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sabato 29 settembre 2018

Appalti, fisco, abusi (129)

Per pratiche importanti bisogna passare da MyTim, al sito tim .it. Dove però la registrazione s’imbatte sull’avviso: “Le tue credenziali non sono ancora certificate”. Oggi e anche domani, e dopodomani. Con l’avvertenza: “In alternativa puoi chiamare, dalla tua linea di casa, il numero gratuito 40123 - opzione 2”. Che è un “numero inesistente”.

Luce e gas aumentano di 93 euro l’anno per utenza per effetto dell’aumento del petrolio da 50 a 80 dollari a barile. Ma le tariffe non non erano diminuite di tanto quando il petrolio è sceso da 100 a 50 dollari a barile, tre anni fa.

Foodora manda a Roma fattorini con le pizze in bici. Ecologico. E al rispamio - così non si devono pagare la benzina. Ma con bici d’antiquariato, senza fanali né catarifrangenti. Che pure sarebbero  indispensabili di notte, quando i fattorini lavorano.   

Il Comieco vanta il riciclo della carta, pagando anche care pagine sui giornali per dirlo. Ma non provvede a ritirare carta e cartoni: tra tutti i contenitori selezionati per i rifiuti, quelli della carta traboccano sempre ovunque. A  Roma, dove la raccolta differenziata si fa tramite i cassonetti su strada, quello della carta è sempre ingombro.
A Roma carta e cartoni non vengono ritirati da due mesi.

Vita serena di un poeta sereno

Celebrato in vita, trascurato in morte. Lui, Montale, come ogni altro scrittore o artista italiano, da Moravia in giù, l’italia corre distratta  - e magari non sa dove: senza passato non si può. Questa biografia è l’unica esistente. Riproduce tal quale l’“Eugenio Montale” del 1969, della collana Longanesi “Gente Famosa”, che immortalava personaggi celebri, per lo più viventi. Una collana svelta, di gusto giornalistico.
Giulio Nascimbeni, allora cronista letterario principe al “Corriere della sera”, molto materiale ha tratto dalla pratica quotidiana con lo stesso Montale, che era stato a redattore al giornale – “giornalista a 52 anni” - prima dela pensione. Ma si basa anche sulle letture, e qualche ricerca d’archivio.
Una biografia piacevole perché aneddotica. Ragazzo affascinato da Cléo de Mérode. Con poca scuola: fa le tecniche, il futuro trilaureato honoris causa, anche da Cambridge, e si ferma alla terza, per la salute malferma. Sarà autodidatta, leggendo scompostamente di tutto, e più di tutto socievole, addottrinato dalla frequentazione di coetanei meglio formati, da Sbarbaro a Sergio Solmi. E poi Bobi Blazen, soprattutto, e Piero Gobetti. Le Cinque Terre naturalmente, anche se Montale non ci tona più “da quarant’anni”, dal 1929 – “la Liguria è troppo imbruttita”. L’incontro con Svevo, davanti a una locandina della Scala a Milano. Di cui sarà “il rabdomante”, ben guidato da Bazlen, prima e meglio dello scopritore ufficiale, Benjamin Crémieux in Francia. Il periodo “triestino”, sempre via Bazlen – “ricordo Trieste come si ricorda una patria”. Comprese le baruffe con l’ossessivo Saba. E l’Eugenio traslato da Bazlen in Eusebio, che sarà il nomignolo familiare. Drusilla Tanzi, futura moglie, la “Mosca”.
La biografia non dice nulla di nuovo sulle origini, lo sviluppo, la qualità di Montale poeta. Né di veramente appropriato – se il ragazzo che debutta con “Ossi di seppia” sarà poi il poeta veramente  civile del Novecento. Ma ne corrobora l’immagine di persona garbata, portata all’aneddoto, con una visione cioè faceta della vita, e quadrata: già senatore a vita, prossimo al Nobel, un poeta che non vive di traumi.Montale è ben il poeta che è vissuto “al 5 per cento”, e non si gonfia, né si camuffa. Solo, ha saputo viverlo bene, da antifascista già nel 1925, e contro D’Annunzio trionfante, con i suoi magri ossi di seppia.

Giulio Nascimbeni, Montale, biografia di un poeta, Il Leggio, pp. 187 € 18

venerdì 28 settembre 2018

Se la fedeltà di Totti è zavorra

La “fedeltà eterna” di Totti è costata caro alla Roma? Era la convinzione del direttore sportivo Franco Baldini: il passaggio al Real Mdrid, che ci teneva, avrebbe creato un tesoretto utile al club giallorosso, l’attaccamento di Totti alla maglia fu interpretato come un gran rifiuto. Non dalla famiglia Sensi, allora padrona del club, cui Totti è rimasto legato, ma sì dalla dirigenza, e da un paio di allenatori, forse Capello, sicuramente Spalletti.
Sembra remoto il giorno, nemmeno un anno e mezzo fa, in cui l’addio di Totti al calcio fu una sorta di tragedia capitolina. Un ricordo da annale, con monumenti e feticci, per molti tifosi e molte famiglie. Nel suo libro “Io capitano” Totti ha scelto di dire la verità. Il calcio è ormai spettacolo più che passione. Si forma un cast e si gioca un torneo che si spera avvincente. Ma per farlo bisogna molto comprare e vendere, la fedeltà non è un bene.

