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sabato 26 novembre 2011

Secondi pensieri - 82

zeulig 

 Austerità - O astensione: è la filosofia del momento? Inerte: si può fare l’amore con un muro, giusto il precetto di Michaux visionario, ma l’austerità è più sterile, interiorizza la continenza. Non è un problema di dispiegamento o contatto fisico, o della sua assenza, del rifiuto. Il fatto è che si ha bisogno di confidenza. Come si dice: raccontare le proprie pene è dimezzarle, raccontare le gioie è raddoppiarle. E ora consumare – con o senza la chiesa sullo sfondo: è la piazza, il punto d’incontro della community. In queste cose non c’è surrogato, non dicano in America, non consola chi capita al bar.

Medium - È narcisista. Il mezzo di comunicazione privilegia se stesso: la televisione ama parlare della televisione, il giornale dei giornalisti, e i blogger, quanto sono narcisisti! Se ne inferisce la povertà dell’informazione (comunicazione), oggi che il medium è prevalente.

Modernità – È di destra, non da oggi. Questo è un argomento di destra (lo sostiene per esempio Quirino Principe, o Luigi Iannone, “Jünger e Schmitt. Dialogo sulla modernità”) , ma non infondato. Ciò che resta del Novecento, in filosofia, filosofia della storia, antropologia, forme sociali e del diritto, e interpretazione del viluppo tecnologico, nucleare e informatica compresi, è della rivoluzione conservatrice. Da Thomas Mann, forse, a Heidegger, Jünger, Schmitt. Proprio conservatrice. Quella liberale, Rorty, Williams e Nussbaum compresi, è l’infiocchettatura di una realtà sfuggente, quando non abietta - ferma al muro, peraltro, del femminismo di giornata.

Rivoluzione – È follia: 1) è scoppio incontrollato, incontrollabile, per quanto strategicamente e tatticamente divisato, 2) non è riconducibile a schema preordinato, 3) è ordinabile solo a posteriori, come nuovo ordine di un evento incontrollato. Ammoniva il presidente Mao che la rivoluzione non è un dinner party. E come potrebbe? Ma non è la presa della Bastiglia, che aveva sette carcerati, né del palazzo d’Inverno, che si fece per una porta dimenticata aperta. Queste sono favole, benché suggestive. Lo spirito della libertà richiede un buon pascolo, è noto aforisma del barone Lichtenberg, che Kant amava. I conservatori dicono pure che ogni vittoria ha in sé i germi della sconfitta, o viceversa. È vero, almeno nel senso che l’acqua è sempre la stessa. Agli estremi pure gli effetti possono essere gli stessi, indesiderabili: si brucia per il caldo, o per il freddo. E prima o poi siamo tutti morti. Ma il freddo non è il caldo, benché li unisca la scala delle temperature, il calore è uno stato diverso dal gelo. Così è per l’azione e l’inazione: sono ai due capi dello stesso filo, ma non sono la stessa cosa. Ci vogliono i mezzi. E il tempo e il luogo. Gesù stesso strafece nella storia del fico, che voleva fruttificasse anzitempo: Gesù vuole dei fichi ma, essendo marzo, l’albero non ne produce e Gesù lo maledice. E ci vogliono gli uomini. Cioè, nella rivoluzione, la convinzione delle avanguardie e l’urto delle masse. Non è impossibile. Machiavelli intraprese la costruzione di un nuovo Stato a partire dal nulla. Con la follia dell’utopista rivoluzionaria – oggi reazionaria, dopo cinque secoli, ma questo è un altro discorso. Non ce la fece. Lui non era un capo, altri non ce n’erano - Cesare Borgia non era male, se matò mezza dozzina di tori selvaggi in una volta, ma è personaggio da western. La nostra rivoluzione non ha un Machiavelli, uno che sappia, anche poco, come funziona il potere che vuole abbattere. Mentre bisogna essere antiromantici: la storia, dice bene Croce, è sempre contemporanea, non era migliore mille o duemila anni fa, benché sia ormai classica, è come la poesia. J.S.Mill, che Marx stima, ritiene però “indiscutibile che un individuo dalle capacità di godimento illimitate abbia ampie probabilità di poterle del tutto soddisfare”. Questo noi vogliamo, poche cose, che Mill condensa nel “senso di dignità”. Un approccio corretto guarda tra di noi, tra di loro, e l’ambito o ambiente. Il problema tra di noi è che si sapeva tutto mentre accadeva, dei crimini di Stalin – lo sapevano gli altri, e anche i comunisti. Lo stesso i tedeschi e gli Alleati: conoscevano in tempo reale i delitti sterminati di Hitler. Poi gli Alleati e i comunisti hanno trovato comodo negare. E questo è ormai un linguaggio, una seconda pelle. Il punto è: non si reagisce per debolezza? per ipocrisia? perché la storia deve seguire il suo corso? Ma la storia si può fermarla, è vero. Loro saranno maschere, che rinviano ad altre maschere, ma come s’interviene in un teatro di maschere? Non si capisce dove la struttura da battere sia sotto la sovrastruttura. Di loro si fa comoda la teoria degli agenti: Mussolini e Hitler agenti del capitalismo, etc.. Aggravata dalla teoria, di Zinoviev e Willi prima che di Stalin, del socialfascismo, per la quale i socialisti sono “un’ala del fascismo”, che il fascismo fa grande. E i rivoluzionari sono così rimasti soli. Popolo diverso, il popolo del futuro. Se ce ne sarà uno, poiché c’è la fine del petrolio, e dell’ambiente. La rivoluzione può essere un caso del bene che non è vero, e dispiacere a Socrate e Platone, i quali il bene identificano con la verità. Anche la verità di una rivoluzione può non essere un bene. Il che può essere, è, conservatore e reazionario. Ma non in una prospettiva critica, nella quale si cerca la verità. La verità è nel vocabolario, secondo Foucault. Ma è uno scherzo. Socialisti si può essere nell’etica kantiana, del dovere bene inteso, del comando morale che è positivo, dello Stato, ma anche naturale, si deve esserlo. Mentre i calcoli del metodo hegeliano sono una degenerazione dell’utilitarismo e fanno orrore, servitù adducendo e ipocrisia. Gli scontri regolari di anni sul campo di battaglia, tra Francia e Germania per esempio, non hanno mai deciso nulla. Le campagne folli invece no: Napoleone in Egitto, Gordon a Khartum, Mao nello Yunan sono imprese gravide di esiti e significati. Di queste sorprese è pieno il Vangelo, mentre la legge vi è abominevole.

Storia – Tolstòj è per la storia-destino: “Ogni deduzione della storia si dissolve come polvere”. Ma ha scritto Guerra e pace. Si può dire la storia il repertorio dell’arte, tecnica e estetica, quale manifestazione della vita. In questo senso è una cambiale perpetuamente rinnovata. E il Tempo concilia con l’eterno e l’infinito. Sia pure nel pilatismo dei logici, vedi Ayer: “Nelle proposizioni generali sul passato remoto si deve ammettere che, per quanto forte possa essere l’evidenza in favore degli assunti della storia, la loro verità non può essere nulla più d’una probabilità… Nessuna proposizione diversa da una tautologia può essere mai qualcosa di più di un’ipotesi probabile”. C’è chi la storia vuole uno sberleffo al progresso. O “piena di lacune e quasi impossibile”, quella del romantico Arnim. “L’assenza dell’essere,\il no di ogni cosa,\la rottura del vivente con se stesso” di Cioran. O contraffatta dalla leggenda, Jouhandeau. E nascerà dalla mancanza. Dalla nostalgia dei morti. “Il passato”, per Vernon Lee giovinetta, “serve (scusate l’espressione) ed è mantenuto in vita sopratutto come campo di ricreazione per il lugubre presente”. Ma è la sola maniera di essere, alla Oscar Wilde: ogni uomo è, in ogni istante della sua vita, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà. Perché la storia cresce, si espande. Malgrado tutto più uomini vivono sulla terra, più a lungo, che si vorrebbero immortali: c’è voglia di progresso. “La storia mi ha sempre divertito molto” può non di-vertire, poiché lo dice Marc Bloch che è uno storico. Ma basta il sobrio Benjamin, della storia filosofo: la storia basta “strigliarla contropelo”. 

