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sabato 30 maggio 2009

Made in Germany senza appeal

Questo sito si diceva sicuro all’inizio della trattativa (http://www.antiit.com/2009/05/fiat-1-niente-italia-in-germania.html) che mai la Fiat avrebbe avuto Opel, per motivi “razziali”: mezza Germania sarebbe morta dalla vergogna. Il partito del Nord, del Kulturkampf, della Germania über alles (le tre cose coincidono, coincidono) ha avuto facile gioco di Baviera e Svevia, i socialisti e i metalmeccanici dei cristiano-democratici e sociali – che, al solito melliflui, si accontentano di vincere le elezioni. La soluzione è stata quella che si sapeva: meglio un compratore inesistente, ma gestito da austriaci, che uno competente, ma italiano. Anche a costo di doversi confrontare col non amato Putin, che si vorrebbe il dominus della soluzione Magna.
La gara è tuttavia una sconfitta per la superiorità germanica: una delle sue più grandi aziende non ha avuto in realtà acquirenti. Non interessati a ogni costo, nemmeno determinati. Compresi gli stessi russi, ai quali è andata in regalo. E questo non per altro, ma proprio perché l’azienda è tedesca. Basta vedere il diverso impegno sulla Chrysler, il cui salvataggio è certo più difficile della Opel. Non molti si fidano della Germania. Con tutto il parlare che si fa di mercato, libero scambio, unione europea, la Germania è un mercato chiuso. Attraverso la cogestione sindacale delle aziende, i regolamenti sanitari e ambientali, flessibili ma molto inflessibili, il gioco della autorità sovrapposte, federali e statali (la notte della Cancelleria ne è stata la farsa). E una sovranità, soprattutto, intangibile. A Bruxelles, nella Wto, e ovunque. Non negoziabile: la Germania è il paese che fa quello che vuole, con cui si dialoga di meno. Meno che con la Russia e con la Cina, che è tutto dire. Benevolente a volte, ma nulla di dovuto.
Un secondo aspetto che inficia la superiorità è che, dopo la Opel, la Germania resterà über alles dentro la Germania. D’ora in poi non le sarà facile allargarsi negli Usa, e anche in Europa.

A Sud del Sud - a Sud di nessun Nord (36)

Giuseppe Leuzzi
Osserva madame de Staël in “Corinne ou de l’Italie”: “Il culto della Vergine è particolarmente caro agli Italiani e a tutte le nazioni del Mezzogiorno; sembra allearsi, in qualche modo, a ciò che c’è di più caro e di più sensibile nell’affezione per le donne”. Il passo ha colpito anche Craufurd Tait Ramage, il viaggiatore scozzese, che lo cita in “The Nooks and by-ways of Italy” p. 86, concludendo: “Madame de Staël ha ragione”. Tutto questo si diceva, da conoscitori sul campo, nel primo Ottocento. Bisognerà rifare la sociologia. 

Avendo scoperto a ottantacinque anni la Magna Grecia, Borges se ne dice emozionato. E si ricorda commosso che Snorri Sturluson, il cantore dell’“Edda”, la saga nordica, arrivato all’etimologia del dio Thor, il Giove del Nord, che anch’esso dà il nome al Giovedì-Thursday, afferma che era in origine fratello di Ettore, per l’assonanza dei nomi, e figlio di Priamo: “Naturalmente l’etimologia è falsa, ma è quel desiderio che conta…”, dice Borges: “Sturluson scriveva in Islanda, e là ci si voleva in qualche modo legare al Sud, avvicinarsi all’Eneide… Partecipare della cultura mediterranea”. Lo stesso desiderio, dice Borges, è in altra parola fondamentale: Vaterland-Motherland, che traduce il concetto latino di patria: “Non è questa un’idea che avessero i germani, giacché per loro ciò che contava era appartenere a una certa tribù ed essere fedeli a un determinato capo”. Che un argentino scopra la Magna Grecia attraverso Snorri Turluson, questa è un’altra parte della storia. 

 La mafia dev’essere potente, potentissima, ultrapotente. Fare la politica del Tesoro e quella degli Esteri, oltre che quella dell’Interno e dei partiti tutti, senza distinzione. Più quella della Casa Bianca, e del Cremlino suo feudo. Perché così sarà ultrapotente l’antimafia. 

Lega 
C’è sempre uno che è più meridionale degli altri. “«Forse è anche un po’ troppo rustico nei modi, non trovi?», disse Buddenbrook al console. «Eh, che vuoi, è un meridionale», disse il console soffiando il fuoco nella stanza” Il meridionale dei “Buddenbrook” viene da Monaco di Baviera, che era ed è la città più ricca della Germania, al centro della regione più ricca, ma innominabile per un amburghese. L’amburghese è anche poco tedescofilo e piuttosto anglofilo. Così come i lombardi, o i veneti, che a correnti alterni si scoprono tedeschi. Bisogna sempre guardare in alto. 
 Il patriottismo delle piccole patrie è in chiave leghista il “narcisismo delle piccole differenze” di Freud. C’è un particolare piacere, notava Freud, nell’odiare, disprezzare, perseguitare, o quanto meno ridicolizzare, il vicino più prossimo: i portoghesi per gli spagnoli, i tedeschi del Sud per i tedeschi del Nord. Il fatto è che Bossi ci ha tolto, a mezza Italia se non a tre quarti, la tradizione. Non ci sono più i punti di appoggio, quasi tutti lombardi: i Foscolo, i Monti, i Parini, i Manzoni, gli Amatore Sciesa, i Viva Verdi, e forse anche Cavour. Resiste stranamente Garibaldi: per l’aspetto ribaldo?

Sicilia 
Nel 1984 Borges è stato a Palermo e ha scoperto che i siciliani si dicono normanni. Non capisco perché, si dice. No sa che cos’altro i siciliani dicono di se stessi. 

 Dice Aragon di Quasimodo: “In Quasimodo la Sicilia spiega il mondo”. Che è semplice. Ma è anche ambivalente: che la Sicilia spieghi il mondo è ambizione non soltanto di Quasimodo ma di tutti i siciliani. Ed è inutile cercare se è fondata: è folle, affascinante. 

 La Sicilia sarà sempre stata una colonia, come dice il Gattopardo. Li mettono dentro senza riguardi come mosche appena scoprono che sono siciliani, banchieri, cavalieri del lavoro, poliziotti, prefetti, perfino giudici – ci hanno tentato con Falcone. 

Può darsi che i siciliani siano tutti corrotti e stupidi. Ma è improbabile. Li inchiodano con la sicilianità: la mafia come carta moschicida, a nessun costo. E se avessero la schiena incurvata, con tutte le loro grandezzate e spietatezze? 

Non sanno non essere eccessivi. Il vescovo Quadrarius Famidius non li amava. Il vescovo normanno di Palermo, che costruì la cattedrale, in una lettera definisce i siciliani “astuti nel far del male e neutri di fronte all’offesa”. 

 Ai bambini francesi, secondo Valéry Larbaud “Color di Roma”, 48), si usava dire che “soprattutto le api italiane sono cattive”. Ma venivano dalla Sicilia. 

 Milano 
Una Medea in riva al Lario non fa freddura. Nonché sembrare improbabile - ci vogliono per questo passioni forti. E d’altra parte la moglie di Berluconi è una Medea atipica: vuole sì distruggere i figli e il marito, ma senza essere stata tradita. 

Le donne delle tragedie, Medea, Fedra, Didone, vogliono essere prima abbandonate – Antigone no, ma lei era proprio la figlia di Edipo. La moglie di Berlusconi no: ha l’addetto stampa, interviene alle elezioni, e ha abbandonato lei per prima il marito, giustificandosi col porcile di Roma che è maleodorante. In questo è, senza freddura, una vera Medea di Lombardia, dove la più forte passione è il calcolo. 

