skip to main |
skip to sidebar
zeulig
Abracadabra – Se viene dall’aramaico, “io creo come parlo”, ha risolto ab aeterno il nominalismo.
Accumulazione – Se è l’accumulazione, il thrift,
il risparmio, il consumo differito, l’origine e il fondamento della borghesia
(Max Weber), ora si direbbe che la borghesia è concetto e soggetto del passato.
Perlomeno in un certo ambito, quello dell’“Occidente”. Che il risparmio
piuttosto distrugge, proprio nei luoghi e le funzioni che ad esso sono – erano
– delegate, la banca, la finanza, l’investimento. Che per esso erano nate e si
erano sviluppate. Si apprezzava il risparmio fino a non molti anni fa, che
sembrano però un’altra epoca e un altro mondo.
Effetto della globalizzazione? No, la globalizzazione ha
portato il capitalismo all’intero pianeta – dall’Occidente al Terzo, vasto,
mondo. Come se in questo allargamento l’Occidente sì fosse esaurito, avesse
perso (diluito, evaporato) la funzione che gli è stata propria, di sua
creazione – che gli è propria,
l’Occidente, il capitalismo occidentale non ha altra funzione?
Felicità – Bertrand Russell, “Conquista della felicità”, ha l’“infelicità byroniana”,
di chi ha tutto. La definisce ed elabora per spiegare che la felicità richiede
un certo grado di privazioni . L’animale uomo, come ogni altro animale, essendo
costruito biologicamente in vista di una qualche forma di lotta per la vita,
Russell deduce.
Sorel – Si ripropone Sorel, le “Riflessioni sulla violenza”, come reperto
storico. Di una stagione e di un’idea che avranno sviluppi influenti sugli studi e la politica in Italia.
Riproponendo una curiosa continuità, a distanza di un secolo, del concetto di
crisi. Allora in reazione al positivismo, all’illusione del balletto Excelsior,
delle “magnifiche sorti e progressive”. E oggi? È lo sgomento nell’abbondanza –
il mondo non è mai stato così bene come oggi, di gran lunga. Ne parla il papa,
ne parla soprattutto il governo americano.
Nella critica al positivismo, in una con la traduzione e diffusione
di Sorel, emergeva in contemporanea il nazionalista Enrico Corradini, con la sua rivista “Il
Regno”: costante – ragione della rivista – era anche in Corradini la critica al
progresso, all’idea di uno sviluppo costante, e democratico, esito del
positivismo. Una critica impiantata su radici positivistiche.
Il tardo positivismo criticato da Croce, da Gramsci, da
Papini, e anche da Corradini, da posizioni profondamente diverse, fra i due primi
e i secondi due. Il nazionalismo è contrario alle sorti progressive.
Storia - Distruggere la liturgia tradizionale
“sembra un atto inutile e insensibile in un mondo in cui la Storia può scivolare
via troppo facilmente ed essere dimenticata” – dai giornali, sotto il titolo: “Bianca
Jagger si appella al papa con decine di Vip inglesi: «Santità, non faccia
scomparire la messa in latino»”. A parte il caso specifico, la storia che “può
scivolare via” è notevole.
Tempo – Primo Levi, in un “pezzo” semiserio, “Scacco al tempo”, inventa un inventore
che brevetta “un metodo per accelerare, rallentare o arrestare il tempo
soggettivo” (in “Racconti e saggi”). Partendo dalla premessa: “Il passo del
tempo quale viene percepito da ogni individuo
non coincide con quello indicato dagli strumenti cosiddetti obiettivi”.
Seguono misurazioni del tempo “reale” caricaturali, ma reali: “Secondo le mie
misure, un minuto trascorso davanti a un
semaforo rosso è 8 volte volte più lungo di un minuto trascorso in
conversazione con un amico; 22 volte se l'amico è di sesso diverso. Uno
spot pubblicitario alla tv viene percepito da 5 a 10 volte più lungo del suo tempo
effettivo, che raramente supera il minuto”. E “una notte trascorsa in stato
d’insonnia è più lunga di una passata dormendo”. E: "Come è noto a tutti, il tempo
soggettivo si allunga enormemente se vengono consultati con frequenza orologi
o cronometri”.
Vita – Dura finché dura la memoria.
zeulig@antiit.eu
“La Russia è un paese in cui c’è Mosca e poi
tutto il resto” - era la Russia alla vigilia della guerra, 25 gennaio 2022,
econ.online, della specialista di geografia economica e sociale Natalia Zubarevich:
“L’area di Mosca è tra le prime cinque più grandi al mondo in termini di
prodotto interno lordo”: con una quota esattamente del 20 per cento del pil
della Federazione, il 18 per cento degli investimenti, il 17 per cento del reddito
delle famiglie, il 34 per cento dei depositi bancari.
Le principali regioni petrolifere
e del gas, invece, non arrivavano, e non arrivano, al 10 per cento del totale del pil.
La guerra ha portato modifiche
rilevanti nella distribuzione della produzione e del reddito su base geografica,
regionale. A fine 2023 i contributi al bilancio consolidato della Ferderazione
di altre regioni che non la moscovita risultavano in fortissimo aumento: spece
le regioni a specializzazione metalmeccanica, beneficiari della spesa per
armamenti.
Ma della guerra si sono
avvantaggiati anche i settori di largo consumo: alimentare e abbigliamento.
Beneficiari indiretti della forte spesa pubblica: le regioni dell’Amur sono
cresciute del 176 per cento in due anni, di Tula del 103 per cento, San Pietroburgo
dell’87 per cento, e in misura minore ma cospicua altre aree della Russia centrale,
del Volga e degli Urali.
I quattro racconti qui riuniti, gli unici dela sua
torrenziale produzione, King continua a considerare, come nella lontana
prefazione del 1982, opere occasionali – non abbastanza corti per essere racconti,
non abbastanza lunghi per essere romanzi. E invece sono sempre vivi, e
combattono insieme a noi.