zeulig@antiit.eu

Letteratura a perdere, nell’‘800, in Sicilia

Buona letteratura – non del tipo perfettino, manzoniano. Nel primo Ottocento perfino ottima. L’etica per di più e la politica del “Gattopardo” sono già qui, con lo stesso ritmo, ineluttabile. C’è perfino una sintesi non effimera della mafia, in una mezza pagina dedicata a un incidente occorso al fratello. Non a torto l’autore era apprezzato a suo tempo a Parigi e a Ginevra. Ma non si trova in nessun repertorio: una rimozione esemplare dell’inferiorità alla quale il Sud, Sicilia compresa, è stata ristretta.
Michele Palmieri di Micciché, Pensieri e ricordi storici

venerdì 25 novembre 2011

L’epoca è comica - ma solo Fiorello lo sa

L’epoca è comica. Stanlio e Ollio governano l’Europa. Il petrolio scende, la benzina sale. La stampante è regalata, la cartuccia costa una cifra. Si mangia precotto, pagando il doppio. All’insegna della velocità, computer, telefono, treni, aerei, ma senza tempo per niente. Della comunicazione, che non comunica nulla se non la confusione - anche all’università, un business dell’ignoranza. Della libertà.
Questo è un capitolo che gronda anche sangue, purtroppo. La tecnica che ci libera, e ci tiene incollati al video, al telefono. Per niente. A costi da capogiro. La privacy, un cappio da vocabolari a corpo 6 e dozzine di firme per esteso. Pure sulla carta igienica. Mentre ogni motore di ricerca sa tutto di noi, e ognuno di noi si ritrova in mailing list d’ogni specie, dalla beneficenza al jogging. Senza riparo. O il mercato libero quest’anno del gas e della luce, dopo quello del telefono, che è una persecuzione e un’esazione: la libertà per gli affaristi di praticare tariffe esponenziali. Garantiti da sontuose Autorità, che l’utente deve mantenere. Un comico, come si vede, per nulla da ridere, ma è così quando comica è la realtà e non il teatro.
Fa parte del comico dell’epoca anche la comicità. Che non è (più) da farsa, Fo, Parenti, Durano, il Fo grammelot - come si sarebbero divertiti col duo Merkel-Sarkozy, di profilo, come amano effigiarsi, e di faccia, quando si baciano, quando dicono, seri, i loro nonsense. Né da teatro dell’assurdo – Adamov, Ionesco, Frassica. Il comico è dei funzionari di partito, gli insipidi Fazio, Santoro, Floris, coi loro guitti di batteria, Litizzetto, Crozza, Vauro. Che non fanno nemmeno barzellette su Berlusconi – le barzellette sul barzellettiere, ottimo filone sarebbe – ma invettive modeste, regolamentari. Fedelmente applauditi dai cinque milioni di indefettibili del Partito che ogni sera assicurano lo share.
Fiorello, l’unico che fa ancora il comico del comico (la dittatura del telefonino, lo stiracapelli monopolista) è l’ultimo rifugio dei telespettatori sbandati. Pagato il suo tributo ai filosofi del teleschermo con le barzellette su Berlusconi, diverte infine i non inquadrati con ottima musica, e la comicità reale.

Monti schiera l’Italia con la Germania

A Strasburgo Monti ha preso il posto di Angela Merkel, facendosi alfiere della posizione tedesca. Sui due punti base: convergenza dei bilanci, delle politiche fiscali e di spesa, prima che si possa parlare di debito europeo (eurobond), senza una vera banca centrale europea (quella che così si chiama è figurata), garante dell’euro e in grado di interagire col sistema creditizio. E mai più deroghe ai vincoli di bilancio – anche il buffetto è stato tedesco, benché rivolto, per il lontano 2003, pure alla Germania.
È il non detto del vertice a tre di Strasburgo. Meglio: è il non detto del detto, perché il vero senso della sua trasferta a Strasburgo la cancelliera l’ha confidato solo a Sarkozy - il suo entourage si è premurato di farlo sapere, l’annuncio dovrebbe aversi a breve. Ma è comunque una forte, probabilmente decisiva, novità. L’Italia, che con Tremonti aveva flirtato con la fronda antitedesca della Francia e della commissione Europea, è ora sul fronte tedesco. Sarkozy, che aveva irriso il governo Berlusconi, si ritrova solo, con Barroso e van Rompuy, due burocrati: quale che sia il piano segreto che Angela Merkel gli ha confidato non potrà che allinearsi.
Si sapeva di Draghi che era una ruota di scorta della Bundesbank, un tedesco di complemento, rispettoso. Monti non è da meno, che a Strasburgo ha esordito: “In Italia mi chiamano il tedesco”. Monti era noto in Europa come “il più inglese dei tedeschi”. A disagio nel “modello remano”, la commistione poco definita, tutta politica, di pubblico e privato. Ma apprezzato in Germania per la diversa valutazione della golden share nel caso della Volkswagen e in quello delle aziende italiane, Telecom, Eni, Enel, Finmeccanica.
A Monti è anche molto vicino il consigliere economico di Angela Merkel, Lars Hendrik Röller. Che il presidente del consiglio, allora al suo secondo mandato di commissario europeo alla concorrenza, volle alla sua direzione a Bruxelles come Capo economista. Nel 2006, finito il mandato a Bruxelles, Röller partecipò al “Breughel”, il pensatoio europeo creato dallo stesso Monti a Bruxelles.

Ballare sopra il vulcano

C’è Monti e le cattive notizie passano in pagina interna. Anche se drammatiche: il Btp che ormai paga l’8 per cento, e lo spread sui titoli tedesche costantemente sopra i 500 punti, dopo aver sfiorato i 700…. Mentre in Borsa milioni di italiani si vedono azzerati interi patrimoni, ora con costanza, non più a giorni alterni. Il terremoto non c’è, basta che non se ne parli? È la divisa dei grandi giornali, i giornali dei grandi banchieri e affaristi.
O c’è la censura? Magari interiorizzata, una sorta di centralismo democratico divenuto riflesso condizionato. Qui non si tratta di pool, di giornalisti che per non sbagliare dicono concordi la stessa cosa, cattivo vezzo del giornalismo italiano. Questa è la famosa “linea”: fare quello che dice il direttore. L’euro non è più a rischio, l’Italia non si sta strafogando al laccio tirato dalla Germania, l’Ue non è impotente e forse già dissolta.
Anche a Strasburgo, dove pure Monti ha avviato una politica importante, si è fatto solo colore. Facendo dire alla cancelliera Merkel “impressionanti” le riforme italiane. Quali? Quelle dei tre pacchetti Berlusconi….

