.
“Dolore sotto chiave” è uno scherzo macabro, in due tempi. In scena la scoperta casuale, progressiva, della morte della moglie da parte del marito, al quale la sorella impietosita l’ha tenuta nascosta. Seguita dalle condoglianze di vicini e conoscenti, ognuno con una sua rivalsa. La morte è scomoda.
La farsa, come la comica grottesca sulla morte, Cecchi propone minimal, nella gestualità, la dizione, l’ambientazione. Di “dolore sotto chiave” ha anche ridotto il testo. Entro scene minuscole. Che nell’arena del Grande Teatro, palcoscenico e platea, però si minimizza, e quasi si cancella.
Eduardo De Filippo, Dolore sotto chiave – Sik-Sik l’artefice magico, Teatro Argentina

mercoledì 15 dicembre 2021

Cronache dell’altro mondo – impero delle conoscenze (158)

L’America si qualifica capitale delle conoscenze. Per numero di premi Nobel. Per numero di studenti stranieri. Per investimenti nella ricerca, in assoluto e in proporzione al pil, al prodotto interno lordo.
I premi Nobel americani sono 400. Al secondo posto a lunga distanza la Gran Bretagna, che ne annovera 138 – seguono la Germania, con 111, e la Francia con 71.
In contrazione in questi ultimi due anni, ma gli studenti stranieri in America, tra licei, università, master e dottorati, è di un milione abbondante. Con un apporto finanziario stimato annualmente sui trenta miliardi di dollari.
Diecimila studenti provengono dall’Iran, paese che fa dell’antiamericanismo la sua politica.
Il maggior numero di studenti stranieri in America è cinese, 320 mila – 350 mila con Taiwan. Seguono gli indiani, 170 mila. Dal mondo arabo, Medio Oriente e Nord Africa, provengono 100 mila studenti - malgrado il blocco dei visti introdotto da Trump contro sette paesi islamici abbia colpito Libia e Siria, che mandavano in America molte migliaia di studenti.
Alcuni dei terroristi del’11 Settembre erano stati formati in America. Anche all’addestramento al volo.
Gli Stati Uniti investono in Ricerca e Sviluppo poco meno di 1.900 dollari pro capite – seguono la Germania, con1.600, e il Giappone con 1.400.
La Cina spende 350 dollari. Una cifra pro capite bassa, che moltiplicata per la popolazione fa un grande totale, ma sempre inferiore a quello americano. Su un ammontare mondiale di investimenti in ricerca che l’Unesco calcola in 1,7 trilioni di dollari, poco meno di un quarto è americano, 476 miliardi, con 4.200 ricercatori per milione di abitanti – la Cina viene seconda con una spesa totale di 346 miliardi, con 1.100 ricercatori per milione di abitanti.
Da sermpre capitale dell’0intrattenimento, gli Stati Uniti modellano la fantasia mondiale, attraverso il cinema, la musica pop, e ora i serial-pay-tv. Creatori delle credenze mondiali, del modo di essere.

Ombre - 592

Il pil in Germania si riprende di poco più dell’1 per cento nell’anno, e si contrae nel quarto trimestre. Mentre in Italia marcia a un più 6 per cento. Com’è possibile – la produzione italiana è sincrona con quella tedesca? Il pil aumenta in Italia grazia alla domanda interna, ai sussidi pubblici anti-Covid.

La quota dei risparmiatori, sui correntisti bancari, è scesa di un dieci per cento abbondante nel 2021, dal 55,1 al 48, 8 per cento. Mentre è cresciuto il risparmio “involontario”, cioè la liquidità in conto corrente non utilizzata, e in parte non utilizzabile (beni durevoli, viaggi, vacanze), stanti le tante restrizioni: nei ventidue mesi fino a ottobre 2021 la liquidità sui conti correnti è aumentata di 256 miliardi, di cui 130, 5 delle famiglie, e 126 delle imprese. I trasferimenti pubblici anti-covid hanno favorito alcuni e non altri.

Perché lo spread Btp-Bund tedesco a dieci anni era a 98 punti il 5 febbraio e a 129 ieri? Non si sa. Cioè si sa, ma non si dice.

Bruxelles, cioè l’Europa centrale, Francia compresa, critica i muri alle frontiere per farsi democratica e bella, ma vuole gli immigrati rispediti ai paesi d’entrata. Cioè ai paesi dei muri, Ungheria e Polonia, oltre che in n Grecia. Spagna e Italia. Mah!

E magari riusciranno a imporre questa sconcezza.

Da ultimo Gianluca Vacchi, perseguitato dalla Procura e dal Tribunale di Parma per diciotto anni per bancarotta fraudolenta, con una provvisionale di 120 milioni, contro una “presunta distrazione” di 29 milioni, ma in realtà senza aver mai sottratto un centesimo ai creditori di Parmalat, nel cui fallimento i giudici di Parma l’hanno coinvolto, infine assolto con formula piena. Si susseguono i delitti di Procure e Tribunali, non per errore, ma per incuria e strafottenza. Alcuni anche mortali, ma senza nessun esito. I responsabili nelle more hanno fatto carriera, come volevano con le false accuse, e la cosa finisce lì.

Curioso, ma non sbagliato, il no dei romani a intitolare l’Olimpico a Paolo Rossi, romanisti e laziali per una volta uniti nel coro: “Paolo non ha mai giocato a Roma, e semmai è simbolo della Juventus”. Che però, pur essendo quotata in Borsa, non ci pensa a capitalizzare sul nome, un asset pesante a nessun costo.

Nessuno è profeta in casa Juventus: Del Piero? Boniperti? John Charles?  Sarà la “vecchia” Torino? Si spiega l’unità d’Italia? Senza cuore.