 È a Milano e non a Napoli, dice Dionisotti nella sua “Geografia e storia della letteratura”, p. 170, il destino dell’Italia, già nel Quattrocento. Quando Milano decadde, passando di mano in mano, si ebbe il sacco di Roma, la fine della politica medicea, la fine di Firenze, eccetera.

 Tornerà questo triste passato con la moglie di Berlusconi? “Noemi è una ragazza che abbiamo portato avanti con amore e siamo orgogliosi di lei e di come si comporta. Nessuno può smentire questo, da Veronica Lario in giù”, dice il signor Letizia, ospitato dal “Mattino” di Napoli per un’intervista riparatrice: “Per il resto credo che ognuno debba guardare dentro casa sua e non in quella degli altri”. 

Nella farsa dei Berlusconi un po’ di buonsenso. Ma non per il “Corriere della sera”. Sul giornale di Milano Fulvio Bufi ne dà notizia così: “Mia figlia è illibata. Ricordatevi questa parola: illibata”. E basta. Vogliono ironizzare, Bufi e il giornale, e noi sappiamo perché. Mentre che in casa di Veronica-Medea Lario-Berlusconi le figlie fingano di studiare e facciano figli veri, con chi capita, questo non è materia d’ironia né fa notizia. 

 Le due Moratti, la moglie del petroliere, sindaco di Milano, e la moglie del presidente dell’Inter, si fronteggiano da Santoro sulla gestione dell’Expo 2015. La Moratti dell’Inter, che al Forte dei Marmi, dove ha la villa più sontuosa, si candida per Rifondazione, attacca la cognata per le speculazioni edilizie. La Moratti sindaco ribatte: “Alle ultime elezioni eri in lista col mio avversario, il prefetto Bruno Ferrante. E Ferrante lavora con il gruppo Ligresti”. Poche righe sui grandi giornali, e nessun commento. Nessuno sdegno da parte dell’incredibile Stella, che se la cosa avesse avuto odore di meridione ci avrebbe ammannito almeno un paio di paginate. I fratelli Moratti, e le loro mogli, non sono nemici e anzi si frequentano. Mourinho, l’allenatore dell’Inter, che lo onora con l’ingaggio più alto al mondo, anche se ha fatto sfigurare la squadra di fronte all’Anorthosis, dice e ripete quanto il Real Madrid sia squadra più bella e affascinante dell’Inter. Il patron dell’Inter Moratti risponde allungandogli e migliorandogli l’ingaggio. È Milano: ragiona a calci in culo. 
 Rabelais ha un préstinateur, uno a metà tra il predestinato è l’impostore. Il neologismo viene riferito a Calvino, ma potrebbe ben essere l’ambrosiano. L’ex ministro Lucio Stanca confida la verità a Roberto Gervaso sul “Messaggero”, l’Expo milanese del 2015 è un investimento colossale: “L’Expo vale tre volte il ponte di Messina, si spenderanno quindici miliardi”. leuzzi@antiit.eu

venerdì 29 maggio 2009

Il Muro non è caduto vent'anni fa

Si celebra di tutto, perfino il decennale della morte di Wolfendotir, scrittrice islandese, per dire, ce ne sarà una, ma non i venti anni della caduta del Muro. Venti anni fa fuggivano i giovani e i non più giovani, in treno, in macchina, in barca e a piedi, dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia, dalla Germania Orientale, mentre i kapò del sovietismo allargavano le braccia rassegnati. Lilli Gruber ne intervistava pure che esibivano un sorriso umano e si candidavano a libere elezioni. Ma nessuna celebrazione se ne fa.
Dopo quasi un secolo si è ristabilita nel 1989 in Europa una situazione di pace non guerreggiata, e niente, la cosa non merita un ricordo. Nemmeno per l’estate, stagione solitamente vuota di eventi, se ne preannunciano: ricostruzioni, convegni, memorie speciali, libri, saggi. Non a Bruxelles, che naturalmente non esiste, ma neppure in Germania e in Italia, dove il silenzio si sente. Forse perché la caduta del Muro ha coinciso con il crollo del comunismo sovietico, e questo non si può celebrare: Germania e Italia sono Paesi per i quali il sovietismo è caduto ma non nei cuori. In Germania nel vecchio cuore di pietra anarchico, in Italia nel conformismo parrocchiale.
Ed è ancora la parte migliore della storia. Perché sicuramente verrà riesumato Gorbaciov, se non è morto, l’unica faccia presentabile di settant’anni di storia. E si dirà: visto, non tutto era bacato, il mercato ci ha portato alla crisi. L’oblio non è trascurabile, è una forma dell’ipocrisia: non si fa la storia (non c’è stata una storia libera del sovietismo, in venti anni), e anzi si contrabbanda con uno slogan, una faccia. Da sinistra: la sinistra, che si è formata politicamente per portare la verità nella storia, si esaurisce in piccoli artifici pubblicitari. Si può parlare di crisi del comunsimo, è vero, ma solo se riguarda la Cina e Tienanmen, che, non sappiamo bene cosa è successo, ma ci può commuovere tutti: la Cina è lontana.