Quel poeta di Melicuccà sa di Heidegger

Si ristampa in anastatica la prima opera pubblicata dal poeta di Melicuccà, “Poco suono”, profetica, mentre Mario Sechi cura per Donzelli, con introduzione di Vito Teti, l’antropologo che dirige il dipartimento di Filologia all’Università di Calabria, la ristampa della raccolta che lo stesso poeta aveva pubblicato a Siena nel 1955. Per l’ennesimo tentativo di recupero di Calogero nel “suo” anno, 2010-211, il centenario della nascita e il cinquantenario della morte. “Scoperto” da Lerici, con due volumi di “Opere” nella prestigiosa collana Poeti Europei, e dalla critica, quando già aveva ceduto alla morte, e subito ricoperto. “Poco suono” Raffaele Leuzzi, il titolare delle Nove Edizioni Barbaro, si è procurato per caso, curiosando nel mercatino dei libri di piazza Cordusio a Milano.
Il forte impegno, anche finanziario, del suo paese di origine alle falde dell’Aspromonte, nel quadro di un “Progetto Calogero”, a iniziativa del sindaco Emanuele Oliveri, che ha organizzato un convegno di Studi un anno fa a Reggio Calabria, una tavola rotonda di studiosi e testimoni il 4 novembre al Campidoglio a Roma, e l’opera video-teatrale “Città fantastica” di Nino Cannatà e Girolamo Deraco al teatro Belli a Roma tutta la settimana scorsa, con Roberto Hertlitzka e la partecipazione di Lydia Mancinelli, dovrebbe contribuire alla riscoperta definitiva. Oliveri ha anche allo studio una Fondazione. Mentre gli eredi hanno donato tutte le carte del poeta, dove gli inediti inevitabilmente prevalgono, e quindi una curatela è necessaria, all’università di Calabria a Cosenza. Un ricco sito e molti aficionados online lasciano presumere che l’oblio è terminato ma l’editoria e la critica latitano.
Il “Progetto” è un incrocio insieme di passione generosa e di inerzia che curiosamente fa da specchio all’impegno disilluso di una vita dello stesso poeta. Tra echi incoraggianti e disperanti insondabili rifiuti o silenzi. Su un fondo, certo, esistenzialmente depresso dello stesso poeta: “So che sono e sono stato da sempre uno schizofobico, un psicastenico, ed un pauroso per eccellenza”, ansioso cioè, scriverà alla fine a Giuseppe Tedeschi – “Sono vano per troppo aspettare” è uno dei suoi primi versi nella prima raccolta.
“Poco suono” è una plaquette rifiutata da molti, tra l’altro dal pur cristianissimo Betocchi, che potrebbe da sola valere un posto a Lorenzo nel Parnaso del Novecento – anche se più che una plaquette è un’antologia, affastellata come il suo corrispondente fiorentino gli faceva notare: un centinaio di componimenti in poche pagine. Ma è questo un segno dell’isolamento, in ragione della tabe geografica, che sempre lo ha perseguitato. L’isolamento etnico è il più devastante. Di una persona che per tutto, mentalità, istruzione, proprietà, è altrimenti simile e vicina, non fosse per l’accento o il timbro postale.
Di raccolte “voluminose” e di “prolissità” si accuserà egli stesso in una delle sue ultime lettere, quella lunga venti pagine a mo’ di autobiografia a Vittorio Sereni del 1960 (che chiude con: “Se può, La prego di aiutarmi”). Dove però si vede che non è la prolissità il problema. Un isolamento tanto più ostile considerando l’insistenza con cui Calogero cerca tutta la vita senza scoraggiarsi editori e critici, pur senza essere invadente. Tanto più al confronto con le collezioni di poesia contemporanea degli stessi, Einaudi, Vallecchi, Mondadori tra gli altri. Le sue prose, essenzialmente le lettere e le note introduttive alle sue stesse raccolte, che Montale troverà “per lo più sgrammaticate e deliranti” (mentre commuoveranno Amalia Rosselli), sono soliloqui stremanti, per il diniego di dialogo.
Sotterrato vivo, potrebbe essere alla fine il motto di Calogero – “vi prego di non essere sotterrato vivo”, sono le ultime parole vergate prima del probabile suicidio, all’ennesimo tentativo riuscito. Come del suo paese (“Questa grigia scarpata del mondo”, lo “spazio ove intombo me”), il poeta può dire di sé: “Sono morto duemila anni fa”. La sua colpa è la lontananza, la distanza. Che comporta l’inaccessibilità, e quindi l’inesistenza. La letteratura ha le sue regole – oggi si chiamano mercato – e anche la poesia: non si è poeti per caso, per vocazione, per illuminazione. Calogero ne ha il dono: ha la parola “alata”, tanto è sempre giusta. E quel suono “verticale” che mandò in estasi Ungaretti quando infine poté leggerlo (“con la sua poesia ci ha diminuiti tutti”), facendogli supporre nel poeta morto una sua reincarnazione. Ma è condannato al silenzio, in vita più che in morte, ed è tutto dire.
“In questa bella fiaba della vita\ marcita dagli eventi” è il leitmotiv: Calogero “canta” l’assenza. Lucia Calogero, nipote del poeta, editrice di uno degli inediti, “Dai quaderni del ‘57”, sua studiosa, propone la figura del viaggio: “Un interminabile viaggio nelle non delimitabili plaghe dell’essere”. Che Mario Sechi qui chiama “erranza”, facendone “un motivo cruciale della poesia moderna”. Un viaggio nell’assenza.
L’assenza è anche il suo destino: “Morte mi chiama\ col suo peso leggero\ come in sogno”. Un refuso nel programma di lavoro di Cannatà e Deraco, “Quell’oltrein cui la parola prende dimora”, è l’impossibile “città fantastica” di Calogero, l’oltrein. Prezioso a tratti: “Riviere di anni mi hanno bagnato,\ con la loro arsura”, “quando scolora\ l’infinito seno della luna\ nell’aria bianca”. Lo stesso curatore Sechi trova che non c’è logica: “V’è qualcosa di inconcludente, di involuto, di irresolubile nella matassa dei passaggi concettuali cui egli provò ad agganciare la sua quotidiana fatica di scrittore. La luce di un pensiero teoreticamente risolto non chiarisce né chiarirà mai il caso di questa poesia”. E che, insomma, non c’è poesia: Sechi ci trova via via Leopardi, Saba, D’Annunzio, Ungaretti, l’ermetismo, come in una poesia di scuola, à la manière de, dice. Anche se con stilemi propri, seppure non graditi all’esegeta: il mito vissuto, la natura naturante (Teti ci vede una suggestiva “poesia quasi geologica”, fino a “una geofilosofia delle nuvole”, immagine ricorrente), e “una figura di doppio, l’autoritratto ab externo di Lorenzo”. Ermetico lo aveva detto negli anni 1960 anche la traduttrice inglese, e come post-ermetico è stato letto nella breve stagione dopo la morte, ma non è quella la sua cifra.
Tracce distinte sono invece percorribili, in attesa di un assetto critico. Calogero vive l’isolamento con asprezza, anche con dolcezza, ma in forma metafisica, quale realtà dell’essere. Tra empiti, palpiti, speranze, miraggi, sempre riprecipitandovi. Con un’elevata capacità creativa, grazie alla quale, avrebbe detto Celan, la poesia “non s’impone ma si espone”, non si elabora ma si evidenzia. Con una panoplia che avrebbe potuto essere strabiliante di invenzioni, lessicali, sintattiche, semiche, questo è quello che ha inteso Ungaretti. “Sideralmente inavvicinabili”, avrebbe detto Zanzotto. Se avessero avuto un’eco, fossero state produttive invece che fuochi fatui. Così non essendo avvenuto, Calogero matura presto anche la coscienza, mai recriminosa e tuttavia avvolgente, che quanto più la sua lingua poetica s’inoltrava nell’inesplorato, tanto più sarebbe rimasta isolata, infruttifera.
Subentra così il disfacimento – poi si sarebbe detto destrutturazione - dei significanti, dei significati: la “follia” ne è un derivato e non la causa. E la scomparsa dell’elemento oggettivo, l’invadenza di quello soggettivo – che la tarda “scoperta” ridurrà a ometto di provincia senza storia (e quindi senza poesia). Oggi si sarebbe detto, in altro contesto, della deistorizzazione: la perdita di senso per effetto di una “colpa”, anche se non soggettiva, non propria, una tara. La deistorizzazione può essere peggiore della non storia, si può dirlo per diretta, lunga, approfondita esperienza terzomondista, del mondo arabo e dell’Africa: il colonialismo, cancellando radicalmente con la forza, “crea” un’alterità nuova, la promuove, la sostanzia anche, il neo colonialismo subdolo cancella blandendo, gesto per gesto, momento per momento, parola per parola.
È un fenomeno non inavvertito, Calogero ne ha distinto il presagio. Fin da questo “Poco suono” terremota il linguaggio con un presentimento di infertilità. Articola i suoni come il muto inarticola i suoi, preciso e insieme già disperante - la sua parola riesce, così come appare senza riesame critico, preziosa, e occasionale, fortuita. Con la coscienza di essere una particolarità, una diversità nell’universo in cui pure anela d’includersi. Sia il lessico che la grammatica e la sintassi è come se gli sfuggissero, verso territori inesplorati a lui stesso. Che lui tenta di ancorare, ora ai luoghi e al paesaggio, ora alla natura e ai fenomeni, ma senza fermare la nave, che va a volte arrembante, quasi che il poeta non ne fosse il timoniere. Un moto che in altra epoca si sarebbe detto mistico, o sacro, e in epoca di disincanto è invece, è recepito, come una (vaga) metafisica – la metafisica è vaga. Da qui l’esigenza di esordire con un programma, che è in realtà una scusante, una captatio benevolentiae.
Il suo programma è nel 1936 (im)modesto: “L’arte ha il compito di svelare il destino della natura e il significato recondito delle cose”. E lo stesso vent’anni dopo , scrivendo a Sinisgalli: “Viene spontaneo pensare che la poesia tende ad essere sempre più pensiero puro”. O alla fine, nella lettera-saggio a Sereni: “”Sono proclive a far coincidere poesia o filosofia con la storia, e questo ritengo perenne e permanente, sì che ogni attimo di vita abbia almeno il suo granellino di verità” (non a sproposito, spiega più in là: “Di ciò farebbe fede la maggiore specializzazione del linguaggio, più forte in poesia che in filosofia”).
A volte narrativo, nei testi finali della raccolta che dà il titolo al volumetto: “Domani”, “Lettere d’amore”, “Alta cinta”, e alcuni dei testi sparsi che completano il volume. Di scrittura non descrittiva o storica, però, né poetica o programmatica, come scrisse a Sereni, convinto “che gli oggetti della poesia non appartengono mai al già pensato, sia pure i margini di certi pensieri, o semplicemente di certe intenzioni poetiche, ma che si definiscono di volta in volta durante il lavoro rivolto alla pura ricerca espressiva”. O già in partenza, in uno dei manoscritti del 1936, l’anno di “Poco suono” che si possono leggere sul sito: la “poesia pura” è più spesso “inessenziale”. Un lavoro dunque, non un programma, di ricerca aperta, senza frontiere né canoni. Una ricerca forse impossibile, certo incommensurabile, specie per l’editoria di cui ambì per trent’anni invano l’attenzione. Si pubblicano mille poeti l’anno, arguiva Montale a proposito di Calogero, non si può rimproverare all’editoria di saltarne uno. E perché no? In trent’anni.
Montale, recensendo sul “Corriere della sera” a Ferragosto del 1962 il primo volume di Lerici, diceva che bisogna aspettare: “La poesia vera, e più che mai la difficile poesia di Calogero, deve attendere la sua verifica dall’invecchiamento” – lui che fu un classico in gioventù alla prima opera. Poesia difficile, dunque? Che vorrà dire? Montale cita Hölderlin, giustamente, e il tardo Yeats, ma dubita forte che quella di Calogero non sia che “una forma di espressione puramente velleitaria, informe”. Ma, seppure non volendo, per una verità che emerge opposta dopo cinquant’anni alla sua infastidita critica, dà chiaro e forte lo specifico del poeta elusivo: “Accostarsi alla sua poesia è un’ardua impresa perché in lui la parola è del tutto spogliata del suo contenuto semantico e ridotta a semplice segno. Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti”. Le sue due colonne sono in realtà seminate di dubbi sulla salute mentale di Calogero. Che Sechi rispolvera, denunciando “il suo enorme, fragilissimo, ego” – che pure è di tutti i poeti, di tutti gli artisti. Un sospetto che Teti fuga spiegando che, quando gli 804 quaderni che racchiudono tutta l’opera di Lorenzo arrivarono agli archivi della sua università, fu colpito in primo luogo “dell’ordine nel disordine e della precisione quasi maniacale del poeta”. Per una sorta di “quotidiano poetico diario, tenuto per oltre trent’anni”, secondo “un progetto poetico (anche editoriale)”. Si può essere “pazzi” a Milano (Alda Merini) o a Parigi (Celan), a Stoccolma (Nelly Sachs), anche tra la Riviera e il Tirolo (Ezra Pound), e sulla Neckar naturalmente (Hölderlin), ma non a Melicuccà, sotto l’Aspromonte?
Sinisgalli aveva trovato il “punto d’arrivo” di Calogero nell’arabesco. Mentre rileggendolo oggi c’è molto verità – fortemente semantica – nei versi e nelle parole. Ed è quella che lui stesso indicava nelle lettere “deliranti”: c’è una parallela corrispondenza tra le sue liriche e le sue lettere e la filosofia del mainstream europeo quale si veniva svolgendo nei suoi trent’anni di vita culturale, dal 1930 al 1960, tra Heidegger e gli epigoni francesi.
Lorenzo Calogero, Poco suono, Nuove Edizioni Barbaro, pp.61 € 8
Parole del tempo, Donzelli, pp XXX-220 € 19

