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venerdì 13 gennaio 2012

L’Ue lavora per la Germania

La Germania ha costantemente, da quattro anni, un attivo nei conti con l’estero che si può ritenere il passivo, anch’esso costante da alcuni anni, dei suoi maggiori partner europei: Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna. La bilancia dei pagamenti è costantemente in forte attivo per la Germania, e in forte passivo per i suoi partner europei. A metà 2011 l’attivo tedesco ammontava a 46 miliardi di dollari, a fronte dei quali l’Italia registrava un passivo di 21 miliardi, la Francia di 17, la Spagna di 16, la Gran Bretagna di 12 (e la Grecia di 8).
La bilancia dei pagamenti registra il movimento merci e capitali da e per l’estero. È l’indicatore migliore dello stato di salute di un’economia. I raffronti sono stati dismessi in sede europea dopo l’unificazione monetaria. Mentre invece fotografano il quadro di almeno due Europe fortemente diversificate. Una delle quali, con la Germania, in costante attivo e quindi non interessata a un intervento anticrisi: Olanda, Danimarca, Svezia, Belgio.
La relazione tra l’attivo tedesco e il passivo dei maggiori partner europei non è lineare – non nelle statistiche generali che l’Ocse rende pubbliche. L’attivo tedesco si può presumere alimentato anche dal forte sbilancio americano (117 miliardi a metà 2011). Mentre il passivo può doversi alla Cina o, per esempio per l’Italia, ai paesi del petrolio. I movimenti, inoltre, sono per lo più determinati da condizioni di produzione e da aspettative fondate. E tuttavia, per una parte che può non essere piccola sul versante aspettative, essi possono essere azionati artificiosamente. La politica prettamente mercantilistica – indirizzata a trarre un vantaggio nazionale a spese delle altre nazioni – del governo Merkel-Liberali è più che provata nei confronti della Grecia. Verso la quale il gabinetto della cancelliera ha assunto un atteggiamento severissimo: niente salvataggio senza rigore. Ma dopo aver imposto alla Grecia, sia al conservatore Karamanlis nel 2009, a crisi già aperta, sia al socialista Papandreou a marzo, con la Grecia sotto pressione per tagli e tasse, una spesa militare, innecessaria e gravosa, di quattro miliardi di euro, per sottomarini e carri armati. Ma il tema è meglio analizzato in linee generali.
La materia fu dibattuta due anni fa sul “Financial Times”. Il quotidiano attribuì alla Germania la responsabilità di buona parte della crisi dell’euro, per effetto del suo “modello economico orientato all’esportazione”, cou un pesante surplus nei confronti dell’Europa latina e balcanica. Ignorando “il fatto che l’Europa nel suo complesso deve diventare più competitiva”. Il portavoce del governo tedesco, Ulrich Wilhelm, si limitò a negare che le esportazioni tedesche fosse competitive grazie a pratiche scorrette, interventi pubblici, svalutazioni surrettizie, dumping salariale. Ma non contestò l’assunto principale: che la Germania usa l’unione monetaria come area di conquista.

Gattopardo a Milano

“Da Milano si vede l’Italia”, pare abbia detto Salvemini. Ha comunque cercato di vederci subito chiaro: da neo laureato, nominato al liceo di Lodi, lesse con sorpresa Cattaneo, ollaborò alla “Critica sociale”, la rivista socialista di Milano, e impiegò il tempo libero in uno studio della città. Dei partiti a Milano, dopo Napoleone e fino all’unità. Scoprendo un sostanziale opportunismo, nell’italianità invocata sotto il “dominio austriaco”, e in quella avviata dopo le Cinque Giornate. Con l’accantonamento della mente e l’anima delle Cinque Giornate stesse, Carlo Cattaneo, per un’unità gattopardesca.
Gaetano Salvemini, I partiti politici milanesi nel secolo XIX, con un saggio di Arturo Colombo, Mursia, pp. 196 € 15

Pound e Ginsberg (e Montale) uniti nella poesia

Non c’è molto di Ezra Pound nella poesia beat e nella beat generation, a parte la devozione sempre professata di Allen Ginsberg. Che adorava il personaggio (da ebreo spiegandogli: “L’antisemitismo è il vostro andare a farvi fottere”) e ne apprezzava il rinnovamento del linguaggio: le “immagini verbali”, la scrittura onesta nella poesia americana. Manca dopo la guerra il senso della storia, e malgrado tutto la stessa passione civile. Mentre c’è l’ebbrezza artificiale, da alcol e droghe, e da sesso cosiddetto libero. Ma quanta pervicace passione dell’ex giovane Tesauro per la poesia: non ci sono riserve per lui fra Pound e Ginsberg.
La breve prefazione di Anna K. Valerio – ora bionda paladina di Franco Freda - è densa d’intelligenza. Per il silenzio in poesia, e i due momenti della vita e delle opere di Pound nella “sinestesia luce-suono-vita, buio-silenzio-nulla”. E per – sorpresa - il poundismo accentuato di Montale.
Alessandro Tesauro, Pound beat

Ombre - 115

Togliere l'adeguamento al costo della vita ai pensionati, peraltro minimo, nessun fascista l'avrebbe fatto. Non lo fa neppure la signora Merkel, residuato del comunismo sovietico. Non si può dire nemmeno che lo fa Napolitano, buon ex comunista, che a questo punto si vede che non conta niente. Lo ha fatto Fornero, “monaca” devota del “prete” Bazoli.

La democrazia salvata da una legge elettorale. Solo in Italia è democratica questa stupidaggine. Dove è servita peraltro dai migliori studiosi della politica. È il segno più sicuro del basso livello a cui il paese è sprofondato. A opera dei suoi intellettuali più che delle masse – oggi le masse sono “incivili” per il politicamente corretto: corrotte, evasore, ladre.

Non ci sono statistiche europee sulle bilance dei pagamenti fra i paesi membri. Quasi che l’Italia fosse la Germania.
Questa Unione europea, monetaria, falsifica la statistica, e questo ne spiega la natura. Non ci sono per esempio statistiche sull’inflazione, se non ampiamente addomesticate: chi non ricorda quando i prezzi raddoppiarono dieci anni fa, per gli alimentari, l’abbigliamento, le tariffe, la benzina, e l’Eurostat dava l’inflazione inesistente?

“Perché no la Fornero in lacrime?” chiedono a Paola Cortellesi al lancio del nuovo “Zelig”, la trasmissione satirica di Mediaset. “Quelle lacrime erano sincere”, risponde la comica: “Da cittadina le ho apprezzate”. Ma questo lo diceva di sé, delle sue canzoni, dei suoi inviti a cena, già Berlusconi. Sarà stato un comico anche lui?

Senza Berlusconi al governo il suo partito incassa vittorie in serie: la stretta alle pensioni, la stretta agli statali (auto blu), il no alla carcerazione, il no a Di Pietro. Merito del Pdl? Non può essere, il Pdl è inerte. Demerito della (ex) opposizione.

