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sabato 19 luglio 2014

Il giudice allegro

Messaggio rassicurante postato ieri mattina dal vicecapo dei gip di Milano, il dottor Claudio Castelli: “La Procura, con problemi e difficoltà, funziona e cerca di assicurare quell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge che è la nostra costante funzione. A volte dico scherzosamente che davanti a noi passa ed è passata la storia (spesso criminale) d’Italia. Ed in effetti abbiamo processato dal presidente del consiglio al presidente della Regione, dalla ‘ndrangheta alla mafia, dalle scalate bancarie ai reati tributari”.
Una disinvolta triplice assunzione di responsabilità. Il giudice fa una irrituale difesa di ufficio della Procura prima dell’assoluzione di Berlusconi, quindi ne conosceva già l’esito. Confonde il suo ruolo, di giudice giudicante, con quello dei Procuratori, i giudici inquirenti. Cosa di cui nessuno dubita, ma la legge non lo ammette. Uno su tre degli inquisiti (e condannati con la gogna mediatica) dalla sua Procura, e da lui rinviato a giudizio, è stato assolto al primo dibattimento.
Una “assunzione di responsabilità” se ci fosse una legge. Castelli invece – ma non solo lui – può fare il giudice allegro.

Malata è l’informazione

Non c’è evento che non apra le cateratte della deprecazione. La Germania vince il Mondiale, e povera Italia: lazzarona, scansafatiche, machiavellica, etc.. Renzi va a Bruxelles, e povera Italia: lazzarona etc. Juncker diventa presidente della Commissione Ue, povera Italia. Il corrispondente del “Daily Telegraph” dileggia la ministra Mogherini, e povera Italia. Il corrispondente del “Financial Times” dileggia Roma, povera Roma.
Ora, chi conosce il corrispondente del “Financial Times” alzi la mano. Peggio quello del “Telegraph”. Perché sarebbe istruttivo conoscerli.
Ma il problema non sono i corrispondenti. Ovvero sì: i corrispondenti romani dei giornali britannici e tedeschi sempre hanno dileggiato l’Italia – tutti ambivano a Parigi, o meglio a New York. Mentre quelli italiani a Bruxelles e Berlino non sanno che agganciarsi alle agenzie, che sono anglosassoni. Il problema dunque è dei  corrispondenti. Di un provincialismo analogo, italofobo, tra italiani e stranieri ugualmente cioè provinciali, con lo stesso punching ball. Il fatto di sapere un lingua straniera – e neppure quella per i britannici – non esime, si è provinciali per costituzione: si leggono i corrispondenti a Berlino o Bruxelles dei migliori giornali italiani e si resta senza parole di fronte all’ottusità, quando non è irrilevanza.
Ma non è questo che fa l’informazione, che l’“Economist” o lo “Spiegel” scrivano che l’Italia è mafiosa. Ovvero sì: la pistola sugli spaghetti fa l’opinione perché è corriva a un disegno affaristico. Il disegno affaristico è di arraffare l’arraffabile: da smembrare, rivendere, comunque commerciare, rivalutare, svalutare. Da almeno trent’anni, dalla crociera di Draghi sul “Britannia” ma anche prima, l’Italia è preda delle banche d’affari, per definizione anglosassoni. Che è una maniera solo politicamente corretta di dirne la natura: che è l’affarismo, la speculazione.
È nell’ottica di queste “banche d’affari” che l’Italia è sempre indietro in qualcosa. Che – imbroglio alla duplice o triplice potenza – viene detto “riforma”: l’Italia sempre non ha “fatto le riforme”. Queste riforme piuttosto sarebbero controriforme, poiché hanno solo lo scopo di arricchire gli affaristi. Ma, anche a mettersi nell’ottica dell’affarista, queste “riforme” l’Italia le ha già fatto, prima e più radicalmente di altri. Ha bloccato la spesa pubblica. È dal 1992, quindi da 21 o 22 anni, un record probabilmente mondiale, che l’Italia ha un avanzo primario: spende meno di quanto incassa, al netto degli interessi sul debito. Ha bloccato le pensioni. Ha liberalizzato il mercato del lavoro, già vent’anni fa. E allora, perché si dice il contrario?
Il perché e il come sono semplici. Ogni grande giornale e ogni bravo giornalista si “informano” attraverso i titolari e i consulenti delle banche d’affari. La cui miniera è il settore pubblico italiano. I vari soggetti pubblici, cioè, nei mercati finanziari ai quali affibbiare titoli dubbi a carissimo prezzo – i famosi derivati, grande eufemismo per un miserabile gioco delle tre carte. Le aziende pubbliche da collocare, in tutto o in parte, sui mercati, a carissimo prezzo. O da dividere, spolpare, svalutare, rivalutare, al solo interesse dell’affarista. Nonché, accreditandosi come vati e profeti, gli studi, le analisi, i report, una tantum e periodici, sempre a prezzo esorbitante.
Non si può dire che i giornali e i giornalisti bene informati ne siano succubi per un interesse (Mucchetti e Giannino che criticavano aspramente la Fiat perché non dava l’Alfa Romeo alla Volkswagen), ma per l’informazione sì. E i banchieri d’affari ne sono prodighi: il pettegolezzo finanziario è perfino più maleodorante, se non piccante, di quello delle celebrities.
“Malato d'Europa” può piacere dire lItalia. Ma più dell’Italia è malata l’informazione. Quella che si diletta dell’Italia malata. La quale ha molti problemi, ma non  quelli che i giornali dicono. Dire “i giornali” non è un errore, ed è il punto della questione: che tutta l’informazione economica, quella che si vuole bene informata e fa l’opinione, è gestita dagli affaristi. Che è convenzione chiamare banche di affari.

All’origine di “Jules e Jim”