giovedì 24 novembre 2011

Germania First (über alles)


Tra i primati del Regno delle due Sicilie al momento dell’unità, il sito della Real Casa di Borbone e il Movimento Borbonico elencano “la più alta quotazione di rendita dei titoli di Stato, il 120 per cento alla Borsa di Parigi”, e “la rendita dello Stato (di Napoli) quotata alla Borsa di Parigi al 12 per cento”. Non sono la stessa cosa, e forse il primato era negativo: non che i tioli napoletani si vendessero a premio a Parigi ma al contrario, che dovesse pagare il 12 per cento, un interesse alto, per vendersi. La cosa non è importante, ma dice che un primato in materia finanziaria non è niente. Dipende dal sistema di potere che lo contorna.
Ieri l’Italia ha scoperto che la crisi è germanocentrica, cosa che tutti sanno: 1) la Bundesbank non voleva l’euro e non vuole la Bce; 2) il governo di Angela Merkel ha deciso di trarre il maggior profitto possibile dalla crisi dell’euro; 3) la Germania non vuole risolto il problema Grecia – che essa ha creato (le banche tedesche, le industrie tedesche degli armamenti) – perché ha benefici mercantilistici (concorrenziali) dalla crisi del debito ripercorsa su paesi concorrenti, l’Italia, la Spagna, e ora anche la Francia.
Questo è un fatto. La Germania ha ritirato i suoi due consiglieri alla Bce. E fa comprare alla Bundesbank liberamente i titoli tedeschi per mantenerne basso l’interesse. Mentre impedisce questi acquisti alla Bce e alle altre (ex) banche centrali europee, a norma dell’art. 21, comma 1. Così come pratica attraverso la Bundesbank liberamente il rifinanziamento del sistema bancario tedesco, ma lo impedisce negli altri paesi - dove il credito non esiste praticamente più (credit crunch), in Italia e in Spagna la crisi di liquidità è spaventosa.
Il problema è che l’Europa non vuole prenderne atto. Prendere atto che la politica estera ed economica della Germania è improntata all'interesse nazionale, della Germania First, la vecchia Germania über alles, anzitutto. Che un’epoca storica è finita, il Muro non c’è più, la Colpa si è dissolta, la Germania non ha più paura, e non ambisce più a dissolversi nel’Europa, anzi. Senza più troppo rispetto per la Nato, sia pureal coperto dell’Onu. I cancellieri del dopo Kohl, Schröder e Merkel, non hanno messo unuomo né un euro nelle guerre Usa in Medio Oriente, dall’Iraq alla Libia.Tranquillamente, senza jattanza, ma senza timori. La consulenza di Schröder per Gazprom, il colossorusso del gas, è anatema per gli Usa, che il gas russo ossessiona. Due membridi primaria importanza nel board dellaBce, Weber e Stark, sono stati fatti dimettere in polemica pubblica, e senzaalcun ripensamento, contro la politica del presidente Trichet di fare della Bce stessa una banca centrale. Angela Merkel, sassone, sa poco peraltro e si preoccupapoco di cosa succede ai confini occidentali.
Tranquillamente, bisogna prendere atto che questa Germania non antepone la costruzione dell’Europa all’interesse nazionale, e anzi vuole sfruttare l’Europa a suo interesse. Capire fino a che punto si spingerà questa Germania (fino al punto prima del collasso della Ue, che la trascinerebbe). Individuare o elaborare strumenti in grado di contemperare la forza della Germania e gli interessi degli altri paesi membri dell’Europa non vassalli.

Il governo di Calimero

La prima cosa che fa il rettore del Politecnico di Torino Francesco Profumo, presidente del Cnr, da ministro dell’Istruzione è dell’Università, è di allargare d’autorità di mille posti gli ingressi quest’anno alle facoltà di Medicina. Con l’appoggio del ministro della Salute, Renato Balduzzi. Il primo provvedimento del governo Monti è dunque una sanatoria, o ope legis, un regalino a qualcuno – la sanatoria è uguale per tutti, certo, il 10 per cento degli ammessi, non l’8 per esempio, o il 15 per cento.
Non è una sorpresa, a un secondo sguardo: questo governo si vuole come Calimero, piccolo e nero. È improvvisato, raccogliticcio anche se confessionale, con molte persone inutili in un gruppo pur piccolo – certamente i due degli Esteri e Gnudi, un quarto di tutto il governo. Il vero governo è, si sa, formato di tre persone: Monti, col fido Moavero, Passera e Fornero. La signora Cancellieri, ministro dell’interno, pensa di invitare a un tè i suoi predecessori. Anche per dare la cittadinanza subito a chi nasce in Italia, sebbene di genitori stranieri – la legge attuale, del 1991, lo esclude. Inviterà pure Napolitano, che fu all’Interno nel 1996? L’avvocatessa Severino, ministro della Giustizia, pensa invece a un “codice deontologico” per i giudici, cioè a una serie di raccomandazioni di buon’educazione. Senza ledere l’intercambiabilità tra giudici e pubblici accusatori. E senza norme, soprattutto senza norme per un processo giusto e rapido.
Monti applicherà, forse, le misure già votate, in materia di previdenza e fiscalità locale. E vorrà cinque o dieci miliardi una tantum, che lui sa non risolveranno niente, ma potrebbero bloccare anche i consumi. Giusto in omaggio a Bersani - il quale invece non sa che pensare.