Il lutto non s’addice a Raboni

Un canzoniere erotico come un lamento funebre - come di prefica, un elogio lamentoso.
Continua implacable il lamento di Patrizia Valduga in morte dell’amato Raboni, quindici anni fa. Ma qui con una nota di ripensamento-risentimento. Delle occasioni perdute. Della frigidità colpevole – “E anche con lui era come masturbarmi,\ mai matura, scentrata e senza centro”. Un amore di “solitudini sorelle”.
Un risentimento che viene da lontano. La “Lezione di tenebre” che apre la raccolta, stillando nera malinconia, è opera del 2003, apposta col titolo “Manfredi” alle opera di Giovanni Manfredini, il pittore, che illustrava. Qualche venuzza era scoppiata anche in “Lezione d’amore”, 2004: “Che cosa può che un altro in me non possa”?
“Lezione di tenebra” è l’unica novità della raccolta – il Manfredi” del 2003 vi è rimpastato. Seguono I titolo già noti: “Cento quartine”, “Lezione d’amore”, ribattezzata “La tentazione”, “Erodiade”, “Fedra”. Repetita iuvant? Non al lettore.
Il saggio “Confessioni di una ladra di versi”, che chiude il libro, scritto per “La scatola a sorpresa. Studi e poesie per Mara Antonietta Grignani”, 2016, è un trattatello semiserio sul “parassitismo” – parola dal greco ‘presso’ e ‘cibo’, ‘colui che mangia alla tavola di qualcuno’”. Contro Victor Hugo, o in aggiunta, della poesia che è metà meditazione e metà ispirazione, il fuco sacro delle Pizie, “noi postfreudiani e postmatteblanchiani non crediamo più all’ispirazione; anzi crediamo che l’istanza della scrittura sia l’opposto di un ‘dono’: crediamo che abbia origine da una sottrazione, da una privazione, da una ferita”. La ferita famosa, dunque, ubiqua. Ma poi c’è anche la tradizione. E ci sono le ricorrenze, volontarie (imitazioni, citazioni) e involontarie. La prima è il “ladroneccio” di Daniello Bartoli, del “parassita imitatore”. O “endoparassita”, uno che “entra dentro il testo, lo modifica, lo scompiglia e – non di rado – gli fa anche del male”. Montale di Rebora, De Angelis di Raboni, etc.. Infine si arriva a Valduga: “Infine ci sono gli ectoparassiti, categoria a cui appartengo per inclinazione e destino”. Che beccano qua e là. In superficie, non entrando nel testo – costrutti, figure, parole. Il rampino di Valduga ha rubacchiato sopratutto “catene, croci et similia”, chiodi, spine, trappole. “Né si è lasciato sfuggire infanzie e infantilismi”. E “un senso di autoesclusione, se non di colpa”.
Appezzabile esame autoptico. Anche se il vocabolario, certo, è sempre quello. Di più, qui, come le grandi cortigiane di un tempo, “che hanno molto amato”, Valduga si mostra pronta per il cilicio – l’ultima parola del canzoniere erotico è D’Annunzio: manca l’“ohimé, la carne è triste”, ma tutto è pronto.
Con la cura sempre, o il dono, della rima, che dà scorrevolezza al verso, e un che di sorridente, tra l'ironia, o lo scherzo, e il mesto. Fa come dice Poe nei MarginaliaLa rima perfetta si ottiene solo combinando i due elementi, Uguaglianza e Imprevedibilità.  
Patrizia Valduga, Poesie erotiche, Einaudi, pp. 279 € 16

giovedì 27 settembre 2018

Il mondo com'è (354)

astolfo


Bisanzio 2 - Brodskij ha un preconcetto contro l’Est, dopo averci vissuto: “Il delirio e l’orrore dell’Est. La catastrofe polverulenta dell’Asia.  Verde soltanto sulla bandiera del Profeta. Qui nulla cresce tranne i baffi. Contrassegni salienti di questa parte del mondo:  occhi neri, barba dilagante, già ricresciuta prima di cena”….
“Se il terreno bizantino si dimostrò così favorevole all’Islam fu molto probabilmente per la sua composizione etnica – un miscuglio di razze e nazionalità al quale mancava ogni ricordo, locale o generale,l di una qualsiasi tradizione coerente di indi dualismo”. Brodskij assicura: “Non mi opiacicono le generalizzazioni”. Ma non si priva di dire che “l’Est significa prima di tutto, una tradizione di obbedienza, di gerarchia, di profitto, di commercio, di adattabilità; una tradizione, cioè, rigorosamente estranea ai principi di un assoluto etico”. Di più: Un fatto è certo: a qualunque estremo possa arrivare la nostra idealizzazione dell’Oriente , non riusciremo mai ad attribuirgli la minima parvenza di democrazia”.
Tutto questo “prima dell’arrivo dei Tuirchi”: “Così non c’è molto da stupire se la Chiesa di Roma storceva il naso al’odore di Bisanzio”. Era anche naturale: “Era naturale che si tenesse alla larga da Bisanzio., sia per le ragioni sopra dette sia perché Bisanzio – questa nuova Roma – aveva del tutto abbandonato la Roma propriamente detta. Se si eccettuano gli effimeri sforzi di Giustiniano per restaurare l’unità imperiale, Roma fu lasciata alle proprie risorse e al proprio destino, ossia ai visigoti, ai vandali e a chiunque altro”.
Gli imperatori dopo Giustiniano saranno orientali, “dai serbatoi in cui l’impero reclutava per tradizione i propri soldati: Siria, Armenia e così via”. Si chiamano romani ma non conoscono il latino: “Molti di loro, come la maggioranza dei sudditi, non conoscevano una parola di latino e non avevano mai messo piede nella città che già allora era parecchio Eterna. Eppure si consideravano tutti romani, si chiamavano romani e si firmavano in quanto tali” – allo stesso modo, aggiunge Brodskij dei dominions dell’impero britannico (con la differenza, va osservato, che questi parlano l’inglese, e anche molto bene, se scrivono in inglese e poetano). “Roma fu abbandonata a se stessa, come al Chiesa romana”.
Da qui un’evoluzione radicalmente diversa: “Il combinarsi dl diritto romano, che a Roma era preso molto più sul serio che a Bisanzio, con la logica specifica dello sviluppo interno della Chiesa romana, diede luogo gradualmente al sistema etico-politico che sta al centro della cosiddetta concezione occidentale dello Stato e dell’individuo”. Tracciando attorno a sé – in forma difensiva , va aggiunto – “una sorta di cerchio, un cerchio che l’Est, in un senso puramente concettuale, non varcò mai”. Con un handicap, che la Chiesa si costituì da se stessa, “limitando la nozione del male”. Limitandola all’“esperienza riflessa nel diritto romano, con l’aggiunta della conoscenza di prima mano derivante dalle persecuzioni dei cristiani”. Che è molto, ma non è tutto: “Col divorzio da Bisanzio il Cristianesimo occidentale condannò l’Est alla non-esistenza,  e così limitò in misura notevole, forse perfino in misura pericolosa, la propria nozione del potenziale negativo umano”. Fino a Stalin e al Grande Terrore – sulla base della massima staliniana “da noi nessuno è insostituibile”.
Poi arrivarono i Turchi. Che restarono attendati per tre secoli attorno a Costantinopoli. Inventandosi anche loro un simbolo comune, analogo alla croce dentro le mura. E nell’undicesimo secolo “spuntò, come sappiamo, la mezzaluna”. Infine, “la tenacia fu compensata, e nel quindicesimo secolo la croce cedette le sue cupole alla mezzaluna”. Un cambiamento d’insegne ma non radicale: “Il significato della storia sta nell’essenza delle strutture, non già nel carattere del décor”.
“Nella Bisanzio cristiana la differenza tra potere spirituale e potere secolare non era eccessivamente palese… Qualcosa di molto simile accadde anche con la Sublime Porta, vale a dire l’impero ottomano, alias la Bisanzio musulmana. Ancora una volta siamo di fronte a un’autocrazia, fortemente militarizzata e un tantino più dispotica… Tutto lo Stato era retto da un sistema gerarchico molto complesso in cui predominava l’elemento religioso”. A Bisanzio “la gente si convertiva al Cristianesimo nel quinto secolo con la stessa facilità con cui passò all’Islam nel quindicesimo (anche se i turchi, dopo la caduta di Costantinopoli, si astennero da qualsiasi persecuzione contro i cristiani)”.
(2. fine)