Una tipologia interminabile di amanti. Maschi, e tutti insoddisfacenti: lo sposato, lo sposato con figli-e, il padre, il padre protettivo, il salvatore, il depresso, il cane da compagnia, quello che va di fretta, il lacrimevole, lo sconosciuto, il divorziato, il poeta. Con un che di personale: un autoritratto, a sbalzo, con pieghe e scorci, tutti compiaciuti, da donna liberata si sarebbe detto. In forma di confessione epistolare. Con un “amore da conversazione”, c’è anche questo tipo, che però potrebbe essere stato anch’egli reale.
Un incanaglimento molto moderato. L’erotismo? “Non posso più sentire questa parola… Tutti se ne riempono la bocca”. Molto Fine Secolo (fine Ottocento). Sullo sfondo, per di più, di una vita di espedienti,dopo il rifiuto del castello avito, ammesso che ci sia stato: debiti, mariti, commerci, amori mercenari, ammesso che siano stati reali. Con tanti lavori di traduzioni in tedesco, questi certi, e un figlio accudito come chioccia gelosa. Anche gli amori sono non del tutto immaginari. Più di tutti Fannie “Franziska” avrebbe voluto amare il filosofo Klages, che elesse padre putativo del figlio. Fece anche un matrimonio di convenienza in Svizzera - se non che la sua parte del patto patrimoniale, una banca, subito dopo l’affare fallì. 
Il personaggio, dunque. Un pizzico esibizionista, che non resiste a fotografarsi sirena nuda, un pizzico patrocinante, un pizzico ingombrante, col pieno di sé occupando ogni altro. Non appetibile, malgrado la disponibilità esibita, anzi proprio per questo. Una donna che dovrebbe essere l’ideale maschile, nel maschilismo del veterofemminismo: desiderabile, facile e non ingombrante - “La mia inesistenza è un tratto davvero bello e altruista”. E invece minacciosissima. La trasgressione coltivando e rivendicando, certamente più che professando, per esibizionismo. Rifiutando, somma ingiuria politica, la “personalità”, i cui “i riformisti” vogliono dotare le donne.
Un incanaglimento non più trasgressivo di una posta del cuore, femminismo compreso. Un utile momento storico, che apre e connota, così come la conclusione del ciclo un secolo dopo, la “verità effettuale”, direbbe Sciascia, del femminismo. Ma una pièce de conversation, un salotto buono di Cederna, di Rodotà, che prende un libro in vece che due pagine.  Come catalogo dongiovannesco rovesciato è più farticoso che alluzzante – don Giovanni mai si vanta.
Una introduzione – con supertraduzione, fedele e scorrevole - di Rita Calabrese è il solo aspetto romanzesco della pubblicazione. Il corrispondente che la scrittrice si erige a confessore, il .”Dottore”, può essere il filosofo Klages, oppure lo scrittore Franz.Hessel. Con Hessel Franziska aveva convissuto i primi tempi a Monaco dopo l’abbandono del castello di famiglia ai 21 anni, insieme col pittore Bohdan von Suchocki, in un rapporto dichiaratamente a tre. Hessel sarà scrittore più famoso, amico di Benjamin, che di più s’immortalerà in Francia, con una nuova convivenza a tre, con la moglie Hélène Grund, pittrice, e lo scrittore Henri Pierre Roché. Il quale sarà l’autore di “Jules e Jim”, il romanzo da cui Truffaut ha tratto il film. Il figlio Stèphane Hessel, morto quasi centenario l’anno scorso, ricorderà in vari scritti queste parentele, e sarà l’autore di “Indignatevi!”- “il meglio della cultura tedesca” (?), dice Calabrese.
Franziska zu Reventlow, Piccoli amori, Elliot, pp. 119 € 14,50

venerdì 18 luglio 2014

Il mondo com'è (181)

astolfo

Aspettative – Dominano il mercato, il mercato politico, specie europeo e intra-europeo, e la comunicazione, e anche la psicologia. Le cosiddette “reazioni kaleckiane”, ipotizzate da Michael Kalecki, 1943, nel saggio ‘Political Aspects of Full Employment”, che legano le decisioni degli investitori al grado di fiducia che essi nutrono per le politiche. Diventano dominanti nel momento in cui invece si manifestano labili e pregiudiziate: la crisi in corso ormai da sette anni non ha avuto altre cause che le aspettative erronee indotte dallo stesso mercato – non le cause di fatto che movimentano il ciclo: consumi, prezzi, produzione.

Crisi – L’ha provocata il “mercato”, ma la cosa è dimenticata e la si imputa, se ne imputa la persistenza, ai freni che sarebbe stati imposti al mercato.
In passato a lungo se ne è data la colpa, specie nella grande Recessione, al mercato: all’avventurismo, alla speculazione. Mentre in quella in corso, ormai da sette anni, se ne dà la colpa ai governi, quasi ne fossero all’origine, e comunque per essere incapaci di contrastarla. La speculazione che la provocò, delle grandi banche, è dimenticata o trascurata. I nuovi e più prudenti regolamenti delle transazioni, con al centro il Financial Stability Board, di cui è stato primo animatore Mario Draghi, sono stati abbandonati come censori o vessatori. E si fomenta l’opinione che la crisi perdura per una mancanza di fiducia. Non dei consumatori o piccoli risparmiatori, ma dei giganti della finanza nei riguardi degli Stati e delle loro politiche: le “reazioni kaleckiane” (M.Kalecki, 1943,“‘Political Aspects of Full Employment”) o aspettative degli investitori, sono deboli o negative perché gli Stati non danno affidamento. Non della stabilità del guadagno, evidentemente, ma delle “aspettative di guadagno”.  

Debito – Gli Stati lo hanno moltiplicato a partire dal 2007 e lo moltiplicano in favore del mercato.
È il senso della crisi e probabilmente il nodo che ne impedisce una soluzione.
Nella prima fare del mercato, da Thatcher-Reagan al 2007, gli Stati s’indebitavano per motivi politici, per finanziare comunque alcuni servizi pubblici essenziali. Nel 2007 si sono super-indebitati per salvare  le banche e i mercati, la speculazione. Habermas, “Nella spirale tecnocratica”, p. 72, dice il debito speculare al mercato: “L’onda lunga del crescente indebitamento statale può essere letta come l’altra faccia delle restrizioni che il neoliberismo ha imposto alla libertà d’azione degli Stati nazionali”.

Decadenza  - È curioso che l’Europa discuta della Mogherini mentre ha due guerre alle porte, con centinaia di morti. È curioso anche che faccia finta di nulla quando, a giorni alterni, nel canale di Sicilia si ripescano decine di cadaveri di africani o asiatici morti nei barconi. È curioso che Renzi e i media cinguettino con Grillo, ogni giorno per lunghe paginate, senza nemmeno sapere su cosa, mentre l’Italia è in recessione da quattro anni ormai. O che il ministro tedesco del Tesoro, invece di stare zitto e cauto come sempre fanno i ministri del Tesoro, faccia ogni settimana le pagelle all’Italia. Non sono novità, non è da ora che la finis Europae è in cammino. Ma c’è una notevole resistenza, insieme alla costanza, nella decadenza: i fatti e i segni si accumulano della decadenza, senza eccezioni e senza intervalli, ma la morte tarda ad arrivare. Per una sorta  di auto accanimento terapeutico. Magari non voluto, ma nei fatti.
Santo Mazzarino, l’antichista, lo aveva rilevato nella lunga decadenza di Roma: tutti scappavano, ma le mura reggevano.  Colpi inferti dall’esterno e dall’interno all’impero si accumulavano senza mai un segno inverso. La coscienza della decadenza contribuiva anch’essa, per una sorta di accumulo psicologico. E tuttavia l’impero non crollava.

Imperialismo – “Le oche si vantavano con le galline perché le loro antenate avevano salvato Roma dando l’allarme dal Campidoglio quando i galli avevano tentato di entrare dalle mura. Una gallina disse che se al posto delle oche ci fossero state le galline forse li avrebbero fatti entrare e così Roma, conquistata dai galli, sarebbe stata il più grande pollaio del mondo”. È uno degli apologhi per ridere di Luigi Malerba, “Le galline pensierose”. Ma c’è alcunché di inspiegato, se non casuale, nell’imperialismo. Nella logica dell’imperialismo non solo, che è un affare sempre in perdita, di uomini e di risorse economiche - ne profitta o alcuni ma a spese del proprio paese
L’imperialismo è avventura, anzitutto, e spirito di conquista: ferocia. È anche organizzazione. Ma poi non si spiega perché la Germania, che ha tutto per essere la padrona dell’Europa, centralità, popolazione, dall’Islanda al Po, organizzazione, e un’opinione sicuramente imperiale (superiorità), non ci riesca. Mentre gli anglosassoni, recalcitranti, provinciali, pasticcioni, dominino il mondo da un paio di secoli almeno, dall’Elba o da Waterloo.   

