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domenica 31 dicembre 2023

Le sanzioni europee contro l’Europa

Il previsto effetto boomerang delle sanzioni europee contro la Russia sul petrolio è ora certificato dal Crea, il Centro di Ricerca per l’Energia e l’Aria Pulita dell’Agenzia Internazionale per l’Energia.
Il price cap al greggio russo, fissato a 60 dollari al barile, è stato aggirato con le triangolazioni, da sempre attive contro le sanzioni (vendere\comprare attraverso un paese terzo, al costo di un modesto fee, il 5-10 per cento) . La metà circa delle esportazioni russe di greggio è stato così venduto alle condizioni di mercato, di prima delle sanzioni. Andando a paesi che non sono parti del regime sanzionatorio, essenzialmente India e Cina. Per il resto, le vendite nei paesi che sono parte attiva delle sanzioni (tra essi quasi certamente l’Italia), le vendite sono continuate con lo schema delle triangolazioni. ‘
L’effetto punitivo è stato maggiore per le economie europee importatrici in termini di costo, e di organizzazione degli approvvigionamenti.

Europa esclusa, nuove potenze, politica dei brand, Kissinger aveva ragione

Questo smilzo - per le abitudini kissingeriane, di argomentazioni profuse - volume si riapre come un classico. Di chiaroveggenza. Che è utile riproporre - la sorpresa è quella di precedenti letture. Anche perché le guerre in corso, in Ucraina e in Israele, successive alla riflessione di Kissinger, vi si adagiano. Con l’America di Pelosi e Biden all’attacco, in Asia e in Europa, contro le politiche di bilanciamento (di moderazione) proposte da Mosca dieci anni fa, e ora, da tre anni, da Pechino.

La guerra russa all’Ucraina, guerra europea, la seconda guerreggiata dopo la fine della guerra fredda - la prima fu nella ex Jugoslavia, appositamente smembrata -, è parte del conflitto mondiale per le aree di influenza. Si svolge infatti attorno al tema, una volta finito nel 1990 l’immobilismo imposto dalla guerra fredda, dell’Europa: se deve – vuole, può - continuare a essere prim’attore della scena mondiale, o deve accontentarsi di un ruolo di comprimario commerciale, restando, nell’insieme e singolarmente, gregaria degli Stati Uniti. Gregaria nel senso del ciclismo: portatrice d’acqua, volenterosa collaboratrice, e qualche volta, nelle tappe minori, vincitrice in proprio, non per la classifica, per la soddisfazione.
La guerra di Israele sui “sette fronti” è caso esemplare di ingovernabilità, di rischio per la sicurezza - di un ordine mondiale debole (frastagliato, concorrenziale).
Europa, convitato di pietra
Questo non sembra il caso con Kissinger: l’Europa è, come anche  Israele, la grande assente dai suoi scacchieri. Ma proprio per questo è invece una presenza, in negativo: un convitato di pietra, il convitato di pietra. Ancora si ricorda il suo fatale “anno dell’Europa”, il 1973, che vide l’embargo del petrolio, i prezzi del petrolio e del gas triplicati in una notte, le domeniche a piedi, al buio, inflazione al 10 e al 20 per cento, un mese dopo la sua ascesa al dipartimento di Stato il 3 settembre - in coincidenza con il golpe sanguinoso contro Allende in Cile. È in Europa e con l’Europa che Kissinger assume la fisionomia di Stranamore, non con le bombe atomiche. 
L’“anno dell’Europa” fu utilizzato da Kissinger per agganciare il Medio Oriente, fino alla Persia dello scià, in funzione anti-sovietica, e insieme  manifestare la debolezza (dipendenza) dell’Europa? Nello stesso anno, non si ricorda ma ha progettato pure questo, ipotizzando un gasdotto North Star, dal bacino russo dell’Urengoy agli Stati Uniti attraverso il mare di Barents – contro i gasdotti dell’Eni… (cui tentava di agganciarsi la Germania, è vero). Che bisogna dedurne?Forse Israele c’entra. Forse Kissinger è sempre l’ebreo espatriato dall’Europa, dalla Germania, un’origine alla quale non ha mai sentito il bisogno di tornare – benché lo abbia marchiato a vita, nella parlata, nel modo di vita. Non espatriato, in fuga, nel 1938, con la famiglia, a quindici anni. La storia è fatta anche di eventi personali. Ma Kissinger, certo, ne sa di più.
Multipolare in Orwell
Si parla di mondo multipolare in “1984”, il romanzo fantapolitico di Orwell, 1949: nel 1984 il mondo è già diviso in tre, Oceania, Eurasia, Asia Est – Oceania è la Nato. Il multilateralismo che Kissinger qui (ri)spiega è la sua dottrina fin dal 1974, scritta in una brochure che circolò poco, discussa con i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna. Ai colleghi europei Kissinger prospettò sei fronti: la guerra civile in Jugoslavia dopo Tito, in Spagna dopo Franco, in Finlandia dopo Kekkonen, in Italia e Portogallo con i comunisti al governo, e il blocco di Berlino. L'Europa, dunque, votava alla guerra civile.  
Non bisogna sottovalutare Kissinger. Ai tempi in cui era attivo aveva l’abitudine di scrivere dieci anni prima quello che avrebbe fatto poi. In pensione, ha sempre saputo quello che stava per succedere, e come si poteva gestire, con la Cina, e su altri scacchieri. Qui si parte dalla pace di Vestfalia, il riferimento non si può evitare, Kissinger è pur sempre un vecchio trattatista, studioso dei trattati internazionali. Studioso della balance of power, nostalgico del Congresso di Vienna, il suo studio di dottorato, di cui non manca mai di fare menzione. Ma prima di Vienna, e non famigerato, viene l’equilibrio di potenza “vestfaliano”, il primo e più durevole tra gli Stati nazionali novellamente costituiti in Europa, col riconoscimento e la definizione del concetto di sovranità – senza contare che fu il capolavoro del cardinale Mazzarino, lo statista per eccellenza, come Kissinger lo concepisce.
Nel mondo nuovo post-ideologico e globalizzato ci vorrebbe una Vestfalia della globalità, un ordine mondiale. Kissinger lo intravede, e sa anche come gli Usa possono gestirlo – il punto di vista è naturalmente americano. Nell’interesse proprio e di ogni altro, è ovvio, altrimenti nessuna “pace” tiene - questo è molto importante, è il presupposto della diplomazia, della arte cioè della pace, che la presidenza Biden, in contrasto netto con gli otto anni della presidenza Obama-Biden, non intende praticare: la pace tiene se tutti vi hanno un interesse. Kissinger giunge al punto di prospettare una sorta di quinta colonna, in uno Stato per qualche verso ostile, che ne faccia gli interessi, per evitare uno scontro.
La cattiva opinione 
La novità è il posto che Kissinger assegna all’opinione pubblica. A quarant’anni dalla sconfitta in Vietnam, da molti imputata al “fronte interno”, alla tensione antibellica che fotografi e televisioni montarono implacabili, in America, contro la guerra americana in Vietnam. Qui l’allarme è preventivo. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza come nella passività, ma oggi sono qualitativamente diverse, e non per il meglio. Sono praticamente senza giudizio: l’“interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione, computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che dall’introspezione”, dal giudizio. 
Per fattuale il realista politico intende superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale, dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria per percorrere sentieri politici poco battuti”. Lo spettatore inerme di questi giorni, accasciato sotto un profluvio di immagini di cui non gli viene data il nesso, non può che dargli ragione: l’opinione è più che mai manipolabile, anzi, la sua manipolazione sembra essere l’arma migliore – più distruttiva, meno cara.  
Condominio con le potenze asiatiche
Con questo limite, se esso non dilagherà sugli sviluppi internazionali, un ordine mondiale tuttavia si prospetta. Con al centro sempre gli Stati Uniti - nella “pax americana” cioè, che Kissinger mai pronuncia, insieme lenta e vincolante. Come un condominio multilaterale, allargato alle potenze asiatiche, Cina, India, Giappone, e a una voce latino-americana. Se la balance of power, Vienna-Vestfalia, è il pilastro dottrinale del Kissinger studioso, il multilateralismo è l’opera sua di statista da cinquant’anni, da quando nel 1969 fu associato alla Nsa, la National Security Agency, e poi al dipartimento di Stato. Teorizzato nel 1974, subito dopo la crisi del petrolio, è rilanciato ora su scala mondiale. Senza l’Europa.
Un multilateralismo, con assenza inclusa dell’Europa, che è lo stesso che si prospetta a Pechino, va aggiunto, all’altro estremo del manifesto globale – è un merito di Kissinger, un demerito? Anche a Pechino l’ordine americano è assunto nei fatti, non contestato. In un quadro multilaterale: Usa, Cina, India, America Latina (Brasile-Messico). Con un dubbio: se ci sarà una “potenza Europa”.
Una lettura che è una ventata di rinfrescante conservatorismo: Kissinger sarà stato l’ultimo maestro dell’arte diplomatica, ossia della politica intesa a tenere i popoli fuori della guerra. Lo studio e l’applicazione diplomatica sono in bassa stima, in questa epoca di wilsonismo a perdere, di moralismo e superficialità. Mentre le insidie sono dietro l’angolo.
La politica dei brand
Già nel 2015 Kissinger parla di campagne presidenziali trasformate in “confronti mediatici tra operatori internet”. Ancora senza QAnon e le spie russe, ma con i candidati ridotti a brand, a “portavoce di operazioni di marketing”. Anzi no, c’è pure il Russiagate: il Kissinger cyberanalfabeta sa già che “un portatile può avere conseguenze globali”. Anche senza complotto: “Un attore solitario con sufficiente capacità di calcolo può accedere al cyberdominio per disabilitare e potenzialmente distruggere infrastrutture chiave, da una posizione di quasi completo anonimato”.
Kissinger va anche un passo più in là, a un accordo sull’uso del cyberspazio analogo a quelli suoi sui missili e la potenza nucleare. “Una qualche definizione di limiti”, chiede, in “un accordo su regole di reciproco autocontrollo”. Il realpolitiker si fa a questo proposito profetico: il cyberspazio è “strategicamente decisivo”. Di più: la “prossima guerra” si combatterà in rete – che è la guerra di oggi, quale la vediamo.
Ha pure il populismo invasivo dei primi arrivati, “individui di oscura estrazione” liberi di manipolare la politica, al punto che “la stessa definizione di autorità statale può diventare sfuggente”. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza come nella passività, ma oggi sono praticamente senza giudizio: l’“interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione, computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che dall’introspezione”, dal giudizio.
Fattuale per il realista politico è superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale, dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria per percorrere sentieri politici poco battuti”.
Henry Kissinger, Ordine mondiale, Oscar, pp. 411 € 16

sabato 30 dicembre 2023

Ombre - 700

“I giudici sono onnipresenti in questa campagna elettorale”, per la presidenza Usa: “Trump ha quattro processi a suo carico. Alcuni sono pretestuosi e avallano la certezza dei suoi fan di una persecuzione giudiziaria; altri sono fondati ma comunque vedono protagonista una magistratura di parte”. Che non è intervenuta a caldo, va aggiunto, sui reati che contesta a Trump, interviene adesso. Rampini e il “Corriere della sera” ne trattano con leggerezza, ma: stiamo parlando di democrazia? Dell’America maestra di democrazia al monda? Votare, perché?