Se il sen. prof.dott. Marino licenzia Fassina

Si chiama Fassina ma non è la figlia, alla russa, di Fassino. Bisogna precisarlo perché fino a ieri non se ne sapeva nulla. E invece è uno importante, poiché di lui chiede la testa nientemeno che il senatore professor dottore Ignazio Marino, il non dimenticato, funereo, concorrente alle primarie del Pd per diventarne il capo. Il sen. prof. dott. ne chiede le dimissioni perché l’ha auscultato, gli ha trovato qualche disfunzione, qualche virus contagioso? No, le chiede da economista.
Cioè: economista è Fassina, responsabile economico anzi del partito Democratico. Essendo un bocconiano, con esperienza di lavoro al Fondo Monetario Internazionale. Uno, a occhio, che sa quello che sta succedendo attorno e dentro l’Italia. Marino invece sta imparando un po’ di contabilità ultimamente, da quando fu allontanato dall’ospedale dove lavorava in America per la contabilità facile nei rimborsi. Ma è del partito giusto in questo momento, neo guelfo o confessionale. Al vecchio motto che usava ancora ai tempi della Dc: “Non disturbare il guidatore”.

Intercettazioni urgono per Napolitano – o no?

“Un valido codice deontologico” per giudici e procuratori della Repubblica il presidente Napolitano, “volto ad affermare il necessario rigore nel costume e nei comportamenti dei magistrati”. All’improvviso Napolitano ha messo in allarme l’eletta schiera dei giudici italiani. Sembra di sentirli, che raspano alla ricerca di intercettazioni compromettenti a carico del presidente della Repubblica. Magari col fido Cascella, chissà, o meglio con Berlusconi.
Oppure no. Il presidente ha aspettato cinque anni e mezzo del suo mandato prima di proporre qualcosa, a conferma della prudenza che è sempre stata il suo cachet. Ma a meno di un anno e mezzo di mandato pieno prima della scadenza: non c’è molto tempo per fare alcunché. Anche perché, certo, la pratica è pervasiva, la prudenza del presidente è come sempre giustificata. Nel film di George Clooney “Le idi di marzo”, su una campagna elettorale tipo negli Usa, le parole decisive si pronunciano al centro di una grande stanza, o in anditi non visti con molte zone d’ombra, visive e auditive, o combinando incontri fortuiti, parlandosi preferibilmente di spalle in luoghi molto frequentati, perché l’emissione del suono vada in direzioni opposte. Tutto ciò che avviene comincia negli Usa, e non c’è liberazione possibile, si sa. Però l’imperialismo non è poi così coattivo – gli Usa, grandi cinque volte l’Italia, intercettano dieci volte meno.
Napolitano si è anche detto certo che col nuovo ministro della Giustizia i magistrati avranno ampio campo per dialogare. E il ministro, l’avvocatessa Severino, è una che ha a cuore la buon’educazione di tutti, compresi quindi i magistrati. Senza ledere l’intercambiabilità tra giudici e pubblici accusatori. E senza norme, soprattutto senza norme per un processo giusto e rapido.

mercoledì 23 novembre 2011

Problemi di base - 81

spock

Di che sorridono e si congratulano tutti ai vertici europei? (del banchetto dopo il funerale)

A che serve un vecchio vivo, si chiede l’eugenetica. E uno morto?

A che serve un bambino appena nato? rispondeva Faraday a chi s’informava di una delle sue scoperta: a che serve non è già una risposta?

Se questo mondo non è, perché ce ne dovrebbero essere altri?

Perché Dio non sarebbe un atto d’orgoglio?

Perché l’orgoglio sarebbe un peccato?

Ma il capitalismo è immortale o immorale? (entrambe le cose, proto)

spock@antiit.eu

Queneau cicerone noioso a Parigi

Queneau amava le randonnées attraverso Parigi, fanno da sfondo a “Zazie”, “Domenica della vita”, “Odile”, e altri racconti. Le chiamava anfionie, da Anfione, l’architetto figlio di Zeus e Antiope che costruì le mura di Tebe suonando la lira, eletto da Apollinaire (nel racconto “L’Anfione falso messia o storia e avventura del barone d’Ormesan”, della raccolta “L’Herésiarque et Cie”) patrono dei camminatori in città. Nel corso delle anfionie scrisse molte antiopee, spiegherà in un’intervista, il neologismo coniato dal “barone d’Ormesan” per le osservazioni che si propongono all’anfione sugli angoli e gli aspetti della città. Per due anni anzi, fra il 1936 e il 1938, ne aveva fatto occasione di lavoro, ben retribuito, al quotidiano “L’Intransigeant”, dove propose e curò ogni giorno una rubrica “Conoscete Parigi”.
Ma questa, l'informazione, è la parte migliore del libro. Per il resto non è Queneau, giusto un quarto delle duemila notiziole, del tipo chi era il père Lachaise? quale re fece di Parigi la capitale?, tutte accurate pare, da lui fornite ai lettori de “L’Intransigeant” - ma Francesco Procopio dei Coltelli è Francisco Procopio dei Colielli (e chi è Bourrienne? nel Larousse non c’è, in Wikipedia ce ne sono troppi). Difficile immaginare un Queneau noioso, ma questo lo è. E sì che la materia non mancava. Dante a Parigi, per esempio, in rue de Bièvre, che storia avrebbe potuto fare, prototipo riconosciuto della “epidemiologia della cultura”, o invenzione della tradizione - dove non è stato Dante? O la nascita di Boccaccio a Parigi, esattamente al n. 28 di rue des Lombards, nello stesso anno, 1313 in cui nasceva fra Certaldo e Firenze...
Raymond Queneau, Conosci Parigi?, Barbès, pp. 240 € 15

martedì 22 novembre 2011

“Gronda m. il paradiso” di Landolfi

Landolfi fuori dell’aneddotica, il nobiluomo di Sora sfaccendato, il giocatore incallito, non reticente, non segreto, in questo diario poetico. Che è la parte migliore della sua scrittura, più dei racconti, con “Rien va” e le tante altre pagine di confessione. Di un solitario, essenzialmente: l’io col Dio di tutti – l’io e il suo Dio, si suole dire, ma questo è un Dio protestante, sicuramente una barbarie per la sensibilità di Landolfi.
Non un’eccentricità, è anzi un Landolfi tradizionale il poeta di questi versi, con l’endecasillabo spesso, e con la tematica d’obbligo leopardiana, della vita interrogata con disdegno. In linea, se si vuole, col vezzo di tanti illustri narratori di pubblicare al’ultimo una silloge poetica, Volponi, Elsa Morante, Bassani. Ma poeta era Landolfi, si scopre, traduttore che sempre si legge di tanti poeti, russi e non, che la raccolta dedica a Tjutčev, altro poeta che oggi si riscopre, nella sua traduzione di mezzo secolo fa.
Il libro fu composto quarant’anni fa nel giro di un anno, dopo la malattia, e segna la fine dell’amore – della lusinga d’amore. In presenza della morte – la civetta, la maledetta: “Dal tocco della morte vivo\ oggi risorgo: ma domani?\ Mentre io quasi morivo\ Erano distratti i familiari”. Ma di più segna l’insofferenza della solitudine, nel più solitario degli scrittori del Novecento che pure era ritenuto e avrebbe voluto essere il più socievole.
La presentazione alla prima edizione, del 1972, che potrebbe essere stata scritta da lui stesso (o dal sodale Pampaloni?), ripete il Landolfi noto: il prosatore “di raffinatissime clausole, preziosi intarsi, sontuosa sottigliezza” e “stilista sommo, traduttore e lettore raffinato”. Ma la poesia è semplice, apparentemente, e veritiera. Volendo, si può anche dire che il giocatore ha scommesso sulla semplicità della raffinatezza. Ma c’è pathos nei trecento componimenti, non solo nel titolo. Di risentimento – c’è anche un bianco nella prima edizione, dopo “All’ululo del lupo”. E di ribellione alla morte nella solitudine – subito in apertura Landolfi impone un distico, una sorta di apoftegma, ed è una bestemmia: “Oh Dante, Dante!\ Gronda m. il paradiso”.
Tommaso Landolfi, Viola di morte, Adelphi, pp. 317 €22

Letture - 77

letterautore

Città – Parma di Bertolucci, di Bevilacqua, Modena di Delfini, Napoli di Rea, La Capria e tanti altri, Ferrara di Bassani, Dublino di Joyce. Ci sono città che hanno un richiamo totale su certi scrittori, che non scrivono d’altro, e se ne identificano. Altre invece sono teatro di narrazioni diversificate, e sono le grandi capitali, Londra, Parigi, Vienna, Roma, Berlino.