Walter Pohl, storico austriaco esperto delle invasioni, conferma indirettamente a Amedeo Feniello, su “La Lettura” di domenica la tesi di Brodskij: “Gli Ostrogoti di Teodorico vengono utilizzati dall’imperatore di Costantinopoli per sostituire Odoacre in Italia. L’invasione più violenta e distruttiva del VI secolo, paradossalmente, fu quella dei Romani dell’Impero d’Oriente nel corso della guerra greco-gotica, che inflisse danni gravissimi all’Italia”.

Etiopia – Un contrafforte mediterraneo, cristiano, al centro dell’Africa, in una fase di decadenza. È la sintesi di Giorgio Manganelli che vistò l’Etiopia nel 1970, nel quadro di un progetto italiano per una Strada Panafricana.  Che “vive insieme una fase burocratica e una vita tribale disarticolata”. Per cui “gli sforzi volontaristici di una elite ereditaria non possono sottrarla alla sua inveterata staticità”.E ciò perché “vive una condizione che si potrebbe chiamare di storia degradata”: “Collocata ai confini bantù, che la penetrano lungo le frontiere meridionali e occidentali, l’Europa sottolinea la sua qualità settentrionale, e ha come punto di riferimento culturale il Mediterraneo”. Ma questo è la sua debolezza: “Culturalmente isolata, l’Etiopia si è proposta come una fortezza, un luogo innaturalmente discontinuo, un paese psicologicamente difensivo, afflitto dalla miseria e dal vanto delle origini”.

Tribù – Persiste anche in Europa, e non per il ritorno del leghismo, di fronte all’immigrazione di massa. Ne è il tratto caratteristico, e vi si è di fatto nobilitata, per il sacro senso della patria e dei confini con le guerre più sanguinose del mondo. Ma anche per una caratterizzazione innegabile. Bologna si governava bene col papa, o Siena, e Ancona, che rivaleggiava con Amsterdam, pure in libertà. Mentre gli americani sono democratici come gli inglesi, gelosamente uguali fra loro, spietati fuori - ai giapponesi hanno spianato pure il cervello.
Di più la persistenza si nota nell’islam. L’islam in Arabia Saudita per esempio, che è il suo Luogo Santo per eccellenza, dà forte il senso di essere imploso, chiuso, irrancidito. Altrove è garbato, talvolta lezioso, sempre modesto – è difficile litigare con un mussulmano. In Arabia Saudita, dove è l’unica ragione di vita, almeno prima del petrolio, sembra acuirsi una sua intima schizofrenia. Che viene detta complesso d’inferiorità, con tutta l’acredine che questo comporta, nei confronti dell’Occidente dominatore, ritenuto solo più fortunato, ma la cui natura sembra diversa: è il rifiuto del mondo e insieme il desiderio di cavalcarlo, più accentuati entrambi che nel cristianesimo. L’Occidente, da cui hanno ripreso tutto quello che avevano perduto, la poesia e una qualche gioia di vivere, il sogno, la magia, il delirio, la filosofia, è semmai loro parte integrante. Succede alle società tribali all’ora delle nazioni. Tanto più quando si erigono a difesa della tradizione, mentre solo coltivano l’esclusione, dell’infedele come di ogni altra tribù. Con cattiveria, con ferocia anche, il confine ravvicinato rende l’insicurezza permanente.

astolfo@antiit.eu

Guerra al politicamente corretto, da sinistra

Un evento¨il progressismo si fa reazionario – approdando ai non c’è salvezza, non c’è più religione, il capitale non basta più, bisogna intaccare il capitale…? Ma ne va della sopravvivenza dell’uomo. Del maschio. Che è un essere umano anche lui. L’ondata di femminismo glamour ha fatto irritare la “sinistra illuminista” per la quale “Micromega” la rivista combatte. Che mette sotto esame (accusa) una lunga lista di totem: “#metoo, islamofobia, braghettoni, femminismi, multiculturalismo, LGBTQI, classici al rogo, fatwa, autocensure, clericalismo, sessuofobia”, così li denuncia in copertina, coi punti di sospensione finale, intendendo che non sono tutti.
Un caso di malumore? Non è un episodio, non isolato. Viene dopo il “Politicamente corretto”, la critica di Jonathan Friedman, o del conformismo come regime, morale e intellettuale. “La riscoperta ‘progressista’ della censura” e “le sontuosità beghine della sessuofobia” hanno fatto arrabbiare Paolo Flores d’Arcais. Come se la comunità di “Micromega” non c’entrasse nulla, in questo conformismo: la sinistra, benché illuminista, segue troppo i media americani, troppo passivamente, le loro politiche commerciali dell’informazione. Ma il direttore di “Micromega” ha trovato molti altri con lui egualmente arrabbiati: una ventina di contributi, in prevalenza femminili, attaccano molti aspetti del politicamente corretto che sommergono gli Stati Uniti – o non fanno finta di sommergere gli Stati Uniti, dato che poi votano Trump, o in alternativa Hillary Clinton, la candidata col più ricco, di gran lunga, fondo elettorale di una elezione?
Dietro una copertina che inalbera l’“origine del mondo” fronzuta di Courbet, la sinistra scopre che il moralismo è di destra: è  impositivo, e si vuole incontestato. Nel nome della purezza. La “sinistra illuminista” che “Micromega” propone ne è sconcertata. Come se avesse perduto il senso della realtà – l’ha perduto. Il “politicamente corretto” è come i “diritti umani” e come la “globalizzazione”, una politica e non un dover essere, imperiale.
L’ultima ondata di questione morale è soprattutto femminile, e due donne di peso, nella cultura e nella società, tentano di rimediare, Simonetta Agnello Hornby, una scrittrice che è stata giudice (a Londra), e Eva Cantarella, che dello studio della femminilità e della sessualità nel’evo antico è la massima autorità. Cantarella ricorda che la giustizia si basa sule prove e non sui sentimenti, e deplora che nelle università americane si prova a censurare perfino Ovidio, e si considera molestia anche un “gentile complimento”. Agnello Hornby contesta i fatti: la denuncia degli abusi oltre i termini di legge (e sotto l’ombrello degli “avvocati a percentuale” no?), contro il “sacrosanto principio” del giusto processo, e l'unilateralità della questione abusi, che vuole la donna nel ruolo di vittima e l’uomo in quella di carnefice, mentre “la realtà dimostra che le cose non stanno affatto così”. Questo per dire che tutto il numero è da gustare.
“Micromega” 6\2018, Contro il politicamente corretto, pp. 268 € 15