Salvini come Fini? Anche Fini finì male a causa di un cognato.

 
È curioso, sfogliando i titoli di mezza Europa, trovare bilanci tutto sommato positivi del governo italiano, di Meloni. Mentre sui media italiani prevalgono pettegolezzi e commenti negativi. Non spiegati, ma titolati col dubbio o negativamente. Non solo in materia di fascismo e antifascismo, che si spiegherebbe, la materia è sensibile in Italia, su tutto. Tasse: ne pagheremo di più, di meno? Sanità: migliorerà, peggiorerà? Bruxelles: ci approva, non ci approva (ci approva)? Non è un gioco delle parti politico, la sinistra critica della destra (c’è una sinistra in Italia?): è un cupio dissolvi: Alternato con “campioni!” Siamo, plurale maiestatis, sempre campioni di qualcosa, di tennis, di sci, di cucina – in un paese dove più non si cucina.
 
“Combattiamo su sette fronti”, vanta un capo di stato maggiore israeliano. Che non è possibile, già su due fronti una guerra si perde. Ora è possibile perché non è vero: non è un fronte assassinare un  generale iraniano in Siria, non per questo Israele sta combattendo una guerra con la Siria e una con l’Iran. È un grido di guerra. Ma particolare: è in forma di spensierata sicurezza – tranquilli, teniamo a bada mezzo mondo. È qui l’origine della guerra in corso, e il problema di darle un esito, possibile,  duraturo. Israele vive nel mito della guerra dei Sei Giorni, quado si prese Sinai, Cisgiordania e Golan in poche ore.
 
È un caso, ma solo dopo il rimprovero di Brigitte Bardot (v. sotto) , il papa ha un pensiero a Natale per i cristiani uccisi in Oriente e in Africa, in aree islamiche. Per santo Stefano, di cui si ricorda che è stato il protomartire, il primo martire cristiano, Francesco accenna ai cristiani perseguitati - gli unici perseguitati da alcuni decenni per la loro fede religiosa.
 
Maserati (Fiat) chiude a Torino, Lamborghini (Volkswagen) rilancia nella Motor Valley emiliana. Quanto è costato all’Italia il monopolio Fiat sulla fabbricazione di auto? L’Italia era il secondo produttore di auto in Europa quando ancora c’erano Lancia e Alfa Romeo. Mentre  la Spagna produceva poche decine di migliaia di auto l’anno, di una affiliata Fiat. Poi la Fiat ha abbandonato anche la Spagna, ce ora produce due milioni di automobili l’anno, e l’Italia 400 mila, forse 500.
 
Brigitte Bardot odia il papa: “Non lo posso vedere”, confida al settimanale di destra “Valeurs actuellese”, “fa molto male alla chiesa”. Protoanimalista, gli ha scritto per congratularsi “per avere scelto quel nome in onore di san Francesco d’Assisi”, senza averne cenno di risposta. Tra le sue critiche al papa: “Non  si occupa dei cristiani d’Oriente e non ne parla mai”. Questo è vero: dei cristiani che vengono uccisi, per strada e in chiesa, anche in modi trucidi. E coincide col fatto che il Grande Oriente è da qualche tempo molto islamizzante.
 
In tre mesi, quasi, di guerra non merita una pagina la cacciata dei palestinesi dalla Cisgiordania, a opera dei coloni e dell’esercito israeliani – giusto sul “Manifesto”, per pochi eletti. Lorenzo Cremonesi, che ha provato più volte a parlarne, ottiene una pagina a commento di un fotoservizio sui”giovani israeliani che proteggono i villaggi palestinesi nel mirino dei coloni”. Gli attivisti sono “una ventina”.
 
A fondo pagina domenicale Aldo Grasso conclude l’ermeneutica del wannamarchismo invasivo in tv – le influencer: “La creduloneria esenta dall’obbligo della coerenza…. Al primo inciampo, però (si parla di Ferragni, n.d.r.), c’è già chi spera che il nome Meloni possa tramutarsi, metaforicamente, nel Pandoro Rosa di Ferragni”. E chi? Ma lo stesso “Corriere”, con ben nove pagine. Cominciando da quella di Grasso, e a seguire con ben tre grossi calibri, Fubini, Pioccolillo, Guerzoni, anzi quattro, con l’incolpevole Polito.
 
“Marta Fascina sentita in segreto dal Procuratore di Milano”, confida sul “Corriere” Ferrarella, per un volta comprensibile. Oppure no (Ferrarella avrebbe l’orecchio di Dionisio)?

A scuola dal maestro poeta

“Gli anni mi pesano già”, è l’annotazione nel registro di classe del 1962-63”. “La scuola «logora». Arrivo a casa sfinito”, a casa che era dietro l’angolo della scuola. Caproni aveva ancora cinquant’anni. E non era il vegliardo dell’immaginario, delle foto ultime, di quando ebbe qualche fama: era un signor e alto, imponente, il viso quadrato, volitivo, fattezze da attore di cinema. Ma insegnava da ventisette. Insegnava fisicamente, con tutto se steso. “In un primo tempo, più di insegnare a scrivere correttamente”, annota a proposito di un convegno col direttore scolastico sul linguagio nell’insegnamento, “si tratta di insegnare a pensare, cioè a fermare e coordinare le idee, i pensieri”. E a questo fine tutto fa “lingua”. Anche il dialetto: “Cade ilproblema del dialetto. In un primo tempo l’alunno parli pure in dialetto: vuol dire che egli pensa ancora dialettalemente…. Il dialetto si trasformerà a poco a poco in lingua a mano a mano che la cultura diventerà, da dialettale, nominale, etc.”.
Giorgio Caproni fu per una vita, al 1935 al 1973,  maestro elementare, a Roma. Per qualche anno con varie supplenze, poi di ruolo alla “Pascoli”, e dal1951 alla “Crispi”, la scuola di Monteverde Vecchio, dove abitava.
Nina Quarenghi ha rintracciato negli archivi scolastici i registri di casse, e ne fornisce un’edizione leggibile, mai stancante. Facendola precedere da un’introduzione di servizio per il lettore. I ragazzi si distinguono a quell’età per caratteristiche minime, l’insegnamento è ogni pochi anni ripetitivo, e tuttavia il  rapporto col maestro Caproni resta interessante – piacevole, acuto, promettente. E fa nostalgia: la professione era ancora onorevole, ambita – la scuola rispettata.
Caproni da parte sua era applicato, e apertissimo – insegnava dialogando coi bambini. In tanti registri annota per prima cosa sinteticamente le caratteristiche psicofisiche che rileva di ognuno degli allievi – qui proposti con un numero progressivo. E se in una classe si ritrovava uno, due nuovi, creava subito un contatto personale, cercava una chiave, finché la trovava.
Giorgio Caproni, Registri di classe, Garzanti, pp. 330, ril. € 24

venerdì 29 dicembre 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (547)

Giuseppe Leuzzi


Riso sardonico e crisi fiscale dello Stato
La Sardegna è la terza regione in Italia per tasso di suicidi in rapporto alla popolazione, Murgia scopriva nel suo “Viaggio in Sardegna” una decina d’anni fa. Forse è anche la prima, a occhio, guardando le ultime tabelle regionali dell’Istat, quelle del triennio 2018-2020. Più del doppio della Calabria, che ha una popolazione residente maggiore, solo qualche decina in meno della Campania o della Puglia, che hanno una popolazione tre volte e mezza e due volte e mezza quella della Sardegna.
Al Sud in generale si muore meno per suicidio del Centro Italia. E molto meno sia del Nord-Est che del Nord-Ovest - la povertà, relativa certo, dà più fiducia? Eccetto il record della Sardegna. Che, però, non è una tradizione, antichissima? O\e un’anticipazione, della moderna teoria della buona morte, da Hitler alla Svizzera?
Una ragione per eliminare la gente inutile c’è, spiegava Propp, l’analista delle fiabe: “Tra l’antichissima popolazione di Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di uccidere i vecchi. E mentre uccidevano i vecchi, ridevano sonori”. Era una commistione: a Creta, alle origini dell’Occidente, una statua di bronzo fu donata, di nome Telo, che ogni giorno faceva il giro dell’isola, e se incontrava un nemico fenicio lo arroventava abbracciandolo ridendo. La risata passò in Sardegna quando Telo e i cretesi, fonditori di metallo, si trasferirono nell’isola ricca di miniere – via Sardi di Libia, lì vicino?  
Questo Michela l’ha mancato: la pratica dell’“accabadora” derivata dal vecchio uso sardonico. La pratica però può tornare utile nell’instaurazione che il contemporaneo illuminismo persegue della buona morte. Per mano propria o altrui. Di persone che comunque non potranno vivere una “buona vita”, e quindi è inutile tenere in vita. Con un risparmio notevole per il bilancio della sanità – di che risolvere l’ormai cinquantennale crisi fiscale dello Stato.
Molti passi sono già stati fatti su questa strada. Perché si dice “Svizzera” ma di fatto la Germania e altri paesi dell’ur-germanesimo da tempo non praticano chirugia antitumore sugli ultrasettantacinquenni senza garanzie di risanamento risolutivo. Col riso sardonico l’Italia si assicurerebbe un sicuro primato.     
 
Le architetture del leghismo
L’antipatia di Gadda per la sua terra, per le architetture della Lombardia, della Brianza, di Milano, professata specialmente nei racconti milanesi e nella “Cognizione del dolore”, ermegeva, più che come una fobia, come un rifiuto argomentato nell’abbozzo della “Cognizione” che è il racconto “Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus”, dell’autunno del 1933. Un testo pubblicato tardi, nel 1970, in una collettanea in onore di Raffaele Mattioli, il banchiere-mecenate che molto aveva aiutato Gadda, ora nella raccolta “Le bizze del capitano in congedo”:
“Volendo io discorrere la cagione di così turpe e scimiesco malfare, dirò che la si ritrova essere di quattro diverse generazioni: primo perché detti Lombardi sono mescolati di Galli e di Germani e sentono come uno richiamo del sangue e delle terre da che ab antiquo convennono sotto il cielo ed i segni e le leggi nostrani: e questa è cagione non disdicevole perché la è congeniale, né vi ha luogo di accusa. Secondo perché i traffici e industriose fabbriche de li pitali di ferro smaltato vennero loro nell’anno 1900 circa primamente dalla Magna, e col venir pitali motori elettrici e macchine da tessere essi pensorno, nel giudicio suo, ne dovesse venire in consequenzia l’arte dell’edificio, che è legata alla materia invece ed al clima, alle convenienze ed alle luci, alle opportunità delle genti e de’ luoghi…. La terza generazione  dell’esser scimmie rivolte nel cielo settentrionale è la più grave e turpe, ed è una sorta di mancamento della propria anima di popolo, o del senso, del valore e vigore collettivo del popolo suo… E la quarta generazione, dirò a conchiudere, è fatta d’ignoranza, di cecità, d’ignavia, e di celtica e germanica presunzione mescolate nel sangue lombardo, senza l’attiva ricerca di quelli”…
“Andate a veder mondo e paese!”, Gadda infine esorta i suoi: “E modi e genti, torri e palazzi”.
Milano e la Lombardia, molto sono mutate in breve tempo – hanno fatto la “gita a Chiasso” che l’altro Gran Lombardo, Arbasino, consigliava. Per gli affari. Ma lo spirito è sempre quello? “Ogni operosa bontà non può ignorare gli emuli sua,poiché se tu non li vedi”, proseguiva Gadda, “e’ possono aver fatto senza tu lo sappi cento volte quel che tu fai”.
 