Monti è “il simbolo dell’élite che ha ripreso tutto in mano”, plaudono gli specialisti della comunicazione Carlo Freccero e Aldo Grasso. Da sinistra. Freccero aggiunge, per non essere frainteso: “Siamo passati dalla maggioranza all’élite. Colpo di scena straordinario”.

L’Autorità Garante della concorrenza e del mercato non trova di meglio che denunciare la sponsorizzazione di Della Valle ai lavori per il Colosseo. Come se ci fosse una gara a regalare 28 milioni per il Colosseo.
L’Autorità fu costituita con autorevolezza ed efficienza da un gentiluomo siciliano, Saya. Ora ci prende in giro con un siciliano rampante, Pitruzzella. Uno che con la stessa disinvoltura è passato attraverso tutti i gruppi ex Dc, da Cuffaro a Lombardo.

De Magistris manda a Rotterdam l’immondezza di Napoli, a 112 euro la tonnellata, invece dei 160 e 170 che Napoli finora pagava alle Regioni Puglia e Liguria. Due regioni di sinistra.
Lo smaltimento dell’immondizia di Napoli costa 112 euro a tonnellata, più il lavoro per confezionare la balla. Nessuna Corte dei Conti ha nulla da dire?
L’immondizia di Napoli va a Rotterdam per essere bruciata in un termovalorizzatore. Cosa che per la virtuosa Napoli “non s’ha da fa’”.

Pitruzzella, quello dell’Autorità Garante, decreta che le liberalizzazioni di Monti valgono 21 miliardi, un punto e mezzo di pil: “Siamo a una svolta storica”. Per la grande distribuzione? Le liberalizzazioni di Monti, come si sa, attaccano i piccoli operatori per conto dei grandi gruppi. Col plauso delle “associazioni di consumatori” che i grandi gruppi foraggiano. Ma ora anche dell’Autorità per la concorrenza di Pitruzzella.
Come fa a dire che 21 miliardi passano dai tassisti, farmacisti, giornalai e pizzicagnoli ai consumatori? Se nessuno compra più giornali… Perché l’Autorità non concorre al risparmio generale cancellandosi?

Era partito nella primavera del 2009 con la serie “Il futuro del capitalismo”. Dicendosi, e dicendoci: “Il pendolo tornerà indietro”. Finisce in questo inizio 2012 con la serie “Il capitalismo in crisi”. È il tema di molte analisi e indagini tematiche disposte dal “Financial Times”. Non è un buon segno.

L’opposizione dev’essere unanime, tamburellante, con giornali, giudici, e opinionisti Rai tutti in coro all’unisono. Oppure non ci dev’essere, nemmeno per il folklore. E così della Lega sappiamo tutti gli investimenti dell’ultimo mese.
Dice: prima non investiva? Sì. E allora? Allora, ora fa l’opposizione. Dice: ma non c’è il giornalismo investigativo? E come no, al “Secolo XIX”.
C’è la Spectre e c’è, purtroppo, l’area – una volta li chiamavano i fiancheggiatori, quelli che si mobilitano gratis. O sono tutte spie pagate, da chi?

mercoledì 11 gennaio 2012

La Germania irreale di Angela Merkel

“Ciò che è razionale, è reale; ciò che è reale, è razionale”, Hegel avrebbe detto nella prefazione alla “Filosofia del diritto” – per chi ha avuto la ventura di non leggerla nella vecchia incomprensibile edizione Laterza. Insensato. Hegel stesso ci torna su in un appunto del suo ultimo corso di Filosofia del diritto. Precisando: “Ciò che è reale è razionale, ma non tutto ciò che esiste è reale”. Che sembra altrettanto insensato, e in assoluto lo è, ma non nella storia. Ci sono tante irrealtà che ingombrano l’esistente, specie in politica e negli affari.
Trent’anni prima lo stesso Hegel ne portava ampi esempi a proposito del suo paese, nella “Costituzione della Germania”, 1799-1802. Quando rilevava la sopravvivenza di troppe incrostazioni spente: dopo l’‘89, per esempio, e Napoleone sul Reno, “nessuno attribuisce più un valore a qualcosa che sia fondato solo sull’autorità”. Mentre il diritto “deve essere attinto alla ragione”, non nei privilegi e le caste, “tutti i diritti particolari sono impugnati dal concetto di diritto”. Una lezione che la Germania di Angela Merkel tornata a Berlino mostra abbondantemente di avere dimenticato.

Il mondo com'è - 80

astolfo

Comunismo - Non se ne parla bene, ma neppure male. Non si fanno film sulle impiccagioni a Praga, o sui processi, sugli arresti di notte nella stanza accanto, sui gulag. Perché è soprattutto una “cattiva coscienza”. Non c’è altra ragione per cui tanta degna passione, ben motivata, la passione politica che ha incontrato senza paragoni il più vasto consenso popolare, sia scomparsa, scompaia. Quasi fosse stata un’illusione.
Il consenso è d’altra parte nel comunismo speciale. Il popolo, questo è un fatto, non ha avuto nessuna funzione mai in nessuna esperienza comunista, da Cuba alla Cina. Se non come derivata della funzione intellettuale dominante – della propaganda. In alcuni casi vasta e ragionata, meglio argomentata della propaganda, ma sempre ancillare. Il comunismo sarà stato il tentativo intellettuale di governare la realtà. Da qui il suo appeal e la capacità di persuasione. Al punto di far passare per liberazione la coazione, non soltanto dei corpi, ma delle coscienze e perfino delle passioni e gli affetti, tra i sessi, in famiglia, tra gli amici.

Emigrazione – È all’origine di alcune delle più grandi civiltà. Quella magnogreca per esempio. E – molto – quella romana. Gli antichi greci si consideravano a tutti gli effetti emigrati. Così Ateneo ricorda gli abitanti di Paestum, detti Posidoniati perché raccolti attorno al grande tempio di Poseidone, come moderni emigrati, un po’ nostalgici un po’ radicati: “Ai Posidoniati del golfo Tirrenico, Greci d’origine, avvenne d’imbarbarirsi diventando Tirreni o Romani, e di mutare la loro lingua e molti dei loro costumi; ancora oggi essi celebrano una delle più antiche feste dei Greci, nella quale si ritrovano per ricordare

Giustizia - La passione per l’onore (filotimia, rettitudine), nota Davies, “La Grecia classica”, getta secondo Pindaro la città nell’angoscia. Anche secondo Teognide: “I facchini comandano, il volgo ha il sopravvento sui migliori.\ Temo che le onde possano inghiottire la nave”, filosofa Teognide in enigma non tanto arduo. E Cleobulina di Lindo, figlia di Cleobulo, nel sesto secolo prima di Cristo: “Vidi un uomo che rubava e ingannava violentemente,\ far questo violentemente è la cosa più giusta”. I filosofi che ci hanno forgiato si dilettavano di parabole e indovinelli, e quello di Cleobulina definisce, secondo Wilamowitz, la lotta. “È incinta la città”, scriveva ancora Teognide all’amico del cuore, con un brivido: “Temo che partorisca, Cirno,\ Uno che ci raddrizza la protervia”.
È che la lotta per il potere si appropria del senso dell’onore, la componente prima della personalità, e della consistenza sociale. È la questione morale italiana, che è la stessa questione morale: la giustizia come forma del potere.