Pubblico-privato – La privatizzazione delle funzioni pubbliche, della stessa Pubblica Amministrazione (Luigi Mazzella, “Euro crash”), in favore delle Aurorità e del mercato,  e dei servizi pubblici in favore di convenzioni private, del terzo settore, del volontariato, trova una base ideologica, se non un precedente in von Hayek. Che da ultimo, una quarantina d’anni fa, spinse il suo liberalismo fino all’abolizione della democrazia in favore del libero mercato e del libero gioco delle libertà. Non propriamente della democrazia, ma della sua sostanza: della funzione pubblica come espressa dai governi e dai parlamenti, sia pure elettivi.
L’apparenza sembra andare in senso opposto. L’Europa, per esempio, oggi è governata da una burocrazia non elettiva, dalla Commissione alla Corte di Giustizia. E tuttavia è vero il contrario: sono burocrazie la cui costituency è il mercato. Cioè le forze private (aziende, gruppi d’interesse, gruppi di pressione) che perseguono un interesse di parte e limitato. Si dovrebbe dire che il liberalismo si realizza nella burocrazia, nei poteri non elettivi e non controllabili?

Risentimento – Si guardano i videoappelli dei redattori dell’“Unità” contro la chiusura del giornale con sgomento più che compassione.  Per il risentimento che malgrado tutto esprimono , anche nell’appello ai buoni sentimenti, Tanto più per venire dopo le celebrazioni di Berlinguer, che del risentimento fu ed è l’ispiratore. Non un’autocritica. Neppure ironica, scherzosa. Mai neppure un’idea, una proposta politica, di governo, di idee, che dia un fondamento alla pretese di dover esserci. Dopo aver distrutto in venticinque anni l’università, la giustizia, il Parlamento, i giornali, da troppo tempo a loro affidati dai furbi padroni, e il partito. Soli, oggi, sotto i sarcasmi di Santanché e  Ferrario. Gente limitata, si potrebbe pensare, poiché non ha capto e non capisce, Ma si pretende giudice del mondo,pur avendo vissuto alcuni dei peggiori pateracchi della storia.

astolfo@antiit.eu

La poesia non salvó Melville

“Annichilito”, come disse a Hawthorne, dalla certezza che con i romanzi e i racconti non ce l’avrebbe mai fatta, dopo l’insuccesso di “The Confidence Man”, 1857, e prima di rinunciare impiegandosi alla Dogana di New York, dal 1866 al 1885, Melville provò per un quinquennio con la poesia. Erano gli anni della guerra civile, e esordì con una raccolta “Battle-Pieces”, su cui Roberto Mussapi ha costruito questa antologia. Integrandola con la nostalgia del mare del tardo poema “John Marr”.
Si capisce che le speranze di Melville fossero mal riposte. L’antologia si segnala per “The Martyr”, l’elegia (“the passion of the people”) in morte di Lincoln, “ucciso alle spalle”, “nel suo rigoglio di clemenza e calma”.  “Bursting” è il fonema più ricorrente, scoppiare. Ma anche nella guerra civile il mare in Melville non è assente – è il trademark.
Un’edizione tal quale, senza sostegni: nomi, luoghi, date, eventi, contesti. E un’antologia modesta. Ma un caso da manuale di traduzione creativa: l’originale e la traduzione sono due poesie diverse, di due poeti anche diversi. Conciso, conchiuso (rime, assonanze, allitterazioni, echi, anglicamente monosillabico), quasi rassegnato Melville, combattivo, polemico, incitatorio Mussapi – in un caso, “The manof-war-hawk”, è l’inverso.
Herman Melville, Poesie di guerra e di mare, Oscar,  remainders, pp. 129 € 5 

giovedì 17 luglio 2014

Juventus dopo Fiat, la minaccia famiglia

Andrea Agnelli caccia Del Piero perché lo immagina presidente della Juventus al suo posto. L’Avvocato si tenne Boniperti - che come Del Piero aveva un grande richiamo, un mercato - per questo ruolo, ma i nipoti non sanno nemmeno concepire una cosa del genere. Poi lo stesso Agnelli caccia Conte, che gli ha fatto vincere tre scudetti, scusandosi col dire “ci vogliamo tanto bene”, perché gli faceva ombra. Un altro che ha grande mercato di opinione (di pubblicità), forse più di Del Piero. Due decisioni che intaccano gravemente il capitale e in una qualsiasi azienda lo avrebbe bruciato. In aggiunta a un bilancio sempre in rosso malgrado una ingente ricapitalizzazione, un patrimonio potenzialmente ricchissimo nello stadio di proprietà ereditato dalle passate gestioni, e i successi che Conte gli ha assicurato. Invece resta a capo dell’azienda, perché gode della fiducia dei proprietari, la sua Famiglia, la famiglia Agnelli.
Denudato del mito dell’Avvocato, il capitalismo familiare si conferma anche a Torino per quello che è: una minaccia per il mercato. Come già i Tanzi, i Riva, i De Benedetti, e una serie inverosimile di casi minori, con  miriadi di aziende floride svendute dai figli come eredità personale piuttosto che come bene in gestione. Nel caso della Juventus i danni possono essere per i tifosi, e quindi nessun danno: morta una squadra se ne fa un’altra. Ma, seppure in piccolo, anche in questo caso c’è un problema di governo aziendale. La Juventus è in Borsa e ha un discreto numero di azionisti. I quali non possono decidere niente: il controllo è saldamente della Famiglia Agnelli. Nel caso del conglomerato Fiat i rischi invece sono enormi.
Pagare il dividendo
L’azienda torinese ha rischiato di scomparire sotto la gestione disinvolta dell’Avvocato, che l’ha trasformata da primaria casa automobilistica in conglomerato diversificato. Capace di fare tutto e niente, a condizione di pagare ogni anno il dividendo. Pagare il dividendo è obbligatorio per un’azienda, è indice di buona salute, ma a condizione di lavorarselo, di produrselo migliorando la produttività e il mercato. La cosmesi contabile, al contrario, è un brutto segno.
La Fiat è stata salvata all’ultimo minuto utile per il casuale arrivo al suo vertice di Marchionne, il gestore finanziario che doveva appunto liquidarla e invece l’ha rilanciata. Marchionne non è che un manager. Come salvatore, può fare tutto da solo, ma fino a quando? Non ha Andrea Agnelli sul capo, ha i suoi cugini Elkann, ma con quali garanzie, che hanno fatto gli Elkann di buono?  A differenza ancora dalla Juventus, la Fiat-Chrysler è posseduta dalla Famiglia con una partecipazione ampiamente minoritaria, forse il 25 per cento.
Un aspetto non minore del rischio Famiglia riguarda l’informazione. “Gazzetta dello Sport” e “Corriere della sera” sono accorsi in aiuto dell’incredibile Agnelli nella vicenda Juventus, arrivando a insinuare comportamenti scorretti di Conte – che rimane a spasso - invece che della proprietà. Lodatissima: “La scelta fulminea di Andrea Agnelli (assumere un allenatore appena licenziato dal Milan, n.d.r.) è stata opportuna, coraggiosa e moderna”, scrive la “Gazzetta dello Sport”. Perché la Famiglia ha messo i soldi per il salvataggio del gruppo editoriale dei due giornali? Soldi veri, a differenza di altri dichiaratori onesti, che quindi non si saprebbe non apprezzare. Ma a che prezzo?