Berlusconi 2: dell'antipolitica il re è lui

Ci si interroga ancora, dopo quindici anni, sui motivi del successo di Berlusconi. Per il populismo si diceva, ma non ha funzionato. Per la politica spettacolo si dice, ma non funziona: Berlusconi come uomo di teatro è un flop, e anzi si danneggia. A meno che per teatro non si intenda la Commedia dell'arte, di cui gli italiani furono maestri, ma si pensava di un tempo antico: dei suoi personaggi buffi e delle sue situazioni Berlusconi è interprete sempre azzeccato. Ciò spiega tra l'altro le sue esagerazioni, quelle uscite che si pensano dannose e invece non lo danneggiano. Ma allora non è tanto di teatro che si parla, quanto del fatto che l'Italia vive ancora al ritmo e ai canoni della Commedia dell'arte - per mancanza di meglio? per scelta di vita?
Si potrebbe anche parlarne seriamente, malgrado il boccaccesco che gli viene ora riversato addosso (mancava, questo sito lo ha tempestivamente segnalato). Le elezioni del 2008 hanno manifestato in modo perfino eccessivo la vera ratio del voto al centro-destra: l'attenzione del centro-destra verso i problemi. I problemi di oggi, non quelli di ieri: il governo della spazzatura e dei terremoti, e della globalizzazione in qualche misura, le schiavitù fiscali, la sicurezza, di polizia e economica, contro la speculazione e i paradisi fiscali, più opportunità per il lavoro autonomo, più previdenza, meglio distribuita, più certezza processuale se non normativa, e quello che rimane del welfare. Altro che fascismo, questo sarebbe un governo minimo, e tuttavia è singolarmente mancante, se non per la politica, sia pure in forma di "uscite" estemporanee, di Berlusconi. Il vero fascismo sarebbe oggi l’estremismo dei vecchi baroni dell’università e dell’editoria, e degli agitatori di piazza, sia pure televisivi, al solo fine della audience, per la battuta, per potersi dire migliori. Che non sono di sinistra – se sono fascisti! Ma che la sinistra si beve avidamente, questa sinistra che respira solo con la Rai, le liberalizzazioni, le privatizzazioni, il business più spericolato, e l’anticlericalismo. Ma non è tempo di parlarne, non ancora.
Berlusconi prospera per la sbrigativa personalizzazione dell’esecutivo, cioè per la principale obiezione delle opposizioni? E' possibile, gli si oppongono Montesquieu molto immaginari: presidenti della Repubblica subalterni al Csm, partiti dinamitardi delle Camere, con l’irrisione, le assenze, gli emendamenti a migliaia, e giornaloni pierini di nessun credito. È insomma tempo di aggiornare la biografia dell’uomo che ci governa (http://www.antiit.com/2007/11/il-mondo-com-2.html).
Sempre si dice che Berlusconi è un profittatore, un trafficante, un evasore fiscale e un corruttore, nonché un fascista e un capomafia, ma con cautela, poiché è uno che qualche volta ha perduto le elezioni e le altre volte si è fatto eleggere regolarmente, e allora bisognerebbe dire che gli italiani sono ladri e fascisti, come fanno all’“Economist”, la bibbia del ladri, quando sono sobri. Oppure dimettersi da italiano, e altre cose lacrimevoli. Ed è vero che è in lotta con i giudici. Ai quali minaccia sempre una riforma che poi non fa, e quindi non si sa se non è un gioco delle parti, tra giocatori un po' cialtroni. Roba loro, insomma. Ma è difficile credere che siano solo dovuti e casuali gli avvisi di reato che arrivano il giorno in cui si apre una campagna elettorale, oppure tre giorni prima del voto, o il giorno prima di una Conferenza Onu sulla criminalità, o il giorno della Conferenza mondiale sulla fame. O il giorno dopo che un sindaco vezzeggiato ma incapace è finito al ballottaggio. Non con una pratica formale ma con anticipazioni e indiscrezioni ai coraggiosi quotidiani "Repubblica" e "Corriere della sera". E uno vorrebbe poter non pagare così lauti stipendi, roba da parlamentari della Repubblica, a magistrati felloni o goliardi, per statuto irresponsabili e intoccabili.
Il segreto è, forse, che questo egomaniaco un po’ cialtrone ha i piedi per terra, è l’unico che ce li ha. Che sa che c’è la crisi. Che la crisi è grave. Che i rischi sono enormi. Che sa che c’è stato il terremoto. Che c’è un partito dei giudici, catastrofico (affari a Milano, spazzatura a Napoli, veleni a Palermo). Ma soprattutto sa che vige l'antipolitica, che rivoluzionari della Seconda Repubblica sguazzano nell'antipolitica, e questo gioco sa condurre molto meglio di loro. Lasciandoli a sghignazzare e, sotto l’indignazione, a divertirsi: con i processi farsa alla Mills, che ha tutto della spia inglese, con la sua propria moglie, la Medea di Macherio, col Milan che non vince, con l’odio, specie quello uterino contro le ministre, che ha voluto giovani, brave e belle. E c'è a questo punto fondato il sospetto che l'uomo resterà di qualche spessore nel ruolo di federatore nazionale, dopo le sbandate della Lega, che potevano avere ben altro esito (le pacificazione di Formigoni e di Galan in Lombardia e nel Veneto sono a ogni effetto miracolose, la barbarie era già instaurata). E, seppure al coperto dei suoi interessi, di rianimatore della politica: riforma fiscale, della giustizia, degli appalti, della deburocratizzazione, che non ha fatto, né tentato di fare, ma ha sempre riproposto. Inefficiente, questo sì.
Mediocrità, stupidità? È questo il segreto del successo di Berlusconi: la mediocrità degli avversari, l'antipolitica è un brutto virus, non ultimo Franceschini, uno che al meglio è confuso. Anche lui, come tutti bisogna dire, con la presunzione che Berlusconi debba restituire i voti - quasi che essi fossero segnati, bel concetto di democrazia. E per questo alla rincorsa del Centro inafferrabile. Invece di ricostituire una salda e affidabile sinistra, cui il Centro inafferrabile si aggrapperà - il Centro è per natura incerto, e pusillanime. Una sinistra che solo sa esprimersi coi giornalisti-giudici.
In un clima di generale ipocrisia, è vero - è su questo che Berlusconi, eccessivo e perfino volgare qual è, capitalizza. Dove vige la retorica della prevaricazione, la scintillante invenzione di Umberto Eco ("A passo di gambero", pp. 53 segg.) sulla base di Tucidide, del discorso di Pericle e del discorso degli ateniesi ai Meli: ho, abbiamo, il diritto di prevaricare perché sono, siamo, i migliori. Retorica che sembra ingiusta, bisogna aggiungere, ma è insidiosa: il merito ha ancora parte nella giustizia, nella redistribuzione. Senza contare che la stessa giustizia - a ciascuno il suo - si può intendere in tanti modi oltre che l'egualitarismo. E' anche difficile peraltro pretendere da un milanese che sia come gli altri. E' così che gli ateniesi potevano, bontà loro, spiegare ai Meli: noi abbiamo il diritto di imporre la forza perché incarniamo il governo migliore.
Ma, poi, tutto questo, il discorso di Pericle e quello degli ateniesi, sono brodo di Tucidide, retore abile quanto altri mai, che però, per mero carrierismo, la sua città Atene aveva tradito nella guerra contro Sparta - o comunque per questo era stato ostracizzato e visse in esilio. C'è anche questo da considerare, il discorso delle fonti: c'è in campo un Berlusconi, per dire, un tipo non raccomandabile, e c'è il suo nemico Murdoch, uno che chiamano lo Squalo. Mentre noi siamo ancora al discorso dei "compagni di strada", per cui corrotti e grassatori possono dirsi amici, se non compagni, se combattono la stessa lotta.
Il sovietismo che non è morto
Dopo il populismo, non sapendo che pesci pigliare, la scienza che non si vuole piegare alla evidenza ha messo di moda la sospensione della politica. Un concetto che dice solo l’indigenza dell’analisi (o scienza della) politica: Berlusconi può essere solo la prosecuzione della politica con altri mezzi, à la Clausewitz. Non più, ovviamente, quella dei minuettisti piroettanti sull’orlo della corruzione, del compromesso storico, col basso continuo dei sordidi procuratori della Repubblica, ma l’irrompere degli interessi. Quando Berlusconi parla di sé è talmente sbruffone che si resta interdetti, più che ridere o censurarlo. Ma se uno passa anche solo qualche giornata al Nord dell’Appennino sa che esprime una furia generale: tanti, tutti, farebbero la pelle a tutti i politicanti, i minuettisti cioè della glossa e della polizia giudiziaria.