Dante – Il commento alla “Divina Commedia” di Robert Hollander, lo studioso americano che ne è anche l’ultimo traduttore, privilegia il “Paradiso”. Non è solo, il “Paradiso” ha scalzato l’“Inferno” nella predilezione dei critici e del pubblico. E uno non può sottrarsi all’impressione che artefice del mutamento sia Benigni, le sue letture così affascinanti per tutti i pubblici. Poi lo stesso Hollander si dice in debito con Benigni, col quale ha fatto una manifestazione dantesca a Malta.

Duemila – Se ne può delineare un’estetica ben più che approssimata, se non certa. Nessuno mi tirerà fuori da me stesso, dice l’Autore, neppure il mio inconscio, ammesso che ce l’abbia. Per l’Amor Dei intellectualis di Spinoza, si può aggiungere, se non è già di Leone Ebreo, e dunque duplice. Rincorriamo le beatitudini, senza volerlo, senza stancarci, e perché non dovremmo?, il bisogno, il desiderio, il progresso, che sono le sole ragioni di vita, la speranza. Il mondo fondamentalmente è lo stesso. E si può presumere di sé, anche esagerando, seppure non al modo di Stendhal-Brulard, che di sé fantastica essere figlio di re, per questo insolentiva il padre?, e che la Rivoluzione l’augu-sto genitore avesse ordinato quale spettacolo a sua edificazione. Ciò anzi richiede la carità, che è poi tutte le virtù, e comincia applicata a se stessi.
Ma la pratica è avulsa – creativa? È un discorso mediocre, quello che il narratore rivolge al lettore nell’epoca dei procuratori, in forma di difesa, precisazione, accusa, la logorroica memorialistica. Seppure a un lettore specifico, un maresciallo, un giudice, che poi è gente che non legge, e come potrebbero?, i processi si fanno con cento e duecentomila pagine, anche se una scorsa agli atti la devono dare, diversamente dai lettori generici, ai quali basta il sentito dire, sanno già cosa devono sapere. E quindi è come inutile scrivere. Per questo la scrittura s’è fatta minacciosa: ansiosa, violenta, a caccia sempre di dessous, meglio se sporchi. Mentre il vero narratore sveglia il lettore e non l’intimorisce, l’avverte che lo porta in un sogno, sia Dante o Rabelais o il contastorie cashinua. Anche senza la peste fuori, una volta il narratore parlava in una cornice scelta, ai venticinque, gli happy few, ora la cornice è solo di catturandi. Con l’abbandono della psicologia dopo Kafka, quando più vero è divenuto l’inverosimile. Noi vogliamo, con Freud e il surrealismo, allargare le frontiere, ma i prefetti e gli stati maggiori ci hanno preceduto.
Resta la storia, ch’è una e varia. La discrezione di Guicciardini, la sensibilità di Chabod, la congiura di Patrizi. La dialettica della durata di Bachelard, il quadro incerto di Braudel, “la storia anonima, profonda e spesso silenziosa” nella quale “l’individuo è troppe volte un’astrazione”. La spinta alla fama di Coluccio Salutati. L’effetto della posizione verticale, che Herder scoprì. È come le lucciole la notte, che brillano e non illuminano. È pure abitudine, dice Febvre. E casalinga, si consuma di solito dietro le porte: “Quel che nella storia c’è di più ignoto potrebbe essere quello che c’è di più certo”, disse una volta l’ateo Voltaire. È scelta: “Per la felicità degli uni contro la felicità degli altri”, filosofano le “Demi-vierges”. E la complicità ci vuole, non si conciliano altrimenti tante storie.
Il rifiuto della storia va invece – andava - con la delectatio. Sulla traccia di Kierkegaard, il filosofo dell’adolescenza: “La memoria è parte dell’immediato e viene soccorsa nell’immediato, la rimembranza, invece, si avvale solo della riflessione”. O: “L’arte della rimembranza non è semplice, può mutare nel suo farsi, mentre la memoria oscilla solo tra il ricordo giusto e uno sbagliato”. Il solito passo sghimbescio del filosofo, il ghirigoro quale dev’essere d’ogni labirinto, accentuato dalla presunta ebbrezza notturna del vino, seppure placato, in traduzione, dalla rimembranza leopardiana: “Rievocare il passato come per magia non è così difficile come scacciare, per magia, il presente nella lontananza. In sostanza, è questa l’arte della rimembranza e la riflessione alla seconda potenza”.

Gattopardo - In una breve rievocazione dei primi rapporti con Sciascia, tratta dalla “Veridica Historia della vita di Ferdinando Scianna da lui medesimo raccontata” che ha messo online, il fotografo ricorda come, ventenne, fosse andato col nonno alla festa del Serpentazzo a Butera, passando al ritorno per Palma di Montechiaro. Siamo nella Sicilia “africana”, il tratto allora abbandonato da Agrigento a Gela. “A Palma trovai quello che ho poi ritrovato a Benares, o peggio in certi desolati luoghi dell’Africa desolata”, annota Scianna.
Questo non si rileva ma è importante: il contesto del “Gattopardo”. Di una nobiltà incapace, chiusa stupidamente nei suoi riti (i gelati che si squagliano). Che nulla toglie alla capacità di affabulazione del romanzo, ma ne limita la curiosa apocalitticità. L’ultimo Tomasi di Lampedusa era il giudice meno qualificato della Sicilia. I suoi antenati avevano creato Palma, la sua Palma era un rudere malsano per gente immiserita.

Sherlock Holmes - Ne “il riso di Talete” Gabriele Lolli mostra che le dimostrazioni e definizioni per induzione sono veri e propri giochi di prestigio. L’induzione è una delle tecniche preferite per costruire risultati paradossali, a partire dal paradosso del sorite che ne è stato la prima applicazione.

La regola di Sherlock Holmes, ha già detto Lolli, è che “quando il probabile è escluso, l’impossibile è certo”. Ma questa è la regola dei “Tales for a winter’s night”, del testo centrale, la raccolta di racconti del mistero che sono anch’essi un classico, ma sono sherlockiane senza Sherlock Holmes. Con alcuni principi, cioè, del doylismo: l’esotismo; il doppio e le situazioni rovesciate (“The black Doctor”, “The Man with the Watches”) – le pietre rimesse a posto invece che rubate; la ricerca della verità, né più né meno; e quindi, e soprattutto, l’irrilevanza degli indizi, un fatto è un fatto; il principio che “quando l’impossibile è stato eliminato il residuo, per quanto improbabile, deve costituire la verità”.
La forza di Sherlock Holmes non è di lavorare sugli indizi, come tutte le analisi vogliono ma sul fatto. Sorprende per la forza della verità, cioè del fatto, contro ogni verosimiglianza, per quanto imponente. C’è del positivo nel positivismo.

Nessuna delle regole di inferenza riconosciute e accettate è in grado di ottenere risultati normativi da input puramente descrittivi. L’argomento è svolto con ottimi risultati da A.Ayer, “Language, truth and logica”, cap. VI della seconda edizione (Herbert Simon lo parafrasa in “La ragione nelle vicende umane”, p. 17).
Altiero Spinelli, da uomo d’azione, concorda (“La goccia e la roccia”, 97): “La via «razionale» dell’osservare, astrarre, scoprire concordanze, ecc., è un’ingenua sciocchezza. Il linguaggio mitico è una necessità”.