Anche il monoteismo è politeista

Anche monoteismo, la parola, viene con un significato negativo per la vera fede: di chi crede che Dio sia il mondo. Come dire: monoteista è l’ateo. E dunque Bettini si diverte con le definizioni e attribuzioni, il lettore meno, poiché a nessun costrutto. Tanto più che il politeismo è anche della chiesa di Roma, a leggere il “Catechismo” come lo legge Bettini. Un esercizio circolare in filologia – per attestarne la superfluità?
Programmaticamente sì, ideologicamente, ma di fatto ci sono più connessioni che cesure fra i politeismi e i monoteismi, con tutti i loro angeli, diavoli, ginn, santi, madonne. La Madonna in particolare, si sa, che in molte rappresentazioni ripete tal qual antiche divinità, immagini o idee del divino, l’accoglienza, la madre terra (fertilità), il melograno (fertilità), il bambino esposto, perfino la polimastia, la promessa, la consolazione. Bettini stesso del resto lo dice: politeismo, paganesimo, idolatria sono denominazioni avversative, posticce. Né l’intolleranza è monoteista. Era già romana, con le restrizioni e le persecuzioni ai culti di Iside, Serapide, Bellona, e ai Bacchanalia. I cristiani furono perseguitati perché la tradizione era di controllo politico dei culti, e quindi di intolleranza. 
L’unico problema resta quello da cui Bettini muove, e che lo rianima nel corso della trattazione: se fare il presepe in una classe interculturale, di bambini italiani e di altre lingue. Di cui gli sfugge la sostanza: che non è la religione – che se ne fa la chiesa, una qualsiasi confessione, del presepe (come di Babbo Natale – san Nicola? -  o dell’albero)? È una festa e una tradizione. Una festa della tradizione, una delle tante che celebriamo per riconoscerci e rigenerarci. O dobbiamo cancellarci? La filologia dissecca? E che ne direbbero gli immigrati se non ci trovassero?
Curiosi i sottintesi. Se dobbiamo cancellarci, che cosa offriamo ai poveri immigrati che hanno riparato da noi per stare meglio? E perché gli immigrati dovrebbero essere poveri e disadattati? Bettini ha mai frequentato una famiglia di islamici, di indù, di sikh, di yoruba? Un filologo non dovrebbe avere problemi a riscontrare le scorrettezza, a volte gravi, del politicamente corretto, delle buone intenzioni, degli autoeletti belli-e-buoni della Repubblica  
Maurizio Bettini, Elogio del politeismo, il Mulino, pp. 155 € 12

Problemi di base - 190

spock

Anche il papa, dunque, è un pentito?

Si pentono tutti, e dunque anche il papa, ma non dovrebbero prima confessarsi?

E Francesco, il santo, parlava anche lui in continuazione? Lui spesso stava male

Qualche criminale si pente, i giudici mai, perché?

Il Senato si fa seimila emendamenti, per cancellarsi meglio?

Questo Nibali che vince al Tour, è italiano, o di Messina?

È Messi che ha fatto grande Guardiola, o Guardiola Messi?

Miglior atleta del Mondiale di Brasile è Messi oppure Adidas, che è sponsor della Fifa e di Messi?

spock@antiit.eu 

mercoledì 16 luglio 2014

Quando l’Italia abbatté l’Urss con gli euromissili

Il 7 agosto 1981, c’era da qualche giorno il governo Spadolini, il Tg 1 aprì alle 20 con la notizia che l’Italia avrebbe schierato gli euromissili a Comiso, “in Sardegna” – corredavano la notizia immagini di greggi e pastori. Ma era l’esito di una decisione, avviata due anni prima, giorno più giorno meno, con la costituzione di un apposito governo, voluto da Pertini per decantare il  compromesso storico dopo la sconfitta elettorale di Berlinguer. E preparare il ritorno al centrosinistra, col Psi, che sarà fatale all’Urss, prima e più di Solidarnosc e del papa Giovanni Paolo II.  Un ritorno che si fece a dicembre del 1989, col secondo governo Cossiga, Dc-Psi -Pri, che sarà detto “il più a sinistra” della Prima Repubblica. Col compito questa volta dichiarato di fare da battistrada all’Europa nello schieramento degli euromissili.
Un lapsus più che un errore, quello del Tg 1: un riferimento indiretto a Cossiga, l’allora presidente del consiglio, che gli euromissili aveva negoziato ed era sardo. I mesi successivi al varo del suo primo governo, Cossiga li aveva dedicati, d’accordo con Pertini, a convincere gli europei della Nato ad accettare gli euromissili. Ottenendo la disponibilità dell’Olanda e del cancelliere tedesco Schmidt, socialista, ma a condizione che l’Italia per prima accettasse di schierarli.
La questione degli euromissili era stata creata dall’Urss, che aveva schierato l’arsenale nucleare in Europa, nei paesi satelliti. Gli Stati Uniti, Kissinger prima poi Reagan, decisero di reciprocare per contrastare la minaccia sovietica, schierando i missili a maggiore potenza e più lunga gittata nei paesi europei. Che però nicchiavano, prima della decisione italiana. Mosca non reggerà la sfida sugli euromissili, malgrado una serie affrettata di cambi di regime, quattro capi di Stato e di Partito in quattro anni, da Breznev a Cernenko, Andropov e infine Gorbaciov, che nella sostanza si arrenderà.
Saranno gli euromissili a isolare il Pci, prima e con più chiarezza che la “questione morale” – che Berlinguer adotterà su impulso del partito dei “tecnici”. Berlinguer, ma anche Napolitano, faranno dell’opposizione agli euromissili la campagna più impegnativa, e anche radicale, del Pci negli anni 1979-1983. Con più veemenza che la stessa Mosca. Facendo di Craxi la bestia nera. Proprio Craxi che, nel Psi chiamato a pronunciarsi sulla questione nel marzo-aprile del 1980, aveva tergiversato a lungo, per non isolare il Pci e per non contribuire al riarmo. Convincendosi alla fine a un sì condizionato: sì agli euromissili Nato se l’Urss non smantellava i suoi.