mercoledì 26 settembre 2018

Secondi pensieri - 360

zeulig


Da… fino a – L’Atac minaccia per chi aggredisce i suoi autisti “pene fino alla condanna e alla reclusione” – un “fino a” che l’Atac rende in inglese con even, “perfino”. L’allarme è più dissuasivo se la pena non è più certa?
È l’epoca. Tra i lessemi commerciali è scomparso il prezzo. Che per estensione si può intendere della legge, le cui pene non sono più certe, come da codice. Non c’è più una cifra nei contratti e negli acquisti ma un’ipotesi. Che sia numerata non ne cambia la natura, di prezzo ipotetico. Ogni abbonamento è incerto, ai telefoni e non solo, nell’estensione, la scadenza, il canone tariffario, ogni tariffa lo è, e ogni canone. Le pene non sono più stabilite, sono “fino a”. È un linguaggio che si vuole rassicurante ma è minaccioso. Ellittico, come di marionetta dietro cui solo il puparo conosce svolgimento e senso. Sa tutto chi sta dietro. Una forma dell’incertezza che conclude al complottismo – la sicurezza del complotto.

Donna - La donna è e non sarebbe concepibile. Nella fisica e nella metafisica. Le sue forme, la sua funzione, le fantasie che le sono cresciute addosso, nessun genio umano potrebbe inventarle.
La procreazione stessa è inconcepibile se non fosse. Più delle condizioni concluse, all’apparenza razionali, dell’immortalità e la morte, poiché è entrambe, e quindi è più di ognuna di esse.
Ma è l’immaginazione che apre la via alla ragione, non bisogna temere l’ignoto. Si potrà nascere senza donne, è fatale, come già senza l’uomo.

Memoria – È disordinata, eclettica, rapsodica. Anche quando si vuole ordinata, regolata – semmai allora abusiva, impositiva. È malleabile, si sa, anche nel ricordo involontario. Anche quando si storicizza, malgrado i tanti paletti del metodo storiografico.
Iosif Brodkij, “Una stanza e mezzo” (in “Fuga da Bisanzio”) l’accosta per questo all’arte: “Ciò che la memoria ha in comune con l’arte è il dono della scelta, il gusto del particolare”. O anche alal biblioteca-invenzione di Borges, ma in senso deteriore: “La memoria somiglia essenzialmente a una biblioteca in disordine alfabetico, e in cui non esiste l’opera omnia di nessuno”.

È interdittiva, può esserlo, più che liberatoria. La memoria di Proust lo ha liberato. Almeno si suppone: era quello che ha voluto fare, e lo ha esaltato. Ma è una prigione. “Memoria lunga, vita corta”. Dice il proverbio.
È occasionale, per quanto artefatta. E se artefatta limitata, limitativa. Si indulge ai romanzi del’infanzia e la giovinezza, che se si scrivono evidentemente sono in domanda, hanno lettori, perché l’infanzia si vuole età “felice”, a meno di traumi, essendo afasica. E qui la memoria si vuole traditrice – delatrice, opportunista. Si fa l’infanzia età felice, di solito, per il gioco che è ne è prerogativa espressiva. E la non memorizzazione, l’assenza di un meccanismo regolatorio, afflittivo, se on nei limiti della ripetizione, mentre è l’età della schiavitù – della dipendenza totale, che può essere felice (risolta, remissiva).

No – È più facile del sì. Sospende e allinea, non scompiglia, e non impegna. Per questo è la trincea della burocrazia, che di fatto è una bura-no. Iosif Brodskij ne fa in “Una stanza e mezzo” (“Fuga d a Bisanzio”), il perno del sistema sovietico: la conformità di ogni decisione, dall’alto al basso e bassissimo con al volontà del sistema, la quale, essendo per natura arcana, viene onorata con lo stallo, col diniego. Probabilmente per la tensione al minimo sforzo, alla riduzione dell’efficienza\produttività al minimo vitale – per Brodskij perché “è sempre più facile dare una struttura alla disumanità”.

Paternità - Molte creature senza padre vivono, esseri che le madri non hanno concepito per amore, non del padre. E già le donne figliano senza fertilizzarsi, nel grembo altrui – è l’utopia, la riproduzione senza la produzione. Analogo artificio si troverà per gli uomini, un utero artificiale. Casanova lo presagì, che diceva: “Una delle prove dell’ateismo è che, se Dio ci fosse stato, non avrebbe creato la donna”.

Religione – “Tutte le religioni sono una” è una serie di incisioni di William Blake, 1788, ma sono anche un testo vero per ciò che dice. Anche se non è quello che Blake intendeva. Per Blake solo il Genio Poetico è una religione – l’immaginazione. La religione teologica diceva invece Mentre il contrario è più vero: l’immaginazione è individuale e divisiva, la religione invece unisce: la credenza religiosa, la fede, è una.

Rivoluzione - Non una è riuscita. E se dura svanisce: le rivoluzioni finiscono nell’ordine - l’ordine, come la morte, riemerge.
Concettualmente, invece, le rivoluzioni vanno come le nascite, che sono numerose e varie.

Spazio – “Se c’è nello spazio un aspetto infinito esso non sta nell’estensione, bensì nella riduzione. Se non altro perché la riduzione dello spazio, stranamente, ha una maggiore coerenza. È meglio organizzata e assume più nomi: una cella, un cesso, una tomba. Le vaste distese sono capaci soltanto di accennare un gran gesto” – Iosif Brodskij “In una stanza e mezzo” (In “Fuga da Bisanzio”, p. 193).