L’Italia che “salta” da sinistra a destra, con costanza, da quindici anni, con fatica, barcamenandosi tra i mille ostacoli posti dalla vecchia politica delle consorterie, lo fa per stare in linea con il nuovo assetto mondiale, il passaggio globale al mercato e quindi alla destra – senza obiezione possibile, giacché ne è protagonista la Cina comunista. Ma l’Italia lo è in modo speciale: 1) abolendo la politica; non solo i partiti di massa ma ogni espressione politica, individuale e di circolo, di idee, di programmi, di bisogni; 2) affidandosi a uno che non si sa cos’è ma sicuramente è un impolitico. Di Berlusconi non si può trattare che per scherzo, e tuttavia è uno scherzo che dura, fatto tanto più straordinario per un pubblico poco propenso ai cambiamenti, poco succube alle tendenze (acquario, gossip, stupidità), e anzi critico e ipercritico. Berlusconi è uno schiaffo che il pubblico dà alla non politica italiana.
Se così è – è così – il rebus italiano è in realtà manifesto. Il “salto” dalla sinistra a questa incredibile destra origina dal golpe del 1992. Dalla mancata autocritica del partito Comunista. Nonché non sciogliersi (ha solo cambiato nome), il vecchio Pci: 1) si è trasformato in un partito di potere (dossier, ricatti, spregiudicatezza), attraverso le dirigenze dei giornali e alcune Procure della Repubblica; 2) ha imposto una generazione dura a morire di personaggi incapaci; 3) ha obliterato ogni concorrenza fuori dell’ex Pci, sempre attraverso i media e le Procure; 4) ha detto e fatto tutto e il contrario di tutto, sulla scuola, l’università, la sanità, il lavoro, le pensioni.
Eccetto che per l’uso delle armi, tutti gli ingredienti del golpe sono stati usati, con la complicità della marionetta Scalfaro: carcerazioni in massa, condanne senza processi, Parlamenti disciolti. È solo qui la sinistra, nell’uso della forza, nelle redazioni e nelle Procure. Residuale dunque – anche se, in questa forma, si può dire un miracolo che raccolga ancora un voto su quattro.
Quando Berlusconi attacca i "comunisti", lo farà per ridere, ma morde. Giocando al “re è nudo” vince, senza barare. Così quando accusa Rai 3 di ostilità: una cosa che tutti vedono, ma Rai e il Pd si affannano a negare. Sylos Labini ha voluto intitolato il suo ultimo libro “Berlsuconi e gli anticorpi”, all’editore spiegando: “I «berlusconi» ci sono ovunque, da noi mancano gli anticorpi”. Avrebbe potuto dire, se avesse voluto vedere, che mancano perché questa è l’Italia della sua stessa rivoluzione legale, l’Italia di Milano – al coperto dei giudici napoletani.
Poi ci sono i fatti, oltre cioè la retorica cominfomista. Nessun commentatore, anche onesto, ama soffermarvisi, ma il fatto è evidente, forse paradossale ma perno ormai consolidato del “ciclo berlusconiano”. L'ultima (non) incongruenza della destra berlusconiana è che beneficia di alcuni milioni, fra i quattro e i cinque, di voti di sinistra: molti socialisti, i repubblicani, non pochi verdi e radicali. L’evidenza è che ci sono in questo governo di destra più socialisti che in qualsiasi altro governo della Repubblica. Con Brunetta, Frattini, Tremonti, Sacconi, Bonaiuti, Stefania Craxi, Eugenia Roccella. E Chiara Moroni, Margherita Boniver, De Michelis, i tanti giuslavoristi che hanno dato un qualche assetto al mercato del lavoro, da Marco Biagi a Michele Tiraboschi. Sono necessari per combattere lasovietizzazione persistente del Paese. Che c'è, e pesante anche per un non liberale, dalla fila alle Poste al controllo dei media, pubblici e privati, e combatterla è una risorse politica evidentemente pagante.
Ritorna a questo proposito il Berlusconi usurpatore caro alla vecchia Dc, in tutte le sue forme. Che ne sarebbe stato della destra senza Berlusconi. Berlusconi ha occupato un posto non suo, solo perché era libero. E altrettali. E invece senza Berlusconi ci sarebbe stato molto più di cui preoccuparsi, questa destra è un problema. Fini, Casini, Bossi sono solo stati capaci d'impedire al governo di governare, le tre volte che hanno vinto le elezioni, questa ovviamente compresa. Non di fare una legge invece di un'altra, ma semplicemente di fare qualsiasi legge. Bossi un po' meno degli altri due, meno vanitoso, meno principino, meno piccolo Andreotti, ma, insomma, Bossi senza Berlusconi è meglio non pensarci. Né Fini né casini hanno mai avuto un'idea, un progetto, un disegno di legge, né hanno promosso perdonalità di governo affidabili. Tengono dei partiti come piedistalli e basta, epitome della politica talk show.
Al suo primo governo Berlusconi diede un’impronta liberale, trovandosene a mal partito, tra l’ideologia dei buoni ragazzi Martino, Marzano, Urbani, Biondi, Costa, e i lazzi dell’Avvocato, ma ebbe il coraggio di nominare Emma Bonino e il professor Monti alla Commissione europea. Il secondo inefficientissimo governo Berlusconi del 2001 fu dominato dal democristianesimo: dei Letta, Fini, Fazio, Casini, Follini, Scajola, e l'incubo ancora persiste. Il terzo Berlusconi è marcatamente, forsennatamente, riformista, e quindi ha come riferimento i socialisti, con la Gelmini di Comunione e Liberazione. Acculando l'opposione di sinistra al blocco delle riforme che pure dovrebbe e vorrebbe fare. Ma a Fini non sta bene, e benché sia presidente della Camera fa di tutto per indebolirlo.
Ma, poi, Fini e Casini non sono nulla. Per quanto riguarda la destra, di Berlusconi si può solo dire che ha irreggimentato – non provocato - la massa populista e razzista che altrove, in Francia, in Germania, alimenta fazioni politiche forsennate. All’insegna del perbenismo, che però è meglio delle squadracce. Due volte ha domato la Lega, il partito del Milano. Dall’8,7 per cento del voto alle elezioni del 1992, Bossi era cresciuto al 10,1 nel 1996, per le macchinazioni di Scalfaro. Con Berlusconi è sceso al 4 per cento, il 3,9 nel 2001 e il 4,2 nel 2006. Nel 2008 ha raddoppiato, ma dopo due anni di centro-sinistra, portandosi di nuovo all’8,3 per cento.
Mentre si può argomentare che questa sinistra è diventata destra. Che non sarebbe una novità, le ambivalenze sinistra-destra hanno connotato tutto il Novecento, il secolo ideologico, e sono ormai una forma mentis - Fini, almirantiano, che diventa leader della sinistra, o la sinistra che marcatamente, forsennatamente, blocca le riforme per tentare di affossare Berlusconi. Ma, restando nell’ambito della costituzionalità e della moralità politica, ciò sempre denota un cambiamento. Non tanto dell’opinione – raramente si muta un’opinione – ma dei riferimenti. Succede che tanti moderati votano a sinistra se la sinistra assicura la legalità e il buongoverno. Per quale altro motivo mai tanti destrorsi professi sono colonne della sinistra, Di Pietro, Travaglio, Zucconi, D'Avanzo? Mentre tanti riformisti – i socialisti, se sono ancora qualcosa, sono riformisti, per l’efficienza e il buon lavoro delle istituzioni – devono votare a destra.
Il mondo politico tutto si perde nel reality quotidiano televisivo, mostrandosi per quello che è, senza qualità. E Berlusconi diventa un gigante solo per fare le cose che per ruolo deve fare – non al meglio, lo sanno tutti che è inadeguato. Può pure dire che questo parlamentarismo è inutile. Che è la verità, anch’essa a tutti nota: è di un livello così basso che tutti i legislatori di Berlusconi, Brunetta, Gelmini, Carfagna, per non dire di Sacconi e Tremonti, giganteggiano al confronto. Di fronte, Berlusconi ha un Pd(C), un partito 'dde che? Una formazione affrettata di vecchi berlingueriani, spregiatori dell’universo, settari, furbi, che non sanno che la guerra è perduta, e di ex democristiani che li temono e li odiano. Con le ali marcianti Casini e Di Pietro, ed è tutto dire. Il Tg 1 di questi anni resterà nelle cineteche come un “Metropolis” seriale di piccoli mostri: di facce assurde che dicono cose assurde, per di più col cipiglio del papa in trono.
Dopodichè, e anche per questo, resta il fatto che l’Italia di Berlusconi non sa riprendersi dal golpe, non è pacificata, non è bella. Non ha risolto nessuno dei suoi tanti problemi, la scuola, l’università, la giustizia, i trasporti urbani, e ne ha aggiunto altri, la sanità, la viabilità, l’efficienza pubblica, senza “porsi il problema” del debito. Immersa nei vizi di sempre. Inefficienza, corruzione, evasione.
Golpe continuo giudiziario