Tragedia – È sempre stata lieve, siamo noi che la vogliamo lugubre e sulfurea. Oggi si ambienta in periferia e tra i vapori ossidati del sottosuolo, per i greci viene con la bellezza: in luoghi scelti per l'incanto, tra cielo e mare, all’ora luminosa e fresca del tramonto. Che è anche la fine del giorno, d’ogni vicenda.

letterautore@antiit.eu

lunedì 21 novembre 2011

“Padre Pio”, un premio all’antropologia della storia

La giuria del Cundill Prize per la storia ha reso nota la motivazione del premio assegnato una settimana fa a “Padre Pio” di Sergio Luzzatto, nella versione americana di Frederika Randall “Padre Pio. Miracles and Politics in a Secular Age”):
“Il libro di Luzzatto è di grande autore”, ha detto il relatore Ramachandra Guha, che insegna alla London School of Economics (il premio è stato assegnato all’unanimità): “La ricerca è eccezionalmente profonda e ampia, abbracciando pile di fonti archivistiche prima mai consultate, e libri rari e pamphlet custoditi in inaccessibili biblioteche. La cornice è transdisciplinare – è il lavoro di uno storico che sa di antropologia e di teoria politica. La scrittura è invidiabilmente lucida, e mai invasiva – per la quale sicuramente un merito va ascritto anche alla traduttrice”.
Luzzatto, professore di Storia contemporanea a Torino, ha avuto accesso per questo lavoro agli archivi vaticani. “In effetti, finché la malattia, la disgrazia e il male daranno tra noi”, così ha commentato il premio, “gli esseri umani, e specialmente i più fragili tra essi, avranno sempre bisogno di guardare a figure come Padre Pio per ottenere, se non un miracolo, perlomeno consolazione e speranza”.
Frederika Randall, la traduttrice, già segnalatasi per l’ardua traduzione di Meneghello, ha ora in corso quella di Ippolito Nievo, “Le confessioni di un italiano”, per i 150 anni dell’unità (dopo 150 anni…).
Luzzatto è stato scelto fra 132 concorrenti. In finale col suo “Padre Pio” erano stati indicati Timothy Snyder, “Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin”, appena tradotto in italiano, e Maya Jasanoff, “Exiles: American Loyalists in the Revolutionary World”, sulle diecine di migliaia di americani lealisti nella Guerra d’indipendenza, costretti all’esilio in Canada per sfuggire ai massacri.
Il premio Cundill, una sorta di Nobel degli storici, prevede un assegno di 75 mila dollari al vincitore, e due premi di consolazione di 10 mila dollari ai finalisti.

Povero Cristo, in mano a Flores

Curioso pamphlet: Flores si mette in una schiera numerosa di oscure autorità, per farsene eco, col sostegno di Daniélou e Hans Küng, e sostenere che, sì, Gesù è esistito ma non era il Messia, e lui stesso mai lo pretese. Come dire la scoperta dell’Africa, la quale era stata scoperta prima dello stesso Gesù Cristo. Per finire sulla fede intoccabile, che è “un’altra cosa”, dice il filosofo-polemista, ossequente al “Credo quia absurdum”. Una sola riga, dopo cento e rotte pagine di vituperio, verso lo stesso Gesù e verso papa Ratzinger – trattati come un Berlusconi qualsiasi. Senza interrogarsi, oggi, sull’absurdum. Povero Cristo, in che mani è finito!
Paolo Flores d’Arcais, Gesù. L’invenzione del Dio cristiano, ADD Editore, pp. 127 € 5

Ombre - 109

Ma che ha combinato
Napolitano
Che il governo ha donato
Al Banco Ambrosiano
Di sulfurea memoria?

Non perde tempo Michael Salvati, nuovo direttore del Mulino, che era nato come palestra liberale, e richiama all’ordine gli Indignati. Ieri no, servivano ad accendere i fuochi. Oggi fanno perdere voti al Partito: che storia è questa?

Commuovono i giornali che ogni giorno fotografano Monti alla Santa Messa on la moglie. Giornali anche mangiapreti, molto arrabbiati, fino all’altra settimana, per l’esenzione Ici. Non alla messa, non alla santa messa, alla Santa Messa.

Solo foto lusinghiere ora di Berlusconi sul “Corriere della sera”, umane. Dopo una photogallery mostruosa di anni. Anche il servizio grafico è centralista democratico?

Leggendo su “Lettura” Maria Laura Rodotà, fan di Louis de Funès, si scopre che nel 2008 il marito della cancelliera tedesca Angela Merkel le ha regalato alcuni film del comico per aiutarla “a capire e tenere a bada un nuovo collega di lavoro francese”. E che da allora la Merkel ha soprannominato Sarkozy “de Funès”. Da non credere. E invece….

Con tempismo, appena Monti ha formato il governo, Carlo De Benedetti se ne prende il patrocinio monopolizzando il “Corriere della sera”: vuol essere il primo sostenitore del partito neo guelfo. Dichiarandosi deluso dal Pd, di cui fu la prima tessera. Poi dice che non l’avevano detto, che gli editori non l’avevano dichiarato.
E l’informazione? L’opinione pubblica?

A governo ancora senza programma, e senza fiducia in Parlamento, Mucchetti spara sul “Corriere della sera” una bordata contro il governo di Banca Intesa. Incomprensibile, svogliata. Mafiosa, come se fosse un avvertimento della proprietà, Mediobanca-Unicredit, patetico.
Intesa non può spazzare via Mediobanca-Unicredit per la lettera dell’antimonopolio. Ma è da tempo che se ne è fatta una ruota di scorta.

Fiorello, che è stato ripescato nella sfortuna, e rilanciato in grande, dai berlusconiani in Rai, da Del Noce e Sanremo e ora da Mazza su Rai Uno, fa la caricatura solo di Berlusconi. Anche nelle innumerevoli interviste di servizio. Con sincero disprezzo. Anche quando adula Mazza (come già Del Noce). Che invece se la ride contento. La destra deve camuffarsi in Italia? È questo che infetta la sinistra?

Sorpresa martedì sul “Corriere della sera”: gli impareggiabili Stella e Rizzo con gran dispiego di tabelle, grafici e moralismi, rigirano i numeri per dimostrare che la Lombardia è la regione più virtuosa in Italia in materia di dipendenti pubblici. Tutti sanno che non è vero, che la Lombardia, Regione e Comune di Milano, ha il più elevato tasso di dipendenti pubblici, e di dirigenti, in rapporto alla popolazione. Ma non importa: lo stesso giorno la Regione Lombardia ridicolizzava ogni proposta di ridurre le auto blu degli assessori e consiglieri. Scoordinamento?

Due imputati al processo milanese contro la ‘ndrangheta sono stati assolti il 12 ottobre. Non lo sapevamo (sono stati assolti perché le trascrizioni erano false: i voti delle telefonate erano “contati” e non “comprati”). Ma ora che il Tribunale pubblica le motivazioni Ferrarella intrepido dà due velocissimi uppercut, sinistro-destro, al lettore del “Corriere della sera”: i due sono stati assolti perché “in grado di pagare una trascrizione integrale degli audio correttamente depositati”. Ci sono audio non correttamente depositati? E quanto costa una trascrizione integrale? Meglio non sapere.

I due assolti a Milano erano accusati di avere comprato con duemila euro duecento voti. È questo che ha indignato il Tribunale milanese: “Si fatica a immaginare a quale sottoproletariato avrebbe dovuto rivolgersi l’infermiere (il procacciatore dei voti, n.d.r.) per scambiare un voto con 10 o 20 euro”.

Dimessosi Berlusconi, la ministra Prestigiacono si accorge di vivere in una politica settentrionale, anzi milanese.

Si inneggia ancora a Mario Monti il liberatore ma da Venezia giunge il primo no: il Comune non potrà vendere i suoi casinò. I dipendenti dei casinò vogliono essere pubblici. Saranno meridionali?

È bastata la “folla” a piazza del Quirinale per ridare mordente a Berlusconi e ai suoi. Poi dice che Berlusconi non è la sua opposizione, Di Pietro, Bersani.

Bersani e i suoi accoliti, Floris e Fazio, ghignavano l’altro sabato alle “folle” che spernacchiavano Berlusconi. Folle indirizzate ad adunarsi spontaneamente dopo l’apertura della Ztl. Dai nuovi quartieri popolari, Parioli e Balduina. E spostate poi spontaneamente nelle aree strategiche.
Togliatti non l’avrebbe fatto.
Con Togliatti ci sarebbe stato Berlusconi? Aridatece Togliatti?