Conchita De Gregorio incontra la fotografa romana di famiglia tunisina Takoua Ben Mohammed, che si fa fotografare a trent’anni col velo, e dice ridendo di averlo voluto contro la sua famiglia: “A dodici anni. Tutti mi dicevano di no, ma io volevo provare”. I genitori erano anzi contrari, ma lei non li ha ascoltati – “vengo da una famiglia libera, da una cultura libera. Mia nonna ha divorziato negli anni Quaranta…”. La libertà? Bisogna imparare a conoscere le donne arabe, ancorché non musulmane.

L’ad Orcel promette mari e monti, e Unicredit in Borsa vola del’11 per cento. In pochi minuti. Basta la parola.

È così che Unicredit oscilla tra 6 e 14 euro. Poco serio. Per una banca poi.

In attesa della fantasmagoria promessa di Orcel, intanto, agli investitori in Unicredit non un centesimo di ringraziamento. Le altre banche sì – non è vero che la Bce blocca i dividendi - Unicredit no.

Al Campidoglio non piace il maxigruppo dei bus di trasporto urbano, tra le aziende municipali di Roma, Milano e Napoli: “Non svendiamo i gioielli di famiglia”. Che a Roma sono l’Atac, un’azienda fallita (salvata dal Comune con giganteschi esborsi), e con un parco mezzi vetusto, “rinnovato” con acquisti di seconda e terza mano, che ogni giorno prendono fuoco. Destra o sinistra al Campidoglio, è sempre (piccolo) potere.

Allegro e disinvolto, il professore Ugo Mattei, professore di diritto, Presidente dell’Associazione Stefano Rodotà, del quale è stato collaboratore, animatore di una Commissione Dubbio e Precauzione (DuPre), e che si illustra “capo” dei No vax, dice su “la Repubblica” il governo illegale perché “noi Draghi non lo abbiamo votato”. “Neanche Conte”, ribatte Concetto Vecchio, l’intervistatore. Ma, il governo non lo vota il Parlamento? A volte i giornali, e i giuristi, sembrano assurdi.

Dunque, c’è un indice lgbtq dei nomi proibiti, l’app Shinigami Eyes.  Aprendo il quale, l’algoritmo che la anima mette in lista, colorandoli di rosso, i nomi delle persone che individua come omofobe. Tra esse per esempio l’illustre femminista Marina Terragni. Alla pari con Salvini. Bisogna sapere che Torquemada non era un perverso o un malvagio, era uno puro.

È domenica per Eduardo in tv

Un cast d’eccezione per Eduardo (De Filippo) in tv, Fabrizia Sacchi sopra a tutti, con Sergio Castellitto, ma tutti nel ruolo, Tony Laudadio, Margherita Laterza e i tanti altri comprimari. Scene e costumi sui toni lievi, ridenti, a fondo giallo e azzurro – ottima idea del regista De Angelis – a far risaltare meglio l’assurda cupezza, perfino violenta, della domenica del Signore, della festa in famiglia. Sullo sfondo di una Napoli chiara, cristallina, vista da Posillipo – da cartolina, questa, ma non guasta. Rai 1 continua a vincere la doppia scommessa, del teatro in prima serata, e di un Eduardo liberato da Eduardo.
Il gradimento del pubblico si conferma. Tre milioni di spettatori per la rete ammiraglia della Rai, e la prima di tutta l’emittenza nazionale, non sembrano molti. E anzi, sono la metà del primo esperimento di teatro in prima serata, sempre con Eduardo, “Natale in casa Cupiello”. Ma quel “Natale” veniva alla vigilia della festa, e il titolo faceva aggio sulla commedia. E i tre milioni di martedì sera il il 16 per cento della audience, la quota più elevata fra tutte le emittenti tv generaliste.
Un’altra delle commedie drammatiche di Eduardo sulle banalità, gli eventi di tutti i giorni, le abitudini di tutti noi, i nostri riflessi condizionati, dove gli eventi e le emozioni si accumulano per distrazione, per vezzo confuso, irriflesso. La domenica, il giorno della festa e del riposo, è il giorno dei malcontenti in famiglia. È che, abituati al lavoro, non sappiamo fare festa, riposarci, spiega Eduardo alla fine.
Eduardo De Filippo, Sabato, domenica e lunedì, Rai 1

