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sabato 13 agosto 2016

Recessione – 51

L’economia è ancora in crisi:

Il debito pubblico avrebbe raggiunto i 2.250 miliardi a giugno, nuovo record.

Il pil non cresce più, a partire da aprile. (Istat)

Pesano il rallentamento del valore aggiunto dell’industria manifatturiera, e le minori vendite, malgrado la piena utilizzazione degli impianti Fiat-Chrysler, e il comparto costruzioni, malgrado l’incremento di un terzo della spesa pubblica per “grandi opere” e la deduzione fiscale straordinaria del 50 per cento  sulle ristrutturazioni.

Produzione industriale in calo dello 0,4 a giugno, per la terza volta nel trimestre – corretto degli effetti del calendario (giornate lavorative), a giugno l’indice è diminuito del’1 per cento.

Nel 2015 l’industria ha avuto un calo delle vendite dell’1,3 per cento: effetto di una frenata nelle esportazioni e di un calo del 2,2 per ceto nel mercato italiano. (Mediobanca, “Dati cumulativi di 2060 imprese italiane”).
Il calo è stato attutito da Fca e Grandi Opere (investimenti pubblici), con una crescita del 6 per cento – Fca ha aumentato le vendite del 12 per cento, il settore Grandi Opere del 39.

I margini industriali restano molto al di sotto dei livelli pre-crisi (2007): le imprese sono ancora sotto del 32 per cento, l’industria manifatturiera del 20.

L’occupazione è cresciuta in diciotto mesi di 600 mila posti come stabilizzazione di posti precari, di consulenza, non contrattualizzati, per i benefici del Jobs Act. Ma lavora chi lavorava, seppure statisticamente non censito.

I prezzi restano deboli: meno 0,1 a luglio malgrado un incremento del turismo – meno 0,5 a Milano e in molta parte della Lombardia.

Stupidario della sera

 “Roma è la più antisemita”
“Milano odia più di Napoli”
“Le donne sono le più odiate, insieme ai migranti e ai gay”..
“Il dato emerge dalle rilevazioni Vox, l’osservatorio dei diritti”. “Corriere della sera”,11 giugno:

L’Italia è l’ultima, o quasi, al mondo per alfabetizzazione finanziaria. Lo stabilisce la Banca Mondiale, Ne sanno di più in Kenya e in Botswana, ma anche in Madagascar e nel Togo. “Corriere della sera”, 11 giugno.
Beh, “togo“ è fico in calabro-milanese.

“Dieci anni fa il Pisa diceva che nessuno arrancava quanto i quindicenni siciliani. Fatta una scala da sei (i più bravi) a uno (i più scarsi), i ragazzi isolani sul gradino più basso o addirittura sotto erano il doppio della media Ocse. Il quadruplo dei coetanei dell’Azerbaigian”. Gian Antonio Stella, “Corriere della sera” 11 agosto
Sotto lo zero?
Pisa sta per Programme for International Student Assessment: misura l’intelligenza?
E dove sta l’Azerbaigian?

“Le ragazze ottengono punteggi più bassi in test di matematica e di concentrazione quando li eseguono indossando soltanto un costume da bagno”, Anna Meldolesi, “Corriere della sera” 12 agosto 2016

“La Spagna ci supera”, “Corriere della sera” 13 agosto.
Non ci aveva già superato?
Ma in che cosa?

La letteratura interrotta

La letteratura interrotta
L’amaro errare di un contemporaneista senza più oggetto – di studio, di vita. Eccetto qualche sopravvissuto, Arbasino, La Capria, e qualche amico, Biamonti, Atzeni, Ray. Non gli resta che peregrinare all’indietro, nel vecchio-nuovo Novecento: D’Annuzio, ancora D’Annunzio, Montale, Gadda, Landolfi, Pasolini, Zanzotto, Tomasi di Lampedusa, e… Mario Novaro, “un taoista a capo Berta”. Ma gli umori sono cupi, in apertura e in chiusura, e tra le righe, guardando alla patria da New York, tra l’autunno del 2014 e l’inverno del 2015: ci hanno sottratto la letteratura. Anzi no, nessun cattivo: la letteratura è semplicemente scomparsa. Non per fare l’“apocalittico”, figurarsi. No, è che ci siamo insabbiati in un italiano mediatico, senza spessore. Senza senso anche.
“Considerazioni su una letteratura interrotta” è il sottotitolo. Ficara parte  bandendo le false prospettive. Non si tratta di distinguere tra Literatur e Trivialliteratur, tra alto e basso, “quanto di valori un tempo equiparabili, oggi non più” – ma non è peggio? Né di fare da prefica sulle sorti dell’Italia, come usa. Anche altrove le cose non si sentono bene: “Nessuno, in effetti, potrebbe parlare di una tradizione relativamente continua tra Faulkner e Safran Foer”. Ma in Italia è peggio: “I più emarginati degli emarginati, cioè molti tra i giovani e giovanissimi romanzieri italiani, scrivono ormai in un altro italiano, più simile alla traduzione da un succinto inglese che a quella lingua «altrettanto perfetta quanto immensa» di cui parlava Leopardi”.
Lo studioso parte discutendo “le teorie ormai classiche nel dibattito tra apocalittici e continuisti”. Non sistematicamente, zigzagando tra Marx (William, quello della dévalorisation, della polemica francese anti-globale, “L’adieu à la litérature”. ), Steiner, Berardinelli, cui si deve una “Commeorazione provvisoria del critico militante” già venticinque anni fa, Todorov, Ossola, Pahmuk, Onofri, Ferroni, Manica et al... 
Ficara non è nuovo allo sdegno. Ma torto non ha, se non che di lamentarsi – lo sdegno è rassegnato. Che altro può fare il critico? Il contemporaneista, ex “militante”, può molto – potrebbe. “Critica e preghiera “ è la sua ultima riflessione, leopardiana. A quale Dio? La prima diserzione è della critica, anche accademica.

Giorgio Ficara, Lettere non italiane. Considerazioni su una letteratura interrotta, Bompiani, pp. 334 € 13

venerdì 12 agosto 2016

Ombre - 328

Il trainer Donati e l’avvocato Tiefenbrunner promettono di andare in fondo la caso della squalifica di Schwazer da parte della Iaaf, la federazione dell’Atletica. Ma la Iaaf è senza fondo.

La corruzione nello sport è talmente avida, costante e generalizzata, nel calcio, nell’atletica e sicuramente nelle altre discipline che fatturano meno, che l’Olimpiade si segue tra gli sbadigli. Sì Copacabana, ma… Eccetto che per il “caso umano”, non per l’exploit atletico, a cu nessuno più crede – Bolt sarà vero? Per Phelps, per Federica Pellerini, per la fiorettista che ricorda Parigi e Bruxelles.

La stessa Di Francisca, la fiorettista europeista, viene da un ambiente poco raccomndabile. Arianna Errrigo, che a Rio doveva vincere l’oro ed è uscita in eliminatoria, ha fallito perché da un anno senza maestro. Lo ha cacciato perché allenava anche Di Francisca.

Si discute l’opportunità di una vignetta sessista di Mannelli su “Il Fatto”:  “Riforme. Lo stato delle cos(c)e, con Maria Elena Boschi accosciata in miniskirt. Di cui probabilmente a Boschi non frega nulla, lei si piace. Come non frega come ai lettori, quei pochi che ancora comprano il giornale. Ma i giornaloni Pd devono farne un caso. Per allontanare gli (e)lettori?
Perchi “lavorano” il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “la Stampa”?

Si supera “la Repubblica”. Con Mannelli: “Questa polemica dimostra l’ipocrisia profondissima, tutta italiana, curiale, che vuole mantenere lo status quo”. Staino: “Mannelli è un grandissimo disegnatore, lo adoro, fa un lavoro bellissimo, ma come satirico non mi convince”.
Dello status quo, però, Boschi c’è già, se Dio vuole – Mannelli dove l’ha trovata?.