Teatro – È poco teatrale, rispetto al cinema, e quasi intimista.  La morte per esempio evoca nella forma prevalente del suicidio - Philip Roth ha in “L’umiliazione” ha un elenco di una pagina di suicidi in drammi celebri, dall’“Antigone” e l’“Edipo Re”. Che invece non è tema filmico: il suicidio al cinema non viene bene - il cinema coltiva l’assassinio, lo ha imposto, poi anche alla tv.
Il cinema è più teatrale, il teatro più intimista. Il cinema è estroverso, violento, il teatro malgrado tutto introspettivo – anche Macbeth, o Re Lear (gli “elisabettiani” che lo facevano grondare di sangue in scena  sono stati un tentativo fallito).   


zeulig@antiit.eu

Africa incognita

“L’Africa appare morta – qualcosa che forse non è mai stato vivo”. Non è la sola provocazione. “Le folle di mendicanti”. “Gli innumerevoli lustrascarpe in una terra senza scarpe”. L’Africa è “un pachiderma planetario abitato e percorso da insetti lievissimi e provvisori”. Una “menzogna” europea. Ma, a parte questi sobbalzi, niente: l’Africa Manganelli sembra non averla vista.
Ne aveva I mezzi, che qua e là lampeggiano. Il Sudan “misteriosa invenzione geografica”,  lo Stato allora più grande dell’Africa. O l’Etiopia, che “ha come punto di riferimento culturale il Mediterraneo”. Ma fu viaggiatore forse controvoglia. All’Africa rimprovera “il mito del XXmo secolo”, cui sarebbe succube, e rimprovera l’isolamento. Inviato peraltro incongruo della società Bonifiche nel 1970 per esplorare l’idea di una Panafricana, una strada dal Cairo a Nairobi-Mombasa e a Dar-es-Salaam. Se la cava con i ghirigori, troppi – Viola Papetti ne ha riordinato i rapporti al committente, il dirigente di Bonifiche Carlo Castaldi, riproducendone qui la prima redazione, rifiutata perché troppo negativa.
Non si può fargliene una colpa, la letteratura di viaggio non è specialità italiana. Del resto nulla è di più sconosciuto in Italia dell’Africa, che pure è stata scoperta prima di Gesù Cristo. E malgrado le avventure coloniali,  compreso il “mal d’Africa” – anche Montanelli si portava dietro la “sciarmutta” (Malaparte no, ma forse non scopava). Lo stesso Manganelli lo sa, anche se non nello specificio, non delle sciarmutte. Sa della “menzogna dell’Africa, illuminante figura retorica che riassume secoli di fantasie di liberazione, essenzialità, solitudine”. Ma dietro la figura retorica niente. Nemmeno nel suo resoconto: il “sorprendente catalogo di simboli” cui accenna, “qualcosa che serve a chiarire il malessere europeo”, resta ignoto.
Sul “malessere europeo” invece è informato e chiaro, tanto più alla lettura oggi, mezzo secolo dopo che ci ha riflettuto e ne ha scritto, in breve, nella pagina iniziale. L’Europa vive un tempo senza tempo, per questo si consuma. Lo sguardo europeo sul continente ignoto, questo sì, merita la lettura.

Giorgio Manganelli, Viaggio in Africa, Adelphi, pp. 71 € 7

martedì 25 settembre 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (376)

Giuseppe Leuzzi

Apple doveva 14,3 miliardi di euro di tasse all’Irlanda – almeno 14,1 miliardi, quanti ne ha quantificati l’Antitrust europeo. Non ha contestato la decisone, Indirettamente riconoscendo che è mite. L’Irlanda così ha prosperato facendo da sede europea del grande business Ict con diecine di migliaia di posti di lavoro qualificati, grazie all’esenzione fiscale. E poi ha incassato l’assegno. Tutto questo è stato possibile in Europa, all’interno della Unione Europea. Ma se la Regione Sicilia avesse dato anche solo la metà dei benefici fiscali che ha dato l’Irlanda, questo non sarebbe stato consentito.

I monopoli dell’informazione vanno in Irlanda per via dell’inglese. Ma perché la Sicilia non può diventare la base europea della Cina, del Giappone, dell’India?

I grillini che scalzano il proprio miracolato governo era da vedere. È vero che è un governo delle novità. O è una commedia, roba da comici? Ma il Sud che li ha plebiscitari? Un comico genovese può tanto al Sud? Poi dice che la colpa è del Nord. 

L’amico mafioso
Si può dunque frequentare per dieci anni una persona, anche con buona amicizia, che ora è arrestata per mafia. Non per concorso, o in associazione. No, per mafia: “A tutti gli effetti partecipe di una delle più importanti famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro”, dice il comunicato degli inquirenti.  
Che il sindaco di un paese di montagna condizioni gli appalti della piana di Gioia Tauro, come dice ancora il comunicato, questo non è possibile. L’ingenuità invece sì. Ma questo non esime, l’imputazione resta lo stesso pesante.
Lo sgomento emerge stranamente non per sé, per la propria imprudenza o sconsideratezza, ma per l’arrestato. Persona franca e socievole. Vicino di casa, di quartiere. Buon padre. Buon amministratore, da assessore e da sindaco. Stimolatore delle attività culturali. Capace di rilevare e far chiudere centinaia di allacci idrici abusivi, per orti e allevamenti. Pieno di progetti, già finanziati.
Riesce difficile, malgrado la secca imputazione, immaginare questa persona al soldo della cosca Alvaro di Sinopoli. Per soldi? Per potere? Dunque, gli Alvaro sono potenti.
Questa è la sorpresa più dolorosa: che una famiglia mafiosa che imperversa da mezzo secolo, con grassazioni innumerevoli, tentati omicidi, forse rapimenti di persona, traffico di droga, investimenti da tempo confiscati al centro di Roma, il Café de Paris a via Veneto, il California a via Bissolati, la Sacrestia al Pantheon, sia in attività.
O che non sia vero il paradigma del tutto mafia di De Raho – nei quattro anni a capo della Procura di Reggio Calabria non usciva di casa, giusto per andare in ufficio. Se lo stesso giorno si sequestrano per mafia i beni di Mario Ciancio Sanfilippo, giornalista e editore, l’editore di giornali e di televisioni più importante del Sud, già presidente della federazione degli editori di giornali, duecento ettari di aranceti attorno a Catania, barone.  