martedì 14 dicembre 2021

L’età dei giovani

Flaubert si considerava vecchio a trent’anni: “Invecchiando, il cuore perde le foglie come un albero”. Anzi, già a ventotto: “Mi sembra di essere un monumento”, lamentava con gli amici - è vero che aveva già scritto “L’Educazione sentimentale” (una prima “Educazione”) e “La tentazione di sant’Antonio” – e “Memorie di un pazzo” e “Novembre”. E, come dice il biografo, “morì di vecchiaia a 58 anni”.
Nietzsche afferma che ognuno fa la filosofia caratteristica della sua età, l’età anagrafica. Una filosofia, quindi, della maturità e una di gioventù – e dell’infanzia? Ma l’età può non essere quella anagrafica, del numero degli anni. Il prezioso Cerruti-Rostagno, il vocabolario di scuola, calcolava sei età: infanzia fino ai sette anni, fanciullezza fino ai do-dici, adolescenza fino ai diciotto, giovinezza fino ai trenta, virilità fino ai cinquanta, e oltre, improvvisamente, vecchiaia. La tendenza va a semplificare, con un’età di mezzo e una terza età, il resto come se fosse fuori del tempo.
Una volta si era tassonomici: i venticinque anni erano richiesti per la maggiore età in Italia fino alla prima guerra, eccetto che per fare la guerra: chi si sposava di ventiquattro doveva esibire un paio di tutori. I turkmeni tuttora prolungherebbero l’adolescenza ai venticinque, dopo una infanzia stiracchiata fino ai dodici, e la gioventù ai trentasette. Possono così oziare la metà della vita, e l’altra metà godersela: la maturità è breve, dodici anni, fino ai quarantanove. Dopodiché diventano profetici per dodici anni, fino ai 61, ispirati fino ai 73 e saggi fino agli 85. Passati gli 85 possono morire. Anche i romani antichi avevano sette età, e se la prendevano comoda come i turkmeni, spostando l’età attiva verso i quaranta. È solo logico ribaltare il principio dell’eredità in morte o vecchiaia: dovrebbero essere i giovani a costruire il futuro, hanno il dovere d’imporsi.
Ma c’è tutto nei riti classici, la coprolalia delle ragazze inclusa e lo streaking, nei riti tribali che manifestano i significati nel corpo, in linguaggi epilettici, e li secretano nell’iniziazione: la gioventù è argine alla mediocrità. Napoleone fu generale a venticinque anni, Alessandro morì a trentatré, Robespierre a trentacinque, tardi. E chi non è generale a quell’età non merita di diventarlo, si diceva a Parigi fino al Settecento. Céline concorda: “La civiltà occidentale è anale, la qualità si associa al botto di un peto venuto bene, e chi non rinnega il culo e se ne assume la responsabilità è l’Uomo, l’Eroe, Giulio, Orlando: i nostri Eroi non escono dalla infanzia”. I rivoluzionari del Novecento, secolo sciocco ma ricco, ricchissimo come non mai, e democratico benché deragliato, Mussolini, Stalin, Hitler, hanno confidato nei giovani – Hitler stesso, cancelliere a 44 anni, è un giovane. E Heidegger, che studenti e professori voleva senza gerarchia e lo studente disse motore della rivoluzione, lo studente lavoratore. O il Presidente Mao: “I giovani sono la forza attiva e vitale della società. I giovani imparano meglio e sono meno conservatori”. Il segreto è che i giovani non lavorano. Non sanno che fare, ma il lavoro stanca.
Per questo è fallito il ‘48, la rivoluzione che proclamò il diritto al lavoro.

Letture - 475

letterautore

Andersen – “Ambiva alla «fiaba contemporanea»”, spiega Rodari a Giulio Bollati quando Einaudi gli chiede di presentare la nuova traduzione dello scrittore danese. Proponendosi di “de-deamicisizzarlo”, dal buonismo che lo avvolge. Anzi, di “mettere in luce le sue non poche code di paglia: l’eccesso di cadaveri veri (quelli della fiaba popolare sono cadaveri per ridere, non puzzano); la sua ricerca di compensazioni (molte sue novelle sono vere e proprie vendette con la vita); il suo cristianesimo in carrozza reale”. E poi: “Andersen è un caso unico, non fa parte di nessuna famiglia”.
 
Selfie – È come se niente esistesse al di fuori di noi. O per dare consistenza a noi, che altrimenti non siamo. Ma è anche genere coltivato da spiriti forti, sant’Agostino per primo, Rousseau.
 
“Sarebbe molto piacevole per me dire quello che penso, e dare sollievo al signor Gustave Flaubert con delle frasi. Ma che importanza ha il suddetto signore?”, si chiedeva Flaubert – “L’uomo non è niente, l’opera d’arte è tutto”. Però, anche qui: senza l’artista?
 
Esprit de l’escalier – Montefiori gli trova questa definizione sul “Corriere della sera”, riferendo di Houellebecq alla Sorbona: “Felice espressione francese che evoca quella tendenza a farsi venire in mente le rispose a tono quando si è sulle scale, usciti di casa, e ormai è troppo tardi”. In un certo senso sì: è la battuta di spirito in ritardo.

Impegno L’engagement francese (su cui Moravia litigò con Sartre a Roma) “era tutto, ma solo se era la corrente giusta del partito giusto” - ricorda Julian Barnes nel memoir “Gustave, l’educatore sentimentale”, pubblicato sul “Robinson”. Lo ricorda a proposito di Mauriac, da lui amato come scrittore che però per i suoi amici francesi “era un gollista”, e quindi niente.
 
Italia – Shakespeare italiano – la metà o poco meno dell’opera - è tutto spirito lieve, comunque amabile, comunque spiegabile, per esempio l’“Otello”. Mentre i soggetti isolani fa “elisabettiani”, tutti fuoco e fiamme, e assassinii. Anche nei drammi storici, il “Giulio Cesare” è un dramma politico, i corrispondenti inglesi sono di turpitudini.
 
Snoop Dogg, che non è un personaggio, “il cane di Snoopy”, ma un nome, di un rsper e attore americano che s’illustra collezionando monete virtuali e NFT, ha adottato per questa sua attività lo pseudonimo, per dire che si sta arricchendo molto, di Cozomo Medici”, con lo -zo.
L’italiano è un suono più che una lingua – vedi io tanti nomi di automobili storpiature di parole italiane. Ma allora anche il cinese.
 
Novecento – Flaubert lo profetizzava “utilitaristico, militaristico, americano e cattolico, molto cattolico”.
 
Pasolini – Claudio Magris lo mette con D’Annunzio. Senza più. Lo ricorda nel 16 giugno del 1968, per l’ode “Il PCI ai giovani!”, contro gli studenti a Valle Giulia a Roma, che marciano in “abito all’inglese e battuta francese” e fanno a botte con i poliziotti, “figli di poveri”, proponendone la celebrazione in quella data, per i cento anni della nascita nel 2022, il 16 giugno: “In anni e forme diverse Pasolini e D’Annunzio hanno vissuto, denunciato e fatto propria – nel corpo, nel loro sudore, nelle loro pulsioni, spesso narcisiste e degradate - la radicale trasformazione dell’uomo avvenuta nella loro epoca e che sta avvenendo e avverrà con sempre maggiore violenza”. In peggio naturalmente? Da D’Annunzio a Pasolini, una deriva di un secolo (e oggi, direbbe Agamben, non è finita….).
Pasolini e D’Annunzio, “in forme diverse”, lo stesso impeto, anche se non lo stesso destino? Ma Pasolini come D’Annunzio catastrofista? D’Annunzio obietterebbe – ma anche Pasolini, solido infaticabile Prometeo, costruttore, creatore, lavoratore. Anche di notte, quando scendeva all’inferno. 
 