Boldrini, invece, sempre a proposito della vignetta, lancia un ambiguo: “Uomini, serve un rinnovamento”. Niente più donne? Donne accollate e senza gambe? Boldrini non sponsorizzerà una linea islamica? Che non sarebbe male, si rilancia l’industria tessile, a metraggio invece che a qualità.

È guerra civile nella scuola tra test Invalsi e esami di maturità: gli studenti meridionali, che l’Invalsi abomina, alla maturità spopolano. Invalsi ha provato a far passare i 100 e lode meridionali prima per mafiosi, poi per corrotti, quest’anno per revanscisti.  Nessuno dice che molte scuole, anche al Nord, rifiutano i test Invalsi. E che l’Invalsi, “Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo”, è un organismo di potere, molto opaco – di distribuzione di risorse.

L’esordio operativo della sindaca di Grillo a Roma, Raggi, è per il “conferimento” della spazzatura della Capitale agili impianti di trattamento di Terni e Orvieto. Ma Grillo non era fervente fustigatore del business dei viaggi della spazzatura?


Coerentemente invece a Torino la Giovane Appendino ha detto “no basta” a rifiuti che gli mandava a trattare, a conguo pagamento, Crocetta dalla Sicilia. Ma non si è privati di una punta di disprezzo: “Non siamo la pattumiera della Sicilia”.
Mehdi Khosravi, esule dal 2009 a Londra, vi ha vissuto rispettato. Con statuto e carta di rifugiato. Poi è venuto in vacanza a Lecco e la questura fulminea lo ha arrestato su mandato degli ayatollah.
Lecco, nomen omen?

Khosravì non stava nemmeno a Lecco città, sono andati a scovarlo a Dorio, trecento abitanti. Poi dice che la polizia non funziona.

Ma cosa devono i servizi italiani a quelli iraniani, che in Italia spadroneggiano? Hanno perfino compiuto impuniti assassinii politici – quello di Hossein Naghdi, mite e inerme, si ricorda ancora, in pieno giorno a Roma, davanti al ministero degli Esteri, quando scendeva dal motorino.  

Si presentano ridicole al beach-volley le egiziane, in leggings e ciador. Ma tutti fanno finta di nulla, commenti e pettegolezzi.

Celebra Fidel Castro per i novant’anni “Il Sole 24 Ore”. Soltanto “Il Sole”, il giornale della Confindustria. Solo in chiave elogiativa, ai “primi novant’anni del Comandante”..

La neo sindaca di Anguillara Sabazia, ventimila abitanti, Sabrina Anselmo, un mese fa ha varato la giunta e questo mese, profittando delle vacanze, ha sostituito due assessori - su cinque. Tutto in casa 5 Stelle.

Armati di bombolette, i writer coprono i lavori degli street-artist. Li imbrattano cioè. “È la dura legge della strada”, commenta “Repubblica”. Ma non tutti i muri sono imbrattati, c’è un feudalità degli spazi.

Malgrado lo scandalo delle macchine truccate, Volkswagen vende più macchine che mai. Non solo in Italia. Concorrono tutti al prossimo rimborso?

Lo scandalo Volkswagen negli Usa c’è stato, il danno era reale, la società ha patteggiato la multa. In Europa invece niente, né inchiesta né scandalo. Anche se i regolamenti anti-emissioni sono identici, e anche se in Europa Volkswagen ha venduto molte più macchine truccate che negli Usa.

Tace la vestale Vestager della concorrenza, tacciono i commissari all’Ambiente e all’Industria. Ma era in guerra che Hitelr aveva tappezzato la Germania di manifesti verdi: “Taci, il nemico ti ascolta!” 


L’odore del Sud

Maigret, “che in fondo non amava troppo il Midi”, vi si trova immerso fino al collo. Per giunta in un’isola, piccola, Porquerolles, sovrastato dalla luce e dagli odori. Della cucina, “a base di aglio, peperoncino, olio e zafferano”. Dei materassi, “dell’olio con cui le donne si ungono il corpo prima di esporsi al sole”. E delle persone, dei capelli, della pelle, dei vestiti, “insieme tenue e piccante, non sgradevole”.
Il Sud di Simenon è una scoperta. In questo più che negli altri romanzi della “trilogia del Sud” che Adelphi ha compilato, per la presenza muta, in qualità di osservatore-ammiratore, di un ispettore di Scotland Yard. Il quale invece il Sud se lo gode tutto, compresi i “bianchini” e i bagni di mare – in reazione, lui dice, al puritanesimo, in realtà perché senza complessi.
Il resto è il solito Maigret, di prostitute, falliti, e mafiosi di mezza tacca. Nella vita di bohème che si è trascinata avanti ancora nel dopoguerra, prima delle vacanze intelligenti e poi di quelle esclusive, il genere Capri o Positano, di ricche tardone in cerca dell’ultimo guizzo, ambigui mantenuti, pittori da strapazzo, insabbiati d’ogni bordo, dell’amore, della carriera, del denaro – allora come oggi, allora sentimentali. 
Simenon è sempre di più anche nel Maigret seriale. Il mare trasparente si vede anche dal Sud degli Usa desertico, da dove ne scrisse nel 1949.
Georges Simenon, Il mio amico Maigret, Adelphi, pp. 154 € 10
Maigret va al Sud, Adelphi Vintage

giovedì 11 agosto 2016

Problemi di base - 288

spock

Ma il giubileo è della misericordia o della consolazione?

Del vogliamoci bene noi per primi?

E quanto bene dobbiamo volerci - quando scatta l’indulgenza?

Dopo la Turchia, la Tunisia, l’Egitto e la Siria, non è che l’islam vuole allontanare il turismo dall’Europa? Ne va del nostro futuro

Fa caldo d’estate sulla spiaggia, e anche a Copacabana d’inverno: perché esibire due giovani egiziane in calzamaglia e ciador sulla spiaggia all’Olimpiade, per torturale?

O, a fin di bene, perché al duo di beach volley egiziano in leggings e ciador non pagare una trasferta
all’Olimpiade invernale, per esempio nel fondo, o anche a Rio ma al tiro al piattello, con l’arco, con la carabina? Sono le spiagge da conquistare?

Grillo s’illumina sotto le stelle, come Budda sotto il fico?

Perché la selezione sarebbe sempre positiva, e a favore del più forte poi?

spock@antiit.eu

Il Grillo sovietico

Non c’è la fucilazione né la Siberia, non c’è nemmeno la Lubianka, ma la denuncia pubblica e le purghe sì. La denuncia pubblica peraltro nella stessa forma della Russia sovietica, della cistka, che poi significa purga: la comunità, di quartiere, di fabbrica, di ufficio, che denuncia pretendendo l’autodenuncia. Un sistema di giustizia che si voleva molto democratico, allo stesso modo come oggi la cistka si vuole pubblica in streaming, per maggiore openness, ma significa: oggi a me, domani a te. C’è pure la denuncia obbligatoria, non più dei “Morosov”, dei bambini contro i padri, i pensionati e gli altri nullafacenti sono mobilitati, e rispondono operosi a denunciare di tutto e di più. E l’anatema: chi non è con noi è un corrotto e un farabutto, noi non sappiamo ma lui sa perché. C’è anche il culto del Capo, la cui parola è decisiva sempre (chi l’avrebbe detto, di un comico!)
La grande differenza non è la fucilazione, né la Siberia. Quelle ci sono sempre, sotto specie di seppellimento dell’avversario, anche se criogenico, senza gas né vermi. La differenza è che in quel sistema molti avevano pagato con la vita per affermare questo diritto, di fare male agli altri. Qui invece esso è stato largito dai padroni del vapore munifici, per bloccare quel minimo di governo che può dare fastidio ai loro affari. Imponendoci coi loro giornali e le tv, a tappeto, refoulés d’ogni bordo e giovani già falliti, i miracolati di nessuna speranza e ogni altro povero di spirito, compresi i nostalgici di terza, ormai, o quarta generazione. La riprova è che nessun comico o vignettista nei loro spettacolini osa nemmeno per celia ridere di questa ridicola messinscena.
Mandati al potere, piccolo ancora per fortuna, qualche comune, litigano fra di loro senza freni, per la bassissima cultura politica. Da condominio. Da trivio.
Che cosa vuole Grillo, cosa propone?

