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sabato 22 settembre 2007

Il Patriarca di Marquez sembra Castro

Strani effetti alla rilettura dell'"Autunno del patriarca" di Garcia Marquez. Si conferma la straordinaria ricchezza di linguaggio, fresco, almeno nella traduzione di Enrico Cicogna, senza traccia del lavoro lento di composizione e riscrittura - benché il joycismo non sia oggi godibile, e la tessitura sapiente sappia di ricamo, perfino di folklorismo. Il linguaggio è straordinariamente inventivo, pur se di stretto vocabolario. Sempre con quel senso del millenario estratto dalla sordidezza, dall’“assenza di storia”: il passaggio della cometa, l’eclissi, i segni, la madre… Un libello più che un racconto, ma inavvertito è lo sforzo di rappresentare in un personaggio una storia e un mondo, la fradicia società politica caraibica – i “fanti di marina” della Potenza occupante devono esercitare molta pazienza. Utile, e forse innovativa, l’estrapolazione del monologo dal flusso di coscienza psicologico, anche se grammaticalmente incerto.
Uno strano effetto è che sembra l’anticipo dell’agonia di Castro. Nell’impianto, e in tanti particolari, “fiaccato da un morbo comiziale”, “la mano di damigella”, la durata senza tempo (il Patriarca si vede ai cent'anni di potere, Castro è vicino ai cinquanta). L’“Autunno del patriarca” è modellato su Papa Doc, il “Padre Nostro” Duvalier, il tiranno allora di Haiti. Ma si applica sinistramente a Castro, l’unico dittatore immortale, ancorché non amato. Un altro effetto è che, essendo il personaggio inconsistente, è palesemente – volutamente - un’allegoria: l’allegoria dell’America Latina, a partire da Città del Messico, dove Garcia Marquez risiede. Dopo Parigi, forse la città più letterata del mondo. Classicamente, l’America Latina è vittima della sua stessa immagine. Anche quando non vorrebbe, ne rifugge. È il meccanismo del sottosviluppo: si avvita su se stesso perché se ne parla.
Un terzo effetto è che il linguaggio eccessivo (aggressivo), che sempre col tempo si riduce a bozzettismo, isterilisce lo scrittore. Joyce è ammutolito, Gadda faceva la macchietta di se stesso. Anche Céline era ammutolito dopo “Morte a credito”, i pamphlet sono piatti: è rinato con l’abominio, unico francese accusato di collaborazionismo. Dopo “L’autunno del patriarca”, 1975, Garcia Marquez ha pubblicato molto, ma niente di notevole, e forse non nuovo. “L’autunno del patriarca” è una sorta di condanna inflitta a stesso, un nodo scorsoio duro benché infiocchettato.

Veltroni lottizzato, otto regioni ai Dc

“Questo è un paese con la testa girata indietro. È un paese che non ha voglia di cambiare”. L’Italia? Butterebbe tutto all’aria. Ieri aveva detto: “Siamo un paese malato”. Non: sono malato. Veltroni, forse per doversi confrontare con i vampiri locali, oggi della Toscana, l’altra settimana della Sicilia, e prima ancora della Puglia, della Calabria, eccetera, ha perduto la bontà, e anche il giudizio. È il “comico per eccellenza”, direbbe Sgarbi, della politica italiana, ma senza più humour: anche gli attori che più si identificano con la recita hanno a volte mancamenti di spirito. Specie quelli che non si sono mai fermati a pensare: “Ho sbagliato”. La realtà locale è sordida? Lo sara la “sua” realtà locale, i ras del suo ex Pci e della sua ex Dc. La procedura contorta per la creazione del Pd, che Pirani gli contestava ieri l’altro su “Repubblica”, l’ha pure voluta lui. E non si tratta di errori, né di uno né di cinque come li elenca Pirani, ma dell’unica possibilità per “questo” Pd di costituirsi: una lottizzazione, per dare agli ex democristiani almeno otto regioni su venti, visto che gli ex comunisti avranno la segreteria, o presidenza che sia, Sicilia, Calabria, Puglia, Abruzzi, Veneto, Friuli, Trentino-Alto Adige, Molise o Campania. Col contributo, ove necessario, di sperimentati compagni, a Napoli, in Calabria, una riedizione dell'"entrismo".
Questo Pd è l’ennesima incarnazione dell’ex Pci in fuga: fino a quando ci saranno ex comunisti non ne verrà nulla di buono, non capiscono. Non hanno fatto l’esame di coscienza non per malafede, ma proprio perché non capiscono. Una realtà così semplice come quella italiana, che il Pci cominternista ha bloccato con l’indisponibilità politica, e gli ex Pci intasano con i residui indecorosi del Comintern, il sindacato del “di qui non mi muovo”, il giornalismo di batteria, i minuti privilegi dell’essere compagni, negli affari, nella cooperazione, nelle politiche delle assunzioni.