Il Nord è un valore, sotto spirito
Da anni la Finlandia viene incoronata il paese più felice al mondo da chi compila queste  classifiche. Suscitando l’ilarità dei finlandesi. Come nel caso degli attori protagonisti del film di Kaurismaki premiato a Cannes, “Foglie al vento”, Alma Pöysti e Jussi Vatanen. Una storia d’amore muto, nel cinema parlato, ma nel film si parla pochissimo, tra due senza lavoro, lei licenziata per nessuna ragione, lui perché beve. L’ennesima storia di deiezioni, silenzi e malinconie. “Il tono del fim non è così distante dalla realtà”, spiega Pöysti a Marco Consoli sul “Venerdì di Repubblica”, “perché la cosa più scontata da condividere tra finlandesi è il silenzio”.  E Vatanen: “Per questo l’alcol è così diffuso nel nostro Paese. Ci serve qualcosa che ci aiuti a superare questa barriera sociale ma anche per dimenticare il dolore dell’esistenza”. Per “barriera sociale” intendendo la segmentazione, fra chi è affidabile e chi no. 
La Finlandia è, con la Danimarca, il secondo paese al mondo dove chi beve si ubriaca almeno due volte al mese – prima viene l’Australia, con tre ubriacature per alcolista al mese.
 
Calabria-Veneto, quasi un gemellaggio
Il paese di Arborea, in provincia di Oristano, spiega Murgia nel “Viaggio in Sardegna”, “ha la produttività agricola più elevata dell’isola ed è tra i primi cinque produttori italiani di latte”. Era una zona malarica, bonificata negli anni 1920 e messa inproduzione con “criteri di sfruttamento più  razionali:  il centro è tuttora abitato dalla comunità di origine veneta che lo fondò”.
A lungo i veneti sono emigrati, per bisogno, fino agli anni 1960, anche 1970. In Sardegna, come si vede, come in tutte le zone malariche da bonificare, nelle paludi pontine, nell’arido sud-ovest della Francia. Al Sud pure in virtù della ferma militare a Casarsa della Delizia, fonte di connubi anche felicissimi. Due è possibile ricordare personalmente. Di neo padrone di casa venete all’origine della prima valorizzazione in Calabria del Parco del Pollino a Campotenese, e del Parco dell’Aspromonte sotto Gambarie, poco sopra Santo Stefano. Un rifugio per camminatori, che divenne anche sosta pranzo per la prospiciente autostrada, e un una trattoria di campagna paradisiaca con vista sullo Stretto, lontano e avvolgente, attraverso rami di limoni e di mandorli.  
Il primo colono moderno di Sibari, area malarica, che vi importò le risaie, era di origini venete. Vi si dedicò dopo che una rabdomante altoatesina vi aveva trovato l’acqua. L’impresa fu difficile: i terreni erano cinque metri sotto il livello del mare, l’area era da un millennio abbondante infetta – acquitrinosa, malarica. Ma il signor Candido ci riuscì. Questo settant’anni fa, poco più. Oggi la piana di Sibari è un giardino delle Esperidi. Vi fioriscono gli agrumi, arrivando sul mercato come primizie (clementine) e come prodotti tardivi (ovale di Calabria, succosissimo a giugno), varie qualità di pesche, le albicocche. Mentre le risaie arricchiscono anche la diocesi  di Cassano, cara al papa Francesco.
Parlava del signor Candido, risicultore di origine padovana a Sibari, Gustav René Hocke, nei suoi “vagabondaggi nel Suditalia greco”, che intitolò “Magna Grecia”. Non se ne sa di più.
 
Cronache della differenza: Aspromonte
Il “Corriere della sera-Login” visualizza graficamente i 1.600 e oltre terremoti del 2022. Quelli più numerosi, ma meno che devastanti, dal punto 3 al punto 3.9 della scala, sono tutt’attorno all’Aspromonte, in mare. Nel Tirreno tra la Piana e le Eolie, e sopra capo Vaticano, verso il golfo di Lamezia. Oppure nello Jonio - almeno quattro scosse sono state registrate nel mare antistante la Montagna, da Roccella a capo Spartivento. La Montagna è solida.  

Toro è il dio che ha rapito Europa – poi divenuto bestia sacrificale nelle grotte del dio Mitra. Risorto - o riapplicato - in Taormina (Tauromenion) e Gioia Tauro  (l’antica Metauros, n.d.r., con l’aggettivo Gioia derivato dal greco-bizantino zoa, viva). “Ai piedi dei monti degli antichi Vituli,  così chamati dal loro animale totemico – lo stesso che avrebbe dato il nome alla parola “Italia” (Paolo Rumiz, “Una voce dal Profondo”, 88). Stiamo parlando dell’Aspromonte.
 
A Gambarie si sciava guardando il mare, fino all’Etna. Un’infausta riforestazione lo impedisce: si scende dal monte Scirocco come in una qualsiasi vallata alpina, chiusa, o abruzzese.
 
“Il 60 per cento delle foreste italiane è gestito a vuoto: non genera valore”, Alessandra Stefani, direttore generale Economia Montana al ministero dell’Agricoltura e Foreste: “Il legno viene tagliato e bruciato e basta”. Non era così. La Sila si pregiava d’essere il “bosco d’Italia”. L’Aspromonte terra di abetieri, falegnami e mobilieri specializzati nel trattamento delle abetaie - poi soppiantatae da frassini e faggi. Ora il parco accudisce, ma nel senso di accumulare. Roba anche inutile. Anche dannosa – insetti, cinghiali, incendi.
 
“Liberare” le pinete è come un grido, spontaneo andando per l’Aspromonte, nel Parco. Molti boschi, soprattutto le pinete, sono così fitti che sono secchi: sono verdi all’esterno, dove gli alberi respirano, sono vuoti e secchi all’interno, dove i pini sono stati piantati a grappolo, e non cresce nemmeno un filo d’erba. Pinete marce, che peendono fuoco con una scintilla.
Si continua a piantare, anche se non crescerà nulla, non può. Gli abeti, che coi faggi crescono facendosi vicendevolmente ombra, vengono piantati a fasci, isolati sotto il solleone, sicuri quindi che il rimboschimento è solo una spesa sprecata. Ci guadagnano solo i vivaisti.
 
Si sono rimboschite le radure, d’alpeggio o frangifuoco. Sono state ricoperte, appena creato il Parco, di fitta alberatura, quasi ovunque di pino canadese. Sono radure che sono sempre servite da pascolo a ovini e bovini, che hanno sempre contrassegnato il territorio, creando aria, ospitando vedute, e che da sempre ospitavano specie erbose caratteristiche, ora sacrificate all’ombra di pini estranei al territorio, che proiettano un’impressione di soffocamento.
Cosa ci vuole, quale arte superiore, per sfoltire le pinete secche, liberare le radure, piantare faggi e abete a regola d’arte? Quale norma europea – “lo vuole Bruxelles” è il solo comando sentito in Italia. Non hanno i parchi, gli ex Forestali, le aziende forestali dello Stato, degli agronomi? Perché tanto spreco, offensivo ai più?
 
Si rimboschisce qualsiasi superficie scoperta. A Gambarie non solo la pista da sci, anche la spianata del Grande Albergo, una vasta terrazza sullo stretto, una presa d’aria e di benessere, di luce, è diventata una selva – dopo il periodo in cui l’albergo è stata adibito a casa di riposo, più redditizia.
 
Tre Aie, ancora a Gambarie, era un sito ameno, attorno a tre sorgenti, in un ambiente aperto, che respirava la montagna e la brezza del mare, è ora un sito cupo, sovrastato da alberi enormi, frondosi, polverosi. Le fonti alimentano una  marcita, paludosa.


leuzzi@antiit.eu

Napoli a Ferrara, la commedia dell’amicizia

Un’agenzia di servizi di compagnia aiuta i dipendenti di una società di dolciumi che il titolare vuole vendere ai cinesi. Tramite una ragazza incaricata di fare invaghire l’ingegnere, uomo solo. Che però finisce grazie alla scombinata agenzia per ritrovare il suo passato e se stesso, attraverso una serie di eventi improbaili. L’affare si trasforma in amicizia, di cui si riscoprono le virtù balsamiche, l’azienda è salva, il titolare Siani trova anche l’amore, della ragazza adescatrice.
Due bei ruoli per Matilde Gioli e Max Tortora, il caratterista per una volta protagonista. Oltre che naturalmente per lo scoppietante Siani. Il verosimile all’insegma dell’inverosimile: un mondo napoletano dentro la granitica Ferrara, per una volta protagonista al cinema.
Alessandro Siani, Tramite amicizia
, Sky Cinema

giovedì 28 dicembre 2023

Problemi di base amorevoli - 783

spock


“L’amore e la luna si nun crescono calano”, detto romano?
 
Si muore d’amore o è l’amore che muore?
 
“Il tradimento è l’ultima verità che rimane”, Arthur Miller?
 
“L’amore è tutto ciò che puoi ancora tradire”, Le Carré?
 
“Oggi le persone hanno più paura del cuore che del sesso”, Willy Pasini?
 
I matrimoni di maggior successo sono start-ups, non mergers”, Arthur G. Brooks?

spock@antiit.eu

Come salvare la buona coscienza

La buona coscienza è fonte di guai. Il film non lo dice ma la cosa è risaputa: la buona coscienza, intesa come un guardiano che controlla tutto, va contro il libero arbitrio, di cui è impastato l’essere umano. Il film è di una buona coscienza che esce dal riparo, nel suo laboratorio-iperuranio, per riportare l’assistito sulla retta via – salvo sostituirsi a lui, nelle sue vaghezze, per quanto irragionevoli.
La svelta commediola della premiata ditta Lucisano, con Minnella alla regia su una sua propria idea, parte un po’ legnosa. Tra monacali soggetti (anche un po’ cattivi, soprattutto quelli femminei) in un’algida cornice da multinazionale della coscienza. Con premi di produzione, e licenziamenti o punizioni per scarso rendimento. Maestra e ceo Drusilla Foer. Ma poi si scioglie in racconto veloce, infine bislacco tanto quanto l’idea stessa, della buona coscienza che vuole prevenire e correggere un errore. Grazie qui a un recuperato Alessandro Benvenuti, lo svanito in età, cui la buona coscienza dovrà la salvezza, di diventare umana.
Non ben reso (girato? montato?) nel totale. Ma un format sicuramente invidiato, facile prevederne rifacimenti.
Davide Minnella, Cattive coscienze, Sky Cinema Due, Now

mercoledì 27 dicembre 2023

Evasione, erosione, elusione

Si ride del 730 dell’onorevole Conte, il leader dei 5 Stelle, che per il 2022 ha dichiarato un reddito lordo di 24 mila euro. Su cui ha pagato appena il 7,2 per cento di Irpef – una cosa quasi da no tax area, da poveraccio. Un reddito lordo corrispondente a due mesi e mezzo di parlamentare, da metà ottobre 2022, e nient’altro. Di uno che è avvocato, professore universitario, possidente, ed è stato capo del governo fino a metà ottobre. Ma si ride male, senza cioè ricordare che le entrate fiscali sono decimate, più che dall’evasione, illegale, dalle pratiche legali chiamate elusione,erosione.
Si erode sapendosi aggirare nel coacervo di norme ed eccezioni tributarie: alcuni imponibili sono esenti da imposte, basta saperlo. Si elude disintestandosi beni e redditi di cui pure si beneficia, e navigando tra imperfezioni e lacune delle leggi tributarie. Si è sempre fatto, si può fare.
Conte è il capo di un partito moralista. Ma questo non cambia: il moralismo è una tassa sugli onesti. 