Si parte col terribile “Rita Hayworth e la
redenzione di Shawshank”, una prigione federale. E questo, cento pagine, basta
per tutti. Il film che ne è stato tratto, già una quarantina d’anni fa, “Le ali
della libertà”, è considerato da molti siti il più bel film fra tutti. E
perché? Perché dà l’illusione della giustizia. Mentre questo King, come Lester
Thurow, fa un processo terribile alla giustizia americana. La polizia
superficiale quando non è corrotta. La funzione giudiziaria tutta politica, sia
l’accusa sia la magistratura giudicante, d’intrallazzoni che sanno di diritto: si
fa carriera politica, con un partito a protezione, e si fanno campagne
elettorali, “popolari”. Decidono le giurie popolari. Che sono avventizie, al
meglio sono realmente sorteggiate e non precostituite. Ma sempre decidono di cose che
più spesso non capiscono, e comunque non sanno – si basano sulle impressioni del
dibattimento, se l’avvocato difensore o l’accusatore è più o meno bello, abile,
della etnia giusta, e ha fatto una buona scuola di dizione: non sanno di
diritto, a partire dalla costituzione, ma giudicano in diritto, anche della vita
e della morte.
“Rita Hayworth”-“Le ali della libertà” inscenano un
bravo giovane, intelligente e generoso, che la moglie tradiva, condannato a
vita per l’assassinio della moglie e dell’amante, mentre è innocente. Una polizia
inerte, una giuria di stupidi, forti dell’orrido puritanesimo, il giudice che dirige il dibattimento per fortuna non c’è (è un
politico, anche lui), carceri di violenza senza fine e commerci di tutti i
tipi, un direttore del carcere bigottissimo (battista) e corrottissimo, prove
d’innocenza che non interessano nessuno. Un sistema che si può soltanto
truffare.
Racconti raccapriccianti, che prendono per
l’indignazione. Tanto più che rientrano in un filone apparentemente indistruttibile.
Del resto Kamala Harris, che impersona la democrazia oggi in America, è una che ha fatto carriera così, con la mano leggera verso la polizia manesca di San Francisco, e risarcimenti
minimi per gli errori giudiziari: è riuscita con questo, e solo con questo, non
ha attività politica, a scalare le posizioni fino a giudice di contea, giudice
federale, senatrice, vice-presidente, e ora candidata osannata alla Casa
Banca. Se la più grande democrazia del mondo è democratica (“la pù grande democrazia
del mondo “ s’intendeva l’India, ma ora che anche lì c’è “un fascista”….).
Con nuove traduzioni, di Simona Vinci, Stefano
Giorgianni, Andrea Cassini, Loredana
Lipperini.
Stephen King, Stagioni diverse, Sperling&Kupfer, pp. 506, ril. € 19,90
Incassata la conferma della
presidenza della Commissione, con la comoda formula Ursula, i Popolari europei
muovono rapidamente a destra: tre presidenze di commissione all’Europarlamento
ai Conservatori di Meloni, con voto segreto, e ben sei vice-presidenze ai
Fratelli d’Italia – contro una presidenza per il Pd Decaro.
Il programma di Ursula von der
Leyen lascia il tempo che trova – è l’offa al partito Ecologista: tutte le case
coibentate entro dieci anni, tutte le auto elettriche, sempre nei dieci annj (piano
cui soprattutto le case tedesche si oppongono.
Si dicono Popolari ma sono la
Cdu-Csu tedesca, la democrazia cristiana. Che ha in corso una strategia di recupero
del voto moderato, confluito insidisosamente, nell’ultimo decennio, all’estrema
destra – di desra (Afd) e di sinsitra (Wagenknecht) – in misura preoccupante
per la politica tedesca. I cacellierati Merkel hano perseguito una politca di
sinistra, anti-Psd, il partito socialdemocratico, lasciando smobilitata l’area
moderata. Che ora va recuperata in fretta, c’è poco tempo prima del voto
politico.
Con Meloni sia Manfred Weber,
segretario dei Popolari, che von der Leyen avevano avviato da tempo un
approccio, sulle politiche dell’immigrazione, e per l’inclusione dei
Conservatori nella poliitica “dei due forni” dei Popolari stessi, ora di centro-sinistra
ora di centro-destra.
Primo Levi felice sa raccontare di tutto e lo fa. Curiosamente
apocalittico cinquant’anni prima della “mutazione globale”. La “disfilassi” per
cui fu famoso è ben la mania green di adesso, abbracciare gli alberi, esserne
abbracciati, impregnati. O “La grande mutazione”, la ragazza cui crescono le ali, e finalmente può tramutarsi, dall’alto del
campanile, in aquilone. C’è anche la ragazza
che, oltre a possedere sangue vegetale, viene fecondata dai fiori di ciliegio. O
il femminismo: “I costruttori di ponti” sono una gigantessa che accoglie nel
palmo della mano il primo, nanerottolo, homo
sapiens, e il suo taciturno compagno. O nel racconto “Nozze della formica”:
“Perché tanti uomini? Quel vostro fifty-fifty è roba sorpassata”, di uomini ne
basta e avanza uno, che faccia un po’ di lievito– “oltre tutto risolvereste
anche il problema della fame nel mondo”. E la tassonomia del pettegolezzo. La “bionda ossigenata” e le virtù
dell’ossigeno. Il dialetto (piemontese) lingua primaria. Una miniera. Un saggio
del “profondo legame personale” col vecchio Plinio” – per stigmatizzare la
figura dello scienziato che provoca danni immani, p.es. la bomba atomica, e poi
giulivo si pente.
Il lager è
ricordato con ironia. Nella persona che succedette a Höss gli ultimi mesi di
Auschwitz, e non sapeva nulla di cosa dirigeva. O dei pidocchi, che le prigioniere
stiratrici prelevavano dalle compagne morte di tifo e incollavano sotto i colletti
delle SS: “I pidocchi sono animali poco
simpatici, ma non hanno pregiudizi razziali”.
I sogni? Fastidiosi, d’accordo con monsignor Della
Casa, per chi li narra e chi se li deve ascoltare. Un saggio mirabile su Kafka,
dopo averne tradotto “Il processo”. Da
tecnico-scienziato, la molecola che si ribella – non fa quello che deve fare.
Da letterato l’elogio della rima, “La rima alla riscossa” – nei due componmenti
con cui apre le due sezioni, i racconti e i saggi, però non ci si prova (ci
prova nel primo, ma con applicazioni rare, come vengono, non studiate).