Italia - Un paginone del “Domenicale” del “Sole 24 Ore” di domenica 17 febbraio 2008 chiede ad alcune personalità di “indicare un valore, un simbolo, un sentimento, un carattere rappresentativo dell’anima nazionale”, ottenendo risposte non lusinghiere: se Carlo Ossola, che vive a Parigi, indica la generosità, e lo storico Gentile propone una giornata dell’Oblio per dimenticare le insulse guerricciole civili, altri indicano la furbizia (Bodei), la faziosità (Cardini), l’improvvisazione (Melograni), la casa (Melania Mazzucco), l’abusivismo (Rasy), il senso di colpa (Giuseppe Scaraffia), il vittimismo (Bruno Bozzetto), la bella figura (Giuliano Zincone), il piagnisteo... A ognuna di questa caratteristiche si può obiettare il contrario.
La questione dell’italianità è la questione stessa: perché viene posta? Analoga prassi usa per i tedeschi, comprensibile, per più motivi: l’unità recente, il prussianesimo, l’hitlerismo, la colpa, il comunismo, e l’essere zona di mezzo o di frontiera, ancorché vasta, la prima prateria temperata sulla strada delle migrazioni. Ma non per i francesi, per gli inglesi, pure contestabili e contestati, e analogamente per gli americani.

L’Italia è stata grande, e grandissima, da Dante al Sacco di Roma, per un paio di secoli abbondanti.
La Riforma, culminata col Sacco di Roma, a opera dei lanzichenecchi del fiammingo Carlo V, è anche un attacco deliberato a una primazia altrimenti imbattibile. Non armata ma artistica, musicale, letteraria. Un attacco a un sistema di vita estetico e filosofico che più di ogni altra primazia suscitava invidie e gelosie. Con la Riforma l’Europa è passata dall’Italia in balia dei goti, che da allora ferocemente comandano, nel nome della ragione, senza alcuna ragione se non quella dei soldi.
È superfluo elencare i titoli: Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Cellini…. L’Italia non perì subito, anzi ha continuato a illuminare l’Europa per tutto il Cinquecento e oltre, si può dire fino a Shakespeare, e attraverso il latino a mantenere aperto a lungo qualche barlume d’intelligenza, ma sempre più flebile. Nel nome della ragione.

“Artistico,impulsivo, appassionato”, il trittico nel quale si racchiude la personalità italica secondo gli studenti di psicologia sociale di Princeton fu posto da Giulio Bollati in apertura al suo prezioso “L’Italiano”. “Manca il carattere”, osservava Bollati, il cui saggio era parte nella prima redazione de “I caratteri originali”, il primo volume della Storia d’Italia Einaudi.

Lega - “Quelli di Roma” si diceva già nel 1941, v. “L’Orologio”, p. 185-187. Carlo Levi sceneggia l’incontro simbolico, davanti alla sua porta di direttore del giornale “Italia Libera” a Roma (dopo esserlo stato a “La nazione del Popolo” a Firenze) di quattro esponenti della Resistenza del Nord, un avvocato di Cuneo, un operaio di Bergamo, un giudice di Novara e un ingegnere di Udine, i cui umori così sintetizza: “Quell’odio di Roma era l’espressione sentimentale, più o meno rozza, la manifestazione simbolica di uno dei motivi permanenti della nostra storia”. E commenta: erano uomini che, “almeno per un periodo, avevano mosso le cose e gli uomini”, e ora “tornavano a ridursi, al solito, a parole:
Worte, worte, keine Taten,
keine Knödel in der Suppe
” – primo e quarto verso di una poesiola postuma di Heine: parole, parole, niente fatti,\niente carne (polpette) nella zuppa.

Sessantotto – Ha rivoltato culturalmente l’Italia. La società e anche, parzialmente, la psicologia. Da attendista a volitiva. Da calcificata a mobile. Dai doveri ai diritti. E questo è il suo lato deteriore, collegandosi la psicologia ai comportamenti, individuali e sociali: la società che ha liberato il Sessantotto l’ha anche distrutta. Prendendosi come voleva tutto, e cioè le professioni parapolitiche: scuola, dal nido all’università, sindacato, magistratura, informazione. Le cosiddette funzioni pubbliche. Ognuna affossando con l’etica dell’irresponsabilità, tutte in modo grave.
Il sindacato ha minato l’impresa (flessibilità, innovazione, produttività) e i servizi, specie la sanità e la previdenza. La scuola è diventata incapace di alfabetizzare, dopo otto o tredici anni d’insegnamento. La magistratura ha irrigidito i vecchi vizi autoritari: è l’unica istituzione pubblica non democratizzata, autoreferenziale per un lapsus della costituzione ma in realtà fascista, prepotente. Il giornalismo è quello che si vede.
Nella memorialistica dei terroristi il Sessantotto è disprezzato: opera di confusi, o opportunisti.

astolfo@antiit.eu

La poesia civile dei sogni a occhi aperti

“Prendo in prestito parole patetiche\ e poi fatico per farle sembrare leggere”. Nel Novecento, nella Polonia travagliata dal comunismo, la guerra civile europea, e votata alla ricerca, espressiva, tematica, una poesia normale, tradizionale. Con i mezzi dell’innovazione addomesticati, utensili docili e bene armonizzati, naturali. L’amore è di lei per lui, i sogni sono a occhi aperti, la presenze ordinarie ordinate, la sorella, il gatto, il vecchio professore, il funerale, il curriculum, dechirichiana metafisica del quotidiano. E l’(im)possibilità dell’essere, che c’è tutta, ripetuta, quale l’essere la vede, che è poi l’unica prospettiva possibile - “Un amore felice”: “Sembra un complotto contro l’umanità”. Nonché, per gli insonni, il mistero dell’ora mattutina, “nessuno sta bene alle quattro del mattino”. Esistenziale. Sapienziale: “Nulla due volte accade\ né accadrà”, “Animuccia, solo dubitando dell’aldilà\ prospettive più ampie potrai avere”, con l’utopia deserta, “nella vita incomprensibile”, o il “Pi greco” che incita “l’oziosa eternità a durare”.
Avremo avuto due Polonie, quella di Woytiła, del Dio sofferente, e quella altrettanto risoluta ma lieve, divertita di Wisława Szymborska, la poetessa. Di una poesia che sa essere fuori della storia politica. Anche personale, fra le immancabili vessazioni, incomprensioni, sofferenze – il comunismo sovietico manifesta pieno in questa attezione-disattenzione il suo vuoto, di promessa, di attesa, era una ragione di Stato russa e nulla più. Avendo vissuto e vivendo in pieno la politica ogni giorno, con gli occhi aperti. Una poesia civile civile e non ideologica, tantomeno partitica.
Assonanze, echi, rimandi, ritmi allegri da filastrocca, una poesia facile rimescola gli ingredienti del secolo e la terribilità della storia. Nonché la tradizione, fino a moduli arcaici – “La cipolla” rimanda irresistibilmente ai “Capitoli” del Bronzino, a quel tipo di sfida dell’arte al reale. Della stessa sapiente lievità l’opera di Pietro Marchesani, il traduttore. Che esemplifica, meglio forse di quanto ha teorizzato la traduzione “fedele”, la ri-creazione di una poesia in un’altra lingua. Senza tradire l’originale, per quel poco che è possibile vedere, né nel senso poetico né nella parola.
Wisława Szymborska, Elogio dei sogni, Corriere della sera, pp. 263 € 1