Ecobusiness

Il prezzo di listino (senza optional) medio dell’auto elettrica è in Europa di 55 mila euro – Report Jato Dynamics.
La Rca e le assicurazioni complementari delle auto elettriche sono più care.
Si compra l’auto elettrica con contributo statale, cioè dei contribuenti, fino a 14 mila euro (13.750 esattamente). Basta avere un catorcio da rottamare, Euro 2 o Euro 3, inquinanti da togliere dalla circolazione – anche se non circolano più, o raramente (auto storiche).
Non si compra un’elettrica, si compra un’ibrida, che poi si manda a benzina. Non si può fare un lungo percorso con l’auto elettruica, non ha autonomia. E anche in città, richiede ore per la ricarica.
“Proseguono” a Roma “i lavori del dipartimento Csimu del Comune sulle piste ciclopedonali”, con “lo sfalcio delle piante infestanti sui tracciati”, del “verde infestante”, e “la rimozione di materiali abbandonati…. Su 70 km. di piste ciclopedonali”. In effetti, sulle piste ciclopedonali non si vede mai nessuno, sono servite solo agli appalti.
La transizione è un salasso. Non solo per gli incentivi, cioè risparmio forzoso attraverso le tasse, per finanziare lautamente le case automobilistiche e i loro azionisti.

Figli come la peste, di cui non si può fare a meno

Un film controcorrente – controtempo? Nell’Italia dove non si fanno figli, una coppia volteggia felice, sulle piste, di corsa e da ballo. Mentre i loro amici, imbolsiti, crescono figli. Finché una mattina non si ritrovano in casa tre ragazzini, tre figli. Con le note complicazioni, note ai padri, che la loro inettitudine moltiplica. Ma quando l’incantesimo finisce e i figli spariscono di nuovo, i due ex giovani ex spensierati ricorrono subito all’adozione.
Spalleggiato da Virginia Raffaele, De Luigi prova a fare il mattatore. Ma i bambini gli rubano la scena.
Fabio De Luigi, Tre di troppo
, Sky Cinema

martedì 26 dicembre 2023

Secondi pensieri - 532

zeulig


Conoscenza  - Dovrebbe renderci virtuosi e virtuìsti, nel sentire comune. Mentre si sa che può essere anche motore delle peggiori follie, dall’iprite alla bomba atomica. Soprattutto la conoscenza scientifica, che si ritiene autoassolvente, anche nelle peggiori infamie. In certe civiltà in certe epoche è stata considerata pericolosa e proibita. C’è un limite a tutto, come si suol dire, anche alla conoscenza.
 
Crisi – Non è un dato esterno, è soggettiva.  Anche in economia, dove più è ricorrente. O in politica: si labella crisi, e si vive come crisi, uno stato di pace, mentre in guerra si opera, con impegno, per la pace. Si vive in crisi come condizione generale , continuativa - ricorrente. Perfino “sistematica”, checché s’intenda con ciò dire: dei tempi, dell’epoca, più che del sistema propriamente detto, di potere, economico - oggi entrambi sicuramente, “oggettivamente”, migliori, più democratici, più affluenti, per il maggior numero. Si direbbe una condizione generalizzata di depressione psichica, di indebolimento delle difese per sovrabbondanza (l’abbondanza non è mai eccessiva, ma sì nelle abitudini di consumo, oggi sicuramente eccessive: troppe cose, troppo ricambio, troppo consumo - troppo nel senso del numero, dell’effimero, dell’affastellamento, senza più alcun criterio di qualità, durata, risparmio). Oppure un’ideologia.
Il futuro è sempre speranza.  Oggi è pauroso ma per effetto della cultura della crisi, che ci attanaglia. Accompagnandosi, ironicamente, all’ideologia del migliore dei mondi possibili. E non solo all’ideologia, bisogna dire: curiosamente, si vuole senza futuro l’epoca del never had it so good, del mai stati così bene, nella sanità, nel reddito, nella convivenza civile, dentro e fuori le nazioni, nei diritti – perfino in Africa, niente a che vedere con quella di trent’anni fa. Una cultura che, volendo razionalizzare, serve per tenere il morso stretto, per tenere a bada queste masse sempre più enormi sempre più affluenti. Anche sotto il profilo affaristico, bieco: per obbligarle a spendere, anche a debito, per un “futuro migliore”. Il futuro migliore, cessato ogni empito rivoluzionario, o illusione, è oggi una automobile elettrica, il doppio dell’attuale, come ingombro e come costo. E coibentazioni che tolgano il respiro ai muri e alle imposte, e agli inquilini.
 
Ennui – È la bandiera dei letterati francesi a metà Ottocento, compreso lo storico Guizot. Uno stato d’animo presunto più che vissuto o sofferto, condiviso da Baudelaire e Flaubert, che ne farà il motore di “Madame Bovary” – entrambi processati , quasi in contemporanea, nel 1857, per oscenità, quindi perché in qualche modo stuzzicanti, e non annoiati e noiosi. “La noia dunque, la noia universale, ecco il male, e per servirci di una parola noiosa, il male costituzionale, del XIXmo secolo”, Barbey d’Aurevilly.
Baudelaire progetta nel 1852, o 1853, un libretto d’opera,”La Fin de don Juan”, di cui dà questa sinossi: “Il dramma si apre come il «Faust» di Goethe. Don Giovanni passeggia nella città e nella campagna col suo domestico. È in vena di familiarità – e parla della sua noia mortale e della difficoltà per lui insormontabile di trovare un’occupazione o dei godimenti nuovi. E confessa che qualche volta gli capita di invidiare la felicità spontanea degli esseri inferiori a lui”.
Ma è piuttosto acedia che noia, come viene solitamente tradotto. Assenza di stimoli, senso di solitudine anche in compagnia, di sconforto anche a feste, balli, pranzi, e inerzia. Del genere più vasto delle malinconie di Burton, in realtà dell’insoddisfazione di sé.


Ignoranza – Appare la condizione iniziale, alla preluce dell’essere. Una tabula rasa. Sembra ovvio ma non lo è. Per l’evidenza dell’esperienza. È un rifiuto. O accettazione passiva. Un percorso umano per diminuzione invece che per incremento.
 
È liberatoria quando è riconosciuta, si riconosce - “non so”, “so di non sapere”. Ma in questo caso è già una forma di conoscenza, per di più raffinata, socratica” - ironica, contestativa. Non lo è comunque nella pratica, quando è opposta all’apprendimento,  La conoscenza è infatti sempre discriminatoria – complessa: riflessiva, congetturale, pratica (comprovata) – e in continua trasformazione. Al contrario dell’ignoranza, che, se non sempre è tirannica o punitiva, però si vuole assiomatica e quindi (potenzialmente) dannosa (limitativa) – il so di non sapere è privilegio dell’intelligenza.
 
Quando è segretezza, si vuole positiva – giusta, benefica. Si vuole giustizia, ben fatta: il voto segreto, il confessionale muto – e anche Dio si vuole sia nascosto. Ma in questi casi non per mancanza: per una speciale connotazione dell’essere-evento. La conoscenza, come opposta all’ignoranza, è “sapere”, per dirla con Confucio, “sia quel che si sa sia quel che non si sa”. 
 
Opinione pubblica – Ne fu studioso e analista Flaubert, in termini spregiativi, come senso comune, o delle frasi fatte. “Bovary” e la vastissima corrispondenza, nonché il “progetto di una vita”, delle “Idee ricevute” , o frasi fatte, in parte traslato in “Bouvard e Pécuchet”, vertono sull’opinione. Il progetto di “prefazione” del “Dizionario delle frasi fatte” Flaubert descriveva a Louis Bouilhet in questi termini: “Sarebbe la glorificazione storica di tutto ciò che si approva. Vi dimostrerei che le maggioranze hano sempre avuto ragione, le minoranze sempre torto. Immolerei i grandi uomini a tutti gli imbecilli, i martiri a tutti I boia”. Una strategia ironica, intesa a scombinare a l’impero dell’ “opinione”. Antidemocratica: un svilimento ironico dello spazio pubblico democratico, la grande invenzione politica dell’Ottocento. Di cui intende mettere in rilievo i limiti, i vincoli, la “mediocrità”. E soprattutto il conformismo, sotto la chiave della democrazia: della maggioranza che comanda, dell’obbedienza alla maggioranza. Nel migliore dei casi, una eccentricità: “Questa apologia della canaglieria umana su tutte le sue facce, ironica e urlante da un capo all’altro, piena di citazioni, di prove (che proverebbero il contrario) e di testi inquietanti (questo sarebbe facile), sarebbe al fine, direi, di finirla una volta per tutte con le eccentricità, quali che siano”. Contro l’errore dell’ugualitarismo: “Entrerei nell’idea moderna di eguaglianza, nel detto di Fourier che “i grandi uomini sono inutili”.
 
Presepe – Quello di san Francesco, delle origini, senza il Bambino Gesù, in una culla vuota e due animali di contorno, il Bue (ebraismo) e l’asino (paganesimo), è la rappresentazione della presenza-assenza della divinità. Quello in uso, “napoletano”, delle tante e varie figurine, a cominciare da Maria, è invece una rappresentazione dell’umanità.
Elisabetta Moro,  “Il Vangelo in dialetto”, ci vede la cifra dell’appropriazione particolare, localizzata, della Natività e della religione: “”L’idea geniale di Francesco è che ovunque ci sia una mangiatoia  lì c’è Betlemme.”. La Natività viene così trasportata nelle nostre terre e nelle nostre case: “La sacra famiglia migra verso altri lidi e assume anche i tatti somatici di altre genti”: in Sicilia dei pupi, in Tirolo è alpestre, in America Latina i costumi sono andini, in Africa gli animali selvaggi fanno da sfondo, a Napoli il Vesuvio e le rovine di Pompei: “Di fatto il presepe diventa un plastico del dogma teologico della Natività”.

Storia - È l’essere del tempo.
 