La libertà di diffamazione

Il “Corriere della sera” affida a Caterina Malavenda, avvocato, la difesa delle intercettazioni, sulla base del diritto all’informazione. Affidare la libertà d’informazione a un avvocato scredita di per sé la questione – più intercettazioni, più diffamazioni, più cause. Ma peggio sono le argomentazioni dell’avvocato, che si riducono a una sola: una pronuncia della Corte Europea, peraltro mal citata, contro un Tribunale svizzero reo di aver con dannato un giornalista per la divulgazione di atti secretati in un “grave incidente”. Mentre i problemi sono altri.
Uno è l’eccesso di intercettazioni in Italia. Sia come numero, sia come uso. Anche quelle autorizzate, dall’autorità giudiziaria, e a fini giudiziari, sono tre e quattro volte più del necessario. Ma molte se ne fanno abusive, a opera degli stessi intercettatori ufficiali. Tutte poi, è il secondo problema, in qualche modo “vendute”, quelle interessanti. Ogni cronista giudiziario, che più spesso è donna, ha le sue fonti confidenziali, o presso le polizie inquirenti, o presso le Procure e i Tribunali, dagli uscieri ai cancellieri e ai giudici. Quanti verbali di intercettazioni non sono stati pubblicati, con le virgole, prima del deposito? 
È un  segreto solo per i giornali che c’è un mercato delle intercettazioni. I giornali del resto ci vivono, seppure non ci prosperano: è l’unica parte “viva” del giornalismo da troppi anni in qua. 
Non c’è stato nessun caso “Sun” in Italia ma giusto per la forma. Nella sostanza sono la stessa cosa, solo con costi minori per lo scandalismo – nel caso del “Sun” era Murdoch a pagare le intercettazioni, qui paga lo Stato. Con l’autorità giudiziaria (polizie giudiziarie, Procure della Repubblica) al posto dei giornalisti del “Sun”. Le intercettazioni non sono disposte dai cronisti ma dalle loro “fonti” autorizzate. Sono legali, ma non sempre a fini di prevenzione o punizione di un reato. Benché coperte - esse sì segrete - dal rapporto confidenziale a due, sono in troppi casi scandalistiche.
L’avvocato naturalmente fa valere che il codice proibisce la diffamazione. Ma solo con molta ipocrisia (si fa pure forte della “autorità” del Garante della privacy): non ci si difende dalla diffamazione. E comunque non ci sono condanne per diffamazione - non condanne “tecniche”, solo, qualche volta, politiche, di parte. Mentre ci sono stati molti  morti apparenti per la libertà di diffamare, persone finite psicologicamente e socialmente, e molti suicidi poi innocentati.

Berlusconi deve cuocere a fuoco lento

E se le sentenze politiche a Milano fossero scritte, tra la Procura e  il Tribunale? Si chiedeva questo sito lunedì, a proposito della singolare preveggenza del “Sole 24 Ore” in materia di condanne e di post-condanne a Berlusconi, se fosse un caso di “profetismo”. Può essere. Ma restando tra di noi è un caso di cammino giudiziario pre-scritto, a prescindere dal dibattimento, tra la Procura e il Tribunale, tra Bruti Liberati e Tarantola. Non tutto il Tribunale è allineato, anzi tra i giudici prevalgono i sentimenti ostili alla Procura, per i privilegi di cui gode, ma la Procura sa manovrare i processi verso collegi giudicanti in linea, soprattutto il nucleo di donne molto di sacrestia come il giudice valtellinese. 
È un iter in un certo senso normale, non scandaloso. Una volta accertato che si facciano processi politici. Come è accertato e anzi professato dai giudici in questione. Bruti Liberati assegna i procedimenti ai sostituti Procuratori di sua fiducia, togliendoli al giudici naturali - e in tale gravissimo abuso è protetto dal presidente dalla Repubblica Napolitano. Tarantola è il giudice del processo Cusani, che inflisse pene doppie rispetto alle richieste dell’accusa, e impiantò, d’accordo con l’allora Procuratore Borrelli, il processo al partito  Socialista e a Craxi. Più politici di così: l’uno ex Pci, l’altro di sacrestia.
L’unica novità è che Borrelli e Bruti Liberati, pur essendo della stessa scuola giuridica, quella napoletana, del giudice sovrano, sono di affiliazioni politiche differenti, un andreottiano e un ex Pci. BrutiLiberati, e in questo senso si sente l’influsso di Napolitano, non vuole fare di Berlusconi un “martire”, come Borrelli cinicamente andreottiano fece di Craxi, ma lasciarlo cuocere a fuoco lento.
Non è normale, nemmeno in Italia, che si facciano processi politici. Ma questo non possiamo rimproverarlo a Bruti Liberati né a Tarantola, che sempre li hanno fatti senza camuffarsi. 

Un altro mondo, la Londra di Harry Potter

La sorpresa maggiore è che l’autore è l’autrice di Harry Potter, J.K.Rowling – Joanne “jo” Kathkeen. La migliore è che la voluminosa storia si legge con appetito, con personaggi di spessore, in ambienti a rilievo, tra i quali la suspense resta tesa. Tra groupies anni Sessanta, con molti figli di più padri, celebrities di pura vanità, appiccicosa, modelle belle e tristi, le guerre ultimamente remote, in Afghanistan e altrove, e i paparazzi ovunque. Il mondo del “Sun” e del “News of the World”, di cui in Italia non si è avvertita l’infezione – Murdoch in Italia è di sinistra. Ma senza effetti speciali, tutti solo strafatti, tra un centro di disintossicazione all’altro, in una Londra multirazziale, glamour, solitaria, lussuosa, sporca.
Il plot è di astii familiari, che sempre sono tragici: la vittima fuori scena, la supermodella Lula, è un’altra Antigone. I capitoli s’introducono con citazioni latine, di Virglio, Plinio il Vecchio, Orazio, Boezio, Accio, tutte pertinenti.
Un altro mondo, di scrittura, di editoria.
Robert Galbraith, Il richiamo del cuculo, la Repubblica-l’Epresso, pp. 525 € 7,90

martedì 15 luglio 2014

Verso un prestito forzoso

Non ci sarà, forse, la “manovra” di agosto, ma ci dovrà essere un prestito forzoso per tagliare il debito. E tanto prima tanto meglio. Siamo già in ritardo di dodici anni.
Per orgoglio o incoscienza fu evitato dopo Maastricht e prima dell’entrata in vigore dell’euro il consolidamento previo del debito italiano. Un fardello altrimenti schiacciante, se ancorato a una moneta “estera” a cambio fisso Ora si comincia a ridiscuterne, ma come se si navigasse nel vuoto. Mentre i “come” si sanno, e da tempo sono discussi – anche in questi post, i più letti del sito:

A questo punto un prestito forzoso è l’unica via d’uscita. Non facile da attuare oggi, dopo il governo Monti, che ha eroso e sconvolto la rendita urbana, alla quale il Tesoro avrebbe potuto attingere in misura quasi indolore. Monti l’ha praticamente dissolta, insieme col ciclo immobiliare a essa collegata, nella idrovora fiscale, dei Comuni e gli altri enti locali parassitari. Uno spreco incommensurabile. Ma la “casa” potrebbe sicuramente sopportare un altro sacrificio, insieme con i capitali, se esso liberasse il mercato dell’ombra dissolvente del debito.  

Appesi da Ciampi e Draghi all’euromarco

Aumentano le tasse, la spesa si taglia, aumenta il debito. Non c’è logica? Certo che c’è, non si può dire ma c’è: non si può ridurre un debito ancorato a una moneta estera, a cambio fisso, si può solo fallire. Come è successo ultimamente a Argentina, Messico, Russia, e altri minori. La Grecia e il Portogallo lo hanno evitato, ma sarebbe stato meglio, ritengono ora, se fossero falliti: una parte del debito non l’avrebbero pagato, una parte l’avrebbero consolidata a scadenze lunghe, e ora sarebbero stati liberi al decollo, invece che sotto inamovibile jugulazione.
L’euro è l’euromarco, una moneta estera. L’Italia, che si era dato l’euro come traguardo e insieme come criterio di politica monetaria, sotto la regia flessibile di Paolo Baffi, vi è approdata col criterio sbagliato di Ciampi e Draghi, del vincolo esterno inamovibile. Sottomettendosi alla Germania e alla Bundesbank ben oltre le loro lecite aspettative
Rileggendo le clausole di Maastricht e dell’euro si resta stupefatti come esse ricalchino le più indifendibili idiosincrasie della Bundesbank. Compreso l’euro a due marchi invece che a uno,  che ha raddoppiato d’un colpo il livello dei prezzi, e ha fatto balzare l’euro da 0, 85 a 1,40 sul dollaro. Mettendo fuori mercato globale la Ue. A meno di non stroncare il costo del lavoro e le retribuzioni, come ha fatto la Germania nel 2006, a fronte di una disoccupazione mai inferiore ai quattro milioni di lavoratori.