La guerra è bella di Jünger

La vita della trincea sotto il tiro continuo dei cannoni, “uno di quei buchi che da anni la gioventù dei popoli ha per casa, una di quelle residenze fortificate, strette e affumicate che si sono già così spesso trasformate in bare”. Sotto il tiro costante dell’artiglieria – più le bombe degli aviatori, “che non prendono mai nessuno”. Ma paciosa: letture, annotazioni, la sigaretta, il caffè, il tramonto, le stelle, gli attendenti, la noia. La vita felice degli aviatori anche, temerari e privilegiati - niente fango. E i racconti dei commilitoni, interminabili – cioè ininteressanti.
Le trincee sono trappole in realtà, costruite a profondità variabili, da non meno di dieci metri e non più di due, secondo progettazioni accurate che finiscono con la morte in massa degli occupanti in troppi casi. Ma niente drammi, nessuna critica. Un sistema “che espone al fuoco centinaia di migliaia di uomini, nudi e senza difesa, implica un delle più notevoli condanne a morte che sia mai stata pronunciata” è una riflessione che prende giusto due righe, se non è un’aggiunta posteriore. Ritradotta in scioltezza da Iadicicco (con una nota breve di Quirino Principe), per una lettura più agevole rispetto al passo ponderoso dell’originale, questa è la riedizione del 1978, che lo stesso Jünger ha curato, con qualche aggiustamento rispetto a quella del 1924-1925 - la “lotta in cui gli eserciti popolari e la gigantesca potenza di fuoco messa in opera si equilibrano” sembra post-Vietnam.
È il terzo volet della trilogia di Jünger sui suoi quattro anni pieni di guerra, da tenente e poi da capitano, pluriferito, anche grave, e prurimedagliato, dopo “Nelle tempeste d’acciaio”, 1920, pubblicato in conto autore e d’immediata larga lettura, e “La guerra come esperienza interiore”, 1922. Ma, rispetto ai due tomi precedenti, con un altalenarsi quasi cinico del punto di vista. La “guerra di posizione”, “la forma più noiosa e onerosa di combattimento”, consente di leggere, lascia molto tempo libero. La guerra di posizione è una guerra di sterminio: “In questo combattimento in cui si disputano un atroce campo di rovine, sul quale si affrontano due immagini del mondo, la posta non è il migliaio di uomini che si potrebbero forse salvare dal trapasso, è che la dozzina di sopravvissuti arrivi in tempo al suo posto per ottenere un effetto decisivo mettendo in opera le sue mitragliatrici e le bombe a mano”. Così, quasi cerchiobottista.
In realtà è uno dei contributi celebrativi alla guerra, benché perduta. Jünger ha cambiato ottica, è ora un nazionalista. In teoria trascrive alcuni taccuini di guerra, annotazioni prese nei rifugi, e ne dice le miserie. Ma è reduce dal successo di “Tempeste d’acciaio”, che vive come una celebrazione della sconfitta, scrive e opera tra i reduci, e tiene duro. Lo “Stato guglielminio” è stato inferiore alle attese e forse ai doveri, “i prussiani”, come spesso li chiama qui, ma la guerra di popolo era bella-e-buona.
Nella prefazione (omessa nella riedizione, e anche in questa traduzione, ma leggibile negli “Scritti politici e di guerra”) annota: la guerra, sia pure la “guerra di posizione” (in realtà di logoramento), e “guerra di materiali”, come lui, ufficiale comandante di una compagnia ha subito saputo, è pur sempre un facitrice di uomini. La sconfitta non cancella l’entusiasmo di massa, e l’identificazione possente in una nazione che la dichiarazione di guerra ha innescato.
Un che di disturbante. Non perché non sia pacifista, perché revanscista nella sconfitta. Come una preparazione alla rivincita. Nella prefazione lo dice anche. “Chi non si lascia abbattere da questo (dal “naufragio”, n.d.r.) dimostra una potenza e una capacità di dominio innate”. Innate? ”Certo”, continuava, “da una simile scuola esce illeso solo colui che è stato intagliato nel legno più duro, e solo in tempi di estremo bisogno si rivela se un popolo è costituito da uomini veri”. E così via, non una rivolta alla Barbusse, che ne “Il fuoco”, successo immediato mondiale, aveva inscenato, già nel corso del conflitto, gli orrori della “guerra di materiali”: “Ciò che importa è realizzare la grandezza del popolo e le sue idee”. Un giorno, i figli dei caduti “si imposteranno con fierezza della propria eredità, se il cuore autentico e miracoloso di quest’epoca, l’eterno germanico, sarà sopravissuto oltre la nebbia della comune quotidianità”.
Nella narrazione, questo è detto indirettamente, del “Boschetto” perduto e riconquistato: ”Di fatto, la potenza passa d a una mano a un’altra. Verrà però di nuovo il nostro turno”. Fino a magnificare “la febbre del fuoco” con Goethe a Valmy (ma Goethe non combatteva), sul’esempio del generale francese Marbot, le cui memorie “ogni soldato dovrebbe aver letto”, per il motivo che si compiaceva di porsi in evidenza al centro del tiro nemico per sentire il fruscio della morte…
Con un che di fastidioso anche nella “scelta” del nemico, che quasi sempre è inglese e non francese. O allora sempre tra fiamminghi, anche lui come poi Remarque, anche se parlano francese, anche tra Piccardia e Artois, che pure sono regioni francesi incontestate. E con l’elogio anche qui di Vorbeck, un coraggioso tenente aspirante comandante di compagnia, come il bravo “lanzichenecco”, di “poche parole, il pugno rude e il cuore aperto”, nella linea di quei “lanzichenecchi biondi che alternando temerarietà e buon cuore sotto gli ordini di Frundsberg invasero le campagne italiane e somministrarono agi Svizzeri una solida batosta a Pavia”
L’omaggio alla Francia, il nemico, c’è – se non è successivo. Va ai castelli, a Le Nôtre, al vescovo di Cambrai Fénelon, a Balzac e Stendhal. Ma la mezza pagina non rompe la magia della guerra, della sua guerra, del capitano Jünger. Né l’invocazione culminante della mezza paginetta: “O particella di Francia assolata in cui ci hanno gettato forze più potenti di noi, non credere che noi conserviamo un cuore impassibile in mezzo a queste devastazioni!”.
Un racconto anche manierato. Tanto più per essere la trascrizione di taccuini di guerra, come Jünger li presenta. Di stile alto, “asiatico” si sarebbe detto nella retorica antica, figurato, elevato anche se non immaginifico. Funzionale si direbbe alla riserva: Jünger non definisce mai negativamente ciò che pure rappresenta per tale: “i prussiani”, la “guerra di materiali”, la “guerra di posizione”. Non si può, sarenne disfattismo. Ma Jünger stesso è ancora in guerra. L’elogio della guerra in sé introduce ogni altra riflessione ed è senza fine: “Benché non abbia avuto mai grandi preoccupazioni, non avevo mai vissuto con tanta spensieratezza come in campagna. Tutto è chiaro e semplice”, diritti e doveri sono regolati, non c’è bisogno di guadagnare, il necessario viene fornito, e quando va male “ho mille compagni di disgrazia e soprattutto, all’ora della morte, tutte le questioni si risolvono in una gradevole insignificanza”, il rimedio migliore anche al cancro o alla tubercolosi,  “la prossimità della morte è salutare come una luce sconosciuta”. Era anche in guerra contro la sconfitta: aveva appena rifatto, due volte, in senso nazionalista, le “Tempeste d’acciaio” del 1920.
Ernst Jünger, Boschetto 125. Una cronaca delle battaglie in trincea 1918, Guanda, pp. 155 € 14,50