Monti avrebbe voluto dunque Amato al ministero degli Esteri. Ma il Pd, non richiesto, ha fatto sapere che Amato sarà pure un ottimo ministro degli Esteri ma non rappresenta il partito.
Una mossa tattica, il Pd pensava di poter avere, con questa sconfessione, il posto di sottosegretario alla presidenza del consiglio – il controllo del governo (che naturalmente non ha avuto). Ma con l’odio antisocialista degli ex comunisti, impermeabile a qualsiasi abiura.

domenica 20 novembre 2011

Il problema dell’euro è la Germania

“Ritengo il livello del debito tedesco preoccupante”, ha detto mercoledì al “General Anzeiger” di Bonn il coordinatore dell’Eurogruppo, il lussemburghese Juncker, in un’intervista che si è fatto finta di non leggere. Perché? La Germania “ha un debito più alto della Spagna. Solo che qui nessuno lo sa”.
E non è stato tutto. In quella che il giornale presenta come una doppia comprensione delle preoccupazioni tedesche, Juncker fa invece emergere un doppio rischio che la stessa politica tedesca ha aperto: il ritorno dell’inflazione, e una dissoluzione del mercato comune.
È quello che Tremonti è andato dicendo da alcuni mesi, senza fare breccia. È il muro che Monti si troverà davanti questa settimana nel debutto all’Eurogruppo, a parte i sorrisi. Il problema dell’euro è la Germania. Non il paese, ma la Bundesbank, l’ex banca centrale, che non voleva l’euro, e la cancelliera Angela Merkel, che ha perso tutte le elezioni da tre anni a questa parte, da quando le ha vinte.
Il problema dell’euro non è senza soluzione. Basterebbe far partire il Meccanismo di stabilizzazione, e avviare un parziale consolidamento “europeo” del debito attraverso le eurobbligazioni. Ma prima bisogna vincere l’inettitudine della cancelliera Merkel. Inseducibile purtroppo – direbbe un Berlusconi (non a torto) – da buona sassone: non c’è più la Germania renana.

Quant’è noioso il fiele amoroso di miss Ivy

Si lavora in un collegio femminile, donne-uomini e uomini-donne, attorno all’idea che il lavoro è degradante. La perfidia della signorina Compton Burnett ci gira attorno, nei consueti allusivi, noiosissimi dialoghi. Le sole donne che amano gli uomini, due in un pulviscolo di personaggi, arrivano a introdurre un po’ di fiele, in ruoli servili. La lettura più sorprendente rimane Arbasino, che nell’introduzione riesce ad appaiare Ivy Compton Burnett a Gadda: leggere per credere.
È un romanzo gay di gay, sessant’anni fa forse una bomba. Compreso qualche figlio, non amato, tra monosessuali. A meno che la bomba non sia questa, il disamore: gay e lesbiche vi profondono sentimenti come ghiribizzi, non più costanti delle futili conversazioni. Un romanzo satirico invece che liberatorio, di una lesbica professa a disagio nel mondo femminilizzato.
Ivy Compton Burnett, Più donne che uomini

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (108)

Giuseppe Leuzzi

Roberto Napoletano, il direttore del “Sole 24 Ore”, ha viaggiato otto anni fa da Milano a Reggio Calabria in due ore. Ora ce ne ha messe quattro.

Napoletano è andato a Reggio, invitato, a parlare della crisi economica al liceo scientifico Alessandro Volta, “una bella scuola con aule moderne, e tanti, tanti giovani”. Che si aspettava di trovarci? Ma li trova anche attenti, curiosi, e lettori di giornali inglesi. E questo è una novità.
Cioè non lo è. Il liceo si segnala da un paio d’anni, insieme con l’altro scientifico di Reggio, il Da Vinci, per i 100 e lode alla maturità. Questo gli vale ogni anno un paio di paginate di reprimenda del “Corriere della sera”: voti facili. Al giornale lombardo quest’anno la preside del Da Vinci ha voluto svelare il segreto della cosa. Che è anche un’ottima notizia - il lettore del sito ne trova qui i particolari:
http://www.antiit.com/2011/08/i-100-e-lode-di-reggio-c-e-il-corriere.html

Ha spiegato infatti che è il metodo Invalsi: si studia per i 100 – la realtà si adegua alla norma. Una chicca: storica, pedagogica, filosofica (logica, epistemologica), organizzativa. Ma il “Corriere” sdegnato non l’ha degnata di un rigo. In questo senso gli “scientifici” di Reggio sono ancora una notizia.

Alan Greenspan ritorna in scena a 85 anni, il banchiere centrale americano che ha provocato le crisi che da un decennio attanagliano il globo per tenere a galla gli Usa, e si diverte allegro a spese dell’Italia e della Grecia, le ultime vittime: “Due paesi da Club Med”, da vacanza di gruppo con animatore. È talmente allegro da ammettere che la crisi dell’euro è “un contrasto tra l’Europa del Nord e quella del Sud”. In genere il Nord si nega.

Dodici quintali di cocaina sequestrati l’8 aprile in un container nel porto di Livorno e non l’abbiamo nemmeno saputo. Un carico della metà sequestrato sei mesi prima era valso a Gioia Tauro la solita serie di paginoni sul porto della ‘ndrangheta.

Mezzo processo milanese alla ‘ndrangheta è saltato perché le trascrizioni delle intercettazioni erano infedeli. In particolare i voti “contati” erano stati trascritti “comprati”. Di uno svarione nelle sue trascrizioni pare che la stessa inflessibile Boccassini abbia dovuto sorridere: diceva “Gheddafi, Gheddafi”, invece che “puttana di ‘ndrangheta”.

Nessuna indignazione a Milano per queste burle. Eppure si sa che la ‘ndrangheta è attivissima a Milano: deve procacciare ogni giorno tonnellate di cocaina. Farla arrivare, controllarla, dosarla, smistarla. La logistica è un affare serio.
Il fatto è anche universalmente noto, perché la capitale morale è la più grande consumatrice al mondo di cocaina. Ma la ‘ndrangheta non viene perseguita per questo. Il processo è per voto di scambio e per concorso esterno in associazione mafiosa, i due reati più difficili da dimostrare, ammesso che siano reati – c’è voto di scambio solo dove votano meridionali, altrove il voto è libero?

Festeggiato dal Tg 1 per il suo nuovo albergo del lusso a Milano, il piacentino Giorgio Armani risponde alla domanda: “Che cosa le ha dato di più Milano?, dopo una pausa: “Mi ha lasciato lavorare”. Si dice così nelle zone di mafia, altrove ognuno è libero di lavorare.

In un pezzo sulla “convegnite” (ora in “I ferri del mestiere”) Fruttero & Lucentini elaborano una “congettura pompeiana”, immaginando il ritrovamento di un gruppo di persone fulminate dalla cenere mentre erano a tavola rotonda. Su quale argomento? “In quelle bocche pateticamente aperte per un estremo intervento, incuranti della cenere che di lì a poco le avrebbe zittite per sempre, la fantasia popolare volle scorgere le prove del primo convegno sul problema del Mezzogiorno”.

La Lega e l’egemonia
L’uso volgare, brutale, provocatore del linguaggio da parte di Bossi, per smontare la politica tradizionale. Il suo parcheggio in una zona ben visibile, un teatro all’aperto da commedia dell’arte, con ruoli riconoscibili, e per questo stesso fatto rassicuranti oltre che distruttivi. La riconquista su queste basi affidabili – la semplicità, la chiarezza, la secchezza - della politica. È “l’arroganza della semplicità”, è stato detto. No, purtroppo è Gramsci, l’infausta egemonia coniugata col nazionalpopolare. Ottima nozione di sociologia politica, ma cappello della brutta politica più spesso che della buona – della prepotenza più che della persuasione. Bossi recupera dal nulla, insomma con poco, l’egemonia culturale, molto al di là dei suoi esiti elettorali, che pure sono lusinghieri. Cattura il borbottio lombardo, veneto, e lo trasforma in egemonia mutandolo in odio, verso il Sud, verso la politica.
Si può discutere se è la Lombardia razzista, col Veneto, e Bossi solo un pennacchio. Oppure se Bossi non abbia condotto il Nord verso questo vicolo cieco. Prima l’uovo o prima la gallina? Prima Bossi o prima il leghismo, che Bossi ha messo a frutto politicamente? Entrambi, non c’è altra risposta: il leghismo non si distingueva dal campanilismo, Bossi l’ha indirizzato su Nord e Sud, contro il Sud.

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