giovedì 20 settembre 2007

La cafoneria milanese sbugiardata in Turchia

Si è presentata con undici stranieri, undici campioni, no?, e i turchi l’hanno strapazzata, una squadra la cui stella è stato Appiah, figurarsi, uno scarto della Juventus. Sette turchi, con tre vecchi brasiliani e uno scandinavo muscoloso, i cui ingaggi tutti insieme probabilmente non eguagliano quello di Ibrahimovic, si sono divertiti: gol, pali, rigori negati, tiri in porta a raffica, possesso palla, corsa, tecnica, tattica.
L’Inter è molto milanese: con padroni, i Moratti, che sono “di destra e di sinistra”, si arricchiscono in Borsa, e hanno superbi Guidi Rossi a servizio, il rispetto dei Borrelli, un allenatore che dà lezioni a tutti, qualche gol facendo con gli scarti della Lazio, Mihajlovic prima, ora Stankovic e Cesar, e una stampa inginocchiata, rosa e bianca – i pali turchi vi sono ridotti oggi da due a uno, né ci sono stati rigori negati. Istanbul dunque surclassa Milano, e questo dice tutto, il bazar snobba la cafoneria.
Resta da spiegare perché questo scandalo sia proposto e venga accettato in Italia quale esempio di etica, in politica, nello sport e nella città. Con un bilancio tra l’altro da sempre opaco, nel commercio dei tantissimi atleti stranieri, estero su estero (il metodo Cragnotti), nel commercio dei passaporti, nelle ricapitalizzazioni. Che i pochi atleti italiani, poco redditizi evidentemente estero su estero, che si è trovati tra i piedi ha liquidato, Toldo, il Supereroe di Olanda-Italia, Cristiano Zanetti, Cannavaro, salvato da Moggi, Pirlo, che fa la fortuna di Berlusconi, e della Nazionale, e Materazzi, salvato da Lippi. Il campionato questa squadra ha vinto simbolicamente a fine aprile con due gol di Materazi, un difensore che di gol gliene ha fatti otto, più degli ottimi attaccanti Adriano, Cruz, Crespo, stelle internazionali, pagati molto più di lui, che deve solo ringraziare Lippi per aver retto a Moratti e Mancini, che lo avevano demolito e volevano allontanarlo. Dopo dieci anni, o undici, di orrenda gestione questa squadra è ancora adulata come beneamata. È solo piaggeria? Ci sono soldi? È Milano.