mercoledì 10 agosto 2016

Letture - 269

letterautore

Dante  - La “scala” di Maometto non sarà quella dell’illuminismo massonico? Asín Palacios, il religioso studioso di “Dante e l’islam”, non conosceva il “Kitāb al-Mirāj”, noto dalle traduzioni in latino e francese come “Libro della Scala”. L’accostamento è stato operato da Enrico Cerulli, un diplomatico - governatore per alcuni mesi nel 1939, subito dopo l’occupazione italiana, dello Scioà, e poi per un anno dell’Harrar, bandito dall’Etiopia indipendente come criminale di guerra. Cerulli lo ha proposto all’attenzione nel 1949, ma lo aveva rinvenuto “nei primi anni Quaranta”. Si cautelava, non escludendo letture comuni, a Dante come a Maometto, sicuramente quella dell’Antico Testamento. Ma di più ricordando le tante connessioni “tra la leggenda islamica e le ascensioni giudaico-cristiane apocrife di Mosè, Enoc, Baruch e Isaia”. Il suo “Libro della Scala” è stato pubblicato con notevole apparato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana nel 1970, regnante Paolo VI, un papa molto vicino ai laici.
Il Dante islamico è del filone esoterico.
Cerulli, poi ambasciatore in Iran, ne riportò varie sillogi di ta،ziyè, i drammi sacri sciiti, da lui conferiti alla Biblioteca Vaticana.

Era l’italianità per gli irredenti. È tuttora l’Italia all’estero, nelle istituzioni culturali, negli studi, nella caratteriologia nazionale, anche la più sguarnita, quella della pizza e del mandolino. Per la passione politica e poetica, per l’irrequietezza, per l’intelligenza religiosa – che ora si trascura o aborre - proteiforme..

Dizione – Gli otorino dismettono le ansie e le diagnosi di sordità precoce a chi non “segue più” la tv. Un po’ perché il sonoro della maggior parte dei televisori piatti è infame. E un po’ perché la dizione dei tanti sceneggiati è incomprensibile. Si fa infatti una differenza tra i notiziari, i cui conduttori devono aver seguito corsi di dizione, dalle fiction in cui bisogna essere solo un personaggio da gossip per recitare, il più in fretta possibile, vomitare le quattro parole.
È un segno dei tempi? La volgarità, forse. Chi comanda sa bene che deve farsi capire. Il consiglio di Demostene è vecchio, ma non è trascurabile: “Solo tre cose contano nella retorica: la dizione, la dizione, e ancora la dizione”. Nella retorica, cioè nell’arte di parlare al prossimo.

Richard Harris ne fa il cavallo di battaglia di Cicerone nel romanzo storico “Imperium”: a scuola dai retori greci, in particolare di Apollonio Molone, avvocato originario di Alabanda – la città dell’Asia Minore che Hölderlin evoca nell’“Iperione”. Molone nel romanzo allena Cicerone un po’ al modo di Zeman, obbligandolo a sfiancarsi – con la recitazione ininterrotta di poemi, pezzi di commedie, pezzi di tragedie, “mentre percorreva senza fermarsi una ripida salita”: “Cicerone si irrobustì i polmoni e imparò a pronunciare il massimo numero di parole con una sola espirazione”.Ma persuasivamente. “Per la parte relativa all’emissione vocale, Molone scendeva con lui fino alla spiaggia di ciottoli. Lo allontanava di una cinquantina di passi (la distanza massima alla quale può arrivare la voce umana) e lo faceva declamare sullo sfondo sonoro del mugghio e della brezza marina, quanto di più simile vi fosse al mormorio di tremila persone all’aperto o al borbottio di centinaia di uomini in conversazione al Senato”.

Gioia – C’è un “Inno alla gioia” anche di Pietro Mascagni, “giovane autore”. Fuori giro, ma almeno una volta l’Inno di Mascagni è stato eseguito, il 27 marzo 1882, al teatro degli Avvalorati a Livorno. Mascagni aveva diciannove anni. L’inno è quello di Schiller, musicato da Beethoven e Ciakovskij, in traduzione italiana, di Andrea Maffei.
In realtà è quasi un’opera, la prima al mondo di un allievo di conservatorio, un’ora e un quarto di musica per assoli e coro.

Giornale - La lettura del giornale Proust dice “”atto abominevole e voluttuoso”. Abominevole perché “leggere il giornale è caricarsi di tutte le disgrazie e i cataclismi dell’universo durante le ultime ventiquattro ore, le battaglie che sono costate la vita a cinquantamila uomini, i crimini, gli scioperi, le bancarotte,  gli incendi, gli avvelenamenti, i suicidi, i divorzi, le crudeli emozioni dell’uomo di Stato e dell’attore”. Piacevole perché, “a noi che non siamo interessati”  tutte queste disgrazie, “trasmutate, per nostro uso personale, in un regalo mattinale, si associano eccellentemente, in modo particolarmente eccitante e tonico, all’ingestione raccomandata di alcune sorsate di caffelatte”. Proust sorprende sempre – rispetto a quello del santino.

Grande guerra – Il trionfo dell’idea di nazione la vuole anche Junger, “La geurra come esperienza esteriore”, 1925, ora in “Scritti politici e di guerra”, come la prevalente pubblicistica storica. In realtà dell’idea di “primato nazionale”. “Dopo il tracollo”, nota, in Germania “si è tentato di far passare la grande ondata di entusiasmo, che allora aveva sollevato ciascun singolo ben al di sopra di se stesso, per una sorta di psicosi di massa”. Ciò è falso: “Allora la massa si rese consapevole dell’idea di nazione al di là di ogni forma, e questo comune soggiacere a un’idea evocò – proprio alla fine di un tempo che aveva fatto di tutto per riconoscere come credibile solo il visibile – quell’impressione possente, inaudita ed estranea a qualsiasi esperienza che nessun di coloro che l’hanno vissuta potrà mai dimenticare”.
Non fosse per lo “Stato guglielmino”, che “tramontò in quanto non seppe essere all’altezza di quelal grande prova di forza”. Lo Stato guglielmino e non la Germania: l’idea di nazione-primato era sempre viva.

Lingua doppia – In letteratura (poesia, romanzo) si può dire “positiva” – in opposizione alla “lingua biforcuta” degli indiani western. Accanto agli esempi illustri di scrittori che a un certo punto decidono – o tentano – di scrivere in un’altra lingua, che sentono più consona, Joyce, Pound, Lahiri in italiano, in inglese Conrad, in francese, Beckett e i tanti rumeni, Ionesco, Cioran, Éliade, Horia, su “Repubblica” Raffaella De Santis censisce un congruo numero di italiani che scrivono e\o pubblicano in altra lingua: Luca Di Fulvio, che ha un editore tedesco benché scriva in italiano, Gilda Piersanti, che vive a Parigi da trent’anni e scrive i suoi gialli – storie romanacce - indifferentemente in italiano e in francese, Francesca Marciano, che invece vive e lavora a Roma ma scrive i romanzi in inglese, Monaldi & Sorti, coppia anche nella vita, che vivono a Vienna e pubblicano in Olanda, su persone e cose indifferentemente italiane (anche una vita di Malaparte), viennesi, olandesi.
Marciano ama viaggiare, e scrivere in una seconda lingua dice un abito mentale, come parlarla. Con in più un effetto di estraniamento - non nel senso brechtiano: “È una forma di reinvenzione. Mi sento più leggera, scrivo in uno spazio vuoto che non ha testimoni, dove non mi porto dietro bagagli o costrizioni”. La lingua doppia sarebbe cioè favorevole alla narrazione pura – nel senso in cui ora la si intende, avulsa, anche asettica.
Notevolissimo è il fenomeno dell’adozione di una lingua per effetto dell’immigrazione, volontaria e\o forzata. Volontaria per via di matrimonio, o di studio, o di scelta di vita. Numerosissimi sono gli stranieri, di nascita e formazione, che scrivono in italiano: oltre a Edith Bruck e Helga Schneider, i casi di maggiore spicco, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek, Amara Lakhous, Younis Tawfik, Talye Selasi, Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, e numerosi altri, soprattutto del Nord Africa e dell’Est Europa. 