Nell’attesa dell’alba vale tuttavia la pena, benché l’esercizio sia rischioso, tentare di capire perché Berlusconi vince facile. Intanto, è una vittima. Berlusconi e i suoi, Fini, Bossi, sono il lascito della “rivoluzione giudiziaria” che ha annientato quindici anni fa la politica. Una controrivoluzione (ma fu un golpe, dei giudici con Scalfaro, che se è qualcosa è un giudice, l’ultimo che ha comminato la pena di morte in Italia, beghini e collo torto quale si professa) da cui l’Italia fatica a riaversi: non c’è democrazia senza politica, il voto è rassegnato. C’è peraltro a Milano una questione morale fortissima nella magistratura, a petto della quale le leggi ad hominem di Berlusconi sono senz’altro legittima difesa: avere assistito anche a una sola udienza del falso processo Mills genera una repulsione fisica, non per Berlusconi.
Berlusconi ha vissuto, da milanese sopraffattore, una brutta storia di sopraffazioni. Un signore che si siede a palazzo Chigi con tutte le sue aziende e un campo sterminato d’interessi. Portando a giustificazione la difficile successione tra i figli di due matrimoni. Di che stropicciarsi gli occhi. Ma peggio per i suoi nemici. Per quanto svergognato, questo stesso signore è stato vittima di una campagna violentissima contro la tv gratuita o commerciale: “Interrompe le emozioni”, e altre stronzate. E ben due refererendum contro questa stessa tv, che ha vinto. Roba certamente da “comunisti” – due referendum per chiudere una televisione, Mussolini non avrebbe osato tanto, forse Stalin, ma Stalin, certo, non avrebbe fatto un referendum. Senza che nessun sindacato o teorico della libertà di espressione pronunciasse nemmeno una mezza parola di difesa, nemmeno una barzelletta se ne poteva fare. Contro una Procura e una Guardia di finanza che a Milano per quindici anni hanno avuto occhi solo per lui: nessuno ruba a Milano, com’è noto, solo Berlusconi. Negli stessi anni in cui sparivano intere aziende, come la Rizzoli-Corriere della Sera, la Sme un paio di volte, Telecom Italia, e altre giocavano impunemente alle tre carte, Tiscali, Saras, Seat Pagine Gialle anch’essa un paio di volte.
C’è un’illegalità generale, di cui Berlusconi è una parte, non preminente. Non della corruzione per esempio, né delle pratiche antisindacali, sui salari o sui contatti. Nella cajenna milanese, semmai, Berlusconi brilla per lo stellone, che a questo punto è da ritenersi una prova speciale di abilità, se non un segno divino. Più volte lo ha fatto col banchiere di De Benedetti, Ruggero Magnoni – quello che per De Benedetti s’inventò Omnitel, una cosa costruita nel 1989 per comprarsi dal direttore generale del Tesoro Draghi una licenza dei telefonini durante la campagna elettorale del 1994 per 750 miliardi, per venderla l’ano dopo a Mannesmann per 14 mila miliardi. Magnoni nella prima metà del 1994 ha trovato un compratore per Telepiù, la tv a pagamento di Fininvest che Draghi fece dichiarare illegale, il magnate sudafricano Rupert. A metà 1994 Fininvest-Mediaset rischiavano il fallimento, con oltre quattromila miliardi di debito, ma Cesare Geronzi se ne fece provvisoriamente carico alla Banca di Roma. Finché nella seconda metà dell’anno Magnoni, insieme col produttore tunisino Ben Ammar, non mise insieme un ricco parterre di acquirenti della minoranza di Mediaset, Rupert, al Waleed e Leo Kirch, con 1.250 miliardi.
Il rifiuto della partitocrazia
Altre evidenze. Non c’è paragone, quanto a moralità negli affari, tra il Berlusconi paladino della destra e un De Benedetti cavaliere della sinistra, di cui non si sommano i tradimenti, le incursioni, le vendette, i veri e propri imbrogli (la Sme). Eppure di quest’ultimo la sinistra compromessa ha fatto e fa un eroe, un profeta, un portabandiera. Uno legge la squallida indagine di Boccassini e Colombo sulla Sme, il misfatto degli anni Ottanta, e trasecola. Dell’improntitudine più che della faziosità. Di fautori storici dell’antipolitica (il governo dei tecnici, il governo dei professori, la società civile, il emico Berlusconi) che si erigono proditoriamente a difensori del parlamentarismo quale baluardo della democrazia. Certo che la democrazia e la Costituzione sono parlamentari, ma non dei Parlamenti maneggioni di Lor Signori. Il fatto è che rappresenta la sinistra non è di sinistra. Anche perché la sinistra, cessato il togliattismo (il cesaroleninismo) non sa che pensare,se non fomentare l’odio - è un morto vivente, dopo un suicidio, un incubus.
Berlusconi è, sgradevole, uno che sa di che si parla. Per il protagonismo, ma anche per il pragmatismo. Non è male sapere di che si sta parlando o si parlerà. Anche nei suoi pavoneggiamenti in politica estera. Come il famoso patrocinio dell’europeità della Russia, sostenuto davanti al suo “carissimo amico” Bush jr, sapendo cioè che gli Usa saboteranno sempre un asse eurorusso. Sa quali sono i tempi e le loro curvature in discussione, sa palarne compiutamente a braccio. È prolisso, l’opposto cioè di come usa nelle aziende e nei consigli d’amministrazione, ma forse per meglio rappresentarsi i termini del problema di sta parlando. E tuttavia è meglio del ronron indistinto in burocratese dei politici, avulsi dalla realtà e ad essa non interessati, solo al politicking.
Ha un distinto senso delle cose reali anche nel linguaggio. Da una lato ancora Berlinguer, con l’emergenza (lavoro, casa, futuro, donna, gay, bambini, anziani, influenza, incidenti stradali…), dall’altro un (tentativo di) governo, col minimo danno possibile. All’insegna del futuro che è qui, e contro l’insicurezza – che altro ci sta a fare un governo? Da un lato le “priorità”, di Berlinguer e La Malfa, esclusive: la spesa pubblica, il debito, la riforma sempre, e le opere pubbliche, quelle nostre, quelle degli altri invece non lo sono, e c’è perfino la priorità prioritaria. Un modo come un altro per non fare, con la coscienza pulita. Mentre, again, un governo che si sta a fare se non fa?
Sa il fatto fondamentale dell’epoca, che il processo di decisione politico va semplificato. Il fenomeno del plebiscitarismo, importato in Italia nelle forme americane, con le primarie, i circoli, i gruppi d’interesse e d’influenza, la scelta del candidato. L’immagine (sarto, parrucchiere, visagista) che Berlusconi cura ossessivo, come tutta la politica di accentramento dell’attenzione sulla propria persona, non è civetteria, è una strategia. La funzione principale di un partito è di scegliersi un candidato. La categoria del populismo è inadatta per un uomo d’affari, che se è qualcosa è un calcolatore. Lo stesso la sospensione della politica, l’idiozia maggiore – la politica non tollera il vuoto. Berlusconi, per come si presenta, è un adattamento alla politica plebiscitaria. Alla politica democraticamente nata dai referendum. Che non ci sono stati per nulla, per un capriccio di Pannella o di Segni, come poi di Achille Ochetto e Di Pietro, ma sono stati e sono, anche nell’assenteismo, l’espressione migliore degli umori popolari. E tutti, a lungo, con coerenza, hanno fatto blocco sul rifiuto della partitocrazia.
Si può anche dire che l’Italia, come sempre laboratorio d’innovazione, ha mutato gli assetti dell’espressione politica in Occidente. Anche se questo non c’è scritto nell’“Economist” o “Le Monde”, anche se l’ha fatto con Berlusconi. Il plebiscitarismo, la politica incarnata in una persona, seppure con vincoli e contrappesi, libera la politica dalla proliferazione e dall’ipocrisia, ne riduce comunque l’area (sottogoverno, lottizzazione, spoglie), supera nell’azione di governo la dicotomia destra-sinistra, che è al fondo una gabbia e non una ispirazione, una dialettica involutiva e non innovativa, e sopratutto facilita l’attribuzione delle responsabilità. Il plebiscitarismo si è affermato in Italia in risposta alla proliferazione dei partiti, e in favore della governabilità. In questo senso, affermando una leadership, caratterizza anche l’opposizione, la obbliga a caratterizzarsi, ad animarsi. È un modello che è stato presto adottato in Gran Bretagna, da Blair e ora da Cameron, in Francia da Sarkozy, ed è il modello attorno a cui si è costruito il personaggio Obama.
Dopodichè, resta il fatto che l’Italia di Berlusconi non sa riprendersi dal golpe, non è pacificata, non è bella. Non ha risolto nessuno dei suoi tanti problemi, la scuola, l’università, la giustizia, i trasporti urbani, e ne ha aggiunto altri, la sanità, la viabilità, l’efficienza pubblica, senza “porsi il problema” del debito. Immersa nei vizi di sempre. Inefficienza, corruzione, evasione.