Un volume del cofanetto “Terza pagina” pubblicato
fuori commercio dal quotidiano in tiratura limitata nel giugno 1989, in
occasione del passaggio al nuovo formato del giornale – ma il volume era stato
già pubblicato dalla “Stampa” nell’ottobre 1986. Cinque dei venti racconti,
avveniristico-fangascientifici, erano già stati ripresi da Levi nella raccolta
“Lilit” del 1981: “Disfilassi”, “I costruttori di ponti”, “La sfida delle
molecole”, “A tempo debito”,”L’anima e gli ingegneri”. Con una premessa dello
stesso Levi, che diffida il lettore dal cercare “messaggi” nelle sue divagazioni
– “appartengono a un tipo umano di cui diffido: il profeta, il vate, il
veggente”. E da una nota di Lorenzo Mondo sulla “musa curiosa” e “la forza allegra”
di Primo Levi. Di “uno scrittore di forte stagionatura, insofferente di limitazioni
specialistiche, settoriali”.
“Una valle”, la poesia che apre la raccolta dei
saggi, è in realtà un albero, sempre vivo e fruttifero, il cui “tronco reca
vecchie ferite\ Da cui stilla una resina\ Amara e dolce portatrice di oblio” –
come lo stesso poeta?
Primo Levi, Racconti e saggi, “La Stampa”,
pp. 167 € 10
Si precisa anche normativamente
la tendenza cinese al decentramento politico-produttivo, già sotto il terzo
mandato di Xi Jinping, che pure è stato l’artefice della ri-centralizzazione -
di cui questo sito aveva dato anticipazione qualche mese fa
http://www.antiit.com/2024/06/chi-dopo-xi.html
Le presidenze Xi si sono
caratterizzate per l’irrobustimento della centralizzazione, o verticalizzazione
politica, degli orientamenti, nonché delle decisioni, di politica finanziaria e
economica di carattere generale – una sorta di reale (anche gestionale)
pianificazione economica. Ma il 14mo
piano Quinquennale varato da Xi nel 2021, che ora viene esteso al 2035, ha come
punto forte l’accelerazione della “modernizzazione” della Cina orientale.
Dell’asse Bejing-Tienjin-Hebei. Del Delta dello Yangtze. E della Grande Baia
del Gunagdong.
Le province, nel linguaggio del
Piano aggiornato, vengono espressamete riconosciute. Come “duplici
rappresentanti degli interessi generali e locali”.
Arrivata all’anti-semitismo
l’ideologia woke ha messo in crisi la
sinistra che l’ha sostenuta, accademica, intellettuale. Parte di una sorta di
“blocco rivoluzionario”, insieme con la critical
race theory, la cancellation culture, e la “politica dei
diritti” (femminismo, lgbtqia, minoranze).
Lo hearing di tre rettori delle università di California –Los Angeles
(Ucla), Rutgers e Northwestern, al Congresso a fine maggio ha avviato un
ripensamento. I deputati repubblicani delle Commissione indagatrice, ponendo quesiti
semplici, hanno messo in difficoltà i dirigenti, e soprattutto hanno riportato
i comportamenti univoci nelle università a cozzare contro il principio della
libertà di giudizio e di parola.
Una analoga inchiesta della
stessa commissione a dicembre, con i presidenti
delle università di maggiore prestigio, Harvard, Mit e Penn State, si era persa
nel problema delle occupazioni studentesche (pro palestinesi) dei campus e le
aule.
Il ripensamento è anche dovuto, probabilmente,
all’utilizzo delle strumentazioni woke,
unilaterali, di parte, che i Repubblicani più conservatori hanno avviato negli
Stati del Sud che governano, Texas, Florida, con interventi pesanti sulle
materie di insegnamento (di orientamento sessuale e di storia, soprattutto), e
sulle biblioteche scolastiche.
L’ideologia woke è presto arrivata, si direbbe, alla disillusione che Celentano
denunciava nella via Gluck, tra verde e cemento, “di destra\ o di sinistra” - una disillusione che emerge a ondate, con Gaber nel 1976, e non per colpa o merito della destra
.
“L’alba impollinò la Lombardia di una luce pallida,
poi dolcemente fruttata, illuminando a una a una le torri campanarie della Lomellina perse in un arcipelago di risaie”. È l’alba quando
Rumiz si sveglia in un capanno sul Po che sull’altra sponda guarda la
Lombardia. È Stendhal – ha prose simili quando si sposta nell’amata Lombardia.
Ma poi è l’inviato tignoso, preciso, rigoroso?, spiazzante. Per la precisione,
frutto delle note che prende evidentemente, e della preparazione - carte,
letture, testimonianze, memorie, di amici, esperti, promotori, tecnici, sapienti.
“Morimondo” è il nome che Rumiz dà alla barca nuova fiammante, costruita appositamente da Paolo
Lodigiani, che li porterà dal Po di Lomellina fino alla foce: è la
morte, quale gli è apparsa in molti viaggi di guerra.
È il racconto di un viaggio che Rumiz, con vari
amici a varie tappe, ha datto sul Po, dalle sorgenti
all’Adriatico – “alla Croazia”. In varie riprese, s’intuisce dalla
presentazione, dal 2000 al 2012. Quindi con vari natanti, varie compagnie, varie
stagioni. Un viaggio più faticoso che piacevole, o sorpendente. Il fiume è sporco
più che bello. Ostie e osterie sono simpatici, ma la natura è deteriorata, raramente rispondente all’attesa. La discesa è anche
piena d’insidie: secche, detriti, centrali elettriche in disupo (ruggine e
macerie), chiuse impraticabili, ponti pericoliossiimi, con mucchi di rifiuti di
ogni ghenere, dale automobili alle lavatrici, in agguato attorno ai piloni. E la
malavita di notte, “contrabbandieri, corrieri dela droga, pescatori abusivi”, senza
mai un controllo.
È, con “La leggenda dei monti naviganti”, parte della
denuncia dell’abbandono dell’entroterra, dell’ambiente: qui anche della pianura
padana, l’area più fertile e più produttiva del Paese, si chiede più volte l’autore
sbalordito, che sia tanto trascurata. Delle aree appenniniche si può capire,
hano perduto la funzione produttiva, ma lungo il Po?