Scrivere – È come scopare, Flaubert si diceva col suo amico poeta Louis Bouilhet, suo principale consigliere letterario - “il mio testicolo sinistro”. Bouilhet si complimentava così per la stesura dell’“Educazione sentimentale”: “Sono felice di vedere che stai facendo progressi con il libro, soprattutto che stai scopando come un gendarme”. Qualche anno prima Flaubert scriveva della “Bovary”, che procedeva lentamente: “Le erezioni della mente sono come quelle del corpo: non vengono quando tu vuoi”.
 
“La prosa è come i capelli, diventa lucente quando la pettini”, ha lasciato scritto famosamente Flaubert. Julian Barnes, flaubertiano come non altri, racconta che ha usato a lungo negli incontri con i suoi lettori citare questa frase. Finché “una donna nel pubblico” non gli fece notare che “quello che fa diventare lucenti i capelli non è pettinarli ma spazzolarli”.
 
Stupidità – Ma è il tema di Flaubert, della sua narrativa – e un po’ l’ossessione della sua vita. Non solo di “Bouvard e 
Pécuchet” ma già dell’“Educazione sentimentale”, in termini già grossolani, sprezzanti, E anche in “Bovary”: non solo in Homais, anche in Emma - Emma Bovary è meno stupida di Monsieur Homais, lui della scienza positivista, lei dell’amore?

Flaubert si abbandonava solo all’esotismo. Al viaggio in Oriente - in scritti e nelle lettere. In “Salammbô”, nella “Tentazione di sant’Antonio”. Ma anche in questo “Oriente” molto è in forma sardonica.

Progettò per trent’anni il sottisier “Bouvard e Pécuchet”. Quello che, postumo, si è intitolato “Dizionario dei luoghi comuni” avrebbe dovuto completare l’opera del duo, con le “Copie”, articolate in un “Dizionario delle idee correnti” e un “Catalogo delle idee chic”.
 
Si capisce così perché Sartre, dopo tremila e più pagine, non sia venuto a capo di Flaubert: ha fatto un’esposizione “stupida” sula stupidità – senza cioè saperlo, malgrado il titolo, “L’Idiota della famiglia”.  Sartre che era (si ritrovava) solo intelligente, e per d arsi spessore si ubriacava, praticava la poligamia, si contraddiceva – e si esibiva al caffè.

letterautore@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo – automobilistiche (157)

Si vendono più Suv e Pick-up negli Stati Uniti quest’anno che auto berline da passeggeri.
Malgrado i lockdown e le altre misure restrittive della circolazione, gli incidenti d’auto sono amentati nel primo semestre del 2021 del 18 per cento sull’analogo periodo del 2020. Nel 2020 gli incidenti erano già aumentati, del 7 per cento, malgrado il semi-blocco della circolazione per buona parte dell’anno - con 38.360 morti. Nel primo semestre 2021 i morti sono stati per incidenti d’auto sono stati 20.160, in aumento del 18,4 per cento sul primo semestre 2020.
La rete di trasporti pubblici interstatale è in crisi per difetto di passeggeri. La più vecchia di esse, la gloriosa Greyhound è finita recentemente nelle mani, per evitare il fallimento, di Flixbus, la low cost tedesca del trasporto su strada, per una cifra irrisoria, 172 milioni di dollari.
La rete ferroviaria americana è di prima della guerra, compreso il materiale rotabile, non è stata più rimodernata.

Il miglior privato è il pubblico

Bernabè, che ha presieduto a due delle maggiori privatizzazioni, Eni e Stet Telecom, è più di ogni altro un protagonista in proprio e testimone da vicino, dall’interno, dei “quarant’anni di capitalismo italiano”, come recita il sottotitolo, gli ultimi quarant’anni, quelli delle privatizzazioni. A beneficio del “capitalismo senza capitali” come già l’aveva scoperto Napoleone Colajanni. Ma il post-Thatcher e Ronald Reagan incalzavano, e l’avvento, auspici Mario Draghi al Tesoro e il suo mentore Ciampi in Banca d’Italia e al governo, si materializzò.
I capitali privati sono mancati, non hanno praticamente fatto investimenti, in Telecom come in Autostrade, ora da rinazionalizzare, e nel vastissimo settore agroalimentare della finanziaria Iri-Sme, disperso e perduto. Mentre i gruppi ancora a forte presenza pubblica, col diritto per lo Stato di nomina del management, Eni, Enel, Finmeccanica-Leonardo, perfino Fincantieri, nel settore proibitivo della cantieristica, si sono messi a correre, investendo, innovando, cioè stando sul mercato, in settori ipercompetitivi, in posizioni sempre di avanguardia, contemporaneamente arricchendo lo Stato ogni anno di una decina di miliardi in dividendi. E questa è tutta la storia, il miglior privato è il pubblico.
Bernabè non fa la storia e non ne estrae morali, racconta. Da uomo Fiat prima che Eni, collaboratore dell’Avvocato Agnelli. A Roma all’Eni pupillo di Reviglio, altro piemontese. Poi da ad dello stesso Eni, incaricato della privatizzazione. Difensore del gruppo pubblico contro le non tanto celate incursioni degli avvoltoi, che il gruppo volevano in pezzi. Racconta dell’operazione analoga da lui tentata in Telecom Italia, ma interrotta dal raid di Colaninno, sostenuto dal governo D’Alema. Di Necci che prova a salvare Enimont con Cuccia. Del suo ruolo di consulente per il riassetto degli apparati di sicurezza. Insomma di una vita, nel mezzo del potere.
Sfogliando il lungo memoir, riscritto da Guido Oddo, si ricava netta l’impressione che la storia del capitale italiano è da rifare. Non è una storia di capitani, corsari o utopisti, ma di piccoli e tortuosi armeggi, attorno al bene pubblico da spolpare: di una borghesia nata e alimentata dalla manomorta, dall’appropriazione del bene pubblico – privative, contributi, leggi speciali, concessioni, dazi, esenzioni. Nell’ombra, ma solo perché non si dice - per convenzione?
Franco Bernabè, A conti fatti, Feltrinelli, pp. 368 € 20  