giovedì 28 maggio 2009

Macelleria Alitalia

Due dipendenti ex Alitalia su dieci non riescono a percepire normalmente l’assegno di cassa integrazione, ogni mese a rotazione due su dieci hanno una ulteriore amara sorpresa. Perché il sistema informatico dell’Alitalia in liquidazione non riesce a dialogare con l’Inps… L’Inps per rimediare ha allora deciso che non aspetta gli input del sistema informatico dell’Alitalia in liquidazione e piuttosto che attenersi a dati sempre incompleti e incorretti (Iban, numeri di conto, indirizzi), cui poi gli tocca rimediare con ulteriori spese, manda gli assegni direttamente a casa. Cioè no, li manda all’ufficio postale più vicino a casa dei beneficiari.
Non solo vittime del disastro Alitalia ma anche perseguitati: per gli ex dipendenti la liquidazione, la forma scelta per il salvataggio Alitalia sa di macelleria sociale. La liquidazione che peraltro ha anche liquidato senza rimborsi gli azionisti e gli obbligazionisti, e poco o niente garantisce ai creditori. Con un costo sommerso per lo Stato, quindi per tutti, di “alcuni” miliardi di euro – non si riesce a sapere quanti! E senza alcun beneficio per il trasporto aereo, né per gli utenti, né per gli aeroporti, in termini di traffico. Con le note perdite anzi per Malpensa, che a sua volta rischia il tracollo.
Senza assegno e senza Tfr
Si è detto degli effetti politici negativi che l’Alitalia comporterà per il governo sull’asse Milano-Varese. Ma da qualunque punto lo si guardi lo scandalo del salvataggio Alitalia è énaurme, ubuesco. Non viene denunciato per il tipico strabismo italiano, perché il “salvatore” Colaninno è un pilastro dell’opposizione e ha con sé i giornali. Ma la scelta di Berlusconi di liquidare la vecchia Alitalia per regalarla ripulita a Colaninno e soci, invece di venderla a Air France, ha comportato per dipendenti e fornitori perdite castrofiche. Oltre la metà dei dipendenti ha perduto con la liquidazione anche il Tfr, che ora dovrà concorrere all’attivo della liquidazione stessa – che sarà magro, e si formerà tra alcuni anni. I risparmi di una vita di lavoro, si può dire, spazzati via dal governo a favore di alcuni imprenditori. Senza necessità: col passaggio a Air France, cui peraltro l’Alitalia di Colaninno finirà comunque, questo si sarebbe evitato.

Con Opel o, meglio, senza

Senza la Opel potrebbe essere meglio. Per tutti, e quindi anche per Fiat. È stato questo il retropensiero di Marchionne nella fase finale della trattativa a Berlino: Opel è una grande opportunità (produzione di massa a sei milioni di unità, mercato tedesco, primo-secondo posto in Europa), ma il fiato del governo tedesco sul collo è premessa di sicuro tracollo. Meglio allora andare soli, continuando a restare in utile, e semmai profittare degli spazi di mercato che la Opel in crisi progressivamente aprirà. Tanto più che Opel, se avrà un futuro, lo avrà con General Motors, ora che il gigante americano non fallisce, la vendita non potrà che essere finta, a un prestanome, a un parcheggiatore - o altrimenti ritardata: nelle more il governo tedesco riempirà i buchi.
Opel è a medio termine un affare, previa non devastante ristrutturazione. La documentazione che la General Motors ha fornito agli acquirenti prevede una perdita di oltre 3 miliardi di dollari e di poco meno nel 2010, al netto delle tasse e degli interessi. L’acquisto della Opel implica quindi subito un impegno finanziario enorme. Fiat evidentemente ritiene di poterselo accollare, a fronte degli altrettanto grandi benefici che se ne aspetta. Ma non se il rischio si raddoppia con le interferenze politiche. E la trattativa ha mostrato che in Germania un investimento è sempre anche politico.
Spezzatino, o General Motors
D’altra parte, non c’è solo la politica tedesca di mezzo. Belgio e Gran Bretagna vogliono avere pari poteri di decisione, poiché hanno anch’essi impianti Opel, e per questo imporranno una “soluzione europea”. General Motors non la pensa così, poiché Opel è un gruppo tedesco, ma è facle prevedere che la “soluzione europea” prevarrà. È forse la soluzione a cui puntava il gruppo austro-canadese, il cui interesse per la Opel è in definitiva il fallimento della stessa Opel come gruppo integrato, in italiano si direbbe lo spezzatino. Ma non per Fiat: la “soluzione europea” è una serie di rinvii e condizionamenti ulteriori alla gestione. Di General Motors Opel è peraltro probabilmente la parte migliore, e dunque?

martedì 26 maggio 2009

La Germania è un altro mondo

Sfogliando i giornali tedeschi per seguire la vicenda Opel, si trova molto di scontato, gli stereotipi non sono inventati. La diffidenza dei socialisti tedeschi e dei sindacati contro tutto ciò che è latino e quasi papalino, e quindi inaffidabile - in Germania è sempre Kulturkampf. O il senso di umiliazione della stampa tutta per la laboriosità e l’inventiva della Fiat al confronto dell’inerzia Opel. Si trova anche la piccola politica prima del cosiddetto senso dello Stato. La partita Opel è una delle tante che si giocano fra socialdemocratici e cristiano-democratici, benché alleati digoverno: i primi si vogliono artefici di un salvataggio tedesco di Opel, i secondi fanno agio sulla prevedibile reazione antirussa nel voto popolare, specie negli stati orientali, poiché la soluzione Magna è in realtà tutta russa. Una scena abbastanza cinica, insomma. Ma si trova anche un abisso tra due diversi modi di fare politica, come di due mondi lontanissimi e non confinanti – che gli stereotipi anzi non riflettono abbastanza.
In Germania c’è un governo difficile di coalizione tra i due maggiori partiti, da sempre in concorrenza. Retto da una donna, dell’Est, relativamente nuova alla navigazione politica. In dissoluzione, perché le elezioni sono prossime e nuove alenaze sono già definite. Che affronta e decide problemi, nell’ottica italiana, immensi: il salvataggio dalla Opel, la Fiat tedesca; il salvataggio del gruppo Thyssen, il glorioso acciaio; il salvataggio della Porche da parte di Volkswagen; il salvataggio della Hypo Real Estate e di molte banche regionali. E anche la Mercedes, che è poi la Germania, va salvata - forse attraverso la Bmw.
Da noi c’è una storia di corna - che non sono, pare, nemmeno corna. E lo Special (virgola zero) One di casa Moratti. La boriosità milanese, e solo quella. Con un cardinale che ci fa la ramanzina, anch’egli milanese.