La storia procede (viene?) mascherata. Non di suo, la storia è inerme - un palcoscenico aperto. Ma si riflette negli occhi di chi la guarda - bramosi, concupiscenti, cinici, bari (anche equanimi, rispettosi). È un corpo desiderato, arrendevole


zeulig@antiit.eu

Effetti speciali della fantasia, il presepe è universalista

Cento curiosità sul presepe, “il presepio in cento parole” è il sottotitolo. Da Abacuc a Zingara, dopo Zarathustra. Villoresi, cronista, non si lascia impressionare: “La storia del presepio sembra complessa, misteriosa…. E forse lo è. Ma tutto è anche molto chiaro, lineare, leggero come quel primo passo”. Che non è la Natività, la nascita di Nostro Signore. Quella è semplice, e ben fissata nei Vangeli. Da Matteo: “Gesù nacque a Betlemme, una città della Giudea, al tempo di Erode”. E Luca: “Maria avvolse il figlio nelle fasce e lo mise a dormire nella mangiatoia perché non avevano trovato posto nella locanda”.  Il “primo passo” è “aprire uno scatolone” – “ecco l’oste, i sugheri, l’asino… ecco il Bambinello”. Dopodiché la storia è libera.
Ce n’è per tutti – contrariamente alla solita polemichetta massonica che accompagna ogni Natale: “La Natività evocata dal presepe è onorata dallo stesso Corano”. E il presepe è “la più contaminata e la più multiculturale delle manifestazioni cristiane”. S i può dire quello che si vuole, ma il presepio è  internazionalista”, nei suoi personaggi e nelle sue storie. “E pure qualcosa di più: universalista, come gli effetti speciali della fantasia, le stelle d’Oriente, i cori d’angeli, la luce nella grotta. Il brogliaccio è aperto”. I personaggi innumerevoli, e i più incongrui. Vi “trovano accoglienza – al riparo dalle censure della Chiesa – diversi santi ufficiosi e qualche divinità di ultima generazione, da Totò a Maradona”.
Luca Villoresi, Purché non manchi la stella, Donzelli, remainders, pp. 157, ill. € 9

lunedì 25 dicembre 2023

Letture - 540

letterautore


Berto
– Massimo Raffaeli prende lo spunto da un plaquette di Giuseppe Berto, sull’utilità della Vanità – di un congruo narcisismo - per rivalutarne tutta, più o meno, l’opera. Eccettua solo il giornalismo dei “Soprapensieri”, includendo nella rivalutazione perfino “Anonimo Veneziano”). Con applicazione e con acribia, un monumento. Ma in breve, mezza pagina, e solitario. Il partito Comunista è morto trent’anni fa ma l’“egemonia culturale” ha la coda lunga?


Bovary – Di “ironia profonda” dice il romanzo Jacques Neef, presentandone l’edizione economica più diffusa, nei Livres de poche.

Cairo Gang – John Banville prova a rianimare il giallo un po’ seduto “Il dubbio del killer” ricordando verso il finale  “la squadra dei servizi segreti dell’esercito britannico che era stata mandata a Dublino ad affrontare l’IRA durante la guerra d’indipendenza”, 1918-1921. Un gruppo di pensionati dei servizi segreti britannici fu richiamato in servizio e addestrato ad assassinii mirati di capi dell’Ira. Ufficialmente denominati Special Branch del Dublin District (Ddsab), furono noti come “Cairo Gang” non si sa per quale motivo. La biografia di Michael Collins, il giovanissimo capo dei servizi di intelligence dell’Ira, lega il nome del gruppo a un passato comune di servizio in Medio Oriente. Lo storico Conor Cruise O’Brien lo lega invece al caffè Cairo, al centro allora di Dublino. Dodici dei venti membri del gruppo furono assassinati simultaneamente, uno per uno, in vari post di Dublino, all’alba della domenica 21 novembre 1920, poi nota come “Bloody Sunday”, secondo un piano messo a punto da Michel Collins. Il quale fu assassinato a sua volta, il 22 agosto 1922, da alcuni membri dell’Ira contrari ai primi accordi di pace dell’anno prima, cui lo stesso Collins aveva preso parte.

Europa - “La laica Europa sventola lo stendardo di Maria”, può concludere Rumiz sardonico il suo riesame della bandiera dell’Unione: azzurra, il manto della Madonna, con tante stelline, che sono le dodici stelle di Maria nell’ “Apocalisse” di Giovanni. Rumiz, “L’Italia dal profondo”, la fa descrivere dallo storico biellese Alfredo Bider: “Uno spiantato e ignaro parigino si era ispirato alla stele di una medaglia miracolosa acquistata in rue du Bac per proporre a Bruxelles la sua idea di bandiera. E fu un ebreo a sceglierla, sempre per sbaglio. Costui ignorava che quella erano le dodici stelle dell’Apocalisse” di Giovanni, capitolo dodicesimo, dedicato alla Donna e al Drago. È per ignoranza che la laica Europa ostenta ora lo stendardo di Maria”. Non è un soprassalto di malumore, sardonico, di Rumiz, o dello storico Bider: il disegnatore fu un dipendente del Consiglio d’Europa, Arsène Heitz, una sorta di factotum, che sottopose una ventina di bozzetti. La scelta fu fatta dal suo dirigente, un belga, il barone Paul Michel Gabriel Lévy, direttore per molti anni delle Informazioni al Consiglio d’Europa. Heitz si era ispirato, disse, alla “medaglia miracolosa” della Madonna che nel 1830 appariva in rue du Bac a Parigi a santa Catherine Labouré. E insieme a Lévy avevano trovato conferma nel dodicesimo capitolo dell’“Apocalisse” di Giovanni: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”.

Lazio – Letteralmente, terra larga, spaziosa. Per i Sabini, presumibilmente, e altre tribù delle montagne. Anche per gli Etruschi, popolo di colina.

Natale – “Pure io penso, con gli inglesi, che Dickens abbia inventato la letteratura di Natale”, Francesco Merlo, “la Repubblica”. E Jacopone? San Francesco, l’infinita drammaturgia napoletana del Natale, col presepe e senza, Manzoni? Anche Gogol’, per dire. Il laicismo a volte è assurdo – “inglese”, cioè laico?

Ernest Pinard – Fu un Procuratore della Repubblica (Sostituto Procuratore) celebre a Parigi nel 1857. A febbraio fece processare “Madame Bovary” e perdette la causa. Ma ad agosto riuscì a far condannare Baudelaire, “I fiori del male” (sei poesie soppresse, multe di 300 franchi all’autore e di 10 all’editore). Più dura la condanna che ottenne il mese dopo per Eugène Sue, “I misteri del popolo” (“Les mystères du Peuple”): 6 mila franchi d’ammenda e un anno di prigione all’autore, multe e detenzioni di varia lunghezza per l’editore e per lo stampatore, distruzione del libro.
Flaubert ne pubblicò la requisitoria in testa alla prima edizione in volume di “Madame Bovary”, come lettura accurata del romanzo, anche se conclusa male. Quattro anni dopo si scoprì che il Procuratore era autore di poesie lubriche.
 
Politicamente (s)corretto – Inviando a Falqui il racconto “Una fornitura importante”, Gadda spiega che il fatto è realmente accaduto”, è “per così dire, un fatto di cronaca”. Ma, essendoci “una «madre superiora», d’altronde molto seria”, suggerisce al bisogno di sostituire tranquillamente “«madre superiora»  con «direttrice» e «Istituto San Giuseppe» con «Istituto Tommaseo» o qualcosa di simile”.
Lo ricorda Dante Isella nella nota alla sua edizione dei “Racconti dispersi” di Gadda per la Garzanti nel 1989. La notazione non c’era nella sua prima pubblicazione degli stessi racconti nel 1981 per Adelphi - sotto il titolo “Le bizze del capitano in congedo e altri racconti”. Il “politicamente corretto” è emerso negli ani 1980? Gadda naturalmente aveva scritto a Falqui nel 1949 senza minimamente porsi il problema – non di “correttezza”, solo di sensibilità, essendo i lettori del giornale dove Falqui lavorava, “Il Tempo, conservatori e codini. In uno dei racconti di questa raccolta postuma, “La passeggiata autunnale”, ha persino un “quattro macachi di schioppettoni”, per i Carabinieri. 
 
Presepe – Fa otto secoli giusti. E consistette, quello di san Francesco a Greccio, in una mangiatoia, vuota, con accanto un bue e un asino. Due animali simbolici, che dovevano rappresentare rispettivamente gli ebrei e i pagani, probabilmente i mussulmani (due comunità di cui san Francesco aveva appena avuto conoscenza diretta in Palestina). Ma solo in via ipotetica. La Madonna invece, che riporta il presepe in ambito chiesastico, come già avveniva prima di Greccio, è invenzione di pittore, di Coppo di Marcovaldo probabilmente, che nasceva l’anno dopo il presepe di Greccio, e fu a Firenze, la sua città,  il pittore di riferimento prima di Cimabue - già con Arnolfo di Cambio, 1291, nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, assumeva la forma poi canonica.

 
Roma – Freud vi si sentiva a casa, anche se deluso da quello che vedeva, comprese le monumentali archeologie e architetture. Ci fu sette volte, una frequenza inconsueta, negli anni in cui l’Italia era soprattutto Firenze e Venezia. “Per me è molto naturale essere a Roma, non ho alcuna sensazione di estraneità”, scriveva a un corrispondente. Ne scrisse anche come diu na nevrosi: “Il mio desiderio di andare a Roma è profondamente nevrotico”.
 
Sardegna – Terra di storie, la dice Michela Murgia, “Viaggio in Sardegna”: “C’è una Sardegna come questa”, premette, “davanti ai camini si racconta che ci sia, che poi è la stessa cosa, perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto più parlato, le parole sono luoghi più dei luoghi stessi, e generano mondi”. Anche perché in Sardegna “esiste tutto ciò che viene raccontato”. E più in là, più in esteso: “Nessun’arte, sull’isola, è popolare e trasversale alle generazioni quanto quella di raccontare storie, al punto da avere dato vita a veri e propri generi letterari locali, come «sos contos de fochile», i racconti del focolare, o «sos contos de jannile», i racconti della soglia di casa”.
 
Servizi – Quelli domestici l’ing. Gadda, “Gaddus”, distingue in “visibili ed invisibili”: “L’energia elettrica è prodotto invisibile in senso stretto. Il servigio dello scolo dell’acque luride è invisibile perché viene operato nel sottosuolo” – in nota a “Le bizze del capitano in congedo”. 

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Confusione in chiesa

“Il Vangelo non è un distillato di verità”, dice il cardinale Zuppi a Cazzullo per l’intervista di Natale. C’è un po’ di confusione nella chiesa di Francesco.
Zuppi non è un prete di strada, come è stato detto. Viene dagli studi, è figlio di un direttore dell’“Osservatore Romano”, era diplomatico con la Comunità di Sant’Egidio, e parroco dell’adiacente Santa Maria in Trastevere, che è una basilica,  non ha più molti fedeli ma continua a possedere un buon quarto di Trastevere. È stato vescovo ausiliario di Roma con papa Ratzinger, e poi in rapida ascesa con
 Bergoglio,  arcivescovo di Bologna, presidente dei vescovi italiani, cardinale. Dicono che la verità dei vangeli è amore. Di sé, di apparire bene? Di apparire?
“L’altra sera mi hanno invitato a una festa di Rifondazione”, continua il cardinale, “sono venuti in tanti a chiedermi una foto, «così poi la mando a mia mamma»”. La cosa gli fa capire che “il cristianesimo ha radici più profonde” di quanto si pensi. Bella scoperta.