Delle zanzare in Lomellina, “l’Air Force ci attaccò
in simultanea da tutti i lati”, si può dare testimonianza personale – come
tutti coloro mandati per il week-end nella ridente Lomellina (“a due passi da
Milano”).
Si naviga con molte parole marinare. E qualche storia
locale – fra Dolcino bruciato vivo. Con Omero e Dante. Ma sopattutto con le
pianure russe. Il libro è del 2012 – pubblicato a maggio del 2013: curiosi sono
i continui riferimenti alle pianure, paludi, fiumi della Russia, dei viaggi che
in contemporanea Rumiz faceva a Oriente, compresi i Carpazi e il Dnestr. Non
era un mondo ancora diviso.
Paolo Rumiz, Morimondo, Ue Feltrinelli, pp. 318
ill. 2x € 9,90
In dieci anni risultano sparite
(non più consultabili) quattro pagine internet su dieci. È l’esito d
un’indagine del Pew Reserch Center americano, che ha analizzato un campione di
un milione di pagine in rete dal 2013 al 2023. Il fenomeno è “trasversale”,
colpisce cioè spazi in rete diversi, da twittter, ora X, a wikipedia.
In particolare spariscono i
collegamenti interni ai post, i link.
Il 23 per cento delle pagine di notizie include un link non più funzionante. Su
wikipedia il fenomeno si raddoppia: il 54 per cento delle pagine dell’enciclopedia
online include un riferimento (specie nella bibliografia, in nota) non più funzionante.
Su X quasi un quinto di tutti i
post risultano inaccessibili pochi mesi dopo la pubblicazione.
Il fenomeno riguarda anche le pagine più
recenti: nel solo 2023 l’8 per cento delle pagine X risultano non più visibili.
Il fenomeno cancellazione è più accentuato in alcune lingue, si suppone a opera
di censura politica: il 40 per cento dei tweet in turco o in arabo non sono più visibili a tre mesi dalla pubblicazione.
Un giallo come una serie o sceneggiato tv. Col
colorismo, gli a parte (personaggi, situazioni) in parallelo con la storia
principale, l’umorismo blando, il colpo di testa e, purtroppo, la quotidianità
- il modello “Don Matteo”. Finisce anche anticipando il nuovo episodio. Teruzzi ci aggiunge un po’ di colore ambrosiano. Per
il quadro: a Milano piove, ad agosto, si mangia al chiuso e si dorme presto, e
si fanno corse lunghe all’alba. E per gli ingredienti: la mezza età, una lunga
vedovanza, la madre sessantottina che draga la notte altri vegliardi, la figlia
ingovernabile, il giornalista padrone di ogni situazione, il lago, il nonno
sapiente - e anche questo è già visto, nel giallo seriale napoletano (col mare
naturalmente, non il lago) – e la lettura di Scerbanenco. La cucina invece è
effettivamente, finalmente, nordica, c’è anche la polenta.
Qui Teruzzi sceneggia la storia vera di Lea
Garofalo, bella donna e buona madre, cui il marito, uomo dalle molte avventure,
in Calabria e a Milano, resta sempre legato, dopo averla uccisa – ha dovuto ucciderla perché ha denunciato gli affari
sporchi di famiglia. Non così diretta, ma quasi. Risolta con un’indagine
familiare, comprensiva di madre, fumata e fumantina. Con un po’ di esotismo in
Calabria, dove il mare è di cobalto e i cieli blu trafitti di stelle, nei
luoghi di Loredana-Lea. E lo sboccio fugace di un amore represso, con il
collega e amico del marito. Assassinato per avere avuto le prime confidenza di Loredana-Lea
– che lo aveva stregato?
Molto veloce, malgrado tutto.
Rosa Teruzzi, Non si uccide per amore, Ue
Feltrinelli pp. 159 2 x € 9,90
Senza i soliti abbracci d’uso a
Bruxelles, ma diretta e pratica, la prima visita del neo-presidente del
Consiglio Europeo, il socialista Costa,
è stata a Roma, governata dalla destra. Nel Consiglio contano i governi, e
Costa, che per dieci anni è stato anche a capo del governo del Portogallo, sa
cos’è la politica, e come va agita.
La visita non è stata seguita da
nessun annuncio particolare, ma è un segno d’attenzione, necessario in una
Europa che ha molti governi di destra: con Meloni si può, intende Costa, e si
deve parlare. È questa la chiave del successo inatteso, finora, di Meloni a
Bruxelles, su tutti i temi da lei posti in agenda, bilanci, immigrazione e Mediterraneo.
Si sono precisate nella stessa
giornata le dinamiche europee anche al Parlamento. Più che la rappresentanza
contano i poteri, l’esercizio dei poteri, anche minimi. È così che il Pd, che
ha nel Parlamento europeo la rappresentanza più folta del gruppo socialista-democratico, è rimasto in corsa per
la presidenza di una soltanto delle venti Commissioni – dove si decidono
l’agenda e le proposte di legge (forse per Decaro, l’ex sindaco di Bari, in virtù
dei tanti voti personali raccolti). E si precisa che von der Leyen, “scelta e
imposta” da Francia e Germania, ha avuto solo 26 o 28 suffragi sugli 81 francesi - il capo degli Insoumis, che hanno votato contro, si è poi fatto fografare nel solito abbraccio a von der Leyen.
L’Europa funziona come una
federazione loose, allentata, di una
trentina di governi, e questi contano: i bilanciamenti, e le alleanze. Non su
linee di partito, ma di governi.
spock
È meglio un presidente vecchio o uno pazzo?
Un
po’ pazzi siamo tutti, direbbe Basaglia, ma certo up to a point?
E gli americani, per metà tutti pazzi, anche
loro?
Questa
sindrome americana del manicomio non richiama quella sovietica – rientra
nell’eredità culturale della fine del comunismo?
O
l’America invidiava Stalin?
America al voto o la congiura dei
pazzi?
spock@antiit.eu
Lore Mechan,
la figlia del giudice Democratico Mechan, che a New York ha rinviato a giudizio
Trump con 34 capi d’accusa per avere pagato una prostituta, ha diretto la
campagna elettorale digitale di Kamala Harris nel 2020.