martedì 10 gennaio 2012

La doppiezza, dop nazionale

Ottima miscela in anteprima, vent'anni fa, di due ingredienti italiani, dop nazionali: la dietrologia e la moda (il jeans è ecologico già vent’anni fa). E dei suicidati, andrebbe aggiunto. Tra Milano, dove “amano chiamarsi la capitale morale d’Italia”, e il Vaticano, centro deputato e innocente di ogni turpitudine. Con morti scenografiche dalle cupole, quella religiosa di San Pietro e quella risorgimentale della Galleria – l’anamnesi della Galleria, in faccia al Domo, è da Walter Benjamin. L’architettura dell’Eur spiegata ai romani come nessuno gliel’ha mai spiegata. Un attraversamento mozzafiato della galleria ferroviaria Firenze-Bologna, i dislivelli, i venti, le ombre. E la “normalità”: i giudici vedette, i mercati nei ministeri, all’ingrosso e al minuto, le mamme, le sorelle. Al gioco, premette Dibdin citando Sciascia, “della finzione in cui ogni ruolo recita esso stesso un doppio ruolo, di false informazioni scambiate per vere e di vere informazioni prese per false”.
Michael Dibdin, Cabala

Secondi pensieri - (87)

zeulig

Bellezza - Vedere è tutto, vedere la bellezza. Anche se i poeti innamorati, Dante, Petrarca, Shakespeare, Ronsard, sembra non l’abbiano mai veduta. E von Platen: “Chi guarda la bellezza con gli occhi si è già consegnato alla morte”. O Borges, che non è mai stato innamorato: “La bellezza è fatalità più che la morte”.
Già Omero spiega che la bellezza non è legata al possesso, solo ai sensi, la vista, l’olfatto, l’udito. Il possesso vero essendo non delle cose ma delle anime, cioè del corpo. La bellezza per questo resta intatta al diavolo e ai santi, o alle ninfe, mentre il possesso è carico d’ignoto, è una sfida che si rinnova.
L’Origine della disuguaglianza Rousseau conclude triste: “A che serve la bellezza dove non c’è amore?” È come dare l’ingegno, si risponde, a chi non parla, l’astuzia a chi non traffica. Non c’è merce senza scambio, né significato, delle cose o delle persone.

Corpo - È Cristo, Cristo è anzitutto un corpo. E non c’è più nudo che nelle immagini sacre cristiane, per i pittori il corpo racconta meglio l’anima. Anche per gli scultori.
L’anima in realtà è nel corpo, noi lo sappiamo, che siamo cresciuti con le giaculatorie della Madonna e dei santi, e il corpo di Cristo. Descartes fu vittima di Platone, che, uranista pentito, fece del corpo la prigione dell’anima – come la mistica fascista.
È il nodo della conoscenza, inestricato: il corpo, la materia, il mondo. È l’estraneità dell’essere quale è, materiale. È l’eredità, il sangue, il passato che non passa, con tutto ciò che questo implica di fatale, quindi obbligato.
È lento: si dice del pensiero che fa in ore più di quanto il corpo possa in anni. Ma il pensiero non può farne a meno, è sempre organico.

È il grande rimosso di Freud – l’anatomia è per Freud , raramente, una possibilità.
La psicanalisi è l’unica medicina che fa a meno del corpo – per essere analista giustamente non è necessario essere medico.
Si può dire per questo motivo Freud, che pure volle essere e fu scientista positivista, un idealista integrale. Quello per cui il mondo è dell’anima, il linguaggio specchio di se stesso.

Un corpo è un corpo con l’anima. John Donne ne è certo, il “venerabile pruriginoso” di Montale, che fu teologo e metafisico, all’epoca di Descartes: “I misteri d’amore crescono nell’anima,\ma è il corpo il loro libro”. O: “As souls embodied, bodies unclothed must be to taste whole joys”, come le anime nel corpo, i corpi devono spogliarsi per godere interi i piaceri.
Dimora incredibile per un ospite limitato, “Incredible the Lodging\But limited the Guest”, trova magnifico il corpo perfino la Dickinson. Già Ugo da San Vittore, di Dante mèntore, lo certifica: dei quattro modi di amare, “Carnem carnaliter, Carnem spiritualiter, Spiritum carnaliter, Spiritum spiritualiter”, solo in uno la carne non c’entra. Ogni anima impara dalla carne, direbbe Yourcenar, se si danna solo con essa. Voltaire fa il prudente: “Possediamo il moto, la vita, i sentimenti e il pen-siero senza sapere come, non sta a me decidere cosa l’Onnipotente non può fare”. Ma hanno ragione i libertini, è lo spirito a insozzare la carne.
Wittgenstein sostiene di no: “L’idea dell’io che abita in un corpo va abolita”. Un attimo di malumore per lo specialista dei giochi (“se tutte le pedine si somigliassero come si saprebbe chi è il re?”), benché si chieda anche, enfatico: “È impensabile una filosofia che sia all’opposto del solipsismo?” Certo che no, c’è filosofia in tutti i 360 gradi del cerchio, corpi compresi. Anzi, diametralmente all’opposto del solipsismo c’è proprio la materia. Lo stesso Descartes, di cui il pensiero scisso dal corpo fu la scoperta, intelligenza profondamente religiosa, immateriale, autono-ma, singolare, fu personalmente vispo, e non soltanto fame, sonno e dolore, pure il piacere sentì nella carne.

Il corpo è la biblioteca del mondo, se ogni cromosomo contiene quattromila volumi di cinquecento pagine.

Il disprezzo del corpo è inteso ed esercitato quale segno di purezza. Delle vestali e dei martiri cristiani. Ma valeva pure per Nerone, il primo persecutore dei martiri. Cristiani. Come è vero per Hitler, che spregiava gli uomini, morti o vivi gli erano indifferenti. E per Stalin. Per il terrorismo di Stato. Il motivo vero resta dunque da trovare. Se non è in questa tratto comune: il rifiuto della vita – per l’estetica, la razza, la rivoluzione, che tutte si vogliono assolute.
I martiri testimoniano la fede con il corpo.