Un "Caimano" molto berlusconiano

(Il 27 marzo 2006 Anti.it recava la recensione del “Caimano”, che riproponiamo per l’uscita del film in edicola. Nello stesso anno si celebrava in Francia, in forma teatrale, con lo stesso titolo, l’assassinio della moglie di Althusser, a opera dello stesso filosofo, il 16 novembre 1980, per strangolamento – un assassinio lento, di cui il filosofo non si pentirà, avvalendosi della temporanea infermità mentale, nemmeno nella successiva autobiografia, le cui ragioni la pièce sposa).
La storia di un disamore, irrimediabile dunque, sullo sfondo di un film da fare, assolutamente, del cinema che è vita – è il lavoro del cineasta, come i conti sono il lavoro del manager, i clienti del medico, eccetera, quelli che non hanno altri orizzonti. È presentato come un film politico, contro Berlusconi, ma questo è l’interesse del produttore, di vendere il film subito ai dieci o venti milioni di italiani che odiano e invidiano Berlusconi, sfruttando la “par condicio” che nella campagna elettorale zittisce gli altri mezzi di comunicazione.
Moretti naturalmente usa Berlusconi in tutte le salse, perché dovrebbe risparmiarsi di criticarlo? Tanto più che “rende” spettacolarmente, l’unico politico su cui si possano fare film, gag e libri, in quantità perfino spropositata - almeno una cinquantina di libri ingombrano le pur spaziose librerie Feltrinelli. Ma, non innocentemente, lo fa in modo ambiguo - anzi celebratorio nei newsreel europei, e nell’allocuzione finale che a se stesso ha riservato. In modo anzi berlusconiano. Uscire in 950 copie, per aggredire il pubblico, a una settimana del voto, per eludere la par condicio, non è il massimo dell’onestà e anzi, depurato di un inesistente “dovere” politico, un atto di furbizia, che il film non dissolve(un cinepanettone esce in 250 copie, un blockbuster Usa in 300 copie...): debole come storia e debole come pamphlet. Insomma, non ce ne liberiamo, Berlusconi cerca ancora il suo assassino. Moretti, che in “Aprile” aveva mostrato un Berlusconi da sogno, quale a lui stesso piace rappresentarsi, sempre dicendo “qualcosa di sinistra”, ovvio, qui gli fa un monumento, nel mentre che, “da sinistra”, ovvio, lo attacca.
La verità è che Moretti non ne può più della politica. Non da ora. È questo che lo fa un fratello: la critica affettuosa – lo sberleffo, il contropelo – ai tic culturali e sociali della sinistra intelligente, che in questi vent’anni di post-comunismo si ritiene soprattutto politicizzata. Ha fama di antipatico, ma sembra stanco, i tic lo stufano e non lo fanno ridere: culinaria, enologia, gaytudine, lo straniero che ha sempre ragione, e non Montaigne o Benjamin ma un polacco grasso, produttore di film porno, le gag sono più feroci che divertite. Compresa l’isteria del “fare il film” – se non è l’incredibile Orlando che ne ribalta la lettura. Alla Fellini ultima maniera, quando non riusciva a esprimersi tanto era arrabbiato, che Moretti inopinatamente cita, con la barca per la città, il set sul mare. Malinconia su tutta la linea: politica, affetti, creatività.
Tutto molto “morettiano” – l’ambiguità è la sua cifra – non fosse per due flaps. Uno negativo: la furbata del film il 24 marzo in campagna elettorale in mille copie non è leale, con gli spettatori e gli altri autori, ed è immorale, sfruttare la legge del politicamente corretto che ha dimenticato il cinema per fare soldi. Del berlusconismo Moretti sa e mostra che è una creazione non tanto di Berlusconi quanto della società di questi quindici anni, della “rivoluzione” di Mani Pulite, che ha liberato gli affari: questa non è una debolezza, semmai va a credito di Moretti, che si dimostra più capace di tanta scienza politica, ma fa paura. Moretti, o dell’ambiguità, ogni tanto fa paura. Non lui, il pubblico: che un pubblico sterminato ne prenda per buona la verità cosmetica, di superficie.
Volendone fare una tragedia, è il “Salo Sade” del perbenismo, o politicamente corretto. Senza la bellezza dei corpi, purtroppo, e anzi spesso sudaticcio, per il personaggio Orlando e non solo. La hantise di Pasolini era il potere che si impradoniva del sesso, quella di Moretti è sempre il potere, padrone della comunicazione. Moretti non ha mai preteso di fare tragedie, solo commediole. Ma è oberato da una vis tragica. Con un problema: chi ha più potere sui media, Berlusconi o lui (e chi non mente a se stesso)? Novecentocinquanta copie sono un record mondiale, e quindi un grosso investimento politico. Ma questo va dichiarato, barare non è di sinistra, non dovrebbe.