Si
presenta Kamala Harris come una possibile candidata “di colore”. Che per una
donna indiana, di razza bramina, la più ricca, elevata, e comunque dominante in
India, quale la vice-presidente è e si vuole, è un’ingiuria. Di mezzo nero ha
solo il padre, un giamaicano, alta borghesia professionale, con cui però è in
lite, lui l’accusa di razzismo. Ma è vero che ha fatto carriera sul colore della
pelle e sul genere, in politica essendo stata una modesta agit-prop, più
arrivista che attivista: Kamala Haris ha prosperato a San Fancisco come la
prima Procuratrice Federale donna nera. E poi come la prima senatrice donna
nera. Ma a dispetto dei neri – e delle donne nere attive nel partito Democratico.
Nella
campagna per le primarie democratiche 2020 Kamala Harris si segnalò per essere
specialmente feroce contro Biden, che accusava di razzismo – “un vecchietto razzista”.
Oltre
che con Biden e con col padre, K. Harris ha litigato in passato a lungo con i media. Che
la consideravano una sbirra
pura e dura. Da Procuratrice distrettuale a San Francisco, e poi da Procuratrice
generale della California, era famosa per aver difeso – col temporeggiamento,
le omissioni, i rinvii – la polizia accusata di abusi. E per il mancato
riconoscimento, in alcuni casi celebri, dei diritti dell’accusato per ingiuste
condanne.
Chiudendo
il racconto della sua estate tredicenne con Molotov, quello che firmò più condanne
a morte, più di Stalin negli anni sovietici del Terrore, Erofeev trova che la
stessa temperie, di odio verso l’esterno, è resuscitata “ancora una volta nel
mio paese sotto la guida di Putin”. Constata che “ogni governante russo si
sintonizza involontariamente sull’onda stalinista”. Involontariamente no. Ma
poi si chiede: “Che l’anima russa sia stalinista per natura?”. Benché anche lui
sia russo.
Questo
può essere un problema. Putin invece è un problema perché vuole la Russia
europea. A ogni costo. Era il leitmotiv e l’epicentro della sua lunga
intervista nel 2000 – molto prima cioè di diventare “Putin, il nemico dell’Occidente”
– con Public Affairs, l’organizzazione newyorchese (“First Person”, p. 169): “La
Russia è un paese molto composito, ma siamo parte della cultura Occidentale Europea.
Non importa dove la nostra gente viva, nell’Estremo Oriente o al Sud, siamo
Europei”. E all’obiezione: “Resta da
convincere l’Europa”, risponde:. “Combatteremo per mantenere la nostra
posizione geografica e spirituale. Se ci spingono fuori, troveremo alleati per
rafforzarci, che altro possiamo fare”.
La storia centrale di un film del celebrato, un tempo, comico siciliano, catanese, Angelo Musco era lo stesso Musco morente, che ai parenti affranti diceva ti lascio, ti lascio, ma non aggiungeva mai la parola attese, erede. Qui invece ben sette sono gli eredi, più gli affini.
Il finale, mezza riga, lascia insoddisfatti – niente
lieto fine, nemmeno per i giovani innamorati (che forse non lo sono?). Ma prima
è un susseguirsi di sorprese.
Appassionante. Sul filo lineare del testamento: un greco emigrato
povero che ha fatto fortuna in America lascia l’eredità ai sette compagni di
avventura con i quali si è salvato su una zattera dal naufragio della carretta
del mare su cui si erano inizialmente imbarcati. Qualcuno, al corrente dello
strambo testamento, comincia a eliminare gli aventi diritto, per moltiplicare
la sua quota.
La trama si complica perché gli aventi diritto non
sono soltanto i sette compagni di avventura, la legge assimila a loro i coniugi,
i fratelli, i figli. Un’occasione anche per una scorribanda in mezza Grecia, a
Ámphissa, nel Pelios con Volos e Makrinitsa, il Pireo naturalmente, e altre
amenità.
Marìs, sdoganato, anche lui, da Crocetti, è eletto
da Markaris come il “padre” del suo proprio commissario Charitos. Ma sul
commissario Bekas si perdono poche parole, Marìs va veloce sui fatti, seppure
col necessario sbalzo dei personaggi che via via uccidono\sono uccisi.
Pseudonimo del giornalista Ghiannis Tsirimokos,
vissuto a cavaliere della guerra, 1916-1979, Marìs risulta avere scritto “oltre
40 romanzi brevi, che all’epoca non ottennero il successo che avrebbero meritato
ma che sono diventati negli anni dei classici del giallo”. È curioso, anche in
Italia, fino agli anni 1980 il giallo era “genere di genere”, e per lo più, per
gli addict, anglo-americano: il
Mediterraneo è arrivato tardi al giallo – anche in Spagna: Montalbàn dilaga nei
tardi anni 1970.
Ghiannis Marìs, Il tredicesimo passeggero, Ue
Feltrinelli, pp. 179, promozione 2 x €9,90
“Ius
soli sportivo, emergenza per non perdere il talento dei nuovi italiani: 36 azzurri nati in altri paesi” - una
pagina per Malagò (Coni) del milanese “Sole 24 Ore”. E i figli di stranieri nati in Italia, che tanto faticano per la cittadinanza? Emergenza solo sportiva? E
la demografia, la fiscalità, la previdenza, la formazione, l’assimilazione degli
immigrati, ai modi di essere, dire, pensare, vivere in Italia, no? Perché,
siamo offesi? Sono offesi i buoni credenti lombardi, e il buonissimo Zaia?
Lasciando stare i vangeli – le anime pie non li amano.
L’Italia
ricca non è molto intelligente: c’è un rapporto?
Che
ha fatto Pascale, l’ex di Berlusconi, per meritarsi pagine, sul “Corriere della
sera”, nazionale e fiorentino, e su “La Nazione? Un giorno possiede tre attici
a Firenze. Il giorno dopo li affitta b&b e ha già guadagnato 28mila euro.
Sono bellissimi e lei, terzo giorno, amerebbe abitarli, ma ha undici cani.
Pubblicità pagata? Occulta? Giornalismo?