Inconscio - È di Freud. E in Freud è l’indefinito.

Matrimonio – È argomentato poveramente dalla filosofia, Schopenhauer, Russell, Rensi, filosofi che l’avevano in odio, e dallo stesso Plutarco. Pur essendo materia prettamente filosofica, prima che legale. Non è mai tema delle filosofe donne, Nussbaum, Irigaray, Zambrano, Weil, Salomé, pur essendo strettamente legato alla questione femminile.

Metello Numidico, che fu allievo di Carneade in Grecia (almeno uno ce ne fu), e combatté e vinse la guerra contro Giugurta, ma fu sconfitto poi dal democraticismo di Mario, trovò il tempo da console di dissertare sul matrimonio. Al quale non trovò alcuna ratio, se non come “affare di stato”, per l’interesse pubblico alla procreazione. In sé, disse, è un male.

Sogni – “L’elogio dei sogni” di Wisława Szymborska è di sogni non sognati. Così divertenti sono i sogni a occhi aperti.

Storia – È Itaca, l’insofferenza del ritorno. È nostalgia del ritorno, e insofferenza.

“Come l’uomo procede con la storia”, direbbe Schopenhauer, “lo mostra la schiavitù, il cui scopo è zucchero e caffè”. Qual è stata la storia - lo scopo - del comunismo sovietico? Potrebbe essere quella del diabolico Bierce, la storia come racconto, in genere falso, di eventi, in genere inimportanti, fatto da governanti in genere furfanti, e soldati in genere folli. Tanto più se, come Tocqueville vuole, la storia è un museo con pochi originali e molte copie. Dio non può alterare il passato, spiegano Aristotele e Samuel Butler. Ma gli storici sì, che sono il cuore del materialismo. La ricetta è nel “1984” di Orwell: chi controlla il passato comanda il futuro, e chi comanda il futuro conquista il passato.

zeulig@antiit.eu

lunedì 9 gennaio 2012

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (113)

Giuseppe Leuzzi

“Io sono un Nordico, mia figlia ha sposato un Etrusco, mio figlio una Lombarda, io stesso mi sento delle affinità con gli Inglesi e i Tedeschi”. Chi l’ha detto, Bossi? No, Mussolini.
Per Bossi gli Etruschi, checché essi siano sono a Sud, come scoprì l’indimenticabile professor Miglio quella volta che, eletto senatore, passò col treno l’Appennino.

“La fiducia del Nord è da riconquistare”. In questa nota di Sergio Romano sono gli ultimi vent’anni di storia italiana. La fiducia s’è smarrita per l’immigrazione, il federalismo mancato e la delinquenza. E il Sud che dovrebbe dire dell’Italia? E del Nord?
Ma l’Italia non è a Nord?

Un “antius”, come opposto a “postius”, è il Sud, risponde Pasolini a un poeta ermetico all’inizio di “Petrolio”. Ingegnoso, il Sud che viene prima, nei due sensi del tempo: nella storia, e come ora del giorno – antius sta per “volto a mezzogiorno”.

Sudismi\sadismi
Che abbiamo fatto di male a Milano, e al “Corriere della sera”, che ci insultano ogni giorno, anche nel 2012?

Mafia
La forza del delitto è nell’impunità.

Le orecchie agli ostaggi si tagliano anche nei vecchi racconti cinesi.

Era disgustato Sade perché a Parigi la legge puniva i ladri, mentre a Sparta li ricompensava. Non ci sono due morali, il marchese ha ragione. Ora non si tratta di ricostruire Sparte ma di punire i ladri.

Non c’è bisogno delle “cupole” per spiegare il potere della mafia, e forse si eccede in queste morfologie. Foucault lo argomenta ad abundantiam (“La microfisica del potere”, e altri saggi): il potere non è piramidale né unitario, prospera e prolifica più propriamente nel senso che, e se, i più traggono qualche vantaggio da come vanno le cose.

È molto mafiosa questa antimafia:
è di parte (faziosa)
è violenta
è distruttiva
è chiusa, anche misteriosa
è sovvertitrice
protegge gli amici, e gli amici degli amici.

Nessun dubbio che Leoluca Orlando sia stato un sindaco antimafia. Ha fatto uscire di scena, a Palermo, Ciancimino e Lima. Nessun dubbio che sia stato eletto con i voti della mafia, alla prima e alla seconda elezione. Ha preso il 75 per cento dei voti, contro candidati di spessore, e in alcune sezioni ha avuto il 100 per cento dei suffragi, evento che la stocastica esclude.
Nessun dubbio che Orlando abbia dato un appalto accertato al cento per cento mafioso: quello delle lampadine. E che in tv abbia messo nel mirino il giudice Falcone, terrore dei mafiosi – singled out nel gergo malavitoso americano.

La mafia assorbe, non crea, lavoro e ricchezza. Ciò è evidente: appropriazione del territorio (terreni, fabbricati), appalti delle opere pubbliche, servizi ai privati. Senza possibilità di concorrenza: esercitano un’esclusiva. Come si è potuto teorizzare il contrario?
Se ne appropriano come organizzazione e anche come clan familiare (Piromalli, Alvaro, Nirta, Corleonesi…), per cui l’esclusiva è perfino di tipo feudale.
Si può anche dire che distrugge ricchezza, anche questo è evidente. Tante attività che si potrebbero intraprendere non si intraprendono (investimenti, infrastrutture). E riduce tendenzialmente a zero l’efficienza: la mafia degli appalti non sa tagliare le strade (pendenze, curve), non sa allineare i ponti, costruisce palazzi sghembi, spreca i materiali – l’“impresa” mafiosa non sa costruire un’arcata, non di trenta metri, di tre metri. In questo la mafia è retrograda, nell’applicazione, nell’intelligenza.

La mafia è un fatto storico. In Calabria è anche recente. Per un fenomeno che curiosamente James Ellroy delinea con chiarezza nell’autobiografico “I miei luoghi oscuri”, p. 200, riferendosi agli anni 1950: “I criminali erano pre-psicologizzati, Riconoscevano l’autorità. Riconoscevano di essere feccia”, come se lo sentivano dire: “Erano incastrati in un gioco di ruolo, in cui di solito a vincere era l’autorità. Si compiacevano di trionfi irrisori e si dilettavano nelle macchinazioni del gioco. Il gioco era essere adepti”. Fare parte di una “onorata società”, di (piccoli) contrabbandieri, o di (piccoli) falsari.
Il “sistema”, continua Ellroy, “funzionava perché l’America non si era ancora trovata di fronte sommosse razziali né complotti con assassinio né stronzate ambientaliste né confusione di sessi né proliferazione della droga e mani delle armi e psicosi mistiche legate all’implosione dei media e a un emergente culto del vittimismo - un passaggio che in cinque lustri di chiacchiere vane e rabbiose aveva prodotto un ottundente scetticismo di massa”.
Implosione dei media, culto del vittimismo, scetticismo di massa: tre concetti che faranno sicuramente la storia dell’epoca.