Fu Prodi a volere l’Europa germanica

Sommerso dall’euroscetticismo, il decennale del raddoppio dell’Ue è passato inosservato, due mesi fa. Ma vale ancora quanto se ne poteva scrivere all’epoca:
“E dunque abbiamo infine, come forse doveva essere per la geografia, se non dei corsi e ricorsi storici, un’Europa germanica. In un colpo solo entrano nella Ue otto paesi solidamente “tedeschi”: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia – più Malta e Cipro, per la solita copertura mediterranea. Ai quali si aggiungeranno tra un paio d’anni altri due satelliti di Berlino, Romania e Bulgaria. Con Austria, Finlandia, Olanda, Belgio fiammingo, Liechtenstein, e anche, alla fine, la Svezia e la Danimarca, l’Europa è ora solidamente germanica.
“Questo esito è forse inevitabile, ma non lo era subito. E nel tempo avrebbe potuto essere regolato da contrappesi. Né si può eccepire, poiché è stata ed è l’Italia, con Prodi a Bruxelles e la presidenza italiana di turno dell’Unione, ad avere accelerato il processo. Per la solita retorica europeistica? Non innocente, però: il ministero degli Esteri, la Confindustria e molti economisti sanno bene di che si tratta. Tanto più che il resto dell’Europa è vincolato a Berlino dall’euro – a tutti gli effetti una sorta di moneta straniera, a cui ciascuno è legato da un cambio fisso, senza più alcuna flessibilità (possibilità di riequilibrio del cambio sulla base delle partite correnti con gli stessi paesi estero-europei).
“I nuovi accessi sono inoltre cento milioni di consumatori prevalentemente di merci tedesche. E un mercato di lavoro, manuale e qualificato, legato più alla Germania, per fattori storici, geografici e linguistici, che a qualsiasi altro investitore europeo. La delocalizzazione si può fare ora in Germania in territori che sono a tutti gli effetti pratici (trasporti, comunicazioni, marketing) tedeschi, anche se di diversa madrepatria. Come mercati e anche come potere dissuasivo: la delocalizzazione, ora che è un fatto semplice, può definitivamente scardinare il mercato del lavoro in Germania. Peraltro ingessato tra una protezione sindacale robusta, e cinque milioni, poco meno, di disoccupati (che in Germania sono reali, non coperti dal lavoro nero)”..

Il romanzo di Berlinguer

Verso la fine c’è un aneddoto promettente: “All’asilo di mio figlio un bambino ha detto che era arrivato tardi perché i taxi non c’erano a causa di un uomo cattivo che si chiama Berlusconi”. I bambini all’asilo in taxi non è male. Ma il programma è un altro, la celebrazione di Berlinguer.
Piccolo e il premio Strega vogliono il libro un romanzo, ma è atto di fede, in Berlinguer naturalmente e contro Berlusconi, nelle “magnifiche sorti e progressive”. La prima parte, molto lunga, si chiama “La vita pura: io e Berlinguer”, la seconda “La vita impura: io e Berlusconi”. Leopardianamente: accontentandosi. Da un punto di vista, direbbe l’ex papa Ratzinger, “relativista”: il comunista puro si sposa Chesaramai, e a lei si adegua. Non alla leggerezza, ormai calviniana e quindi impegnativa, ma alla superficialità, quasi saviniana. Quasi: se Savinio cioè fosse stato morso dalla politica, come in fondo lo è Piccolo, lui che era contro il profondismo, e se Piccolo si fosse attenuto alla sua cifra, che è l’ironia.
Invece il libro è più di testa che di cuore, nella chiave autofictiva imperversante - ci manca solo che Piccolo ci si descriva al cesso (o questo cè già?). E anche sciatto, una lunga lettura di giornale. A spese di Berlusconi naturalmente, con cui pure Piccolo fa affari, di cinema e di edizione, ma anche dello stesso Berlinguer, una controfigura e una macchietta. Col corredo, niente sorprese, di tutte le cose che sappiamo, non ne manca una. Il figlio comunista di un padre fascista. Il rapimento Moro. Le monetine a Craxi. Tutto per il verso “giusto”, cioè scontato, secondo il vecchio copione.
Uno si aspetterebbe che Moro venisse fatto rivivere per la “geometrica potenza” dell’agguato, o per la successiva condanna a morte, di amici e familiari senza testa. A Caserta i Piccolo abitano accanto al carcere femminile, ma la cosa non è di rilievo – la cosa si segnala quando ci finisce Sofia Loren.  C’è il referendum contro la riforma della scala mobile, piatto – “mi portò a identificarmi in modo totale con Berlinguer”. A meno che non sia ironico. Come si subodora del “Caimano” di Moretti, a cui Piccolo lavora per un anno e mezzo, con mille letture, indagini e discussioni, per poi segnalare l’anticlimax (Moretti lo chiama “cortocircuito”) del Caimano che incita alla ribellione con la faccia di Moretti. O, nel pieno del libello contro Berlusconi, dire la sinistra “la parte più reazionaria del Paese”, tarata dalla “superiorità morale”. Sembra un’illuminazione sulla via di Damasco, a proposito della berlingueriana “diversità”, o “alternativa democratica”: “L’idea di respingere un’epoca intera a causa di Berlusconi, derivava dall’idea di respingere un’epoca intera a causa di Craxi”, un’imbecillità. Ma Piccolo non cade da cavallo.
Si fa premio Strega peraltro, e si arriva all’ultima pagina, contro tre controindicazioni. È parte del revival Berlinguer, per il trentennale e come addio al Pci (il TUTTI del titolo è quello, anche nella grafica e nel colore, de “l’Unità” per il funerale di Berlinguer), nel momento in cui i “comunisti” (“perché sono comunista” è il tema di Piccolo) diventano renziani, che pure dovrebbe essere peggio di “craxiani”. Piccolo è scrittore satirico, e il lettore è portato a considerare l’atto di fede una presa per il culo, come lui scriverebbe, un’abiura, un’apostasia segreta. Il libro è stato pubblicato e portato allo Strega da Einaudi, cioè da Berlusconi. Non da lui personalmente, dalla sua organizzazione – che bravo.
“Il mio romanzo piace perché non è snob”, dice Piccolo. A Berlinguer alludendo, e allo stesso Berlusconi benché sempre vivo nei tribunali, come a un piccolo mondo antico. Però, vivendo i due, in un “romanzo” si può, Berlinguer avrebbe pubblicato e fatto votare allo Strega un’apologia di Berlusconi? Che c’entra, è la risposta, Berlinguer è una persona per bene. Ma non è la sola differenza, o anche la libertà di stampa e d’opinione è cosa morta? La risposta risolutiva è che è il commercio. Ma allora è come diceva Constant, che il commercio è meglio della guerra. Con la subordinata che il borghese ne sa più del militante – è più furbo ma anche più intelligente, ne capisce di più.
Una generazione prima di Piccolo, il lettore ricorda anche che il Pci si era specializzato nei funerali, da Malaparte a Pasolini. Specialità gesuita, aveva denunciato l’abate Gioberti un secolo prima. Il culto dei morti non può che apprezzarsi, ma l’accostamento è pruriginoso.
Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come TUTTI, Einaudi, pp. 264  € 18  