La violenza al Sud
“La vita promessa” di Ricky Tognazzi, corazzata di settembre su Rai Uno, segue lo schema del “Padrino”. Imperniato su una Madre Coraggio e non su un Padrino, una combattente e non un mafioso, ma gli ingredienti sono gli stessi. New York e la Sicilia. La glottologia linguistica. E la stessa caratterizzazione Nord-Sud, che lo spaesamento accentua, Little Italy, con lo stesso veneto bravo che il povero Moschin allora interpretava. Ma qui accentuata, aggravata: il Nord buono è rinforzato da un milanese munifico, in aggiunta al veneto vittima, mentre il Sud è cattivissimo in tutto, e non solo nella mafia, stupido, raggiratore, traditore, inumano.
Il cattivo è uno che le ucciso il marito amato, ha ridotto all’ebetudine l’amato primogenito, e l’ha stuprata. Una violenza condivisa che si ripeterà, si presume, a New York, dove il mafioso ha deciso d’inseguirla, lasciando poderi e poteri  in Sicilia. Che sarebbe un caso di follia, il soggetto diventando perseguibile, poiché la madre sua vittima non avrà problemi a denunciarlo. Ma Spanò, si chiama così il boia, è inattaccabile: pure Madre Coraggio ha il suo lato oscuro, dello stupro riassaporando il godimento.
La madre vittima è anche un po’ Visconti, di “Rocco e i suoi fratelli”. Ma senza la tragedia – al Sud Visconti rifaceva la tragedia greca, dopo “La terra trema”, e prima dei gelati squagliati della maturità, del “Gattopardo”. Ed è giovanile e bella - per essere perseguitata dal cattivo fino a New York.
Un progetto ambizioso. Le ambizioni le rivela anche la grande produzione, con scene in esterni, costumi e scenografie d’epoca, masse. Un remake d’autore, si direbbe, non ben congegnato. Ma forse per il di più che il tempo vuole, se lo premia con cinque milioni di audience, un quarto degli spettatori. Un tempo che non sa immaginarsi un altro Sud, anche al Sud
Il Sud ci scarica, caricandolo di violenza.

L’influencer di paese
C’è un esperto delle dinamiche social e delle tecnologie facebook, nonché protagonista delle stesse,  a Taurianova, “piana di Gioia Tauro, 15 mila residenti, reddito medio 663 euro al mese, Comune sciolto per mafia tre volte nell’ultima generazione”. È un muratore di 52 anni, Francesco Gangemi, disoccupato dal 2011, che “ha comprato, dice , «un diploma di geometra in Puglia» e oggi vive con al pensione della madre”. Su face book raccoglie “circa 600 euro al mese quando va bene, ma a Taurianova fanno la differenza”, e ha attirato l’attenzione di Federico Fubini.
Gangemi il giornalista di Milano deve accogliere “nel tinello di casa di un amico”. Ma è un esperto del web.  È diventato un influencer politico su facebook senza alcun titolo speciale – c’è qualcuno che ce l’ha? Ma sa che grafica ci vuole, il font Impact tutto maiuscolo, la frase breve, la brutalità, “altrimenti nessuno clicca”. Lui personalmente è un moderato: alle elezioni voleva votare “quelli di CasaPound perché portavano la spesa a casa, poi però ho messo due schede bianche”. E non ce l’ha con nessuno in particolare: “Post brutali? La gente vuole quelli”. Tanto meno ce l’ha con gli immigrati, anche se è un critico dell’immigrazione: “Qui a Taurianova non creano problemi, vanno a lavorare la mattina presto e sono integrati: abbiamo anche una moschea a pochi chilometri da qua”.

Il volgare illustre
Pavese, pur essendo stato al liceo più prestigioso di Torino e all’università di Lettere, aveva problemi con l’Italiano. O comunque ne volle fare un uso personalissimo. Annotò serie interminabili di parole del lessico italiano a lui ignote o non familiari per lui strane. Per derivarne una scrittura che Gian Luigi Beccaria dirà “volgare illustre”. “Il dialetto è nobilitato senza abbassare la lingua”, nota Beccaria di questo particolare uso: “Più che abbassamento della lingua al dialetto o innalzamento del dialetto alla lingua, si tratta di un’allusione al dialetto da parte della lingua”.
Di Alvaro si può dire lo stesso, che ha fato studi meno regolari di Pavese – ma poi si è esercitato col giornalismo. E più ancora degli scrittori calabresi in Calabria: Padula, Perri, La Cava, Delfino, Zappone, lo stesso Répaci benché toscanizzato. Il “volgare illustre” implica un forte radicamento, come Beccaria notava di Pavese, dopo Fenoglio e lo stesso Alfieri.

Pavese passò a Brancaleone solo sette mesi, da agosto 1935 a marzo 1936.  Per lo più impiegati in domande di grazia, anche per le insistenze familiari. E nelle lettere che ne scrisse non ha un solo cenno di simpatia. Il mare vi è “inutile”, la stella del mattino è lo steddazzu, la casa è un seminterrato - la casa non era un seminterrato. Ma le foto delle sue biografie lo ritraggono in almeno un paio di casi circondato da molta bella gioventù, non per caso evidentemente, le foto all’epoca non si rubavano, benché fosse un confinato politico.

Il ritorno – O nostos
Succedeva a Pavese come già a Ulisse: “Amo il mio paese alla follia,” Pavese scriveva di Santo Stefano Belbo, ma perché vengo da molto lontano”. Come di una memoria, discontinua, irrelata col luogo. Si ama la memoria di sé infanti, non il luogo nella sua realtà?
L’emigrato del resto non vi ha più un ruolo. Né ne ha la voglia quando ne avesse l’opportunità, e anche quando si applica, il mondo in realtà cambia in continuazione, le tela d Penelope è una finzione.

leuzzi@antiit.eu

Quanto l’Africa potrebbe essere ricca

Una nota di ottimismo per il continente diseredato. Ma un’Africa tutta “opportunities” per l’energia era tema di una forte brochure sessant’anni fa: fiumi, correnti marine, maree, venti, insolazione costante, l’Africa sarebbe stata il bacino energetico del mondo. E non dell’energia combusta degli idrocarburi – che poi si sarebbero cogiunti, di fatto e non sulla carte, in grandi quantitativi, in Libia, Algeria, Nigeria, Gabon, Angola, Egitto, Mozambico, e altrove. L’Africa era il potenziale dinamico verde del mondo. Ma il problema non è delle risorse, nemmeno di quelle finanziarie, che volentieri si ammassano dove rendono. Il problema è di dove va l’Africa. Per esempio a petto del deserto mediorientale, che dal 1973 in pochi anni si è fatto ricco e ricchissimo.
Le indipendenze africane hanno evoluto in altro senso. Per molti aspetti una marcia indietro. Fra regimi eterni, corruzione, eccidi e guerre in contino,  sperperi di ogni tipo, dagli armamenti ai diamante e ai dollari in Svizzera. Non una proposta, un progetto, una idea o una personalità trainanti - Mandela è solo un ricordo, di una vergogna europea. E un un terzo dell’Africa non ha la luce. Cioè nessuna possibilità di migliorare la produzione e il modo di vita. Si sopravvive bruciando pezzi di foresta. Per catturare gli animali, da salare per la cattiva stagione, e per avere terra grassa da sfruttare per un paio d’anni per i tuberi commestibili. L’economia dell’età del ferro, mettere in produzione un appezzamento per qualche anno, finché non insterilisce, per poi passare a un appezzamento contiguo.
L’Eni fa bene a proporre “un piano per l’Africa” – chi non ne ha uno? Ma senza l’Africa? Il problema dell’Africa è l’Africa, le dipendenze non ci sono più, che fondavano la vecchia critica: né politiche né economiche - i termini di scambio sono molto migliorati, da decenni, specie per le materie prime, agricole e minerarie. 
Fondazione Eni Enrico Mattei, Energy in Africa. Challenges and opportunities, free online