Problemi di base - 13

spock

L’uomo ha avuto un inizio, perché non dovrebbe avere una fine?

Chi è Franceschini? Che ha fatto, che ha detto?

Torniamo al 1968. Che Dc sarebbe stata senza Moro e Andreotti. Che Italia?

Perché non ci sono editori ma case, chiuse e smorfiose, editrici?

Perché le spiagge dei nudisti sono sempre sporche? Di plastica indistruttibile: bottiglie, tubi, flaconi, di acqua, odori, saponi.

Se Dio c’è, perché muoiono pure i bambini?

Se dio è onnipresente, perché non c’è nella disperazione?

Perché sono i padroni a prendere la facies dei loro cani, e non viceversa?

Perché Berlusconi non ha pietà di noi? E Mourinho?

spock@antiit.eu

lunedì 25 maggio 2009

Se Pinelli è una vittima ma non si può dire

Titolo evocativo per un testo fumoso, come l’avvio. Sofri ha l’orgoglio di avere documentato e argomentato la morte di Pinelli. Ma è anche qui lezioso, come nei terribili processi prevenuti che lo hanno condannato a 22 anni per omicidio. E come forse era nello spirito di Lotta continua, il movimento da lui fondato nel 1967. Se non che Sofri, e cioè Pinelli, sono al cuore del tradimento dello Stato che ora si vorrebbe cancellare: nei giorni terribili di Piazza Fontana in cui morì “l’anarchico”; prima, con le bombe che “gli anarchici” non avevano colocato e innescato; e dopo, quando alla fine il terrorismo si organizzò – di cui gli stessi movimenti, tra essi Lotta continua, saranno vittime.
Sofri apre il libro con l’Italia di fumo. Mentre invece non c’è mai stata, nella storia recente, repubblicana, un’Italia più solida, più determinata, e perfino unita, destra e sinistra politiche insieme, di quella del 1968-1969. Furono anni di rivoluzione sostanziale, in piazza e nelle istituzioni, l’unica vera (cioè rivoluzionaria: per il meglio e per tutti) dell’Italia, sicuramente della Repubblica. Animata da gente vera, che prospetta e attua cose vere, il nuovo diritto di famiglia, lo statuto dei lavoratori, il sistema sanitario nazionale, e la democratizzazione delle furerie. Contro cui la sbirraglia ha lottato con durezza, e ha vinto. Non più in caserma, che era il luogo suo proprio e invece si era anch’esso democratizzato, ma nei tribunali, che non si sono ancora defascistizzati, fra ermellini e stato etico, fra i padroni, e nei giornali loro servi. Ma questo non si può dire. Gli stessi nuovi compagni di Sofri non lo consentono, nella politica e nei giornali, che ereggono pavidi monumenti a Calabresi, trinariciuti oggi quando non avrebbero nessun obbligo a esserlo - trinariciuti per vocazione allora? da vera sbirraglia.
C’è talmente tanta malafede e protervia nei magistrati che si occuparono di Piazza Fontana e di Pinelli che sembrano incredibili, perfino in uno Stato di polizia. E cosa non si dice e non si scrive oggi di strafottente, luridamente bieco, nei giornali, altro che l’ironia lieve di cui Sofri si compiace: lo sa bene l’amico e compagno di Sofri, Mughini, che ha cavalcato l’onda quando Sofri seppe prenderla, e oggi va in giro a dire “per fortuna che la nostra generazione ha perso”, di cui non frega nulla a nessuno, ma è paravento all’affermazione, non richiesta, che Sofri fu l’assassino di Calabresi. In paginate degli stessi giornali che hanno guidato la strategia della tensione, e nella serva Rai. Qui in una trasmissione apposita, col supporto di Giovanni Fasanella, altro compagno di Sofri, senza contraddittorio e senza vergogna. Non è una partitella dell’amicizia che si è giocata e si gioca, né un match d’allenamento. Dall’altra parte non ci sono sparring partner compiacenti ma gente che picchia duro, sopra e sotto la cintura, anche se nei libri e nei talk show - Sofri dovrebbe saperlo che la parole sono pietre. È così che si fa, è così che la realtà avviene: una sola è la verità, l’alibi è falso se Mughini lo dimostra falso, sia pure con un soffio, un raglio, un’occhiata sbieca, un ghirigoro della mano inanellata.
Basterebbe dire le cose come stanno. Pinelli non era un demente e non era uno sconosciuto. Era l’anarchico più in vista di Milano, conosciuto, in una stagione in cui la questura era alla caccia degli anarchici, per l’equilibrio e l’impegno pacifista. “Un uomo mitissimo, alieno dalla violenza, di cuore onesto e mani pulite”, riconoscerà un tardo giudice milanese. Un morto dentro la Questura di cui ai familiari è impedito di accertare le cause della morte. Mentre Calabresi aveva sbagliato tutte le indagini sugli attentati del 1969, e sbagliò, molto, su Piazza Fontana. Pinelli è stato assassinato, anche se non è stato tenuto a testa in gialla finestra: fermato illegalmente, sottoposto per tre giorni e tre notti a interrogatorio, torturato, al dire dei suoi custodi, tutti anime molto buone e candide, con false informazioni (“Valpreda ha confessato”, “il tuo alibi è stato sconfessato”).
Sofri fa ancora l’angelico invece che attaccare fumante, come dovrebbe fare ogni buon cittadino. Forse per voler stare in linea con le confuse strategie che la post-ideologia vuole (quanta ideologia non si spreca oggi!). Ma è la strategia processuale che non lo ha esentato dalla scritta condanna per terrorismo. Le domande a cui rispondere sono semplici: c’è conformismo? C’è. C’è opportunismo? C’è. C’è illegalità legale? C’è stata e c’è. Lo sanno tutti, perché metterli dalla parte del torto? Tutti sanno riconoscere un prefetto fellone e un buffone giornalista, anche se si fanno reciprocamente i salamelecchi. Freda e Ventura non sono stati accertati responsabili di 17 dei ventidue attentati del 1969, da aprile a dicembre, praticamente senza conseguenze? E il loro sodale Giannettini, non era un agente dei servizi segreti? Tutto questo in Sofri non c’è, se non per una-due righe, in nota. Le note, leziosamente compilate alla De Quincey, sono ancora in tono con la controinformazione, quale usava trent’anni fa. Ammiccante per mancanza di prove cartolari. Mentre ormai tutto è dichiarato e esibito.
E così, con tutta la “chiarezza” che pretende in questo libro, Sofri lascia tutto al forse che sì forse che no. Allo schema consueto ormai da vent’anni, da quando il compromesso storico morente tentò di salvarsi in tribunale: c’è chi accusa e chi non si difende. Anche, certo, perché è impossibile, non in tribunale. E anche questo è parte della realtà: l’onestà è fuori luogo tra gli squali. Ora in più c’è il mercato, della verità compresa e dell’onore, e non è più cosa di destra, anzi, in tv e nei giornali, e alludere è insensato. Il libro di Mughini, falso, è invece inflessibile: Sofri ha fatto uccidere Calabresi - grande retorica, nevvero, tra cotali eletti amici, spiegare con dispiegamento di pagine come lo stesso Sofri abbia riconosciuto, affermato, sostenuto, di essere stato il mandante se non il killer del commissario.
Non ci sono state le bombe a Milano nel 1969, prima e dopo l’autunno caldo, alla Fiera e alla Banca dell’Agricoltura? Ci sono state. Chi le ha messe? La questura di Milano e il ministero dell’Interno hanno detto “gli anarchici”. Per errore? No. Che ragione aveva Calabresi di fermare personalmente e incolpare Pinelli? Nessuna. Era il fermo di Pinelli illegale? Lo era. Il giudice D’Ambrosio attribuì a Pinelli un alibi falso, ciò che è falso. Né c’è stato il “malore attivo” con cui D’Ambrosio si è lavato le mani, di uno che sta alla finestra a prendere l’aria e ha un giramento di testa, una vertigine che lo tira verso il basso: tutti i custodi dicono che ci sono stati uno sbattimento di finestra e un salto. Perché il sensibilissimo, religiosissimo, Calabresi non si scusò e fu anzi insensibile con la vedova? E chi ha detto a Montanelli e Feltri che Pinelli era un confidente di Calabresi? Chi ha ucciso Calabresi? Marino, che dopo sedici anni, e varie richieste di soldi a Sofri, si è pentito e ha confessato. Ma le confidenze di un pentito non vanno raccolte da un singolo ufficiale come fece il colonnello dei carabinieri Buonaventura: è regola basilare di polizia giudiziaria.
Adriano Sofri, La notte che Pinelli, Sellerio, pp.288, €12
Giampiero Mughini, Gli anni della peggio gioventù, Mondadori, pp.184, €18