lunedì 14 luglio 2014

Perché vince la Germania

Un asciutto saggio sul dare e avere della Germania nell’euro. Il “deutsche Michel”, il tedesco della strada, si sente defraudato, derubato. Dai latini, mediterranei, europei in genere – non, curiosamente, dagli slavi, che sempre nella storia aveva ritenuto parassitari e banditi di passo, ma che ora marciano volenterosi con Berlino, dalla Slovenia alla Polonia. Non è una novità, ma ora è un fatto politico. Offe smonta l’argomento politico con tre considerazioni, tutte economiche.
La Germania non può rifiutarsi agli obblighi della solidarietà europea perché è il paese che ha tratto dall’integrazione i benefici maggiori, e le esportazioni lo attestano. Con questo “eccesso d esportazioni” la Germania ha acuito i problemi economici di molti paesi europei. È cioè essa stessa in parte causa del problema. Il terzo argomento è lo spread, cioè un “vantaggio comparato” (di cui estesamente in “Gentile Germania”): la crisi favorisce la Germania, che paga interessi sul suo debito in calo - e in termini reali negativi, va aggiunto - proprio perché altri paesi devono pagare interessi sempre più elevati.
Claus Offe, Europa in der Falle, “Blätter für deutsche und internationale Politik”, 1\2013, pp. 67-80 

Ombre - 228

Aumentano le tasse, la spesa si taglia, aumenta il debito. Non c’è logica? Cioè, i giornali non ce la dicono ma è o ovvio che c’è: non si può ridurre un debito ancorato a una moneta estera, a cambio fisso, si può solo fallire. Come è successo ultimamente a Argentina, Messico, Russia, e altri minori. L’euro è l’euromarco, una moneta estera.

Niente nazionalismo tedesco, assicurano i grandi giornali, a Rio. Solo che a premiare i vincitori tedeschi c’erano, per la prima volta nella storia, dall’Olimpiade del 1936, il presidente della Repubblica Federale e la cancelliera, tedeschi. Le cerimonia non era più sportiva,o quello tedesco è un nazionalismo sportivo?

Rizzoli ha arbitrato benissimo la finale del Mondiale, commenta Paolo Casarin. Concludendo: “Ha fischiato un fallo che non c’era dell’ attaccante argentino (Higuaín) sul portiere Neuer”. Cioè: Neuer ha fatto un doppio fallo, uno su Higuaín, e uno coi pugni, e forse coi piedi, fuori dell’area – che tutti hanno visto, anche per i tanti replay. Una maniera per dire non dicendo? Gli arbitri, anche pensionati, come i giudici, sono maestri del linguaggio doppio.

Abbiamo tifato più Germania o più Argentina? Più Germania, almeno a giudicare dai giornali. Il 7-1 al Brasile supera l’immaginazione, tutti eroi i tedeschi.
Un tempo l’Argentina avrebbe spopolato, per Maradona e per i tanti italiani di laggiù. Oggi, malgrado il papa Bergoglio, il successo fa aggio. Anche perché l’italianità è un fardello.   

Non c’è mai stato tanto turismo al Giglio come in questi due anni e mezzo di Concordia naufragata. Tutto pieno anzi, anche d’inverno. Senza contare le gite giornaliere, della parrocchie.

Donatella Stasio aveva dato dieci mesi fa sul “Sole 24 Ore” una cronotassi esatta alla virgola (mancava solo il nome della casa di riposo) del Berlusconi in ceppi. Domenica ne ha un’altra altrettanto precisa per la condanna su Ruby. Che dunque si sa: “meno di due anni” per ogni capo d’accusa, concussione, corruzione, sfruttamento di minori. Un caso di profetismo?

Che pena vedere ora questo ora quel messo di Napolitano, da ultimo il direttore generale Marra, a discolparlo, e il presidente del Senato Grasso a difendersi di persona, all’assurdo processo palermitano di Messineo e Montalto. Che colpe deve nascondere il Pd?
O si tratta di spina dorsale? Un caso eccezionale, poiché senza non si sta in piedi.

Dunque, fu fatto un falso processo a Napoli, con suicidio incluso, per far cadere la giunta Russo Jervolino. Che vogliono i giudici?
Naturalmente il successore non c’entra, il giudice- sindaco. Che fece assessori alcuni giudici di quel processo.

Come già Renzi, il neo sindaco di Firenze Nardella debutta invitando l’ambasciatore americano per farsene elogiare. Lui insieme col presidente della Regione Rossi, vecchio trinariciuto Pci.  Dopo essere stati per decenni sindaci e città della pace, cioè sovietizzanti.

È vero che Phillips, all’origine, dice Filippi, come che vuole come lo scrittore Vidal, si era da tempo comprato un borgo in Toscana, per farsi nominare ambasciatore.

Fa tenerezza la Flavia Mogherini che va col suo sorriso ingenuo a stringere la mano al boss ucraino Poroshenko. Dopo, dice, vado da Putin. Chi glielo fa fare?

Sui fondi neri all’estero con la soprafatturazione dei diritti tv, dunque, un’assoluzione, per Confalonieri, e una condanna, per Berlusconi. È l’equità della giustizia ambrosiana. Corroborata da una non-indagine per il primo acclarato caso di fondi neri sui film, quello di Rcs Video vent’anni fa (di cui in “Mediobanca Editore”), la società della Rizzoli-Corriere della sera, di cui era a capo Montezemolo.

Lunedì Paolo Isotta, ricordando il semi-bluff del “Viaggio a Reims” rossiniano trent’anni fa a Pesaro, scrive: “Il grande direttore Piero Ostellino m’inviò sul posto…”. Il capo Cultura al “Corriere della sera” lo censura: “Il direttore Piero Ostellino m’inviò…”. Isotta non ci sta, e martedì ripristina, in basso nelle lettere, “il grande direttore…”. Non leggeremo più Isotta?

Il “falso 10”  per eccellenza è Totti. Lo è sempre stato, lo è naturalmente, ha segnato e fatto segnare moltissimo, forse più di qualunque altro calciatore – in Italia sicuro, forse anche fuori. Luca Valdiserri, che ne fa la rassegna sul “Corriere della sera”, non lo nomina nemmeno. Valdiserri è romanista professo, ma cita Pjanic. Giornalismo o cosche?

Il giudice Spiezia, della Procura Nazionale Antimafia, addetto al coordinamento con la Procura d Milano, denuncia la scarsa collaborazione della Giudice Boccassini, capo del pool Antimafia di Milano. Viene allora sostituito dalla giudice Canepa, la quale per prima cosa dà attestato a Boccassini di piena collaborazione.
In precedenza, anche Canepa criticava Boccassini. 

domenica 13 luglio 2014

Secondi pensieri - 181

zeulig

Corpo - Il disprezzo del corpo sarà un’insorgenza dei Disprezzi del mondo, genere un tempo in voga? O della candelora che s’avvicina, quando la cenere s’impone alla fronte con l’avviso: “Memento quia pulvis estis et in pulvere reverteris”, sei polvere.