mercoledì 19 settembre 2007

Il dossieraggio disloca la sinistra

Giuseppe Leuzzi
Lamentando il sensazionalismo, quando si applica alle istituzioni, il Capo dello Stato si è schermito sull’ovvia o implicita natura politica della sua denuncia. Lo ha fatto per semplicità, la cifra che vuole dare alla sua comunicazione, ma non avrebbe dovuto. Essendo egli esponente della sinistra, è implicito che denunci un sensazionalismo di destra, mentre è da tempo – sembra da sempre – un’arma di sinistra, e anzi l’arma principe se non esclusiva, questa sinistra non sembra averne altre.
Negli anni della contestazione e della controinformazione era scontato: il dossier è di destra, di sbirri, mouchards, prefetti gastronomi, e politici cinici. Andreotti ne era considerato il maestro, dai tempi del Piano Solo contro Moro, poi per i biglietti aerei dei socialisti pagati dal Sifar, e sempre contro Fanfani per lo scandalo Montesi. Il dossier è arma di destra per definizione. È opaco: ha necessariamente delle fonti, che però non si dichiarano, non dichiarano le loro intenzioni. Segrete sono anche molte fonti processuali, che in teoria sono a conoscenza degli aventi diritto ma in pratica sono note solo agli inquirenti, note cioè fino alla disclosure, allo scandalo. Il dossier è violento, e non consente difesa all’avversario se non con altro dossier. È cioè degradante. Serve contro chi non si riesce ad attaccare pubblicamente, quindi contro i giusti, o peccatori veniali (sul segreto come arma è utile la ricerca storica a più mani “Voci, notizie, istituzioni”, fascicolo n.121, 1/2006, di “Quaderni Storici”, esteso dalla stessa rivista all'informazione nelle scelte economiche nel fascicolo n.124, 1/2007). È il sovvertimento della giustizia, la quale è il primo fondamento del socialismo e della democrazia.
Col terrorismo il dossier ha soverchiato la controinformazione, e si è sostituita a essa come arma della sinistra. O dell’establishment. Il passaggio non è avvenuto infatti attraverso fogli volanti o libri introvabili, ma attraverso i maggiori giornali e i maggiori editori, che per questo fatto risultano passati a sinistra. Storicamente la controinformazione veniva sommersa dal dossier nel suo momento di maggiore successo, con “La strage di Stato”, 1974, ispirata e in parte scritta dai servizi segreti, veniva battuta cioè dalla disinformazione . Ma non è della lotta al terrorismo che si tratta, è della gestione occulta oggi dell’informazione. Si potrebbe dire: la destra è diventata sinistra, e con essa il dossier, con tutto quello che esso comporta di torbido e equivoco. E così è. Le fonti migliori di questa informazione, alla Rai, a “Repubblica”, alla stessa “Unità” e nell’editoria sono giornalisti di destra, dichiarata, robusta, persistente.
L’effetto è paradossale, ma non del tutto: la sinistra perde posizioni. A lungo il dossier è stato l’arma del Pci e anche dopo, contro Sofri, contro Craxi, e poi contro Berlusconi – prima che i giornalisti fidati di destra, gli autori dei dossier utilizzavano i vecchi cronisti giudiziari di sinistra. Il risultato è che il Pci deve ancora correre a nascondersi, in “Cosa”, Pds, Ds, e ora Pd. Mentre Berlusconi, contro il quale alla vigilia delle elezioni del 2006 si potevano contare sui banchi della libreria Feltrinelli all’Argentina 57 libri, aumenta i voti e il credito politico – ha perfino vinto, personalmente, quelle elezioni, avendo rimontato da solo in quelle settimane uno svantaggio di 6 a 4 fino alla quasi parità. I libri, i pochi sfogliati, sono a loro modo bene informati, con dotte trascrizioni d’intercettazioni, da periti semiologhi, testimonianze, verbali. Ma tutti documentavano come Berlusconi fosse il braccio destro della mafia, e un paio anche dei trafficanti di droga, di cocaina per l’esattezza. Si capisce che il genere sia di larga lettura, si situa tra un giallo impegnato, di cui bisogna ricordare personaggi e eventi, e “Novella 2000”, che si può riprendere in mano con profitto a ogni momento, non si è perso nulla. Ma fa perdere le elezioni. Per la metà degli italiani che conosce la mafia sulla propria pelle, ma anche per chi conosce solo un poco la mafia, quei libri si buttano dopo la lettura, hanno solo servito a ingrassare Berlusconi.
La forza del dossier è di denunciare, fingendo di documentarle, gagliofferie, complotti, cupole, mafie. Ma ha la debolezza dell’incontinenza: denuncia così tante malefatte e con così tanti particolari che, anche quando sono vere, sembrano irreali. E infatti, passato il piccolo orgasmo per disappetenti, sono inefficaci. Sembrano le vecchie note di servizio del maresciallo dei carabinieri, così piene di dettagli, che non hanno mai prevenuto o fermato un delitto, perché esse stesse parte del disegno criminoso, a opera dei confidenti, all’insaputa del sottufficiale è ovvio, ma non inodori o insapori. Questo il capo dello Stato voleva dire: non c’è sensazionalismo innocente. Ma, e non si capisce il perché, in Italia è della sinistra. O meglio, nella stampa italiana. È una stampa di sinistra che è di destra? È vero che Andreotti è ora di sinistra, da quando fu l’estremo difensore dell’Unione Sovietica.