Il vescovo vittima dell'antimafia: la veridica storia di mons. Bregantini
Mons. Bregantini ama raccontare, e lo ripete a “Uomini e profeti”, la rubrica di radio Rai di Gabriella Caramore, di quando arrivò la prima volta in Calabria, col treno. La mattina la madre calabrese, che viaggia nello stesso scompartimento col figlio, apre la valigia, tira fuori il pane “profumato” di casa e il salamino, ne fa due sandwich, e li offre, per primo all’ospite, dicendogli “Favorite!”, e poi al figlio.
“Favorite!” è un modo di dire, ma ha un senso, che al giovane trentino, poi prete, poi vescovo, non sfugge: è indice di una socialità profonda, di un senso intimo della socialità, estranei inclusi, anzi l’estraneo per primo. È su questa intuizione che Bregantini, per un dodicennio vescovo a Locri, tra le faide di San Luca e la sanità omicida, elabora il suo forte senso della speranza, e vi impronta, da solo, la sua derelitta diocesi. In un paradiso di bellezza, dice ancora il prelato a “Uomini e profeti”. La bellezza dei luoghi, i profumi, gli orizzonti sono anch’essi uno stimolo al bene. Si può costruire sul nulla.
Dopodiché mons. Bregantini è stato rimosso. Promosso arcivescovo ma a Campobasso, dove non ha altra da fare che amministrare cresime. Fu pochi mesi dopo la scomunica ai mafiosi, da lui lanciata a fine marzo 2007, per l’avvelenamento dell’acqua d’irrigazione di una delle cooperative del torrente Bonamico. Cooperative di giovani, create per sfida alla mafia – i mafiosi “fanno abortire”, disse Bregantini nella lettera di scomunica, “la vita dei giovani”. Ne ha approfittato per scrivere, in questi quattro anni ha scritto molto. Precisandosi alcune intuizioni.
Bregantini è stato rimosso perché aveva scomunicato i mafiosi, è stato detto. È possibile: lui stesso ritiene che la scomunica sia il mezzo più efficace, più della minaccia della prigione, a intimorire i mafiosi, perché li isola, li precipita nell’“indegnità”. La decisione del papa era anche il segno del nuovo pontificato, di Benedetto XVI teologo e intellettuale, esteta vecchio stampo, non più il combattente della speranza che era stato il suo predecessore. Mons. Ravasi, col quale Bregantini aveva molto costruito, papa Ratzinger ha voluto a Roma cardinale, mentre il vescovo di Locri, lasciato alla normale gestione della Cei e della segreteria di Stato, è stato rimosso per promozione. Di sicuro però Bregantini è stato rimosso perché parlava coi mafiosi. Recandosi a trovarli nelle loro stesse case. Come fece Gesù con Zaccheo, spiega alla radio – e avrebbe potuto aggiungere, con Matteo: “Un albero buono non può produrre frutti cattivi”.
Nelle fasi più efferate della faida di San Luca, trasferita anche in Germania con l’eccidio di Duisburg, il vescovo di Locri si attivò molto, con l’aiuto di don Pino Strangio, parroco del paese aspromontano e priore del santuario di Polsi, presso le famiglie coinvolte. Con le donne e anche con gli uomini. Fu per questo implicato nelle intercettazioni di Domenico Gioffré, figlio di un boss di Seminara, Rocco Gioffré. Il 17 settembre 2007, conversando con un amico in macchina dopo aver ascoltato alla radio l’inno della Madonna della Montagna di Polsi, per la festa della Croce, che si celebra nello stesso santuario, Gioffré commenta la cerimonia a cui ha presenziato il giorno prima a San Luca, in qualità di paciere tra la famiglie della faida per conto del padre: “Poi (dopo l’inno, n.d.r.) ieri è uscito don Pino il prete, e il vescovo brigantino (sic! nella trascrizione)… Benvenuto ha detto, ad un grande uomo di Seminara, il nostro, ha detto, amico Rocco Gioffré . E ci teniamo, ha detto, a dare questa soddisfazione, per la pace”. Con sorpresa e gradimento di tutti, continua Domenico Gioffré: “Poi il prete ha detto la cosa nella chiesa. Ha detto ringrazio, sull’anima di mio padre, ha detto, tutta Seminara, ed un grande uomo di Seminara. Shalom, ha detto don Pino, shalom a Seminara ed a tutto il mondo intero…”.
Le trascrizioni saranno depositate al processo contro Gioffré a metà novembre. Ma intanto, due settimane prima, Bregantini era stato trasferito a Campobasso. Per proteggerlo dallo scandalo? Certo, Domenico Gioffré relaziona l’amico preciso. E, soprattutto, parlando l’italiano dove normalmente nessuno lo parla. Sa pure di shalom.
A una delle tante giornate della legalità di cui l’Aspromonte pullula, forse non inutile nuovissimo campo d’azione dei vecchi politici locali, era capitato lo stesso anno, prima della pace mafiosa di San Luca, di sentir criticare “l’impero economico del vescovo”. Detto da un magistrato, o da un funzionario di Prefettura, il tipo di personaggi che siede a queste feste. L’“impero economico” era suonato bizzarro: attribuibile a un momento di malumore, o a pregiudizi massonici, la massoneria si vuole attiva e ancora anticlericale a Reggio Calabria. La legalità è insidiosa.

leuzzi@antiit.eu

Scerbanenco re del gossip, rosa e nero

Cinque racconti noir, resuscitati da Roberto Pirani nella vasta riedizione in corso da Sellerio (pronuba la Francia) dello scrittore – nella raccolta “Uccidere per amore: racconti 1948-1972”. Pubblicati nel 1950 sul settimanale “Novella” di cui Scerbanenco era direttore, progenitore di “Novella Duemila”, la pubblicazione regina del gossip. Sarà stato il gossip il miglior giornalismo della Repubblica?
Giorgio Scerbanenco, Rosa ruggine e altri racconti, Il Sole 24 Ore, pp. 78 € 0,50