Hölderlin è in nota

Un libro di note, del germanista sapiente Reitani. L’agiografia di Waiblinger è quello che era: ha tutti i crismi del genere (con in più l’onanismo – o è questo ingrediente delle agiografie laiche?), ma non il santo, di lui si viene a sapere poco.
Siamo tutti Hölderlin, ovvio, ma questo non aiuta il poeta – né aiutò Waiblinger, che è morto a Roma alcolista a venticinque anni, anche se sarà il primo dei poeti maledetti.
Wilhelm Waiblinger, Friedrich Hölderlin, vita, poesia, follia, Adelphi, pp. 99 € 10

Ombre - 20

I Tar salvano i professori settantenni dalla pensione. Costosi ricorsi ai tribunali amministrativi sono stati avanzati dai professori ultrassettantenni che il governo voleva mettere in pensione, per risparmiare un mezzo miliardo, e per aprire qualche varco ai nuovi professori. E valorosi giudici hanno dato loro subito ragione.
La società civile? I giudici? La questione morale?
L’età media dei professori italiani all’università, che fa la ricerca pura e tiene il paese aperto al nuovo, è di sessant’anni.

Con un tratto di orgoglio i giornali Rcs fanno giustizia oggi dello Special (zero virgola) One che li prende per il culo da un anno ("non sono un pirla"), che fino a ieri gli faceva spellare le mani, di giubilo. Il patron Moratti sente aria di ricatto economico, e i bravi giornalisti milanesi gli danno una mano a rimettere in riga Mourinho.
Lo fanno però con stile. Su uno dei due quotidiani del gruppo, il "Corriere della sera", Alessandro Pasini, che pure sembra veramente irritato, rappresenta Mourinho, un pirla, come un sofista antico.

Il Cpt di Lampedusa si lamenta: non ha più duemila e passa ospiti, ne ha solo 23. Le cooperative, che vivono dei rimborsi dello Stato per ogni clandestino per ogni giorno di permanenza, sono “senza “lavoro”, lamenta l’isola.
Sono cooperative sociali, molto parrocchiali. Si capisce che i preti sono contro i “respingimenti”, l’unica cosa che a loro interessa è l’accoglienza, nei Cpt.

“Noemi è una ragazza che abbiamo portato avanti con amore e siamo orgogliosi di lei e di come si comporta. Nessuno può smentire questo, da Veronica Lario in giù”, dice il signor Letizia al “Mattino”di Napoli.
Nessun dubbio che Veronica Lario non si scuserà, lei è Medea. E una signora, milanese. Ma l'Ansa? O è un cestino dei comunicati, dei potenti?
E Cresto Dina, che è uno scrittore?

“Repubblica” fa un’intervista a uno dei fidanzati di Letizia, il quale dice, lui è un onesto operaio, che Noemi è una troia. Più o meno.
Ora, il problema rimane: lo è stata con Berlusconi? Perché questo a noi interessa, se Berlusconi, giusto l’atto di accusa inviato da sua moglie all’Ansa, è uno stupratore di minorenni. Benché, se Noemi è una troia…
È questa pubblicistica una provocazione, come si diceva una volta? Certo che lo è. Ma un problema succedaneo si pone, poiché Franceschini, che non si sa chi sia ma dirige l’opposizione, ne chiede conto a Berlusconi: si giustifichi il presidente del consiglio con l’ex fidanzato operaio. Anzi, chiede che Berlusconi vada in Parlamento e risponda a tutt’e dieci le domande che sullo stesso giornale gli ha rivolto D’Avanzo. Potenza delle questure.

Da due anni "Repubblica" online insegue Berlusconi con un portafoglio di dieci foto, "Le donne del Cavaliere". Nulla di particolare, sono le donne che fanno politica, qualcuna in età, quasi tutte severamente vestite, una vecchia amante sbrodolosa, e una venezuelana che lavora al Bagaglino. Si poteva pensare che fosse una forma di pubblicità berlusconiana, l'uomo è celebre per pensarle tutte. E invece è un bel caso di un'idea che fa nascere la cosa.

Il Comune di Brescia fa una ordinanza per evitare che i pakistani possano giocare al cricket nei parchi, la domenica mattina. Bisogna segnarsele queste cose, tanto sono inverosimili.
Abbiamo ricevuto tante lamentele, spiega un assessore. Leghista, è vero, la cattolicissima Brescia è leghista. Forse per questo non si è sentito un arcivescovo lamentare la decisione del sindaco. Nemmeno un vescovo. Un prete, una suora.

L’ex ministro Lucio Stanca confida la verità a Roberto Gervaso sul “Messaggero”, l’Expo milanese del 1015 è un investimento colossale: “L’Expo vale tre volte il ponte di Messina, si spenderanno quindici miliardi”.

Giovedì “Repubblica” pubblica online la foto di Berlusconi che si asciuga il sudore, lasciando il cerone nel fazzoletto. Il “Corriere” rimedia al buco venerdì mettendo la foto in pagina.
Questo naturalmente non è un fotomontaggio, anche se il cerone non è così marrone – il fotomontaggio è di destra. E poi è vero: Berlusconi si tinge i capelli, non è il solo tra le alte cariche dello Stato, e quando va in televisione si trucca.
Alessandra Tarantino, la fotografa, ha l’occhio di lince di Capa quando fotografa il miliziano.
È finalmente il giornalismo libero, com’era il “Borghese” sessant’anni fa, delle serie i forchettoni, le dita nel naso, la grattatine. Anche i fotografi sono liberi, nel ritocco.

La par condicio traborda dai panini Rai ai giornali: Berlusconi ha l’aria di durare, l’antiberlusconismo non garantisce più la copia in più, e i grandi padroni dei grandi giornali curvano verso la par condicio. Tutto quello che dice Berlusconi ora viene pubblicato, con accanto, o sopra, il contraddetto di Franceschini. Una curvatura non innocente - non c’è partita, non ci può essere.
Meglio l’antiberlusconismo: fa perdere la sinistra ma almeno è divertente.

La par condicio vuole che per ogni uscita di Berlusconi ci debba essere un’uscita di Franceschini. Se B. oggi dice solo che il tempo è bello, alla fine F. sarà costretto a dire che il tempo è brutto. È una pesatura del giudizio che ricorda quella delle anime di Ireneo di Lione, che pure è santo: chi ha più fieno in cascina ha più paradiso. Mentre l’opposizione dev’essere più intelligente del governo, il quale ha già dimostrato di esserlo, avendo vinto. O altrimenti è meglio che taccia, aspettando che il governo prenda male la prossima curva. Invenzione diabolica, questa della par condicio, non per nulla è del fratacchione Scalfaro.