lunedì 24 settembre 2018

Ombre - 433


In Libia “gli Usa tornano in gioco, l’idea di un corpo d’élite (con gli ex gheddafiani)”. Follia non è, cioè sì.

C’era una volta l’antiamericanismo professo, che criticava gli Usa in quanto difendevano la libertà. Non ce n’è invece per le tante sciocchezze, dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia, alla Siria, e ora alla Palestina e di nuovo alla Libia cin cui ci coinvolgono.

Reddito di cittadinanza sì, assolutamente. Ma solo agli italiani con quattro quarti. Ultrasettantenni. Se non hanno altri redditi.

La Ue, l’Ocse, la Bce, il Fmi riducono le previsioni di crescita dell’economia in Italia nel 2018, dall’1,5 all’1,3-1,2. L’Istat invece migliora la previsione, dall’1,5 all’1,6. Il patriottismo non è morto.

“La Repubblica” scova uno che ha pagato i debiti con lo Stato. Benché fossero della società che andava ad acquisire, che poteva non pagare, e non suoi. Benché non fossero soldi rubati. È Lotito, il presidente della Lazio. Di cui tutti ridono, e ora si capisce perché. I debiti con lo Stato si possono non pagare, anche se sono soldi rubati allo Stato.

La Repubblica, prima o seconda, era migliore, infinitamente, anche nei suoi personaggi ridicoli. A petto del comico Grillo di professione. Sono genovesi come Grillo i giudici che consentono alla Lega di pagare il furto di 49 milioni alle casse dello Stato come un modesto interesse annuale.

“Dal crollo degli sbarchi risparmi per 2 miliardi l’anno” – “la Repubblica”. Allora ha ragione Salvini?

“Investire quella somma in integrazione”, consiglia l’esperto. Cioè a beneficio dell’industria dell’accoglienza. Per hot spot  - sportelli in Africa – no, reclutamenti e trasferimenti umani.

Un lettore scrive a Cazzullo a favore del riposo domenicale. Se la domenica, dice, è pagata al commesso solo 14 euro (di straordinario festivo, si suppone), meglio fare un figlio, provarci, siamo in crisi demografica. Cazzullo non è d’accordo: “E poi come li si mantengono i figli concepiti nelle domeniche?”, obietta. Mancando i 14 euro cioè – a parte il toscaneggiare?

Un imprenditore americano escluso dalla graduatoria per gli appalti pubblici riservata alle minoranze ha fatto ricorso specificando che il suo Dna lo attesta solo al 90 per cento bianco, ma per il 6 per cento pellerossa e il 4 per cento “africano a Sud del Sahara” – la parola “nero” è proibita in America. Il bianco non conta nulla?

Apple paga senza battere ciglio 14,3 miliardi di euro di tasse arretrate all’Irlanda, su ingiunzione del’Antitrust europeo. E la Borsa la premia. L’Antitrust è stato di mano leggera?

“Tria non rischia, ma sia più elastico su deficit e pil”. L’arte di governo targata Di Maio non poteva smentirsi: niente cultura naturalmente, ma niente senso politico. Minacciare un ministro. Del suo governo. Il ministro che bene o male lui ha designato, e che bene male lo rappresenta. Barbarie? No, la barbarie è parte della civiltà, qui è l’assurdo.  

Olimpiade invernale: Torino si sfila, dopo essersi ricandidata. Senza nessuna ragione: Cioè: se si escludono gli appalti, che la giunta 5 Stelle di Torino non avrebbe controllato.
Sala invece e Zaja d’accordo perché il Coni garantisce gli appalti targati Pd e Lega?

Roma ha estremo bisogno di interventi su strade,marciapiedi, segnaletica, etc. Ma in un anno ha speso un terzo appena dei 150 milioni disponibili. I 5 Stelle della sindaca Raggi controllano rigorosi  gli appalti, gli appaltatori stanno ancora cercando i canali giusti.

Un lussemburghese socialista, Asselborn, e uno democristiano, Juncker, giudicheranno a Bruxelles Salvini di fascismo. I due partiti uniti nella lotta per fargli vincere anche le europee, farle vincere a Salvini?

Il problema non è se Asselborn ha ingiuriato Salvini, il problema è se alla riunione informale di Vienna sull’immigrazione erano ammesse o no le registrazioni degli interventi. Asselborn dice che non erano ammesse – e quindi lui poteva ingiuriare Salvini? Gli organizzatori, austriaci, dicono che non sanno. Ogni tanto la Ue è anche tragicomica. Per fortuna sul nulla, almeno per ora.

La dialettica politica si voleva svanita in Europa e invece eccola qui. Cambiato i governo, il socialista Moscovici a Bruxelles ci trova tanti difetti, compresi alcuni “piccoli Mussolini”. Quando al governo erano i suoi compagni di Partito, Renzi e Padoan, solo lodi, anche se il debito aumentava, in termini assoluti e più ancora in rapporto al pil.
Allora criticava l’Italia – di Renzi e Padoan – il vice-presidente Dombrovkis, democristiano.

Di Maio cambia l’ad di FS, ne nomina no di sua fiducia, e gli ammolla Irisbus di Avellino, che con Fs non ci azzecca nulla. E l’Alitalia, idem. Per fargli un favore?
È chiaro che Di Maio vuole impegnare Fs, che comincia a fare soldi, nei salvataggi. Farne un nuovo Egam. È una novità? Ma perché affondare Fs?

Lo steso fa Toninelli ai Trasporti. Dove disincaglia Anas da Fs - effettivamente le due strutture non hanno nulla in Comune. Ma lo fa per affidare di nuovo all’Anas strade statali e autostrade. Toninelli ricentralizza: dov’è la novità?