Dio – Geloso lo vuole l’“Esodo”, nel nome di Mosè. E tale lo si diceva degli altri dei, del politeismo. Ma non potrebbe esserlo, poiché gli altri dei non li considera. Né se ne conosce manifestazione alcuna in tal senso – Mosè forse, ma non se era un generale egiziano, come l’ebraismo vorrebbe. Geloso appare piuttosto degli uomini, del libero arbitrio.
   
È rivoluzionario oppure conservatore - più rivoluzionario o più conservatore? Hegel, dce Heine, ci ha insegnato “come l’uomo tramite la conoscenza diventi Do, ovvero – detto altrimenti – come Dio diventi cosciente di sé attraverso l’uomo”. Attraverso il “fare”, direbbe oggi Renzi.
Ma non è sicuro che la conoscenza sia rivoluzionaria. Heine, poi, prese a diffidare delle rivoluzioni, dopo la batosta del 1848, del fare dei dotti.

È mosaico, ancora, fondamentalmente.  Collerico e amorevole in due modi opposti. Collerico con tutti e con ognuno, di ognuno conoscendo le più risposte riserve mentali. Quello di Michelangelo, del Giudizio universale. Amorevole in quanto missionario, per la salvezza indistinta del popolo. Per un’ideale di salvezza.
È in questa chiave che è – è stato – anche misogino.

McLuhan – L’elettronica rimpiccolisce il mondo, oltre che appiattirlo? Riduce lo spazio invece di allargarlo? È la filosofia sottesa al “villaggio globale” di cui McLuhan è profeta e critico – che peraltro si configura meglio come campo mobile, nomadico. La letteratura, egli diceva, scomparirà, e naturalmente la filosofia. La tecnologia elettronica mettendo fuori gioco lettura e scrittura, la velocità sostituendosi al tempo.
L’elettronica viene con la rapidità, riduce (elimina) il tempo velocizzandolo. Cambiando i “presupposti razionali dell’apprendere”. Lo scrittore va “fuori gioco” come lo specialista in genere: “L’esperto”, diceva McLuhan, “è l’uomo che sta fermo”. Per tutto questo è dubbio che essa sia una liberazione. È dubbio che favorisca l’abolizione o anche solo la riduzione della cultura come fattore classista, poiché i media e la comunicazione restano sempre padronali – solo più meglio camuffate, quindi pericolose.  

Natura – Non ha consistenza se non s’arriva a un’idea sostanziale del corpo, dell’anima col corpo, all’insegna dell’“Adoro te devote, latens deitas”, l’inno in versi di San Tommaso dal senso peraltro reversibile. All’haecceitas di Duns Scoto, l’esistenza individuale, la singolarità della beatitudine, che è piacere mentale e accettazione incondizionata del mondo e dell’altro.

Pubblico – Melville pretendeva di distinguere il “pubblico” dal “popolo”, quello cattivo, questo buono. La dicotomia è ben rilevata da Marcus Cunliffe, “Storia della letteratura americana”. Con essa lo scrittore si districava nella pania del sociale e dell’attuale, in cui incorreggibilmente si inviluppava, da uomo che viveva il suo tempo, in tutte le speranze e le inevitabili delusioni. Ma non senza argomenti. “Pubblico” era quello che si dirà “borghese”: il mondo dei valori astratti e della politica politicante. Che nella guerra civile, che fece almeno mezzo milione di morti, per esempio, non sapeva nemmeno di essere in guerra, non voleva pensarci e non ci pensava. Come del resto in tutte le guerre. Che esauriva la democrazia nel voto. E per quanto riguardava lo scrittore, così come per il suo amico Hawthorne, semplicemente li ignorava – i “bramini” di Boston, una società letteraria tanto vacua, scriveva Melville, quanto piena di sé. A questa opinione Melville opponeva il “popolo”. Come segretamente depositario della democrazia.
Pubblico insomma come opinione prevalente: l’opinione pubblica. Che dunque nasce inaffidabile: la polemica dello scrittore è una delle prime enucleazioni di quello che sarà il potere dell’opinione. Pubblico intende come apparato di potere, e quindi determinante sull’opinione. Come frattura fra la democrazia – il “popolo” – e il potere. Sotto forma non più di forza, o di comando, ma di opinione.
È la divaricazione alla base del sospetto che ora circonda l’informazione. Benché teoricamente più libera, diffusa e incontrovertibile che mai, per il pluralismo assicurato dai new media. Per la reputazione di inattendibilità, che sottende questa esplosione di “informazione” – la genera e la alimenta il sospetto. Che l’informazione professionale fa a gara a confermare, la sua materia disponendo in forma di teatro, di show. Occupando la scena, con effetti speciali, anche verbali (tweets), per espellerne l’analisi e la critica. Il sacro confondendo col profano, il dramma con l’irrilevanza, il politico con l’impietosa impolitica dei tanti volti di politici in tv, morti parlanti.
“Pubblico” è il pubblico dei talk show, selezionato, disposto da un regista, con determinati visi, angolature, profili, capigliature, capi d’abbigliamento, dietro questo o quel personaggio che prenderà le inquadrature. Che deriva dal pubblico pagato degli spettacoli, di musica, teatro, canto, danza, la vecchia claque, ma subdolamente si usa a sottolineare il presunto dibattito di idee che i talk show monopolizzano, corroborandone la “verità”.

Transumanismo –  Si può dire un ritorno al passato. A prima del lungo arco idealismo-esistenzialismo, quando ancora il pensiero era questione, sì, di logica, ma anche di ottica (colori), chimica (alchimia), botanica, zoologia, eccetera. A un mondo non confinato, sia pure per maggiore efficienza, al pensiero.

“Il pregiudizio dell’autodistruzione” Bruce Chatwin certifica - camuffandosi come “Dottor Maximilian Tod”, nel racconto dello stesso titolo, ora in “Anatomia dell’irrequietezza” -  “radicato nei circoli accademici americani” già negli anni 1970.

Uguaglianza - La prodigalità può riuscire sgradevole, dei beni o del corpo, ma san Tommaso l’avarizia dice vitium capitale. Né ci può essere uguaglianza nel niente, giustizia nella privazione: questa è invidia, che è la peste delle rivoluzioni.
Vera uguaglianza sarebbe “trattare inegualmente l’ineguale”, con l’innominabile Schmitt. Cosa che peraltro nessun sistema di equazioni saprebbe risolvere, neppure Gödel.

zeulig@antiit.eu

Nostalgia del liberalismo all'epoca del mercato

Una seconda antologia in poche settimane, questa a cura di Paolo Costa e Andrea Riscassi, ma sempre dalla “Rivoluzione liberale”, dopo decenni di trascuratezza. C’è voglia di Gobetti in giro? Di un liberalismo radicale? Non di mercato, non abusivo. Non sembra. Ma forse c’è ancora mercato per l’utopia – della libertà nell’epoca del liberismo.
Piero Gobetti, Al nostro posto, Fuori Onda, pp. 250 €16.50