Alessandria, la memoria (erotica) della memoria

C’era Alessandria, un secolo fa, un altro mondo. Di ombre, dove i regni erano vuote parole e i gioielli vetri colorati. E di umanità, in cui Kavafis costeggiava Marinetti e Ungaretti. Con le sue memorie sempre vive di un passato avventuroso, di idee e passioni. “Aspettando i barbari” era l’ode di Kavafis più famosa, di cui questa onesta antologia non si priva, e ora i barbari sono arrivati. Le orde in aspetto di figliolanza, epidemica. Ma crudeli e bestiali nel 2012 come nell’età della pietra. E sarà il segno della raccolta, oggi, per il pubblico indifferenziato del giornale: la storia va in fretta, e spesso torna indietro, non c’è una freccia della storia.
È un libro in effetti “per tutti”. Non solo per l’attualizzazione nella barbarie che ha reinvaso Alessandria e l’Egitto. La poesia di Kavafis si manifesta narrativa: storica, aneddotica, evocativa. Tra la memoria e la passione, anche il titolo è indovinato. La storia è Itaca, l’insofferenza del ritorno. E nostalgia, allora come oggi. È anche l’amore, che il Kavafis maturo ancora di più pregia. Anonimo per lo più, e di corpi vivi, benché di occasioni sfumate o passate. La sensualità non è rimossa, in questa città di confluenze ormai remota: la “pelle come di gelsomino fatta”, la promessa di uno sguardo rubato, il rimpianto di un incontro evitato, e di tutto il “ricordo appena” degli occhi: “Erano azzurri, credo…,\ Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro”. E anzi espansiva: c’è gioia nel ricordo, l’erotismo vi è più carico.
Costantino Kavafis, La memoria e la passione, Corriere della sera, pp. 272 € 7,90

domenica 8 gennaio 2012

Abbattere la casta ingozzandola di tasse

Tasse nel nome del mercato. La gogna giudiziaria nel nome della libertà. Leggi e giurisdizioni democratiche a favore della criminalità. Licenziamenti e bassi salari per lo sviluppo. I paradossi che ci avviluppano si moltiplicano. Malafede? Stupidità? Può essere, il neo guelfismo è l’ultima Dc dei furbi, degli “amici degli amici”. Ma, poi, l’Italia non è sola, stupida o in malafede è l’Europa. I bassi salari per lo sviluppo sono il modello tedesco.
Le tasse no, sono una specialità italiana. Del federalismo leghista, che si vuole il culmine della democrazia, e delle amministrazioni ex rosse, che si vogliono il top del meglio. Nel nome dell’anticasta, dell’abbattimento dei costi della politica. Che non sia allora una furbizia, abbattere la casta ingozzandola di tasse? Forse è proprio stupidità – ma la malafede in genere è stupida, la violenza, la mafiosità.
I riscontri sono molti. L’accertamento fiscale a Cortina, dove la maggior parte degli ospiti ricchi sono stranieri, a Capodanno è solo l’ultimo. Non è neanche vero che sono limitati al Nord. A Ferragosto del 2008 accertamento analogo veniva svolto sulla spiaggia di Palmi, dove la stagione dura due settimane, le spiagge sono libere, i bagni sono tre, con un centinaio di ombrelloni in tutto, e il consumo è di caffè e ghiaccioli: sottufficiali in borghese controllavano gli scontrini, mentre finanzieri in divisa col mitra spianato presidiavano gli angoli di fuga, al comando di un capitano minacciosissimo, la destra sul fodero della pistola. Sudavano, è vero, e questo giustificava lo straordinario festivo. E quanto sarà costato far lavare le uniformi sudate?

Problemi di base - 86

spock

Tra bugie e rimozioni non è tempo di portare Facebook dall’analista?

“La filosofia fa progressi”, assicura il filosofo Dummett sul “Sole 24 Ore” anche dopo morto: ma in che direzione?

Perché lo Stato in Italia non parla italiano? (perché si vergogna, di se stesso)

Se la giustizia politica è fascista, e in Italia è democratica, non sarà questa democrazia fascista?

C’era Berlusconi e l’Europa, ci dicevano, ci perseguitava perché era preoccupata. Oggi che c’è l’europeo Monti perché l’Europa ci perseguita ancora?

Perché Monti non telefona al presidente tedesco? Merkel è molto inadeguata.

Che fine hanno fatto i pigmei? Dove si nascondono ora?

spock@antiit.eu

Letture - 82

letterautore

Camilleri - Il lettore di Camilleri sa che i carabinieri sono inutili. Anzi dannosi. E tuttavia Camilleri è educativo per il Sud. Perché sa che la vita al Sud è un’altra, e lo dice. Per i luoghi, certo, la cucina, le persone fortemente caratterizzate, e per la normalità delle grandi passioni.
Quanto ha fatto Camilleri per liberare la Sicilia dalla mafia, e dall’antimafia mafiosa di alcuni politici – siciliani sempre e torinesi, come all’inizio della “questione” – nell’opinione mondiale e nell’autostima dei siciliani? Tanto. Subito, dopo il successo dei suoi romanzi, sono tornati nell’isola i francesi e i tedeschi, in frotte, in ogni stagione, e perfino qualche italiano, che per un quarto di secolo l’avevano disertata. Perché nei suoi gialli siciliani, storici o d’attualità, succede di tutto come in qualsiasi altro posto del mondo, la Sicilia vi è sfondo di eccezionale bellezza, e qualche volta c’entra la mafia.
Il suo ragionamento è semplice. Tra le armi della mafia, fa dire a Montalbano di un locale Procuratore della Repubblica, “ci sono macari quelli come a tia, giudici, poliziotti e carrabinera, che vedono la mafia quando non c’è e non la vedono dove c’è”. Grande coraggio, in questo, di Camilleri, e impegno civile. Consolo gli ha rimproverato nel 2000, agli inizi del fenomeno Montalbano, la mancanza d’impegno. Ma l’impegno consiste oggi nel liberare la Sicilia dai furbi dell’antimafia, politici o giudici in carriera. L’impegno non può essere che azione di libertà: è impegno sfilare alla Sicilia la camicia di forza e dell’indegnità morale e della miserabilità economica.

U. Eco – “Il Sole 24 Ore” celebra con una pagina gli ottant’anni di Umberto Eco. Uno dei contributi, di Giuseppe Antonelli, è una ripassata al rifacimento del “Nome della rosa”. Molto incisiva, riga per riga, argomento per argomento. Molto “echiana”: sottile, precisa, lieve. È il più grande complimento, indiretto: Eco avrà creato uno stile letterario. Dottoralmente, da specialista non ingombrante dei segni. Sulla traccia delle “Mitologie”, la preistoria di Barthes. Ma in Italia è una rivoluzione.

Italia – In lettura è sorprendente. “Le vespe che nascono dalla carcassa di un povero cavallo si dicono progenie di nobile destriero, il favorito di Nettuno”, etc. Così gli “italiani d’oggi”, che si dicono “eredi degli immortali antichi romani invece che dei loro cadaveri” in Lessing, “Favole in tre libri”, p.38.
Per Bontempelli, “Noi, gli Aria”, p.61, “l’Italia, fra tutti i paesi del mondo, è quello in cui il senso dell’unità è più preciso e perfetto”. Pur nella diversità, “dal Gran Sasso a Capri”. E subito dopo: “Il travaglioso destino dell’Italia le ha imposto, dal medioevo al secolo scorso, uno sviluppo per divisione…. La sua storia è la somma di dieci storie, ciascuna ricca e varia come quella di una grande nazione”.
Nelle sue erratiche corrispondenze sull’Italia, Marx ha un interessante svolazzo, il paese dicendo una “strana combinazione”, tra “un mondo di voluttà e un mondo d’inimicizia”.