martedì 18 settembre 2007

L'antimafia non è popolare

Saviano è tornato al suo paese per una grande cerimonia anticamorra, cui hanno partecipato un migliaio di autorità, compresi i ragazzi di Locri, ma non un compaesano. A Casale, se non altro, l’organizzazione ha occupato la piazza. A Catania, orrendo spettacolo, nel 1998, o nel 1999, tutta l’antimafia isolana si riuniva per premiare Caponnetto nel Palazzo Municipale, da cui fuoriuscivano applausi, mentre la piazza era occupata da un centinaio di torve macchine delle autorità e delle scorte, coi loro impassibili autisti. Anche a Locri i ragazzi di Locri sono soli, un minuscola organizzazione politica, con la vedova Fortugno e la sua scorta nelle manifestazioni antimafia. Come questa estate, e già l’estate scorsa, in Aspromonte, nelle giornale della Legalità promosse dal Parco: uno o due giudici, uno o due parlamentari, e alcuni funzionari della Prefettura e della Questura, non più di trenta-quaranta persone a ogni manifestazione.
Bisogna pensare dietro questo deserto le mafie locali totalmente in controllo, o le popolazioni imbarbarite? A Locri e nell’Aspromonte di questa disaffezione però si parla liberamente. Anche a Catania all’epoca. La gente non partecipa, lo dice, perché “non c’è giustizia, solo chiacchiere”. Per giustizia intendendo la sicurezza. L’antimafia è solo un rito – quando non serve alla carriere, come Sciascia aveva visto vent’anni fa. La stessa cronista di “Repubblica” ironicamente - inconsciamente? - se ne fa interprete. Viaggiando al Sud questo si vede, ogni giorno, l’estremo legalismo accanto all’estrema illegalità. Tra gli antimafiosi di parata ci sono del resto in Calabria politici legati ai mafiosi, a conoscenza di tutti.