“L’anomalia
italiana” dice il voto di Meloni a Strasburgo per la commissione Ue Sergio
Fabbrini sul “Sole24 Ore” – in linea con i commenti di tutti i media. Si può
discutere della valenza politica del voto, della sua saggezza o utilità, ma perché
“anomalia”? Il governo italiano è di destra, quindi non è giusto che voti un
esecutivo di sinistra. Ma, poi, il,vero esecutivo è il consiglio europeo. Dove la
sinistra non è più maggioranza.
La
Commissione si dice che ha l’esclusiva dell’iniziativa legislativa europea. No,
ce l’ha su mandato del Consiglio.
Un
candidato presidente che sfugge a un colpo mortale per un paio di millimetri. Di
cui si dimenticano le dozzine di processi a suo carico montati da giudici del partito
avverso. Un attentatore “venuto dal nulla” – subito ucciso, Un presidente mezzo
incapacitato. Una vice di nessun affidamento – in carica perché donna e mezza
afro. Materia da basso impero – da “tragedia shakespeariana”. Di un impero si direbbe che vacilla. Come non
detto.
.
Il
ministro della Giustizia Nordio si astiene dal mandare ispettori a Genova, sull’inchiesta
giudiziaria contro il presidente della Regione Toti, ma dice, dei giudici del
Riesame: “Ho letto la loro ordinanza con attenzione e non ho capito nulla”. Da
ex magistrato è verosimile – è vero, questa giustizia nasconde la mano.
Carola
Rakete fa sapere a tutti, allude, mostra, che lei non si depila. La sua organizzazione Sea-Watch afferma che, “probabilmente”,
Meloni e Piantedosi siano andati in Libia “ad aumentare il numero di uccisioni
nel Mediterraneo”. È roba tedesca, viene da dire, si sa che i tedeschi sono
piuttosto barbari, anche nelle polemiche. Ma poi concludono: “Auguriamo loro
tutto il male dal profondo del nostro cuore”. Rakete è deputata della Linke, il
partito erede della Sed, che governava la Germania comunista.
“Il
Sole 24 Ore” online, a caldo dopo l’attentato: “L’attentato a Trump. Il Tycoon:
«Non mi arrenderò mai»”. Il bue che dà del cornuto all’asino, tycoon a chi?
Gianni
Cuperlo, il più illustre dei candidati mancati alla guida del Pd, riappare a
Montecitorio e “la Repubblica” gli dedica una pagina. Concetto Vecchio gli
obietta: “Il Pd non vince un’elezione dal 2006”. Già, ma da allora a oggi ha
governato per tredici anni, quasi quattordici,
su diciassette. Miracoli della democrazia.
Dunque,
da Miami sono venuti a Milano al concerto di Taylor Swift perché tutto sommato
costava meno – e in più si faceva una vacanza. Un biglietto in America costa
2000 dolari, e allora…. Se ne fa colore, ma è sgomentante: partecipare
all’“evento”? Il nichilismo c’è, ha ragione, è la stupidità – allegra come no,
colorata.
Il
superlatitante superricercato che si nasconde in casa, col frigorifero pieno, è
troppo. Per essere vera. Però è vera.
“Molotov morì l’8 novembre 1986 all’età di 96 anni.
… Morì senza funerali di Stato. Sulla «Pravda» (da lui creata e di cui era
stato il primo redattore capo) comparve solo un modesto messaggio…: «È mancato
un pensionato importante per l’Unione,
membro del Pcus dal 1906, V.M.Molotov”. Così finisce il racconto. L’inizio è altrettanto
sorprendente: “Chi tra i dirigenti sovietici firmò il maggior numero di liste
di esecuzioni durante il Grande Terrore? Stalin? No, lui ne ha firmate 367. Il
primato, 372, è di Vjaceslv Michailovic Molotov”, capo del governo. Lo stesso che lo scrittore ebbe per amico, taciturno,
una lontana estate, “lo zio Slava”.
Erofeeev frequentò Molotov l’estate del 1962, quando
aveva quindi 72 anni, ma lo ricorda come un compagno di mute compagnie, per lo
più notturne, sotto le stelle, provando a sintonizzare una primissima radiolina
a transitor su Radio Londra – imprese nella quale il ragazzino Erofeev, allora
quindicenne, riusciva, prima o poi, salvo al momento delle notizie politiche
essere invariabilmente sovrastato dal jamming,
le scariche di distrubo del controspionaggio russo. Erofeeev, figlio di
diplomatico, aveva passato molti anni a Parigi, ed era cresciuto senza una cognizione
precisa del mondo sovietico.
Vjacesvalv Skrjabin, detto “Molotov”, da molot, martello, pseudonimo assunto nel
1906, a sedici anni, quando aderì al partito Socialdemocratico Russo, poi con
Lenin nella rivoluzione d’Ottobre, 1917, era stato nominato da Stalin nel 1930
capo del governo sovietico, e nel maggio
1939 ministro degli Esteri - in tempo per la firma del famoso patto del
disonore, il Patto Molotov-Ribbentrop, con la Germania nazista, per la
spartizione della Polonia. “Cadde in disgrazia” nel 1948, con l’arresto della
moglie Polina Žemkužina, una intellettuale. Tornò agli Esteri nel 1953, dopo la
morte di Stalin. Fino al 1956, quando fu destituito da Kruscev nella
destalinizzazione. L’anno dopo tentò un
golpe di partito contro Kruscev, che fallì.,Fu mandato ambasciatore in Mngolia
e po a Vienna, all’A genzia atomica. Infine espulso dal aprito e da ogni incarico
nel 1961. Morità nel 1986-
È un Molotov in disarmo che Erofeeev frequenta
nell’estate del 1962, nel quartiere sub-moscovita di dacie per diplomatici,
piccole, modeste. In digrazia, come usava dire. La nonna che lo accudisce lo
avverte che la frequentazione dello “zio Slava” può danneggiare il padre
diplomatico tuttora in servizio. Una persona mite. Mjta ma attenta. Oppure la
memoria tradisce Erofeeev. Oppure, come lo scrittore spiega alla fine, il ricordo
si modula sull’attualità. Per appaiare l’odio anti-occidentale di Stalin e
Molotov a quello di Putin.
Con una curiosa inversione, Putin non essendo stato,
e non essendo, anti-occidentale, anzi - la Russia lui vuole assolutamente europea,
la sua guerra è contro chi vuole spingerlo fuori. O più che curiosa, leggendo l’ultima
frase: “Che l’anima rrussa sia stalinista per natura?”