Maigret – Porta la bombetta! a Antibes, ne 1932. Questo cambia tutto, non può essere Gino Cervi, né Cremer. E la indossa, la porta al’indietro, in avanti, la toglie e la mette, anche se al Sud fa caldo. Vero è che vive e esercita per 41 anni, dal 1931 al 1972, quando Simenon decise di non scriverne piu, ma immutabile. E non sarà un po’ calvo? Veste anche inamidato, la camicia ha col solino. Il personaggio seriale è  l’attore che lo impersona – Montalbano è Zingaretti, e i caratteristi siciliani. O anche di Simenon si può fare a meno della filologia?
Le incongruenze del resto sono nate col genere, con Sherlock Holmes. Tante in quel caso che è stato, ed è, difficile impersonarlo in un attore, in un’immagine.  

Mare – Non s’immagina se non si vede? Jünger ricorda quando, “uomo dell’interno”, vide il mare la prima volta: “Fui deluso dalle onde: mi aspettavo che fossero almeno cento metri di altezza. Non erano alte nemmeno come le torri, come pretendevano i libri”. Un Robinson Crusoe nato sperduto nell’oceano non potrebbe dire altrettanto della terra, poiché deve avere un punto fermo.
Si può vivere senza. 

letterautore@antiit.eu


L’amore nella deiezione

Da una parte, fronte mare, la ricchezza, il lusso e la vita rispettabile, dall’altra, nei vicoli, la prostituzione e l’alcol. Un amore di ricco finisce nella prostituzione e l’alcol, fino alla gelosia. Un racconto simenoniano, svelto, ma un tema biblico.
Simenon scopre la Costa Azzurra – come dieci anni più tardi la Florida: entusiasta. Un altro mondo che il plat pays e i fumi del Nord. La storia è per una volta analoga, al Sud come al Nord, di sregolatezze.
Georges Simenon, Liberty Bar, Adelphi, pp. 138 € 10

martedì 9 agosto 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (296)

Giuseppe Leuzzi

Salvini a Roma in campagna elettorale, senza voti ma con i gazebo, sembrava una paparazzata: un farsi vedere per poi immortalarsi alle tv, delle quali non manca una – Non mancava: ora non lo chiamano più tanto. Perse le elezioni, invece insiste e vuole “un programma per il Sud”. Cioè, per liquidare il Sud? Che gliene frega, cosa sarà il Sud per un Salvini?

Reggio Calabria non è molto più lontana da Roma di Milano, 700 km. contro 575 secondo l’atlante del Touring. E non ha l’attraversamento dell’Appennino, che fino a un paio di mesi fa, per mezzo secolo, non si saputo quanto potesse durare, né i 200 km della Orte-Firenze nord in corsa ristretta affiancati dai tir. Ma è molto più remota, senza paragone: un viaggio a Reggio Calabria è quasi un  salto interminabile sul vuoto. Il “percepito” del Sud è il vuoto.
Da Roma a Milano si va in treno in metà tempo che a Reggio. Ma in autostrada è molto meno caro e più agevole.

“Maigret va al Sud” è una compilation Adelphi di tre romanzi maigrettiani di Simenon, “Liberty Bar”, “Il mio amico Maigret” e “La pazza di Maigret”. È un titolo editoriale. Ma l’incipit, da “Liberty Bar”, è un programma: “La prima sensazione fu di essere in vacanza”. Perché il Sud è – era per Maigret – vacanza. Ma non senza motivo: “Quando Maigret scese dal treno, la stazione di Antibes era inondata per metà da un sole così luminoso che la folla in movimento sembrava fatta di ombre”. Un Sud popolato di ombre.

Quello che più colpisce Maigret al Sud, nel secondo racconto della trilogia meridionale, “Il mio amico Maigret”, ambientato a Porquerolles, sono gli odori. Della cucina, “a base di aglio, peperoncino, olio e zafferano”. In stanza, sui materassi, “dell’olio con cui le donne si ungono il corpo prima di esporsi al sole”. E delle persone, dei capelli, della pelle, dei vestiti, “insieme tenue e piccante, non sgradevole”. Non ci sono odori al Nord? Il Sud è una scoperta.

La vita “pigra e serena” comincia presto al Sud di Maigret – questo è vero. È “la vita di gente che si alza presto, che ha molto tempo davanti a sé, e invece di agitarsi  lancia di tanto in tanto, in italiano e in francese, un grido di richiamo”. Anche questo è vero, è una vita comunitaria, il linguaggio è sottinteso. Ma solo con la calura?

Rocco Cotroneo ha l’occasione dell’Olimpiade di Rio per parlare sul “Corriere della sera” di Pasquale Mauro, “89 anni portati con esuberanza”, emigrato a sei anni da Paola coi genitori, il più ricco della metropoli brasiliana. Fosse emigrato a Milan, a quest’ora sarebbe in carcere, imparentato  con qualche famiglia di ‘ndrangheta – a Paola non si chiama ‘ndrangheta, solo tra Gioia e Locri, ma pazienza.
Anche a Rio ci hanno tentato. “È stato accusato di ogni cosa”, scrive Rocco, e lui ribatte: “Ma non ho mai perso una causa”. Ma a Milano sarebbe stato diverso: l’avrebbero arrestato per prima cosa, e addio business.

C’è mafia dove c’è Sicilia, procuratori e giudici – la condanna è modello, in cornice.
Anche coi napoletani, la camorra zavorra.

Sorrentino è un napoletano nostalgico, felice e infelice – di essere napoletano, anche se emigrato.
Nelle nostalgie che ha raccolto sotto il titolo “Tony Pagoda e i suoi amici”, dice Napoli soprattutto snob. Snob? Sì: “Napoli, questo lo dice Pagoda vostro, è la città più snob del mondo, rivendica continuamente la sua unicità. Non importa di cosa. Che sia il genio di Croce, o di Maradona, o la munnezza per strada, Napoli è sempre sfacciatamente orgogliosa se quella cosa ce l’ha solo lei”. Non è un complimento (è un complimento?).