La festa della nascita, l’evento più straordinariamente normale

Un volume strenna, molto illustrato, su scritti della grande medievista, studiosa principe di Francesco e il francescanesimo, per gli 800 anni dell’invenzione del presepe, a Natale del 1223 –riedizione di un volume che aveva raccolto questi studi nel 2020, due anni prima della morte dell’autrice, a cura di Marta Benvenuto, con le illustrazioni di Pablo Echaurren, “Un presepe con molte sorprese. San Francesco e il Natale di Greccio”.
Quella del 1223 fu una novità radicale: un presepe vuoto, solo una greppia, non una culla, vuota eccetto che per il fieno da mangiatoia, ad alimentare un bue e un asino che completavano l’esposizione, sul sagrato, fuori dalla chiesa. Non detto, ma un miracolo, se bue e asino evitarono di cibarsi del fieno di cui sono ghiotti. La celebrazione figurata della Natività non era nuova. Si faceva in chiesa, con figuranti che animavano le storie dei vangeli. Quella di Greccio, organizzata da san Francesco, a cui poi si rifarà la tradizione, era non solo diversa ma strana. Chiara Frugoni prova a dipanare la trama, alcuni dei suoi aspetti curiosi.
All’aria, fuori della chiesa, la mangiatoia vorrebbe dire la parola nuova, cui tutti, anche animali  non della tradizione cristiana come il bue e l’asino, possano pascersi. Una sorta di ecumenismo – il messaggio che oggi si legge nel francescanesimo. Di un  Francesco  che, in Terrasanta, ha visto l’“altro mondo”, gli ebrei (che nel presepe vorrebbe simboleggiati dal bue) e i mussulmani (l’asino, che sta anche per il paganesimo).
Secondo Tommaso da Celano, il suo primo biografo, san Francesco volle il presepe per motivi più semplici: «Voglio evocare il ricordo di quel Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del cuore i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, e come fu adagiato in una greppia quando fu messo sul fieno tra il bue e l’asino». Chiara Frugoni va più in là, in sintonia col papa che ha preso il nome di Francesco: è l’ecumenismo assoluto, il cristiano è in armonia col creato e con ogni altro essere, credente e non.
Ma non mancano le curiosità, cioè i nodi veri.  Bue e asino ricorrono nei vangeli apocrifi,  che la Chiesa non ritiene scritti dagli evangelisti – ma ottocento anni fa erano già “aprocrifi”? E che cosa rappresentano? Francesco ha voluto rappresentare ebrei e mussulmani attorno alla Natività, mentre erano in corso le crociate? E perché san Bonaventura, l’ultimo biografo “ufficiale” di san Francesco, cambiò il racconto di quella notte? Era già intervenuta una iconografia diversa, fra il 1223 e il 12610, a Firenze, e come mai? La storica si fa prendere qui la mano dall’attualità, dal bisogno di pace e condivisione, ma certo i problemi che individua sono appassionanti.
La storia del francescanesimo non è semplice. Francesco morì nel 1226, e nel 1228 era già santo. Il papa che lo beatificò, Gregorio IX, incaricò Tommaso da Celano, poeta e scrittore prolifico, dell’agiogafia del santo. Che non piacque. Tommaso la riscrisse, ma la contestazione continuò. Già inviato dell’ordine francescano in Germania, finì confinato in un valle dei monti Carseolani, tra Rieti e L’Aquila, direttore spirituale di un monastero di clarisse. Le sue vite del santo furono condannate alla “totale distruzione”. Nel 1260 fu incaricato di una nuova vita del santo il suo settimo successore alla guida dell’ordine, Buonaventura da Bagnoregio, con l’incarico espresso di riportare ordine e verità nella profluvie di scritti sul santo. Buonaventura, presto santo anche lui, non era personaggio da poco: laureato e professore alla Sorbona, amico e corrispondente di Tommaso d’Aquino. Ma la verità del presepe era già nella pratica, subito diffusa, e diversificata.   
Francesco e il francescanesimo sono un po’ diversi dal feticcio messo su da papa Francesco. Che però ha vita propria. Come il presepe. La sua storia è la storia di una fantasia, la nascita, l’evento pure più naturale apparentemente del mondo. A un certo punto legata anche alla Natività di  Greccio, ma solo per la morte e la celebrazione subito dopo di san Francesco.
Chiara Frugoni, Il presepe di san Francesco.  Storia del Natale di Greccio, Il Mulino, pp. 276, ill. € 38

sabato 23 dicembre 2023

Ombre - 699

Oggi sabato il “Corriere della sera” ha sei pagine preoccupatissime sui “partner europei spiazzati dal voto” sul Mes. Di cui non potrebbe fregargli di meno, a leggere i loro giornali o ascoltare le loro tv. E poche righe sul Superbonus che costerà 56 miliardi nel 2023 invece dei 36 stimati a settembre, facendo saltare il già ristretto budget per il 2024. Ogni mese di Superbonus costa quanto lo stanziamento annuo per la Sanità, calcola il ministero del Tesoro. Come non detto.
 
Venerdì. “L’Italia  inaffidabile”, dopo il no della Camera al Mes, “torna a preoccupare alleati e mercati” - apre a tutta pagina “la Repubblica”. Ma lo spread, che misura la fiducia nei titoli pubblici, è sceso – ha continuato la discesa, del 21 per cento da inizio d’anno, ieri a 160, quota minima da dodici anni.
Senza peraltro dire che la maggioranza dell’opposizione si è astenuta o ha votato contro.
 
Giovedì. “la Repubblica” apre a grandi caratteri: “Patto Ue, la resa di Meloni”. Mentre sa che è il contrario. Molinari vuole alzare una palla a Meloni? E noi che compriamo il giornale, ci prende per fessi.
 
Martedì: “Accordo Ue sul nuovo patto di stabilità”. Mercoledì: “Patto di Stabilità: intesa Francia-Germania”. E questa è tutta l’Europa. Consigli, consultazioni, unanimità?
 
“L’Italia ha il doppio di autovelox della Germania”, che ha il doppio degli automezzi circolanti, “e il triplo della Francia”. Servono ai virtuosi amministratori comunali per fare cassa, non per prevenire gli incidenti. Specie in Toscana, è da aggiungere, dove Firenze ha il record nazionale degli incassi - il doppio di Milano, che ha popolazione e territorio quattro volte più grande. E nelle Marche. Eredità della “buona amministrazione” Pci, del potere come polizia.
 
Si prevengono gli eccessi di velocità con i sistemi di controllo visibili, annunciati,  a tratti ritornanti, come è nelle virtuose autostrade meridionali. A Firenze, quando era feudo Pci, gli autovelox erano nascosti dietro le curve, a ridosso immediato di un segnale di dimezzamento della velocità – a Orbetello dietro spesse siepi.
 
Si stracciano le vesti la corrottissima Fifa, e l’Uefa di Ceferin che la rincorre, nonché l’Eca del famoso sceicco parigino Khelaifi, che paga i calciatori 500, 700, o più milioni, e l’ex premier britannico Johnson, corrotto anche lui, i padrini del calcio “sport popolare”, perché non ne avranno più il monopolio – proprio ora che lo potevano vendere ai corrottissimi arabi.
Sono in dubbio i cronisti sportivi – non sanno a che carro attaccarsi?
 
Le cronache sportive della sberla ai monopolisti-corrotti si nascondono dietro i social dei romanisti – ma anche di chiunque abbia visto Siviglia-Roma sei mesi fa a Budapest. Contro l’Uefa che si era palesemente venduta la partita. Con l’arbitro Taylor “modello Collina”, il grande santo delle carriere degli arbitri internazionali (ora alla Fifa dopo una vita all’Uefa): ammonizioni subito (sei gialli ai romanisti, uno al Siviglia, benché i sivigliani abbiano commesso più falli, specie contro le “ripartenze - un fallo a giallo automatico), rigori contro inventati, rigori a favore negati, giusto per alimentare il  nervosismo.
 
Degli arbitri inglesi bisogna dire che gradiscono molto la vacanziella pagata in Spagna, come è l’uso – il famoso arbitro Oliver resta un caso esemplare. Ma di Taylor bisogna pure dire che è stato promosso per il servizio reso: il senza vergogna Ceferin, sotto l’alto patrocinio di Colina, lo ha benedetto dopo Istanbul.
 
Intransigente il prefetto di Roma Giannini: “Contrasto massimo alle violenze di genere”. Poi uno gira pagina e, a proposito di uno stupratore riconosciuto e denunciato dalle vittime, legge: da luglio “i tempi burocratici hanno permesso di spiccare nei suoi confronti l’accusa di violenza sessuale e rapina  nei confronti della seconda donna solo nei giorni scorsi”, a metà dicembre. Poi, dopo ancora qualche giorno, “è arrivata la misura cautelare in carcere”. Sembra Gogol’, ma non è da ridere.
 
Multa severa (un milione) del Garante della Concorrenza a Chiara Ferragni per pubblicità ingannevole. Cioè per una truffa: con le vendite di un panettone prometteva di finanziare un ente assistenziale, e non lo ha fatto. A parte le considerazioni morali, un fatto penale. Ma nessuna Procura si muove – se non Milano, con cautela, e dopo che altre ipotesi di reato sono emerse. Solidarietà politica?
Cane non morde cane è contraddetto ogni giorno ai giardinetti. Ma in certi ambienti è vero?

Il cinema non è una cosa seria

Il cinema del cinema, in formato grande, gigante. Di un’arte che si vuole semplice, perfino noiosa a fare - sminuzzata, ripetitiva. Ma richiede molti soldi, per un investimento a rischio elevato. E consuma chi la fa, dai produttori agli artisti e alle maestranze, tutti nevrotizzati (alcolizzati, drogati, sessuomani, ludopatici, violenti). Qui li consuma a maggior ragione, perché siamo nei secondi anni 1920, del passaggio al sonoro.  Quando cioè le stelle del muto all’improvviso divennero  ridicole o incapaci, di voce ineducata o sgradevole.E malgrado tutto arte popolare per eccellenza, di linguaggio e costo accessibile a tutti: due ore di luce, di sogno, per pochi spiccioli, anche per gli animi semplici – indeducati, poveri.
Chazelle, regista del cinema-spettacolo, di immagini, musica, danza e parole, tenta il capolavoro assoluto. Tre ore di eccessi. Aperti da un’orgia porno-alcolica-drogata-violenta nel deserto della California, espressione della ricchezza folle, stravagante, del cinema muto che si faceva con quattro soldi. A fronte del cinema come sogno del giovane messicano addetto ai servizi meniali. E su questa antinomia va avanti.
Alcune scene sono strepitose. Quelle dei titoli di testa, dell’elefante alla festa, e poi dell’orgia nel palazzo nel deserto. O della ragazza di provincia, povera e ambiziosa, che subentra per caso in un set alla star indisposta e diventa per il solo temperamento una diva - una prova strabiliante, per tutta la durata del film, di Margot Robbie. Magistrale quella dei primi ciak del sonoro. Ma un’occasione sprecata, probabilmente al montaggio – il giovane regista sembra non aver voluto rinunciare a niente di quanto aveva girato, anche se ci azzecca poco. Per un racconto che in definitiva resta sfocato, dispersivo. Se non, involontariamente, come critica dell’american way of life, soldi e alcol, di cui Hollywood sarebbe eponima – a fronte, in continuazione, di una ipotetica Europa virtuosa.
Con un tributo muto, mostrato, non detto, a Harvey Weinstein – è questo che è costato al film un qualche premio dei tanti cui è stato candidato?: un produttore compare sui ciak e alle feste dallo sguardo ragionevole, non ubriaco né “fatto”, rispettoso di attori r registi, con le fattezze del produttore condannato per violenza sessuale.
Damien Chazelle, Babylon, Sky Cinema Due, Now

venerdì 22 dicembre 2023

Problemi di base bellicosi bis - 782

spock


Ma quant’è grande questa Gaza, la distruzione non finisce mai?
 