Viktor Erofeev, Mio zio Slava (cioè Molotov), “La Lettura” € 1
Si riduce (ma solo in Italia) l’ondata
politica di destra - in Italia ormai cronica, da trent’anni - al fascismo. O
agli analoghi: sovranismo, populismo, etc.. Mentre sondaggi e statistiche
dicono il contrario: votano a destra i più poveri, se votano, e i “perdenti”
(posto, reddito, funzione). In Italia come in Francia, il fenomeno è da tempo, involontariamente?, radicato. E ora anche in Gran Bretagna (il successo elettoralmente abortito
dell’estrema destra fa da pendant,
nei numeri dei suffragi se non dei posti in Parlamento, di quello vincente del
laburismo), e in Olanda. Sulla traccia, anche qui come per ogni altro fenomeno
sociale e politico, dell’America: si può dire Trump un tycoon, un riccastro, e un facinoroso nazionalista. Ma ha vinto, e
potrebbe rivincere a novembre, col voto dei poveri e dei perdenti . In Francia
un terzo della popolazione, dal Nord-Est al Sud-Ovest, Marsiglia compresa, si
sente trascurato e anzi abbandonato - è la Francia che vota Le Pen.
Negli Stati Uniti il calcolo è
semplice, stato per stato. Nelle elezioni presidenziali del Millennio, comprese quelle obamiane, hanno votato democratico
gli stati più ricchi (e più popolosi), la California, il New England, New York,
Washington, Arizona e poco altro Sud, tre quarti o quattro quinti della Grande
Prateria americana ha votato repubblicano. Popolazioni sparse, poco urbanizzate,
poco coltivate. E risentite per più di un aspetto.
In Italia non si pone mente all’esito
del voto del 2022, spettacolare nelle mappe colorate tanto è
stato uniforme. All’infuori di ristrette aree tra Firenze e l’Emilia, il paese ha votato compattamente destra, eccetto che a Milano e a Torino.
Usa dire – scrivere – “ma l’Italia
è tra i Paesi fondatori dell’Europa unita”, come un titolo di potere politico. Ma l’Europa non è più quella, ora,
da trent’anni almeno: è germanocentrica – è quello che si vuole e si fa a
Berlino.
Nell’Europa della fondazione la
Germania era divisa, con l’Armata Rossa a Berlino, e dipendeva dall’Italia. Dalle
truppe americane che gli Stati Uniti stazionavano in abbondanza nel Veneto,
come in Baviera. La Francia era membro critico della Nato, solo l’Italia dava
affidamento contro Mosca – la Germania di Bonn corteggiava perfino il Pci, il partito
comunista italiano, come quello che avrebbe potuto mediare a Mosca in una crisi.
Con l’accettazione Craxi-Cossiga
degli euromissili l’Italia ha raggiunto l’acme di questo potere indiretto sulla
Germania di Bonn. Tanto più che lo schieramento è stato seguito dal crollo dell’Urss,
militare e quindi politico. Con la Germania unita è cambiato tutto. Mentre
subito dopo cambiava anche l’Italia col terremoto di Mani Pulite.
La Germania fa sempre affidamento
sulla protezione ultima (nucleare) degli Stati Uniti - e non della Francia. Ma
è una protezione di ultima ratio, non
ha più bisogno dell’“Italia volenterosa”, delle truppe e dei missili americani
che vi stazionano. E l’Italia non è più la potenza Dc che era, che rincuorava e
raffozava la Cdu-Csu, gli ora Popolari - lo scioglimento della Democrazia
Cristiana, che era stata per quasi mezzo secolo la grande forza del Centro (Zentrum) in Europa, ha provocato nel
semi-continente occidentale aggiustamenti non da perestrojka,
ma comunque rilevanti.
La Germania unita è tutt’altro da
quella di Bonn. Ha avuto ancora un occhio di riguardo per l’Italia negli anni
di Kohl, che veniva dalla repubblica di Bonn, e rispettava l’allora potente Dc.
Ma “non esiste”, si direbbe a Roma, con i successori, Schröder e Merkel - per
non dire di Scholz, che in Italia non ci viene nemmeno in vacanza.
Schröder viene al caso anche per
una sostituzione importantissima, della Germania invece dell’Italia quale
partner privilegiato del gas russo – privilegi di quantità e di prezzo. Erano l’Eni
e l’Italia i partner privilegiati di Gazprom per le esportazioni. Avevano
consentito a Gazprom di avviarle, nel 1968, passando sopra a preclusioni ultimative
dell’America, e a resistenze (socialiste) nello stesso governo ialiano, prima e
dopo l’invasione russa di Praga. Diventando nella stampa filo-atlantica (Montanelli compreso) “il tubo
di Mosca”. E nel 1974 raddoppiarono le forniture. A lungo partner quasi unici
(a parte le repubbliche sovietiche, soprattutto la recalcitrante Ucraina, che
ogni anno minacciava di tagliare il rifornimento all’Italia – Ucraina e Cecoslovacchia
accusavano Gazprom nei loro giornali di praticare prezzi di favore all’Italia).
Schröder ha finito per diventare
consulente di Gazprom, e “il lungo tubo” si è praticamente fermato in
Germania.
L’incisore, pittore e intellettuale pistoiese torna
per una stagione in Versilia, dove passò un periodo fertile della sua
formazione, giovane amico di Soffici, e quindi familiare di Carrà, Funi, Cicognani,
Ugo Guidi, il cosiddetto Gruppo del Quarto Platano (ora defunto) del Forte dei
Marmi. I quadri, pochi, della retrospettiva lo mostrano a oltranza: colori
tenui, la pennellata lunga, soggetti muti.
La mostra è soprattutto provvida dei lavori di Bartolini
incisore. Uno dei maggiori, se non il più significativo, incisore del
Novecento. Con numerosissime tavole delle sue molteplici illustrazioni di “Pinocchio”
- per un’edizione speciale lo provvide di ben 300 xilografie.