Nord e Sud nella storia d’Italia
Un libro dimenticato del 1905, una sorta di tascabile diffuso da Laterza agli inizi dell’attività,  fu importante per stratificare i problemi del Sud nella “questione meridionale” come la coniò Giustino Fortunato. Nell’ottica comparatistica cioè che ha affossato più di tutto il Sud, implicita e esplicita:  che il Sud fa sempre, sempre sfavorevolmente è ovvio, misurare con il Nord. E fatalmente ributta il Sud fuori dall’Europa e un po’ anche dall’Italia, verso il Mediterraneo e l’Africa – come se l’Italia fosse estranea al Sud, immacolata. Fuori dai valori, oltre che dalla ricchezza, dell’Europa.
È “Nord e Sud attraverso i secoli” di Francesco Carabellese, storico e letterato di Molfetta. Che trova molte cause della divisione. La seconda guerra punica. I Lucani, i Bruzi e altre tribù rozze. La guerra sociale di Roma contro gli Italici. La discesa dei Longobardi. La discesa dei Normanni – ottimi peraltro, i Normanni come i Longobardi, ma al Nord: in Inghilterra, a Milano. Il Risorgimento. Subito dichiarando, al secondo dei sedici capitoletti: Il Feudalesimo finisce con lo stringere il Nord all’Europa occidentale, mentre il Sud si allontana verso l’Oriente”. Che però non conosceva il feudalesimo – così come anche il Sud, che lo conobbe (lo soffrì) poco: il feudalesimo comporta anche obblighi. 
Dimenticato pure un libro più recente, di cinquant’anni fa, “Le due Italie”, 1977, di David Abulafia, che con più acume e documentazione (listini, spedizioni, imbarchi, sbarchi.) cerca la divisione nella prima conformazione dell’Italia, nel Duecento – il sottotitolo dei suoi studi è “Relazioni economiche tra il Regno Normanno di Sicilia e i Comuni del Nord”. Abulafia, storico italianista a Canbridge di origine israeliana, parte dalla ricomposizione dell’unità economica dell’Italia, dopo la lunga deriva-decomposizione del mondo romano-ellenistico. L’unità economica ricompone secondo le vecchie caratterizzazioni produttive: il Sud agricolo, il Nord, erede degli etruschi, manifatturiero. Il Nord ricomposto, anche produttivamente, in unità di popolo locali, il Sud sotto il potere politico, prima che economico, di signori e proprietari, la vecchia struttura monarchico-centralistica bizantina, che poi sarà detta “borbonica”, essendo traslata pari pari in quella normanna, col tentavo abortito di creare delle strutture feudali – la Sicilia veniva riconquistata del resto agli arabi, che non avevano struttura feudale, e il potere politico centralizzato che ereditavano da Bisanzio avevano frantumato e quasi inesistente. Con la mercatura che cresce accanto alla produzione manufatturiera, e non con quella agricola. E rapidamente si trasforma anche in finanza, il mercante è banchiere, padrone occulto e remoto.
“Il senso completo di questa storia apparirà ancora meglio alcuni secoli dopo”, spiegava Galasso presentando l’edizione italiana di Abulafia, con le crisi del Trecento e poi del Cinquecento, “quando la potenza commerciale delle città dell’Alta Italia declinerà, e il loro ruolo verrà assunto da operatori di altri paesi, senza che la funzione dipendente e complementare del Mezzogiorno muti nella sua logica”. La crisi del Cinquecento, anzi, aggiunge Galasso, di cui furono “protagoniste in gran parte le città italiane”, consegnerà il Mezzogiorno agli operatori stranieri “in condizioni alquanto più sclerotiche e pregiudicate”.
Uno scambio si può dire “ineguale” già all’epoca – di una sorta di “ineguaglianza volontaria”, non c’era dominio imposto. Il Nord sfruttava-metteva a frutto le risorse agricole del Sud già nel Duecento: la prosperità della Toscana viene dall’Abruzzo in giù, lane, sete, etc. La diversa strutturazione economica agli albori dell’Italia Abulafia mette in parallelo con la diversa strutturazione politica maturata nel Duecento, tra città al Nord e campagna al Sud, tra signorie e comuni al Nord e feudi al Sud. È il solo errore: Abulafia chiama i latifondi feudi, ma il feudatario ha anche degli obblighi, mentre al Sud la proprietà resta assente\inerte, nella tradizione bizantina.

Il sesto continente
Perché il Mediterraneo, che è stato unito per un migliaio di secoli prima di dividersi tra Nord e Sud, tra cristianesimo e islam, non è stato un continente, il Sesto continente? Quando era anche la vera Europa, il Centro-Nord essendo tenuto fuori perimetro e lasciato alla barbarie, e tale è rimasto ancora per oltre mezzo millennio, avendo inglobato i barbari, fino alla scoperta dell’America. La riposta è che i continenti sono “continentali”, cioè massicci, compatti e chiusi. Il mare invece è aperto.
Il Mediterraneo è poi un mare “aperto” (chiuso, cioè in contatto) da tutti i lati, essendo un grande lago: a ogni suo pizzo si proietta un mondo terrestre, lo sviluppo di una storia e una cultura. L’elemento liquido, che favorisce le mescolanze, è d’altra parte spesso pure divisorio: le impedisce o oppone.
Ma mai era stato il Mediterraneo un luogo di passaggio. Una sorta di tapis roulant dall’Africa e il Centro Asia verso l’Europa, che s’intende al Nord. Nemmeno all’epoca della tratta degli schiavi. I mercanti di carne umana erano gli stessi di oggi, gli arabi delle coste, ma la direzione nei quasi quattro secoli dello schiavismo non fu verso l’Europa. Ora quindi il Mare Nostrum meno che mai potrebbe ambire a essere un continente.

È di questa (de)localizzazione, da cinque secoli ormai, che soffre il Sud, la parte più propriamente mediterranea dell’Italia, che pure è un Paese tutto mediteranno. Come la soffrono i Balcani, il Sud della Francia, e l’area mediterranea della Spagna – questa fino a qualche anno fa, finché non si è venduta come seconda casa alla Germania. 

leuzzi@antiit.eu

Pessoa meglio non a cena

Un racconto dei più celebrati di Pessoa, “A Very Original Dinner”, e uno dei suoi problemi polizieschi, “Il furto della Villa delle Vigne”, una lettura per fortuna breve. Una cena prevedibile, e un problema irritante tanto è fumoso.
Il racconto non è nelle corde del poeta, che pure ci ambiva. Non lo è per il misto di occultismo e di ricerca (innovazione, futurismo di risulta) che lo divoravano e su cui non si indaga. Pessoa si voleva di “posizione sociale anticomunista e antisocialista” e uno che ha “sempre nella memoria il martire Jacques de Molay, gran Maestro dell’Ordine dei Templari”, nonché amico e sodale di Aleister Crowley. L’opera letteraria andrebbe rivista alla luce della rivista d’avanguardia “Orpheu” che creò con Mario de Sá-Carneiro.
Fernando Pessoa, Una cena molto originale, Il Sole 24 Ore, pp.78 € 0,50..

lunedì 8 agosto 2016

Trump allontana gli iscrtti

All’improvviso i sondaggi si sono rovesciati, e da dieci punti di vantaggio a Trump ora ne assegnano dieci a Hillary Clinton, il candidato “unreal”. Potenza di Madison Avenue, che negli Usa – e in mezzo mondo - fa e disfa l’opinione pubblica in relazione agli investimenti che vi si fanno. Ma esito anche di una preoccupazione sostanziale della base e dell’organizzazione del partito Repubblicano. Che era sicura di una solida maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, se non al Senato, e quindi di una minoranza di blocco in caso di vittoria di Clinton alle presidenziali. E ora vede questa maggioranza svanire per le manifeste  resistenze di molti elettori repubblicani iscritti a lasciarsi trascinare da Trump.
Il candidato che si è imposto al partito porterebbe molti voti da fuori, nel volto presidenziale, ma ne farebbe perdere al partito nel voto parlamentare federale, e nel voto locale, per le assemblee statali e i governatorati.

A rischio la “redistribuzione” Repubblicana del voto

Il partito Repubblicano è partito sicuro nella campagna elettorale di avere comunque la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti e negli Stati (nelle assemblee legislative statali e nei governatorati), così come fa da un paio di decenni, grazie all’accorto ridisegno delle circoscrizioni elettorali – il cosiddetto “redistributing”, o “gerrymandering”. Il ridisegno, sempre praticato in America, fin dalle prime elezioni, ai primi dell’Ottocento, è stato portato a scienza quasi esatta dal partito Repubblicano. Con lo studio minuto del voto locale, blocco per blocco, se non casa per casa. E la mobilitazione degli elettori registrati, noi diremmo tesserati.  Specie nelle votazioni di medio-termine, dove l’elettore speso si astiene - all’ultimo voto di medio-termine, due anni fa, solo un terzo degli elettori registrati Democratici ha votato.
Un strategia elettorale messa a punto sotto le presidenze Clinton vent’anni fa, e applicata con pignoleria dopo la débâcle del 2008, l’anno della prima vittoria di Obama. In due anni, alle elezioni mid-term del 2010, i Repubblicani seppero ottenere 63 seggi in più, col controllo della Camera dei Rappresentanti, sei senatori in più, 29 dei 50 governatorati statali e 26 legislature statali..
Una “redistribuzione” programmata, in un progetto Redmap, o Redistributing Majority Project. Che ha consentito loro un semi-successo anche nella sconfitta reiterata del 2012: i Democratici ebbero un milione e mezzo di voti in più dei Repubblicani nelle elezioni per il Congresso, ma solo otto seggi, in tutto, in più. Mentre i Repubblicani, protetti dalla “redistribuzione”, mantennero una maggioranza solida di 33 seggi alla Camera bassa. Un risultato senza precedenti nei settanta anni dalla fine della guerra, che il partito che aveva stravinto al voto per il Congresso non ottenesse la maggioranza dei Rappresentanti.
I Repubblicani vengono da una solida maggioranza locale, dopo il voto di medio-termine del 2014, che ne ha confermato la strategia: 32 governatorati, dieci in più rispetto al 2009, 33 delle 49 Camere dei Rappresentanti statali, e 35 dei 49 Senati statali (il Nebraska h un sistema unicamerale). Nel complesso, i Repubblicani hanno, fino al voto di novembre, 816 seggi parlamentari statali in più di quanti ne avevano prima della seconda vittoria di Obama.
Un effetto della redistribuzione è di favorire gli elementi di partito più radicali. Quindi, nel caso dei Repubblicani, quelli più di destra - Obama ne ha fatto le spese: i presidenti Democratici hanno sempre potuto contare sui Repubblicani moderati in Congresso per alcuni iniziative politiche o legislative, Obama mai. 