domenica 16 settembre 2007

"Gomorra"- a più mani

Per questo libro, uno dei più venduti nell’ultimo anno e mezzo, Saviano è stato per un anno e mezzo sotto scorta, e solo ora può tornare al suo paese, in compagnia del presidente della Camera Fausto Bertinotti. Quando i libri disturbano la criminalità, se non altro per questo non si possono non apprezzare. Ma purtroppo sono anche libri che la criminalità la magnificano. E in questo caso disturbano il lettore, per incongruenze che in un Premio Viareggio non si possono non tacere. Anche perché, a una seconda e terza lettura, la pretesa della fascetta editoriale dettata da Fofi, “il capitolo sulla guerra di Secondigliano è destinato alle antologie”, appare perfino ridicola.
Saviano è un nome collettivo? “Gomorra” è un volume collettaneo redazionale (Gomorra camorra, eccetera)? A quattro mani, con lo scrittore-agente Roberto Santamaria? Con i redattori Mondadori, p. es. Antonio Franchini, il capo della redazione, napoletano anche lui? Un “ventre di Napoli” sociopolitico, da Procura della Repubblica, da rapporto dei Carabinieri, poca cosa, al confronto con Matilde Serao. È un’accozzaglia di generi. Singolarmente scritto male. Tanto più per essere pubblicato dal maggior editore italiano, che ha vaste redazioni. Con un curioso, ripetuto, uso della terminologia economicistica, marketing, stakeholder, multilevel. Ma è nato best-seller – i best-seller sono tali alla nascita: un’opera prima non è mai un best-seller, “Gomorra” è il tipico prodotto che nasce best-seller. Collazionato in fretta, e non controllato, troppe le ripetizioni e le frasi zoppicanti (a p.90: “I colpi poi sfondano la porta e lo finiscono sparandogli alla testa”, a p.103: “I Marino erano stati obiettivi primi della faida. Avevano bruciato le sue proprietà”), per poterlo pubblicare ad aprile, con dati di febbraio, e fargli vincere dopo sei settimane il premio Viareggio. Non solo Fofi, anche il premio si sbugiarda.
È il tipico materiale dei dossier dei carabinieri. Il pm Beatrice che viene citato un paio di volte per le sue inchieste è uno dei procuratori che accettano di mettere il cappello su questi dossier civetta. Con le tipiche approssimazioni – il genere è quello dei primi verbali Usa di pentitismo. Anche se i personaggi e le vicende sono stati oggetto di dibattimento, il processo "Spartacus", dopo un'indagine di dieci anni (sic!), e tutti condannati all’ergastolo e in carcere, eccetto i due o tre necessari ad alimentare il mito dell’imprendibiltà. Di questi dossier è spesso la trascrizione, specie negli elenchi delle efferatezze, senza farne risaltare i paralogismi, sotto la vernice saputa, né le insufficienze della repressione, “Gomorra” direbbe del "contrasto" come da verbale, polizia e carabinieri ritenendosi ormai specializzati in questi trattatelli parasociologici, e nelle indagini-vetrina, del calcio e delle veline come della camorra e della ‘ndrangheta. Un negozio su due a Napoli è della camorra (p.61). La Repubblica ceca fu completamente egemonizzata dai secondiglianesi (p.59). Paolo Di Lauro, capo camorrista, che ha avuto dieci figli maschi tutti camorristi, è stato “a lungo sconosciuto perfino alle forze di polizia”. Quanto a lungo, un mese? un anno? dieci anni? È poi stato latitante per oltre dieci anni (p.72): tipica approssimazione da verbale militare, che uno scrittore non usa – è stato latitante per dieci anni e pochi mesi? per quindici anni? per venti? Il profitto è pari “al 500 per cento dell’investimento iniziale”. E quant’è l’investimento iniziale? In soldi, in sangue? Gennaro Marino “McKay”, che a p.71 architetta l’uccisione di Paolo di Lauro (a p.90 sapremo che ciò avveniva nel 2004), a p. 80 e qualche tempo dopo ne è ancora il referente e il franchiser. A p.89 i Di Lauro ordinano un assassinio mandando un fax agli affiliati. Alle pp.100-101, Anna, una ragazza che fa il concorso per maresciallo dei carabinieri, ha un ragazzo di diciotto anni, che le dice: “Tenevo trenta donne nel rione”. A p.120, “interi comparti dello spaccio vengono gestiti da quindicenni a Napoli”. In questa guerra atroce, i morti ammazzati, che