lunedì 13 dicembre 2021

La buona morte

Le strade si aprono dunque alla buona morte, come voleva l’eugenetica, degli inutili e incompetenti, ora anche degli svogliati, e Abbie Hoffman e Jerry Rubin proponevano, di uccidere i padri e cancellare all’anagrafe chi compie trent’anni. Un governo
volevano, nel paradiso di Lucy in the Sky, di Roboam, dove, dice la Bibbia, i giovani comandano sui vecchi. Un limbus patrum. La vecchia pratica degli svedesi trogloditi, i nomadi dell’antico Egitto, i sardi, di uccidere gli anziani a colpi di clava o pietra.
Gli indiani del Brasile uccidevano così gli infermi. I massageti e i derbicciani uccidevano gli ultrasettantenni. E i càtari pii di Monforte d’Alba o Asti, che le endura abbreviavano alla fine, i suicidi dei saggi anziani per digiuno, per evitare loro i patimenti dell’agonia. Gli abitanti dell’isola di Choa, dove l’aria pura dà lunga vita, ci pensavano invece da soli: prima dell’ebetudine o la malattia i vecchi prendevano la papaverina o la cicuta. Analogamente l’eschimese che, prossimo alla fine, inutile alla famiglia, esce dall’iglù e si perde nel pack. Fra i batak di Raffles, esploratore fede-degno, che sarebbero i dagroian di Marco Polo, i vecchi erano mangiati: “Un uomo che sia stanco di vivere invita i figli a divorarlo nel momento in cui il sale e i limoni sono a buon mercato”.
Una ragione per eliminare i vecchi c’è, spiega Propp, l’analista delle fiabe: “Tra l’antichissima popolazione di Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di uccidere i vecchi. E mentre uccidevano i vecchi, ridevano sonori”. Serviva per ridere.

Cronache dell’altro mondo - nazionalizzatrici (156)

Saule Omarova, la giurista nominata da Biden Comptroller of the Currency (l’autorità di controllo della politica monetaria attraverso il credito, di fatto di controllo delle banche), che la settimana scorsa ha rinunciato alla nomina per le contestazioni subite nell’audizione di conferma  al Senato, proponeva un intervento diretto della banca centrale (il sistema della Federal Reserve) sui conti bancari: “In un quadro inflazionario, quando ha bisogno di contrarre l’offerta di moneta, la banca centrale potrebbe ridurre la liquidità dai conti privati”.
Omarova, già consulente del primo governo Bush jr., e con Obama del Tesoro, teorica e proponente di una National Investment Authority, Nia, una sorta di autorità della programmazione economica, è nota per le vedute anti-sistema. Ha partecipato l’anno scorso al docu-film di John Walker “Assholes. A Theory” - “Stronzi” (ma il film non è stato distribuito in Italia) - con Vladimir Luxuria che irrideva a Berlusconi. Omarova vi definisce l’attività finanziaria “un’industria tipicamente di stronzi”.
Giovane attivista comunista nel Kazakistan, il paese d’origine, Omarova è emigrata negli Stati Uniti dopo la caduta dell’Urss, nel 1991. E lentamente, attraverso la pratica legale, è tornata all’insegnamento del diritto, che esercitava in Kazakistan, in varie università, ora alla Cornell.