E quanti sono questi palestinesi, non finiscono mai di morire?
 
Si può mettere il veto a una tregua?
 
Perché l’antisionismo sarebbe antisemitismo?
 
Cane non morde cane – chi l’ha detto?
 
Senza la leva obbligatoria, abbiamo dimenticato la guerra?
 
spock@antiit.eu

Le bizze del capitano Gaddus, con una storia d’amore

Il primo racconto che Gadda ha scritto è l’unico di una storia d’amore fra giovani. Ed è perfino un triangolo: tra la giovane nobildonna e il contrabbandiere.giardiniere, tra il fratello di lei e lo stesso contrabbandiere-giardiniere. Costruito come un giallo – ma a soluzione aperta, ambigua.
Gadda lo scrisse da prigioniero di guerra dopo Caporetto – pubblicandolo nel 1963 su “Letteratura”, lo accompagnò da una nota: “Questo racconto fu pensato e scritto  dal 22 al 30 agosto compresi dell’anno 1918 in Celle-Lager”. Con una sorta di autoritrato in uno dei personaggi, il giovane Rinieri, il terzo escluso da ogni rapporto, presente ma invisibile. Con una fraseologia involuta, per volere essere delicata, insinuante, non apodittica.  Col problema qui evidente, molto gaddiano, come poi di Tozzi, Landolfi, Alvaro, Bontempelli, buona parte dei narratori tra le due guerre, di quale lingua usare, il vecchio problema manzoniano, l’italiano postunitario suonando vacuo, e l’unico appiglio “reale” suonando quello infantile, originario, regionalizzato, dialettale.
Il “Capitano in congedo” è Gadda, l’ingegnere. È è il secondo racconto della raccolta e “la prima bizza” è giù esaustiva: “Contro Semiramide, lo sciacquone, i cilindri zincati,l’architetto Gutierrez e il fisico Wollaston” – a complemento: “Trionfo d’una porcellana”. Puro Sterne, “Tristram Shandy gentiluomo”, quindi probabile prosa di formazione, ma pubblicato tardi, nel 1940.
Il primo racconto s’intitola “Viaggi di Gulliver – cioè del Gaddus”, e si presenta come “alcune battute per il progettato libro” - Scritto con le locuzioni del Duecento. Una lunga imprecazione, non un racconto in realtà. Un canovaccio della futura “Cognizione del dolore”, specie nel vituperio della Brianza, delle ville, degi architetti, dei costruttori.
“Il seccatore” è “un inedito del 1955”, spiega il curatore, “ripescato fra vecchie carte in un fondo di cassetto, un relitto dell’attività di Gadda redattore di programmi culturali radiofonici, sopravvissuto ai vari trasbordi di un ufficio”. Sembra anche un omaggio, sincero?, alla donna, alle donne, che mai scocciano - seccatore è solo l’uomo, solo un uomo può esserlo.
“Domingo del señorito en escasez” è Gadda tentato dal mistilinguismo, qui col castigliano, che meglio gli riusciva. È un racconto mandato a Antonio Baldini per una antologia di “Nuovi racconti italiani”, 1962-1963. Una spiritosa rielaborazione di “Cinema”. già pubblicato in volume, in “La Madonna dei Filosofi”, 1931. Il signorino spiantato è Gadda cresciuto, goloso, che vaga con ben due caramelle in bocca, “due saporini, crema Caracas y ratafià (chissà poi cos’è questo ratafià)”.
Tra i vituperi, ricorre di passaggio lo zio senatore, Giuseppe Gadda, irto sul piedistallo in piazza con un suo busto di marmo. E qualche doppio senso – “«l’uomo è cacciatore» dice uno modo da noi; e tu, che sei uomo e cacciatore lombardo, sùfola per l’augello, e così puoi augellare per il sùfolo”.
Prose minori, per amatori di Gadda. Altrimenti sono scheletri delle sue forme narrative più riuscite, “La cognizione”, il “Pasticciaccio”. Segrete (pudibonde, retrattili, autocensorie), e quindi mascherate dall’ironia. Il primissimo racconto, quello della prigionia, recuperato da 70 pagine di quaderno, molto pulite, fa eccezione.
La raccolta è postuma, di testi rimasti fuori dai volumi approntati da Gadda. Ordinata da Isella. Che l’assortisce di un prezioso “Saggio di una bibliografia gaddiana”, un primo tentativo di ordinare cronologicamente gli scritti di Gadda, di ogni tipo, narrativi, letterari, giornalistici, perfino tecnici (poi superata dai Meridiani, questa raccolta è stata approntata nel 1981).  
Carlo Emilio Gadda, Le bizze del capitano in congedo e altri racconti
, Adelphi, pp. 223 € 15

giovedì 21 dicembre 2023

Seduti su montagne di debito

Il Fondo Monetario Internazionale calcola un debito mondiale in calo nel 2022 rispetto al picco del 2020, l’anno della pandemia, ma sempre a livelli record. Nel 2020 il debito totale, pubblico e privato, è stato pari al 258 per cento del pil mondiale. Nel 2022 è sceso, ma sempre a livello elevato, il 238 per cento del pil mondiale.
Il debito pubblico è arrivato al 100,2 per cento del pil nel 2020, per poi scendere al 92 per cento. Il debito privato ha toccato il record del 158 per cento del pil, e si è poi ridotto al147 per cento.
Stati Uniti, Ue e Cina sono le economie più indebitate, in assoluto (in ragione della loro maggiore  performatività) e in rapporto al pil. Nel quadriennio 2019-1022 il debito complessivo (pubblico e privato) degli Stati Uniti ha superato stabilmente quello dell’Unione Europea, 274 per cento del pil nel 2022 contro 254).  Fra Stati Uniti e Europa si è incuneata da ultimo la Cina, col debito al 272 per cento dei pil. La Cina quindi era la seconda economia più indebitata al mondo in rapporto al pil nel 2022, ma con un ritmo di crescita considerevole, molto più elevato che Usa e Ue – e tutto lascia presumere che sia il primo paese più indebitato già in questo 2023.

Il partito romano della (minuta) corruzione

Il consiglio comunale a Roma nicchia, Azione è contro, i 5 Stelle tremano, ma il Pd assolutamente la vuole: una delibera che liberalizza nel centro storico, dopo le jeanserie, la pizza al taglio, i panini e il kebab. Una delibera che, tutti lo sanno, ridurebbe a un cesso, più cesso di quello che è oggi, la grande città che costituisce il centro storico di Roma.
C’è un motivo di tanto impegno? Sì, favorire il piccolo commercio. Ma dopo averlo distrutto: Bersani, il Pd allora Ulivo, hanno distrutto il piccolo commercio di vicinato venticinque anni fa, liberalizzando le licenze, svuotando di valore l’avviamento, mentre facevano dilagare nel contempo, con licenze a gogò, la grande sì distribuzione e i centri commerciali. Per controllare i prezzi, dicevano furbi (sapendo cioè di favorire il consumismo, e quindi il carovita). E dopo aver mercificato, con analoga delibera, sempre su volontà dell’Ulivo- Pd, il centro di Firenze vent’anni fa, ridotto allo squallore di bancarelle e mangiatoie.
Prosegue l’offensiva per lo svuotamento di Roma avviata dalla giunta Rutelli un quarto di secolo fa ampliando le zone pedonali e riempiendole di jeanserie. O ancora più in là dal benemerito sindaco Petroselli, liberalizzando le rendite nel centro storico, cioè condannando alla chiusura le attività artigianali – Petroselli avviò la costruzione di bellissime periferie, al posto delle borgate pasoliniane, ma vi deportò, per bontà, gli artigiani.
C’è a Roma un partito della corruzione modesta ma diffusa. Dei maneggioni, gli sbrigafaccende e i procuratori di appalti, che un tempo faceva capo a Vittorio Sbardella, proconsole di Andreotti, e poi è confluito nei Popolari, nell’Ulivo, nel Pd, senza soluzione di continuità. Non per altro, per essere il Pd l’unico partito organizzato, in grado cioè di fare ciò che promette - o è l’inverso, il Pd è “organizzato” dagli ex andreottiani. Ma con ampie entrature nella parte Pd ex Pci. Insieme hanno liquidato dieci anni fa il sindaco Marino che avevano incautamente eletto, quando Marino pensò di moralizzare, un poco, il Campidoglio  - i vigili assenteisti, gli appalti, gli affitti. Una unità d’intenti cementata proprio dagli affitti, dal no al censimento dei quarantamila e passa immobili che Roma Capitale è venuta accumulando nei secoli, che non rendono niente – gli affitti sono irrisori, quando vengono pagati, raramente, ma che si può fare, sono di amici e compagni.