a Napoli sono sempre molti, a p.135 si dimezzano. A p. 203 l’Italia spende in armi 27 miliardi di dollari, più della Russia, il doppio d’Israele. Più 3,3 miliardi per le armi della malavita. A p.205 le guerre, dal Sud America ai Balcani, si fanno con gli artigli (le armi?) della camorra. I casalesi fatturano trenta miliardi di euro l’anno (p. 214). L’alta velocità Roma-Napoli ha fruttato diecimila miliardi di lire (p.228) – più di tutta l’opera. Poi c’è l’occupazione della Scozia: per chi non lo sapesse, la Scozia puritana è ora napoletana. A p. 311 i rifiuti sono un mercato in quattro anni di 44 miliardi di euro. Solo a Napoli. “Un mercato che ha avuto negli ultimi tempi un incremento complessivo del 29,8 per cento” – non uno zero virgola di più e non di meno - “negli ultimi tempi”. A p. 327 l’Istituto superiore di Sanità ha segnalato che “la mortalità per cancro in Campania, nelle città dei grandi smaltimenti dei rifiuti tossici, è aumentata negli ultimi anni del 21 per cento”. Sempre nei fatidici “ultimi” tempi. Ma ci sono città di smaltimento dei rifiuti tossici? Le storie originarie, come quella di Pasquale, “Chi ha firmato il vestito di Angelina Jolie”, vi restano smarrite. Le scene “scritte” sono peraltro da film.
Come impegno sociale è la solita buona azione che produce effetti malefici: più che combattere la camorra, che si combatte con i carabinieri, la illustra e la magnifica, le esagerazioni mirate ad accalappiare i lettori non sono senza effetti. È il tipico libro di cui non si può dire che bene per l’impegno civile. Che sarebbe civico, nel senso di patriottico, un po’ meno forte, ma si preferisce dire civile, con una connotazione di superiorità: c’è la poesia civile di Pasolini, di Partito, la società civile di Scalfari, che vuole tutto, e l’editoria civile, delle cause buone. Se non che, non ingenuamente, questa punta a magnificare gli oggetti delle sue accuse.
La materia a Saviano non manca, nel casertano pure le pietre trasudano violenza, gli sguardi in strada, la parlata. Ma i libri di denuncia antimafia, che puntano per vendersi all’esagerazione, costruiscono attorno a una realtà decomposta, puteolente, ripugnante, un alone di magia, e “Gomorra” più degli altri. Successe già coi briganti. Invece di dire i camorristi rozzi e ignoranti quali sono, e la loro forza un difetto della repressione, che col suo benign neglect li incoraggia, se ne celebrano le strategie, l’organizzazione, l’influenza (il controllo del territorio, della produzione, del commercio, della politica, l’imprenditorialità, la flessibilità, perfino il cosmopolitismo), l’intelligenza, la modernità, e naturalmente il peso politico onnipotente – in un’area che ormai da un trentennio vota a sinistra. Il mito della mafia è il solo contributo, non proprio civile, della letteratura di mafia fiorita sulla scia del “Padrino” negli ultimi venti anni, da Biagi a questo “Gomorra”, best-seller di tutti i best-seller. Un film di cui i mafiosi sono volentieri attori e anzi protagonisti.
Saviano lamenta di essere nato nel “luogo con più morti ammazzati d’Europa”. Purtroppo non è vero, anche se la nota dolente è comprensibile, compresa la stessa foto che illustra la copertina. Ma perché si è speso per questo malaffare di più? Napoli è certo ottima location per storie di gangster, per la crudeltà dei napoletani. Ma non è l’unica, Napoli ormai è una scelta: “Gomorra” è l’ennesima cattiva azione dell’editoria milanese contro il Sud e Napoli, poiché il genere “banditi al Sud” è tornato lucroso. In uno dei pezzi meglio costruiti ridicolizza la lavorazione a façon, dei terzisti della moda, che della Napoli industriosa è uno dei pochi spicchi sopravvissuti all'onerosa unità - c'è qualcuno a Milano che ha interesse a delocalizzarla in Turchia, in Brasile, in Cina (a Napoli gli appalti si prendono con aste al ribasso...)? Ma forse è solo il tipico libro di partito, Viareggio incluso - o di corrente, se a p.109 “erano tutti cresciuti nella Napoli del rinascimento, nel percorso nuovo che avrebbe dovuto mutare il destino degli individui”, del Bassolino sindaco da abbattere per chi se ne intende.