Chi si ricorda della Brexit qualche estate fa, a chi interessa? Suscitò un terremoto, la Borsa di Milano perse il giorno dopo il 13 per cento, record europeo. Bisogna diffidare delle Borse, e dei “terremoti”.

Neo realismo a Tokyo


Un film neo realista. Lungo. A colori. In Giappone. Siamo nel 2018, ma di fatto in un mondo senza tempo – anche l’abbigliamento è atemporale. Non fosse per le facce uno si penserebbe in un film di Rossellini-De Sica-Zavattini, in una favola della povertà – e si spiegherebbe il premio a Cannes, la Francia ancora ci invidia il neo realismo.
Per il regista Kore’eda è il quarto volet di una ricerca sulla famiglia, cui ha già dedicato tre film, di cui uno proiettato anche in Italia, “Ritratto di famiglia con tempesta” – gli altri due sono “Little Sister” e “Father and Son”. La famiglia è dunque il suo campo narrativo. Qui una famiglia di taccheggiatori (“Shoplifters” è il titolo americano, “Un affare di famiglia” per il pubblico europeo), con momenti caldi e umani, come in tutte le famiglie. Ci sono anche i bambini, lo sguardo innocente sulle piccole brutture quotidiane.
Hirokazu Kore’eda, Un affare di famiglia

domenica 23 settembre 2018

Appalti, fisco, abusi (128)


Se uno stabile è occupato illegalmente, da zingari, senzatetto, centri sociali, individui isolati, nessuno è tenuto  pagare i danni alla proprietà. Non gli occupanti, né lo Stato, che in  teoria protegge la proprietà, i diritti di proprietà, per mancata protezione. È la sentenza del Tar del lazio – su una vertenza vecchia peraltro di 14 anni. Singolare la motivazione: ripristinando l’agibilità dello stabile, la proprietà potrà negoziarlo a valori di mercato.

Sky toglie alcune partite di rango dal pacchetto calcio proposto ai nuovi abbonati appena prima dell’estate? Non c’è rimedio possibile, l’Agcom non ha nulla da dire.

Per qualsiasi credito da versare in banca, liquidazioni, polizze, contributi, e quant’altro, l’accreditante dovrà prima ricevere dalla banca su cui fare il bonifico “attestazione di avvenuta adeguata verifica”. La impone la Banca d’Italia, nel quadro delle nuove misure antiriciclaggio. L’attestazione si compone delle generalità del correntista, data e luogo di nascita,e dagli estremi di un documento, assortite da cinque fogli di specifiche e minacce. È l’estensione dei “documenda” quando ci fermano in strada per il “controllo del territorio”.
Si dice che lo impone la Ue. Ma in Germania non è così.

Sono molti gli impegni imposti dalla Banca d’Italia alle banche per l’antiriciclaggio, dopo quelle sulla privacy. Che implicano un costo per la banca e l’utente, in termini di tempo\lavoro, nonché per l’ambiente, e nessun beneficio per l’antiriciclaggio, o la privacy. Traducendosi per ogni minimo atto in mezze dozzine di pagine e firme a nessun effetto – se non il consumo di carta, e il costo dell’immagazzinamento. La Banca d’Italia come una delle tante Autorità pletoriche e inutili?


La giornata che sconfisse il sovietismo

È “una giornata quasi felice”, quella di Ivan Denisovič. Si chiude così il racconto di ventiquattro ore di obbrobrii quotidiani, minuto per minuto, gesto per gesto, strategia per strategia, di sopravvivenza, che nel 1962 rivelarono e documentarono la vita quotidiana nei campi di lavoro forzato di Stalin in Siberia, i gulag. Ai quali si veniva confinati fino al 1949 a dieci anni, poi a venticinque. Senza colpe specifiche, per la disciplina. Šuchow, Ivan Denisovic, è condannato per essere evaso dalla prigionia tedesca: accusato per questo di essersi arreso senza combattere, e sospettato di essere diventato una spia. È, o sa fare, il bravo muratore, ha elaborato tecniche personalissime per un migliore digestione della sbobba quotidiana, anche per sgraffignare una doppia porzione, e per paludarsi contro il gelo sfuggendo ai controlli delle guardie sull’abbigliamento di ordinanza, e tra queste mille astuzie il lager-gulag non gli pesa, e non pesa al lettore.

Solženycin, che l’esperienza di Ivan ha vissuto personalmente, non ne fa un atto di accusa. Cioè, l’accusa è implicita, nel fatto stesso che ci fossero campi e condanne di questo tipo. Quello che scrive è il mondo senza il sovietismo: come un prigioniero, innocente, isolato in un inferno di ghiaccio, mantenga umanità e dignità critica, seppure limitata alla sopravvivenza. È così che il racconto resta tuttora vivace, e quasi ilare. Una sorta di racconto di avventure. Anche senza la vergogna sovietica.

Nel 2006 il racconto è stato rivisto e integrato dallo stesso Solženycin. Senza i compromessi cui era addivenuto con la censura nel 1962 – il racconto, pronto nel 1960, subì due anni di trattative. La riedizione ricomprende anche, ritradotti, i due racconti che ne accompagnavano la prima edizione, ora intitolati “La casa di Matrëna” e “Accadde alla stazione di Cocetovka”. A cura e con la traduzione di Ornella Discacciati. Più cruda e più realista – meno toscaneggiate – ma anche quella di Raffaello Uboldi a caldo, nel 1963, un anno dopo l’uscita su “Novyi Mir”, era di ghiaccio.

La vecchia edizione si avvaleva di un’introduzione - anonima ma dello stesso Strada (traduttore del secondo racconto, il terzo era tradotto da Clara Coisson) - nella quale si cita a lungo Vittorio Strada come interprete critico di Solženicyn alla prima pubblicazione.  Strada ne avverte subito la sostanza e il peso – Solženycin sarà Nobel nel 1970 - richiamando Remizov e Platonov.
Il richiamo a Platonov – lo scrittore di cui Discacciati è specialista – Strada culmina dichiarando questa prima opera di Solženycin  “una delle più schiette opere socialiste della letteratura sovietica”. Ma è difficile che ci sia una “letteratura sovietica”, se non come arco temporale, a parte le macerie. “Una giornata” ne è la negazione più radicale, di una vita, una vita umana, che si svolge al di sotto e al di fuori del sovietismo. Dei regolamenti cioè e della frusta, la negazione di ogni poesia.

Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovic, Einaudi, pp. 290 € 20