Svanisce negli Usa il Centro bianco

La radicalizzazione politica è un problema in America. Almeno 300 seggi parlamentari alla Camera dei Rappresentanti, su 435, sono di “estremisti”, Repubblicani o Democratici. E questo nella scienza politica americana equivale all’impossibilità di governare. Di governare una società che si definisce “diversificata” e ha quindi bisogno sempre di una mediazione degli interessi.
La Camera dei rappresentanti è il luogo di mediazione degli interessi diversificati, eletta in collegi uninominali ma in rapporto alla popolazione residente, in base all’ultimo censimento ( fatto salvo un rappresentante legale per gli Stati poco popolati, Alaska etc.)
Il fenomeno è alla base anche del risentimento “bianco”. La polarizzazione e la “redistribuzione” – il ridisegno delle circoscrizioni elettorali – hanno portato i Democratici ad avere una rappresentanza dai tradizionali feudi elettorali del Sud quasi esclusivamente di colore. Lo stesso fenomeno comincia a manifestarsi nelle (ex) zone industriali del Nord.

La Sicilia meglio da vicino

Un apologo, ghino, ino ino, sull’Italiano pusillanime: imbroglione, violento, cambia casacca, e sempre fascista. Su fondo boccaccesco – la “biddrizza da fari spavento”, venticinquenne vedova, vedova due volte riceve in casa, ogni amante un giorno. Con una lettera di Giuseppina Torregrossa “Al Maestro”, per dare all’aneddoto consistenza di libro, quindi con molto rigaggio.
Torregrossa ringrazia Camilleri di aver dato cittadinanza alla parlata siciliana – che la scrittrice sembra ritenere una per tutta l’isola - con “le “e” larghe come la piazza di Vigata”, e le “”o” strascicate come la strata longa tra Vigata e Montelusa”. Ne è sicura Torregrossa, che il Maestro ha esorcizzato il siciliano? Gli italiani potrebbero risentirsi, di essere “targati” come nel racconto.
Torregrossa vuole anche insegnare a Camilleri che non è vero che le donne eccitano gli uomini: gli uomini sono porci senza bisogno di allettamenti. La Sicilia è meglio da vicino.
Andrea Camilleri, La targa, Rizzoli, pp. 87 € 10

domenica 7 agosto 2016

Il mondo com'è (271)

astolfo

Cesare – Un aristocratico impoverito - fece di necessità virtù. E un intrigante, più abile di tutti in un mondo di intrighi (Crasso, Pompeo, Cicerone, e tutti gli Optimates, Catone in testa).

Matriarcato – L’opinione degli studiosi africani concorde, almeno di quelli dell’Africa Occidentale, attorno al golfo di Guinea, di Cheikh Anta Diop, Léopold Sédar Senghor, Josepgh Ki-Zerbo, e dei caraibici, di Haiti e altrove, Aimé Césaire, René Depestre, Patrick Chamoiseau, Raphaël Confiant, è che nelle società sedentarizzate, moderne e antiche, comprese le africane, il regime è sempre matriarcale. Anche dove le religioni, gli usi  o gli Stati privilegiano gli uomini. Anzi con più sostanza in questi casi, poiché le leggi danno l’illusione del potere, mentre al riparo da esse le donne tessono la rete dei controlli reali.
Roger Bastide ne ha trovato ramificazioni in tutti i rivoli dei due triangoli americani, matrice il golfo di Guinea, i cui figli, camuffati da servi nella commedia della storia, hanno stregato gli indiani e gli stessi europei, attraverso vudù, macumbe e candomblé, danze, misteri e trances. Attraverso il punto nodale - che Bachofen non ha individuato perché nell’Ottocento la famiglia era fuori della storia e della sociologia, essendo un valore ideale – della procreazione. Una “strategia” femminile si svilupperebbe dentro la famiglia con la procreazione, per tracce quindi indelebili: il sangue, il cibo, i calori, le radici della volontà, della produzione di figli la madre essendo fattrice e custode.
La donna è stata in effetti assoggettata nel breve periodo del nomadismo, quando i figli venivano abbandonati o uccisi, sopratutto le femmine: era moglie nel breve momento in cui era vaso del cavaliere, per il resto era serva. E non c’è nomadismo in Africa al di sotto del Sahara, da tempo immemorabile: non si fuggiva dal continente che oggi, senza l’aria condizionata, sembra invivibile.

Pirateria – È oggi per la prima volta estinta – confinata a poche operazioni, di poco conto, con imbarcazioni di minimo stallaggio e nemmeno veloci, sulla costiera africana dell’Oceano Indiano. Fino all’Ottocento inoltrato ha sempre imperversato nel Mediterraneo, e dopo la scoperta dell’America nel’Atlantico. Dove agì anche come braccio armato nelle guerre tra le grandi potenze, specie tra Spagna e Inghilterra – a beneficio dell’Inghilterra.
Fu un atto di pirateria l’11 settembre della Repubblica romana, di Roma antica. Nel 68 a.C. la flotta militare romana fu data alle fiamme nella base invernale di Ostia, e due pretori, Sestilio e Bellino, che si trovavano a Ostia per ispezionare la flotta e i magazzini, furono rapiti insieme con i collaboratori e le guardie del corpo (i littori, sei ciascuno). Furono distrutte diciannove triremi da guerra, e due magazzini di granaglie. Circa duecento uomini furono uccisi. Una richiesta salata di riscatto fu presto inviata per i due pretori. Era l’ultimo di una serie di attacchi pirateschi nelle vicinanze della città: alla base di Gaeta, a quella di Brindisi, ai tesori del grande tempio di Crotone, e a Capo Miseno, dove anche la flotta militare svernava, dove era stata rapita a scopo di riscatto la nobile Antonia.
Analoga a quella americana dell’11 settembre fu la reazione di Roma all’attacco a Ostia. Le voci più incredibili sulla capacità offensiva dei pirati si accreditarono: avevano mille navi, avevano un’organizzazione multinazionale, avevano armi terribili, come le frecce avvelenate e il fuoco greco, avevano rifugi inattaccabili. Lungo la via del Mare fu disposta una  serie di pali segnaletici cui dare fuoco quando le navi dei pirati fossero viste risalire il Tevere… La lotta tra Pompeo e Crasso si intensificò. Pompeo ottenne il comando di tutte le truppe, di mare e di terra – e i pirati sgominò in poche settimane. Ma fu una prova generale della dittatura: l’effetto fu dirompente sugli equilibri politici di Roma, e la lunga guerra civile si avviava senza saperlo, che culminerà con la dittatura di Cesare.