Americanisti in campagna, Greenspan giustiziere

Sui maggiori giornali i maggiori americanisti si affanno a spiegare che il famoso sindaco di New York Giuliani non ha fatto un bel nulla contro i criminali. Se la criminalità si è ridotta Giuliani non c’entra. Non dicono però chi c’entra – perché la criminalità si è ridotta: la metropolitana di New York non solo è la più grande del mondo e va ventiquattro ore, è anche la più sicura, che fino a quindici anni fa era sconsigliata. Un americanista dice che la criminalità è scesa grazie al computer. Lo stesso saggista si fa spiegare da un altro esperto: “In criminologia vale una sorta di legge di gravità di Newton, quello che sale scende”. Anche in astrofisica, dopo la notte il giorno, in meteorologia, dopo la pioggia il sole, e in genere nella storia, a volte le cose cambiano.
Gli americanisti si devono essere stancati di spiegare gli eventi, confinati nelle pagine interne. Vorranno avere anch’essi, come i colleghi degli interni e della giudiziaria, l’onore della prima. Forse per questo ne adottano l’arma letale, il “tormentone”. Abbiamo dunque un “Giuliani no pasarà”. Ma è così che si fanno le rivoluzioni: Giuliani non potrà che soccombere al tiro al bersaglio, l’Italia deciderà la presidenza americana.
A fare giustizia nelle presidenziali ci penserà poi Alan Greenspan, con un capitolo anti Bush e per la liberazione dell'Iraq, un capitolo delle sue memorie, che lo stesso giornale del saliscendi pubblica. Senza specificare che Greenspan, presidente della Federal Reserve per quindici anni, è l'autore - materiale, documentario - delle ipoteche multiple e della crisi incombente. Che ha governato per quindici anni la moneta senza governarla, con messagi criptici che non dicevano nulla. Che per dire male di Bush ha preso otto milioni di dollari, solo di anticipo, potenza della letteratura - nel genere del tormentone rientra anche questo, di arruolare tra i giustizieri personaggi sgangherati.

L'ingegnere del Novecento

Fa in allegria il verso a Palazzeschi, dietro la copertina con l’alfabeto fiorito, Walter Pedullà. Dallo scrittore fiorentino facendo originare l’umorismo con cui caratterizza l’ultimo secolo. Con Palazzeschi popolano la raccolta molti affini, alcuni a sorpresa, D’Arrigo, Pasolini, Testori.
Pedullà, decano dei critici del Novecento, fa a suo modo un primo bilancio del secolo. Che pone all’insegna del “diverso”: giocoso, scherzoso, divagante, sempre lieve. A modo suo, a sua volta sorridente: è il libro-summa di un “critico militante”, ma è sua volta inventivo e narrativo. Pieno cioè delle sorprese che una buona narrazione non finisce di riservare al buon lettore. E' egli stesso il Gadda della critica, bonario più che burbero, ma sempre sorprendente, tanto più nell'ordinario, senza artificio.
Palazzeschi si celebra in breve, dopo tanto parlare, col geniale “Titoli di Aldo Palazzeschi”. Gadda vi è protagonista di “Cinquanta domande postume”, intervista immaginaria. Chiude il libro una raccolta di “Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi in merito alla condizione degli italiani e degli umani”, appunti politici, sociologici, di mestiere, nella vena satirica del critico scrittore. Sempre beneficiato dal cortocircuito con si arriva all’incognita, all’epifania, secondo la lezione del maestro Giacomo Debenedetti.
Walter Pedullà, E lasciatemi divertire!, Manni, pp. 278, € 18