Come (non) essere Flaubert

Il racconto, distrattamente repertoriato sul sito come “Mr Flaubert, c’est moi”, è invece al contrario. Barnes, sempre riconoscente a Flaubert per essere arrivato al mainstream con lui, col romanzo “Il pappagallo di Flaubert”, fa il giro attorno al monumento, come un bambino sempre curioso, ma anche mordace. Sorride dell’idolo, e anche degli idolatri, come lui stesso.
Sorride dell’assoluta mancanza di erotismo, di uno che scrisse anche una “Educazione sentimentale”, oltre che di Adulteri, e “scopava (nei bordelli) come un gendarme”, a detta del suo intimo amico Louis Bouilhet, il poeta. Della scarsa memoria, malgrado la puntigliosa accuratezza verbale. Perfino di cosa aveva scritto in “Madame Bovry”, che lo aveva trascinato in tribunale. A Hyppolite Taine, che glia chiedeva un contributo per il suo studio “De l’Intelligence”, spiegò che le immagini e i personaggi erano veri per lui come delle realtà oggettive, a volte più complesse di quella che scriveva: “Ci sono molti particolari che non trascrivo”, spiega a Taine: “Il signor Homais, come lo vedo io, è leggermente butterato dal vaiolo”. Ma questo è quello che ha scritto in “Madame Bovary”, Homais è proprio “leggermente butterato”. Anche se è vero che a volte ometteva dei particolari. Barnes fa il caso del rapporto di Emma con Rodolphe: “Negli appunti di Flaubert per il romanzo in un’occasione la fa tornare a casa passando dai campi, «le foutre dans les cheveux», lo sperma nei capelli. È un dettaglio che ai lettori del libro viene risparmiato”. Ma non cambia la figura di Emma?
“Una singola parola cambia tutto”, Barnes d’altronde concorda con Flaubert. Il processo per “Bovary” gli fu fatto nel 1857 per una parola, “le piattezze del matrimonio”, come contrapposte, argomentava il pubblico ministero, alle gioie dell’adulterio. Flaubert rimediò suo a  del, in “le piattezze del suo matrimonio” – per una quindicina d’anni, nel 1873 ripristinò il generico del.
Un’altra parola decisiva. Flaubert è famoso tra i letterati anche per una massima o consiglio di scrittura – Styron e poi Philip Roth se l’appesero sopra la scrivania: “Sii ordinato e regolare nella tua vita, come un borghese, così potrai essere sfrenato e originale nel tuo lavoro”. Ma Flauber lo scrittore voleva “ordinaire”, ordinario e non ordinato. Un piccolo borghese, imperspicuo.
Fra gli idolatri ce n’è per tutti. “Sartre, quando scrisse ‘L’idiota della famiglia’”, la sua trilogia su Flaubert, “la sua analisi-più
-tentato-omicidio teoretico-psicoanalitico-politica”, tremila e più pagine, “non citò quasi mai direttamente da Flaubert”. Per evitare di “scrivere bene”. Ce n’è naturalmente per lo stesso devotissimo Barnes. E per le “mamme degli scrittori (scrittori maschi, beninteso)”. La sua e quella di Simenon – anche se purtroppo il salto di una parola, o di una riga, non consente di apprezzare per intero l’aneddotica.
C’è l’amicizia con Turgenev, “La sua anima gemella letteraria”. C’è il mancato, dopo ponderazione sempre attenta e partecipata, engagement politico, da “arrabbiato” ma “liberale”. “Ritengo Flaubert e Goncourt responsabili della repressione seguita alla Comune, perché non scrissero neppure una riga per impedirla”, Barnes dice “una delle affermazioni più monumentalmente fatue di Sartre”, nel 1948, prima dell’“Idiota”.
C’è la vecchiaia incombente, già in gioventù. Al banchetto che gli amici gli organizzarono nel 1850, già autore di grande successo, nel giorno del suo prediletto san Policarpo “(un vescovo di Smirne del II s ecolo famnoso per il suo lamentoso motto: «Oh Signore, in che mondo mi hai fatto nascere»)”, si scopre “un monumento”, anzi “in via di liquefazione come un vecchio Camembert”.
“Morì di vecchiaia ad appena cinquantotto anni”, può concludere Barnes.
Prima della fine c’è la questione della stupidità. Col progetto trentennale di “Bouvard e Pécuchet”. Ma questo è un capitolo  ancora da scrivere.
Julian Barnes, Gustave, l’educatore sentimentale, “Robinson” € 0,50

domenica 12 dicembre 2021

Cronache dell’altro mondo - bancarottiere (155)

Un’azione Amazon “vale” al Nasdaq di New York 3.444 euro – valeva venerdì sera, domani è atteso un altro record. Google, oggi Alphabet, ne vale 2.960. Facebook, oggi Meta, è più modesta, ma vale 329,75 dollari. Tesla, che naviga in perdita e non dà dividendi, vale 1.017 dollari, il doppio di un anno fa. Apple vale a Wall Street tre bilioni di dollari – ossia, nella terminologia americana, un milione di milioni: ne valeva 1 nel 2018, e 2 nel 2020.  
Nei due anni, ormai, della pandemia, dei lockdown e dell’attività economica ridotta, gli indici di Borsa a Wall Street hanno raddoppiato le quotazioni, registrando ogni giorno nuovi record storici.
La pax americana si è fondata nel Novecento sulla straordinaria potenza industriale. Benché contrappuntata – magnificata? – da periodici crac finanziari, rovinosi per i più. Da subito dopo l’indipendenza, dal 1837, l’anno della prima bolla speculativa, scoppiata il 10 maggio, col blocco di tutti i pagamenti, cui seguirono cinque anni di depressione economica profonda. Nel 1873 altri anni di depressione, soprattutto nel settore agricolo, allora preponderante, seguirono alla demonetizzazione dell’argento (una crisi a lungo labellata “il crimine del 1873”). Altre crisi di breve momento culminarono in quella più nota, il crac del 1929. Seguiranno la svalutazione tempestosa del dollaro del 1971, e poi le recenti “bolle” a ripetizione. Le dot.com nel 1999, le start-up della telefonia cellulare e dell’informatica portate senza ragione a quotazioni vertiginose, indifferenti al valore reale, il patrimonio, o l’avviamento, o l’innovazione reale, di mercato. E quella rovinosissima, soprattuto per l’Europa, dei mutui sub-prime, dei mutui bancari senza garanzie reali, e quindi del sistema bancario, del 2007-2008.  
Si possono pensare i crac ricorrenti come i salassi della vecchia medicina: spurghi periodici per purificare il corpo. Ma si sa che i salassi non funzionavano. Più perspicuamente, le crisi monetarie e bancarie ricorrenti funzionano come le insolvenze fraudolente per truffare i creditori. Il resto del mondo, ma anche gli americani, le masse inette: una forma di trasmissione forzosa del reddito, in un quadro complessivo di accumulazione. Nessuno studio conforta questa ipotesi, ma è quello che è avvenuto.