Si può anche pensarla una civiltà che svanisce, dopo mezzo millennio di umanesimo. Quando la Decca non curerà più il belcanto, e le University Press americane cesseranno di occuparsi del Quatto-Cinquecento, quella di Harvard per esempio smetterà l’opulenta “I Tatti Renaissance Library”, e i froci del mondo non avranno più bisogno di Michelangelo.
Già non si studia più il Cinquecento, perché la Francia s’è disaffezionata. Del Seicento si sa sempre poco, perché la Spagna continua a non curarsene. E il Sud è fermo a Edward Lear, al tempo dei Borboni – solo la Calabria è arrivata più in qua, col viaggio a piedi di Norman Douglas un secolo fa. L’asse del mondo del resto sta cambiando, c’è molta insofferenza per l’Ovest, come per il Sud. L’Italia, insomma, potrebbe scomparire. È un mercato piccolo. Per gli africani e gli asiatici non è mai esistita e non dice niente, parte le canzoni, i latinoamericani ci vengono a vedere il papa, finché dura.

Gli italiani parlano in versi senza saperlo. Sciascia porta gli esempi (“Poesia romanesca”, 77) che fondano l’osservazione di Silvio D’Amico: “Mezza granita di caffè con panna”, “Si prega di chiudere la porta”.
Solo gli italiani fanno versi quotidiani? O è l’abitudine a guardarsi l’ombelico, degli italiani, dei siciliani, dei palermitani?

Sia l’italianità lo sguardo, la seduzione, il desiderio, la furberia. È italiana Trieste (Svevo, Saba), è italiana Genova (Montale, De André), e persino Torino (Cavour, Pavese). Non lo sono Manzoni, Cattaneo, gli scapigliati, che costruiscono la gelosia dai libri. La “passione” di Stendhal manca proprio a Milano e dintorni: l’occhiata, l’illusione, l’appuntamento rinviato. Milano non si differenzierebbe da Francoforte, se non perché non ha il fiume, e ha meno il gusto delle idee.

Manzoni – Gianni Brera, “Storie dei Lombardi”, p 87, ne sintetizza fulmineo la dottrina sociale: “I poveri, scriverà Gramsci, li prende per il culo”. Non è vero, Gramsci era pudico. Ma è vero che i poveri sono nel romanzo disidratati, le donne e anche gli uomini.

Sciascia - Il giallo “Todo modo”, l’ambiguità della politica violenta, allora democristiano (era il 1974, Moro ne sarebbe morto poco dopo), oggi sarebbe giudiziario. Quello che avrebbe potuto essere un colpo definitivo alla mafia siciliana, con le indagini di Falcone e Borsellino, con le metodologie d’indagine, con gli ergastoli ai processi, con i pentiti che circostanziano ogni delitto, con l’impazzimento della mafia di Riina, i processi eccellenti hanno trasformato in un’occasione mancata. Contrada, Andreotti, Dell’Utri, Berlusconi, Mori e ora non si sa chi, Mancino?, Ciampi?, sono serviti e servono a scoraggiare l’opinione pubblica in Sicilia, a convincerla che “non c’è rimedio”. Mentre nella disattenzione sicuramente nuove mafie si ricostituiscono e si rafforzano. C’è anche una differenza radicale tra le collusioni Stato-mafia quali si denunciano oggi, e quella che Sciascia denunciava con “L’onorevole”. Oggi lo Stato più che dalla politica in questa collusione è rappresentato dalla giustizia.
Qualcuno forse non capisce, ma molti sì, anche a palazzo di Giustizia. Dove un disegno non ci sarà, eppure c’è, direbbe Sciascia. Efficace: mentre in politica le carte del partito Antimafia sono da tempo state viste e spuntate, quelle del palazzo di Giustizia sono sempre efficaci.

letterautore@antiit.eu

L’alchimista Andreotti e la liquefazione della Dc

Vent’anni fa, ai primi del 1992, si poteva scrivere:
Andreotti ha resistito, a De Mita, ai referendum e a ogni altra tempesta, e ora si capisce il perché. Il perché vero, non quello ufficiale, conquistarsi qualche record di durata. Anche se con un governo, al solito, inesistente. Ha naturalmente un progetto politico, anche se l’ostinazione è il suo carattere, e il potere la sua unica politica. E un progetto che al solito passa per lo sfiancamento degli alleati. Ma con una novità.
La chiave è nel suo rifiuto la scorsa primavera di favorire le elezioni anticipate. Votare col comunismo mala pianta e Ochetto allo sbando avrebbe voluto dire favorire i socialisti. Andreotti l’ha tirata in lungo anzitutto per non favorire i socialisti - è un fatto, anche ovvio: il suo compito al governo è stringere il cappio attorno a Craxi, con l’inattività e qualche scandalo, così come l’aveva fatto nel 1979 fa con Berlinguer. Ma, di più, è alla formula politica che lo esprime che tira il siluro, con applicazione. L’uomo che si spostò da un giorno all’altro dalla destra alla sinistra, e poi al centro-sinistra, si prepara ora allo “sciogliete le fila” del dopo guerra fredda. Che “lui” dovrebbe poter ricomporre o dirigere correndo da solo la sua ultima avventura, il Quirinale. E così è ai patiti del centro-sinistra nel suo stesso partito che egli mira, a Forlani e ai suoi quelli che l’hanno sostenuto al governo contro il ferocissimo De Mita. Andreotti non si cura degli avversari ma dei parenti: saranno loro le vittime sacrificali della sua ultima avventura.
È un paradosso che la scienza politica (Duverger) ha spiegato con la Quarta Repubblica francese, su cui la Repubblica italiana è ricalcata: il Nemico non sta dall’altra parte della barricata ma accanto. È il carattere e la strategia da sempre di Andreotti. Tirare le cose in lungo ha un solo senso: lasciare alla corrente sotterranea del dopo guerra fredda la possibilità di dispiegarsi. Questo significa che non soltanto il Pci ma anche la Dc dovrà liquefarsi – i socialisti? nella cultura di Andreotti non “esistono”, a parte quel Craxi ingombrante. Aver votato prima significava cristallizzare la Dc prima della liquefazione. Votando tra cinque o sei mesi è possibile che la vecchia Dc non cristallizzi più, e anzi è probabile.
Ma si può attribuire al pur ghignante Andreotti la volontà surrettizia di liquidare il suo partito? Perché no, anche questo è ovvio: è costruirsi un glorioso mausoleo, immortalandosi in un paio di settennati al Quirinale. E può essere uno squallido personaggio capace di tragedia? Squallido politicamente prima che moralmente (i dossier). Questo è più dubbio, ma la tragedia già c’è stata con Moro.