Mafia a palazzo di Giustizia

“Nei giorni immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio, un nucleo di polizia giudiziaria si presentò a casa di Borsellino con il mandato di perquisire lo studio del magistrato, in cerca di elementi utili alle indagini. La famiglia oppose resistenza a quella perquisizione. Alla domanda perplessa sul motivo di una così inaspettata mancanza di collaborazione, i familiari replicarono: «Perché Paolo si fidava solo dei carabinieri»”.
Un libro incredibile. Non tanto per quello che dice, i delitti dell’antimafia, quanto perché li documenta. Riesce a documentarli, malgrado riserve, segretezze e coperture su documenti che pure dovrebbero essere pubblici. I due autori, già alti ufficiali dei Carabinieri a capo del Ros di Palermo nel 1990, erano riusciti a costituire un dossier documentato sulla catena di appalti pubblici gestiti dalla mafia. Una documentazione “che vrebbe potuto cambiare l’Italia”, possono affermare nel sottotitolo. Dopo averne dato nel testo una delucidazione impressionante.
Assassinato Falcone nella strage di Capaci a fine maggio 1982, il dossier si voleva indirizzato a Borsellino. Ma la Procura di Palermo glielo tenne nascosto. Affidandolo a due sotituti Procuratori che poi avrebbero fatto eccelsa carriera, Guido Lo Forte e Roberto Spampinato (quest’ultimo, famoso per essere  teorico del “Dio mafioso”, è oggi anche senatore 5 Stelle, dopo essere stato Procuratore capo). Il 13 luglio Lo Forte e Spampinato archiviarono il dossier. Il giorno dopo, al pool antimafia riunito, non ne dissero nulla a Borsellino, che pure era intervenuto alla riunione allarmato. Il 19 luglio Borsellino saltava anche lui in aria. Una vicenda terrificante. E ai due autori manca il riferimento al diario di Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio Istruzione che aveva inventato il pool antimafia e impiantato il maxi-processo storico, 1982-83, con centinaia di arresti poi convalidati, e a luglio 1983 era stato il primo a essere eliminato in una strage con con autobomba. Nel diario Chinnici dice chiaro che non c’era da fidarsi di Lo Forte e Spampinato.
L’elenco dele malefatte è sterminato - quello che si dice “un sistema”. L’archiviazione del dossier appalti decisa da Lo Forte e Scarpinato due mesi dopo l’assassinio di Falcone, senza dirne nulla a Borsellino, fu confermata pubblicamente poche ore dopo la strage di via D’Amelio, contro lo stesso Borsellino e gli uomini della scorta: che gli interessati ne venissero con certezza a conoscenza, sapessero di non aver e nulla da temere?
Il generone democristiano
Storie non di pizzo. Storie di grandi imprese, non siciliane, che lavoravano con la mafia per assicurarsi gli appalti pubblici, “dall’ideazione dell’opera all’istituzione della gara d’appalto, dal pilotare la gara stessa,e vincerla, al gravare sull’avanzamento dei lavori con sovracosti rispetto ai preventivi, con consulenze costosissime, con forniture a prezzi gonfiati, con ritardi pilotati nelle consegne ecc. Tutto questo (e con soddisfazione di tutti) ai danni delle casse dello Stato (attraverso quelle della Regione, delle Province, dei Comuni..”)”.  Una rete criminosa di impese, politici, tecnici e mafia.
Invischiato è il “generone” democristiano della migliore specie. Il sostituto procuratore Giuseppe Pignatone, che ebbe per un periodo assegnato il dossier insieme con Lo Forte e Spampinato, ora giudice del papa Francesco, dopo avere “esportato” la mafia a Roma, quando ne diresse la Procura della Repubblica, era figlio di Francesco Pignatone, insegnante di latino, deputato Dc a 25 anni, teorico del “milazzismo”, quindi caro anche al Pci, all’epoca dei fatti  presidente dell’Espi, Ente Sicilia per la Promozione Industriale, cerniera degli appalti. I maggiori contratti vedevano protagonista la Rizzani De Eccher, la ditta del geometra De Eccher subito dominante nelle opere pubbliche nelle province bianche di Udine e di Trento – in grado di “vincere anche tre gare in un giorno”, secondo la moglie del titolare, che curava l’amministrazine. Al centro della conventicola con la mafia la società romana Tor di Valle, di Paolo Catti De Gasperi, figlio di Maria Romana De Gasperi, coniugata Catti –  un ingegnere “vicino ai servizi segreti”, lo dirà il cassiere della mafia Siino, in uno dei processi in cui testimonierà da pentito. Ma più di tutti pesa il ruolo nefasto della magistratura.
Il procuratore capo di Palermo Giammanco aveva mandato in giro il dossier, che tutti sapessero, senza che la fuga di notizie fosse imputabile alla sua Procura. Dell’archiviazione, morto Falcone, si è detto. Pignatone, Lo Forte e Scarpinato si rifiuteranno di ascoltare il rappresenante della Rizzani De Eccher, il geometra Li Pera, il vero dominus degli appalti, quando questi, arrestato, comincerà a parlare. Brusca, il feroce luogotenente del feroce Riina, sentito successivamente dai sostituti Tescaroli e Di Matteo, dira chiaramente, a verbale, che Pignatone ha fatto “uscire notizie” del dossier, e niente succede. Tescaroli è uno che a Firenze, dove ora vice Procuratore Capo, lavora intensamente a dimostrare che le bombe del 1993 le ha messe Berlusconi, Di Matteo ha montato per vent’anni il processo Stato-mafia, ora finito nel nulla: sono giudici cioè molto anti-mafiosi, ma con perimetri.
Il capellone e il corrotto
Del verbale di Brusca, come di molte sedute del Csm, le trascrizioni sono state ottenute da Mori e De Donno solo di recente, attraverso strategie procedurali complesse, nel processo Stato-mafia, nel quale erano imputati, pur senza essere secretati. Erano, cioè, testimonianze e verbali protetti. Col “ministro dei alvori pubblici di Cosa nostra” A ngelo Siino, col quale De Donno aveva stabilito un rapporto confidenziale, in vista di un “pentimento”, a un certo punto il dialogo s’interrompe: “Non posso collaborare”, sibila Siino, col quale De Donno doveva limitarsi a incontri segreti di secondi, il tempo per il “ministro” di mingere, tornando dal Tribunale, dove veniva giudicato, al carcere, “la Procura ti ha venduto. I due che stanno in aula, il capellone non capisce nente, l’altro è corrotto. Non ti puoi fidare”. Il “capellone” è  Scarpinato, l’altro è Lo Forte. Vero o falso?
Il libro è in circolazione da un mese e mezzo, ma solo Caselli ha risposto. E non al libro, alla recensione che del libro ha fatto Carlo Vulpio. La p.151 è terribile – è sempre De Donno che parla: : Siino “mi riferì che – già prima del depositodel Dossier presso la Procura di Palermo - era stato informato dell’esistenza delle indagini. A suo dire, la fonte della notizia sarebbe stato Giuseppe Pignatone, che ne aveva informato alcuni ‘canali’ di cui non mi rivelò l’identità. Mi spiegò anche che Pignatone aveva un interesse personale in relazione a quelle indagini,in virtù sia della posizione del padre sia di quella del fratello, avvocato dello Stato e consulente dell’Assessorato ai lavori pubblici del comune di Palermo. Proseguì raccontandomi che, immediatamente dopo che il Dossier era stato depositato in Procura – nel febbraio del 1991 – Lo Forte, Pignatone e Giammanco, tramite fonti di cui non mi rivelò l’identità, ne diedero notizia ad ambienti mafiosi, comunicando anche il contenuto del Rapporto, tant’è che  lui stesso ricevette specifiche indicazioni sulle ultime pagine nelle quali era sintetizzato l’elenco delle persone e delle imprese coinvolte”.
Il Procuratore, di mafia, “ci capisce poco”
Qualche anno dopo Siino decide di collaborare con la Procura di Palermo, di cui è a capo Caselli. Che però affida il pentito, invece che ai Carabinieri, alla Guardia di Finanza. Caselli sarà poi all’origine del processo Stato-mafia:  convoca Mori e De Donno a Torino, alla presenza di un folto gruppo di magistrati, li chiude in due stanze separate, e li interroga “con un atteggiamento molto duro, quasi accusatorio”. La vicenda prende parechie pagine. È Mori che racconta, che pure aveva, dice, un rapporto di fiducia con Caselli, dai tempi del terrorismo. De Donno accusa Caselli di essersi rifiutato di verbalizzare l’alterco intercorso fra di loro sulla prima testimonianza di Siino, che il dossier era stato diffuso dalla Procura di Palermo. Sull’alterno non verbalizzato De Donno ha mosso un procedimento di accusa alla Procra di Caltanissetta.  Che si è poi concluso con l’archiviazione delle sue accuse, a carico di Giammanco, Lo Forte, Pignatone. Ma con la notazione che Siino certamente aveva accusato la Procura di Palermo della diffusione del dossier, “in quanto documentato dal contenuto delle fonoregistrazioni”.
Caselli non ha risposto, nemmeno lui. Ha solo lamentato, del libro, “schizzi di fango di dubbia natura”. Forse aveva ragione il suo protetto Lo Forte, che del Procuratore venuto da Torino diceva , ammiccando, che “ci capisce poco”.
In uno degli ultimi capitoli Mori spiega lungamente che i rapporti col giudice Caselli, prima di  Palermo, erano buoni: “Risalivano agli anni della nostra collaborazione nella lotta al terrorismo”. E a Caselli Mori passò la possibile collaborazione di Vito Ciancimno: “In vista del suo nuovo incarico miaveva contattato per avere da me un quadro della situazione in S icilia  e io gli dissi dei nostril contatti con Cincimino. Lui si disse interessato e si fecec promettere di essere infrmato di eventuali  sviluppi”. Caselli per Mori è colpevole anche di non aver capito, con Ingroia, l’interesse del “pentimento” che Ciancimiono gli offriva – il suo progetto di diventare “il Buscetta di Caselli”. Due anni dopo lo trattava da delinquente – trattava Mori.   
E non c’è solo Palermo. A Palermo Mori non si sente ben visto, dice. Perché veniva dalla collaborazione con Domenico Sica, romano, Alto Commissario Antimafia - al posto di Falcone. Di Falcone dà non solo l’elogio di prammatica, ripetutamente, ma di più il quadro di un’intelligenza rapida. In particolare, subito, a naso, sul dossier appalti – “ci divertiremo”. Venendo però da una diffidenza generica verso i Carabinieri. Mori recupera il rapporto grazie a Ilda Boccassini, venuta apposta da Milano, dove collaborava proficuamente da qualche mese col capitano Sergio De Caprio, trasferito a Milano per collaborare all’inchiesta Duomo Connection. De Caprio chiede a Boccassini di mediare il rapporto con Falcone, e lei si presta, un giono, “all’improvviso”, piombando a Palermo. “Falcone ascoltò senza manifestare particolari reazioni”, ma Boccassini uscì dal breve incontro contena, e il rapporto partì. A questo punto è Sica che si vendica, smantellando il gruppo di De Donno a Bagheria, da cui tutto era partito, la verità degli appalti. Con una manovra semplice, spiega Mori: facendo ricredere il loro principale pentito, Giaccone, il professore, sindaco di Baucina, il piccolo comune dove il meccanismo degli appalti era per caso emerso. Giaccone, personalmente onesto, aveva spiegato il mecanismo in dettaglio, e dato i nomi. Sica lo convinse a ritrattare. Dopodiché “c’era, a questo punto, un fascicolo aperto contro me, Falcone, e l’avvocato Milio”, che aveva assistito Giaccone – “a distanza di tempo fummo tutti assolti, ma intanto c’erano state polemiche, articoli di giornali, interventi di personaggi pubblici: uno degli episodi – tipici nel corso delle indagini di mafia – in cui la diffusion di veleni finiva per favorire gli interessi dell’organizzazione”.
Cronache mafiose
Ce n’è anche per Leoluca Orlando, sindaco molte volte di Palermo, da destra e da sinistra. Orlando nel 1982, poco prima della strage di Capaci, accusava in tv, alla Rai, da Santoro, Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le prove di delitti eccellenti, mentre custodiva personalmente in cassaforte documenti di appalti a imprese mafiose. E quando il  giudice Alberto Di Pisa trovò quei documenti in una perquisizione al Municipio e si apprestava a incriminare Orlando, fu acusato sui giornali di essere il “Corvo”, autore cioè di lettere anonime contro Falcone. Era un falso, ma bastò per togliergli l’inchiesta su Orlando – dopo quattro anni d’“inchiesta” Di Pisa sarà prosciolto, ma non diventerà mai Procuratore Capo.
Si potrebbe continuare. Ma incredibile è soprattutto il silenzio che ha accolto, ormai da un mese e mezzo, questa denuncia. Che, si sarebbe pensato, doveva fare strage nelle cronache giudiziarie. Ne ha parlato solo Carlo Vulpio - già un “giustiziere” anche lui, candidato con Di Pietro - per essere prossimo di De Donno, sul “Corriere della sera”. In una recensione che il giornale ha annegato in un pagina di cronaca nera. Il silenzio è la riprova che le cronache giudiziarie sono eterodirette – cosa che sanno tutti nei giornali.
Mario Mori-Giuseppe De Donno, La verità sul dossier mafia-appalti, Piemme, pp.pp. 237, ril. € 19,90