Gli africani sono troppo buoni per non essere mangiati

“Nero\Bianco”, n. 0.
Condorcet, il rivoluzionario, sostenne che, se gli africani sono cattivi, la colpa è degli europei, che hanno insegnato loro a bere l’alcol. Ma non c’era il buon selvaggio, e non c’è il povero buono. La decolonizzazione è l’ultimo regalo avvelenato dell’imperialismo, nelle forme della solidarietà. I popoli al Sud potranno a lungo nascondersi sotto le colpe dell’Europa. Uccidersi, distruggersi senza rimorsi. Fino ad aver consumato i doni che l’Europa ha lasciato, le scale connesse, gli intonaci, l’acqua potabile.
Non discendiamo dalla scimmia, dice Gobineau, ma lo vorremmo. L’Egitto andrà pure consegnato agli africani, ma quando? I tempi sono importanti. Se l’Africa disponesse oggi dell’antica civiltà egizia non ne sapremmo nulla. Soprattutto infatti scompaiono i bambini, anche se le statistiche non ne rilevano un numero sufficiente a far decrescere la popolazione, non mancando in Africa chi ne fa. E un progetto, benché perverso, d’igiene mentale emerge, risuscitando l’antica questione discussa a Valladolid se i neri hanno l’anima. Ora che i bianchi, s’intende, non ce l’hanno più.
Il povero Dio, se c’è, arranca, per Auschwitz e la stupidità: non si sa più chi combattere. L’imperialismo è ora di massa. È la nazionale di calcio, un collante sociale, per un volgare “mettiamoglielo in quel posto” con la sua supposta negazione, l’antimperialismo. La decolonizzazione è la continuazione dell’imperialismo con altri mezzi, i furbi, i lenoni, i ladri con socio locale, il Potere Elusivo, inclusa la bontà. Mentre le vie della rivoluzione restano impervie. Solo la rivoluzione culturale che la Cina ha ripudiato si fa strada in Africa, col machete: gli africani fanno pulizia di se stessi. Al suo ritmo presto si parlerà dei neri in Africa come di razza favolosa.
Negli anni Cinquanta Albert Bruce Sabin e Hilary Koprowski ricercavano insieme un vaccino antipolio. Poi litigarono. Sabin, immigrato povero dalla Bielorussia, provincia dell’impero sovietico, si rifiutò per ragioni morali di brevettare l’antidoto. Si trattava di soppiantare il vaccino Salk, brevettato dall’industria farmaceutica, dagli effetti limitati. Sabin ci mise alcuni anni a sperimentare il suo vaccino con le autorizzazioni dei governi del Messico e dell’Urss. Koprowski ne poté invece fare sperimentazione estensiva tra le popolazioni del Congo Belga nel 1957, senza il permesso e il controllo di nessuno, col sostegno del governo americano. Non avendo cavie a sufficienza, Koprowski contaminò il suo vaccino con ceppi sanguigni di scimmie locali, con grave rischio d’infezione. Sabin denunciò questa pratica inutilmente, finché, nel 1960, il suo vaccino di libera produzione non sconfisse la polio. C’è spazio per la libertà. Ma c’è di peggio che assumersi il fardello dell’uomo bianco: c’è il vezzo dei nuovi ricchi di buttare i rifiuti sui poveri. È qui il senso della loro fuga, e la sostanza dell’imperialismo, che oggi si camuffa con l’aiuto allo sviluppo.
Il vezzo è dei germanici, gli scandinavi in particolare e gli americani, cioè i più ricchi di tutti. Che terrorizzano il mondo con le loro crisi periodiche, la droga, l’alcol, l’obesità, l’economia. Si salvano la coscienza con problemi che loro stessi creano, le mine antiuomo, il colesterolo, l’eugenetica, l’effetto serra, e anche questi ributtano sul resto del mondo. Sempre i ricchi si sono lamentati, ma ora esagerano. È ruttare sul mondo la sazietà, non c’è povertà nichilista. L’imperialismo vero resta dell’Occidente sull’Occidente, una guerricciola endemica interna, magari per scongiuri. Gli altri non sono abbastanza ricchi da stimolare l’avidità. Ecco perché l’antimperialismo è brutto. Se è qualcosa, dovrebbe essere la libertà. Non può dare più case, più strade, più ospedali, più scuole, perché è meno ricco dell’imperialismo. Può e dovrebbe dare onestà e rispetto degli altri, della legge.
Ci sono dei criteri: non ci può essere antimperialismo contro antimperialismo. Né socialismo contro socialismo: hanno ragione quelli che, scampati alla forca del comunismo, sono restati comunisti, c’è un solo comunismo. È diverso per le vie nazionali, eurocomunista, latina, lusitana, africana, afroshirazi, animista, panaraba, confuciana - e scintoista no, anche buddista, e yoga? Basta la parola, direbbe la pubblicità, socialismo è un abito, un profumo. Il senso del Terzo mondo è - era quando c’era un Terzo mondo, ma vale anche per gli epigoni sparsi - un platonico terzo regno di Frege: un mondo di petizioni di principio, per salvare l’anima nostra, non gli africani (Frege, barba bianca, modi semplici, non era preso sul serio a Iena nel 1917 all’università). L’Occidente, volendogli dare una colpa, ha prevenuto la decolonizzazione catturando gli animi: li ha sintonizzati sul possesso, furberia, sopruso, avidità, prima che sull’alcol e li gestisce con la crisi. L’Occidente è furbo, per questo Ulisse vi è popolare. Ma nessun indio, nessun africano, nessun arabo, nessun asiatico ha bisogno di lezioni in questo campo.
E c’è chi dice l’Africa priva di storia. Mentre non è piena che di rovine. L’Angola, il paese più ricco al mondo, è il più povero. E il Gabon, grande quanto l’Italia per un milione di abitanti, coi tanti minerali e l’okumé, con cui si fa il compensato? Il compagno Nkrumah, l’Osagyefo, redentore, è morto nella vergogna, aveva trecento statue. Il maestro Nyerere applicava l’Ujamaa, la fratellanza del socialismo di villaggio, per ridare un ruolo ai capi, il legittimismo è l’ideologia africana. Obote invece è svanito con tutto il socialismo, e l’ottima università di Makerere, per lasciare l’eterna primavera a un caporale, Amin. Il problema vero è che gli africani sono troppo buoni per non essere mangiati.