Pornocrazia -  Non è italica, curiosamente – Matilde di Canossa, e poi chi altri, Caterina Riario Sforza – ma senza successo? Caterina dei Medici poté esercitare solo in Francia. La “pornocrazia” nel senso di governo delle donne, che ora si dovrebbe inaugurare negli Usa con Hillary Clinton, dopo la Germania di Angela Merkel – altri due paesi che ne sono stati immuni. Fu singolarmente assente nella storia di Roma, sia repubblicana che imperiale. Nemmeno sotto forma di intrigo o di governo surrettizio, di madri, sorelle, spose o amanti su compagni deboli. Ci sono esempi nell’antichità di governo delle donne in tute le esperienze note, nella storia e nell’antropologia, ma non a Roma. Ce ne sono a Roma perfino nella chiesa, nella storia-leggenda della papessa Giovanna, ma per la Roma classica nemmeno sotto questa forma parodistica. Per non dire - della chiesa -  delle tante donne ch ne dominarono le assise attorno all’anno Mille. Per esempio di Marozia,. Figlia di papa, amante di papa, e madre di papa - Maria dei Conti (di Tuscolo), detta Mariozza, storpiato in “Marozia”, riuscì a imporre a Roma tre papi, l’ultimo dei quali, Giovanni XI, era suo figlio bastardo, adulterino e sacrilego, frutto degli amori con papa Sergio III, amori di quando aveva tredici anni. 

Razzismo – Se ne è detto e se ne dice molto, ma il fatto storico è semplice: nasce in Europa, con la tratta dei negri. In Spagna, Portogallo, Inghilterra, Olanda, Francia, le nazioni che esercitarono per tre secoli la tratta. In un mercato rifornito dagli arabi. Schiavi – schiave – ce n’erano anche prima nell’Europa cristiana moderna. Provenienti dal Nord Africa e dall’impero ottomano. Pochi anche dall’Africa, ma come curiosità, e curiosamente in genere presto affrancati. Ma dopo Colombo gli africani divennero merce privilegiata, un mercato continentale: l’Africa fu letteralmente spopolata e trapiantata.
Così ne riepiloghiamo la stoia in Astolfo, “La gioia del giorno”:
La scoperta dell’Africa è recente, fu fatta dai posteri. Ogni giorno per cinque secoli da quando, il 6 gennaio 1454, papa Niccolò V diede ai portoghesi in esclusiva la tratta dei negri affinché venissero tratti alla fede in Cristo. Era un papa pio, Tommaso Parentucelli, umanista, non nepotista, committente a Roma di fra’Angelico e Benozzo Gozzoli, bibliofilo e fondatore effettivo della biblioteca Vaticana con la donazione della personale collezione di 1.200 manoscritti, il primo dei papi del Rinascimento, ansioso di reagire alla rovinosa caduta di Costantinopoli sei mesi prima, che, dicono le cronache, “riempì l’Europa di orrore e paura”. Caduto nel vuoto il suo invito alla crociata, il papa si preoccupò si salvare il resto del mondo.
“Il compito fu diviso mezzo secolo dopo, in tempo per ripopolare l’America che la scoperta decimava coi suoi virus, da papa Alessandro VI Borgia fra i portoghesi e i suoi connazionali spagnoli con la famosa raja a 270 miglia a Ovest delle Azzorre tracciata nel trattato di Tordesillas, allargando con la concorrenza il mercato. Presto i contratti registrarono “toneladas de negros”, “mil toneladas de negros” e fino a “diez mil toneladas de negros”, prima per l’Europa, poi per le Americhe.
“Si estingueva il mercato degli «sciti», di chiunque cioè vivesse fra la Grecia e la Cina, che Venezia importò in quantità nel Tre-Quattrocento - “sozza gioventù” e commercio luttuoso, a giudizio del Petrarca, avendo “inquinato con la deforme turpitudine dei volti di Scizia l’immagine bellissima” della Serenissima, paragonabile a “un torbido torrente che si riversi in un fiume purissimo”, che il poeta meglio avrebbe visto “nei suoi campi pietrosi a strappare con i denti e con le unghie le poche erbe”. In tutto solcarono l’Atlantico quindici milioni di africani, non contando i dieci commerciati dai vicini arabi: tre olocausti legali, più almeno uno per ripascere l’oceano. Dieci di essi, dieci milioni, furono trasportati e venduti da negrieri olandesi, che erano operosi, mentre gli iberici posavano a signori – e questo senz’altro incide sull’accumulazione, sulle origini del capitalismo. Il mercato raggiunse il culmine nel Settecento, che si pose e risolse il problema di dargli fondamento ideale con il razzismo, la cultura primitiva diventando mente primitiva…..
Spiegò Bossuet, giansenista intransigente, uno che si dimise da vescovo: “Condannare la schiavitù è condannare lo Spirito Santo, che ordina agli schiavi, per bocca di san Paolo, di restare nel loro stato, e non obbliga i padroni ad affrancarli”. È un secolo che i vescovi supplicarono il papa di “anticipare i tempi in cui sarà tolto l’anatema sui discendenti di Cam”, l’anatema della Bibbia, senza risposta. Era al Concilio Vaticano, del 1870. Il Dio dei cristiani è biblico, nei tempi come nelle maledizioni”.

La tratta non è più, da tempo, materia di studio, ma nella durata e l’impatto non è oggetto di contestazione. Col razzismo collegato alla tratta fu elaborata anche la dottrina della “limpieza de sangre”. Che di fatto ha imperversato fino a recente, nelle guerre tra ex jugoslavi, ma teoricamente non ebeb fortuna e fu presto abbandonata – indimostrabile, e anche molto classista: le genealogie sono classiste. Vennero in sua vece le “giustificazioni”, biologiche e culturali. All’insegna dei primati, della superiorità. Vennero dopo un paio di secoli, dopo che era partita la gara nazionalista in Europa. Avviate anche accademicamente, in ambito anglo-tedesco, con l’università di Gottinga, fondata nel 1740 per sancire questa supremazia, che presto si illustrerà col mito “ariano” – ariogemanico.

Re –Sono un simbolo, e più spesso che non sono stati scelti fuori tribù. Erano del resto elettivi, la  discendenza regale è recente e limitata. Molti sono stati quelli “adottivi” di origine tedesca, in Russia (Caterina II), Grecia, Messico, in Spagna, e soprattutto in Inghilterra. Le grandi inimicizie europee del’Otto-Novecento si sono coagulate attorno a principi tedeschi, di Germania e di fuori. L’inimicizia franco-tedesca, cui dobbiamo le due guerre mondiali, divampò nel 1870 (aveva precedenti nel Sei-Setteceto, e nelle invasioni rivoluzionarie, cioè napoleoniche, ma fu combattuta alla morte con le guerre mondiali) attorno all’accessione di un principe tedesco al trono di Spagna.  
Sul rapporto anglo-tedesco, invece, la comune dinastia tedesca – i Windsor erano Sassonia-Coburgo fino al 1914 - incise poco: il kaiser si diceva volentieri il cugino dei regnanti a Londra, ma i cugini inglesi ci sentivano poco: la nozione di equilibrio, che la Germania sfidava nel continente e con la flotta, ha prevalso sul sentimento dinastico. Sia nel 1914 che nel 1939 Londra sapeva dei piani tedeschi di egemonia in Europa, che solo aspettavano un casus belli – come era avvenuto nel 1870 – e si schierò senza tentennamenti.


Tribù – Roma repubblicana era divisa in 35 tribù. Il consenso politico alle tante elezioni che costellavano la vita politica si acquisiva per tribù.

astolfo@antiit.eu

Il ritorno di Roma

Roma è sempre viva e combatte, anche senza di noi. Nei peplum, che noi chiamiamo kolossal, i filmoni d’epoca tornati sul mercato con “Il gladiatore”.  E con gli studi, che solo in Italia sono negletti: in Francia, come in Inghilterra e negli Usa, sono sempre effervescenti.
Badel, lo storico della famiglia e dell’alimentazione a Roma, e Inglebert, storico della cristianizzazione, si sono divertiti a raccontare l’impero in cartine e grafici, a colori, dalle guerre puniche a Giustiniano: la domanda è forte, la curiosità diffusa, altrove – c’è anche una “Storia di Roma in 100 mappe”, tutto un filone editoriale.
Christophe Badel-Hervé Inglebert, L’impero romano in duecento mappe, Libreria Editrice Goriziana, pp. 364, ill., € 30