La studentessa all'università era votata al suicidio

Nel 1964, sulla “Stampa”, ricorda Alessandra Gissi nel saggio che apre la parte seconda della raccolta, un’inchiesta di Francesco Rosso, inviato di punta del quotidiano, sulla presenza femminile all’università di Milano, nelle due università private, quindi a pagamento, Bocconi e Cattolica, la trovava a sorpresa poco apprezzata: “Non hanno interesse allo studio; civettano, e intessono idilli coi loro compagni”, era il commento, professorale, più spesso raccolto. A Milano, nel 1964 - è un peccato che la scuola abbia abbandonato la storia, c’era molto da imparare (della storia politica e militare, anche, perché no, e geografica – delle migrazioni per esempio, anche recenti, del V-VI secolo, del XIImo, del XIX-XXmo, appena ieri, e dei popoli, delle religioni, delle culture, di genere, non c’è futuro senza passato.
Il volume, arricchito da una folta e preziosa documentazione iconografica, documenta la storia spesso triste e solitaria, ma final, della parificazione del genere femminile negli studi universitari. A Padova, come vogliono i titoli, “L’università delle donne” e “Accademiche e studentesse dal Seicento a oggi”, da quando le prime donne furono ammesse agli studi fuori casa, e in Italia. Con una raccolta di saggi di specialisti di varie discipline.
L’università di Padova celebra i suoi otto secoli di vita nel 2022 col progetto, “Patavina Libertas”, di “Una storia europea dell’università di Padova (1222-2022)”, e questa raccolta, organizzata da Carlotta Sorba, storica contemporaneista a Padova, col ricercatore Andrea Martini, ne è il primo tassello. La ricorrenza è l’occasione per un re-appraisal della presenza femminile negli studi universitari, nell’ottica dell’ateneo patavino, e con numerosi riferimenti nazionali. Dalle pallide aperture post-unitarie, lente, contate, ai primi passaggi verso la cultura di massa sotto il fascismo, e alla sua ritardata esplosione negli anni della Repubblica, a partire dalla decade1960 - che sono gli anni post boom, andrebbe ricordato, della scoperta dell’affluenza nell’Italia delle povertà, da Agrigento alla stessa Padova, con record prima di allora di emigranti, di italiani poveri in cerca di fortuna.
Martini fa parlare alcune delle protagoniste della contestazione femminile, all’interno del movimento studentesco post-68 – di cui l’ateneo di Padova, città timorata e democristiana, era diventata un epicentro - per il divorzio, per l’aborto, quasi tutte dall’interno di Potere Operaio, in guerra con il partito Comunista e le sue organizzazioni femminili. Giulia Albanese rintraccia e epitomizza numerosi diari o memorie. Elena Canadelli riscopre “La realtà delle scienziate”: le scienze sono state il primo approdo professionale per le donne all’università, in qualità di tecniche di laboratorio dapprima, ma presto di ricercatrici e insegnanti. La zoologa Rina Monti viene nominata professore ordinario, la prima in Italia, a Cagliari nel 1910. Ma già Maria Montessori era un’autorità. E molte altre saranno ricercatrici riconosciute, di nome, dopo la guerra – tra esse, misconosciuta invece pure nelle biografie dello scrittore, la madre di Italo Calvino, Eva Mameli, che ha lavorato per un lungo periodo anche all’Avana, madre di due figli. Nel primo Novecento era in genere l’istituzione, la burocrazia, che non dava spazio alle donne nell’ambiente accademico, i “colleghi”, per quanto maschi, erano invece aperti, anche solidali.
Lorenza Perini e Naila Pratelli analizzano la progressione numerica della presenza femminile nelle università, con un interessante quadro sinottico delle quote per genere nelle varie specialità aggiornato al 2019. Altri studi analizzano situazioni particolari. Eleonora Carinci, proponendo il ritratto di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, la prima donna – della grande famiglia veneziana dei Cornaro – ad ottenere una laurea all’università di Padova, nel 1678, abbozza una lista delle scrittrici e pubbliciste di cui le storie della letteratura si ricordano - ma la lista sarebbe lunga, con Tullia d’Aragona, che molto influì sul secolo, et al.  
Gissi, specialista degli studi di genere, apre la questione al contesto sociologico, la lenta entrata delle donne agli studi universitari e alle professioni liberali correlando alle leggi, specie quelle del primo centro-sinistra, 1961 e 1963, e con l’opinione pubblica, come riflessa dalla stampa. Con curiose peculiarità. Il primo caso è delle levatrici, una professione a lungo di praticone, le “mammane”, cui nel tardo Ottocento la legge impone un’istruzione medica, in appositi corsi parauniversitari – con i curiosi casi delle vecchie praticanti in aula insieme con le aspiranti giovani. Il fascismo viene come irruzione delle masse, anche femminili. E nel dopoguerra, con la liberalizzazione, a tappe, degli studi universitari, per un aspetto perfino bizzarro, in ottica odierna, della studentessa comunemente vista, nella pubblicistica di gossip e nei grandi giornali, come una ricercatrice di uomini, svagata, inetta, e per lo più destinata al suicidio, una displaced person – allora la socio-psicologia si focalizzava sui ruoli. Si registravano i casi di suicidio con clamore, con dovizia di foto, di testimonianze, di dolorismo.
Immaginando l’università come una partoriente, la “studentessa” ebbe gestazione e nascita travagliate. Non nell’anno Mille, avant’ieri, spiega Gissi. Anzi, fino a Simone Cristicchi, grande promessa allora della canzone italiana, che la “Studentessa universitaria” canta nel 2004 “triste e solitaria”, proprio così, alla Soriano, in “una stanzetta umida”, incinta da non sa chi. La Lenù di “Elena Ferrante”, della tetralogia “L’amica geniale”, al secondo volume (2012) soffre alla Normale di Pisa di solitudine, e si prepara al Natale in “desolate giornate di febbre molto alta e tosse”, sola nel collegio.
Andrea Martini-Carlotta Sorba (a cura di), L’università delle donne, Donzelli, pp. 261, ill. € 27