Artista irrequieto, dagli interessi molteplici, poco
attento al mercato, Sigfrido Bartolini gode a Pistoia, la sua cttà, di una
Casa-museo a lui specificamente dedicata. Che ne cura anche l’attività
pubblicistica. E qui si vede perché il nome circola poco: S. Bartolini è un
intellettuale molto presente, molto “impegnato”, nella seconda metà del
Novecento, ma, pervicacemente, nell’area sbagliata. Nell’area culturale cosiddetta
perdente, a partire dal “Borghese” di Longanesi, in rapporto privilegiato, testimoniato
anche dai numerosi epistolari che ha curato, con Evola, Volpe, Gabriel Marcel, Vintila
Horia, et al. Una posizione politica che si collega anche al rifiuto polemico
dell’“arte moderna”, Sigfrido di nome e di fatto, che quindi lo ha a lungo
escluso dalle gallerie e dal mercato.
Clara Mallegni-Simonetta Bartolini (a cura di),
Sigfrido Bartolini. Una retrospettiva, Massa, “MUG2” (Museo Ugo Guidi 2)
letterautore
Cattolicesimo – Gli ultimi due
Nobel norvegesi per la Letteratura, Sigrid Undset quasi un secolo fa (1928) e Jon Fosse, sono due convertiti
al cattolicesimo – hanno ottenuto il premio dopo la conversione. Si parla di conversione opportunamente: in ambito
luterano, spiega lo specialista di letteratura norvegese Giuliano D’Amico, il
cattolicesimo implica un ambito spiritualistico, quasi metafisico – come se Lutero
rianimasse Roma?
Denaro (moneta) – “Far girare
gli affari è, quando tutto è stato detto e fatto, ciò per cui il denaro esiste”
– Hjalmar Horace Greeley Schacht, “Confessions of «The Old Wizard»”, p.99.
Don Giovanni - Un comunicatore,
un persuasore: il “dongiovannismo” prospetta come “la più sofisticata tecnica
persuasiva” Nicoletta Polla Mattiot, “Il potere del silenzio”.
Gadda – Ma era gay? Si vuole (Arbasino,
anche Parise) gay ma non si conosce una sola riga, o una sola affezione, in una
vita pur variata e accidentata, in guerra, in Sud America, in Lombardia, a Roma,
a Firenze, città dall’omosessualità già normalizzata, con i suoi riti e i sui
locali, e di nuovo a Roma. Singolare l’ultimo scritto riaffiorato dalle carte,
“Il calcio in costume”, pubblicato da “Robinson”. Singolare la freddezza della
sua descrizione a fronte della carnalità dello spettacolo, che la rivista esibisce
in fotografie. Uno scritto palesemente “alimentare”, per qualche rivista, per
poche lire, svogliato. Nessun fremito per
i corpi nudi, quale avrebbe esibito un Pasolini: i corpi maschi, atletici,
nudi, avvinghiati, sudati e infangati, lo lasciano freddo. C’è da dubitare del
gaysmo di Gadda, che è solo non interessato al sesso – capitava e capita in tutte
le famiglie, anche se l’epoca sessuofoba-sessuomane, freudiana, non lo
consente.
Hebbel – Il narratore amato
di Heidegger il banchiere Hjalmar Schacht ricorda nelle memorie (“Confessions
of the «Old Wiazrd»”, pp. 51-52) in tempi grami – lo fa ricord are dal nonno:
“Era figlio di un muratore di Wesselburen,
tra Büsum e Heide”, dove il nonno faceva un anno di praticantato da farmacista:
“L’ho conosciuto quell’anno. Scriveva recite in chiesa (church plays), poverino. Aveva molta voglia d’imparare il latino,
per poter leggere gli autori latini, e gliene ho dato lezioni per quasi un anno…
Nessuno avrebbe creduto che avesse un futuro. Poverino, era ambizioso, e pieno di strane espressioni artificiose. Ma
intelligente – molto intelligente.”
Il
rapporto è continuato anche quando il nonno di Schacht ha ripreso gli studi a
Copenhagen. Testimoniato da un lungo rapporto epistolare. L’opinione del nonno,
per quanto amichevole, non è molto positiva: “Più tardi Amalie Schoppe, la
scrittrice di Amburgo, lo prese con sé, per dargli la possibilità di fare veri
studi. E studiò, ma non penso che sia mai stato realmente felice. Era una di
quelle persone che pensano di poter fare qualsiasi cosa. E non funziona così”.
Qualche anno dopo, in memoria del nonno, Schacht pubblicò la sua corrispondenza,
da studente laureando in Medicina, con Hebbel, su un’importante rivista,
“Magazin für Literature” – le lettere di Hebbel poi sono confluite negli archivi
Goethe-Schiller a Weimar.
Hemingway – “Un turista
che sapeva scrivere”, Alicia Giménez-Bartlett lo fa dire dal suo personaggio Petra
Delicado, in “Morti di carta”, 133.
Latino – Resterà in uso
in Inghilterra e negli Stati Uniti, dopo la ripulsa del papa Francesco? In
Inghilterra ha ancora un ruolo nella giurisprudenza, nella terminologia
giuridica in genere, dal costituzionale “Habeas corpurs” in qua. Negli Stati Uniti
ancora di più, e più frequentemente, nella pratica di polizia e di giustizia: subpoena duces tecum (comunemente subpoena), vi et armis, venire ….
Leggi razziali – “Verso agosto,
non senza dolori burocratici, mia sorella ottenne di riprendere possesso del
nostro alloggio, che era stato posto sotto sequestro durante le leggi razziali”
(Primo Levi, “Il mitra sotto il tetto” - in “Racconti e saggi”). Agosto del
1945. Quattro mesi dopo la fine della guerra.
Elsa Morante – L’autrice de
“La storia”, degli “ultimi”, non amava i poveri. Così la ricorda la nipote
Laura, figlia del fratello, su “Robinson”: “Dai modi arroganti, dal disprezzo
che nutriva per noi e per mia madre che era tutto il contrario di lei: dolce, paziente,
ansiosa. La mamma amava gli ultimi, i perdenti. La zia no, e le si leggeva
negli occhi”.
Resistenza – Nel racconto
“Il mitra sotto il tetto” (ora in “Racconti e saggi”), Primo Levi ha i partigiani
che sua sorella, 23 anni, “staffetta partigiana”, doveva ospitare, “feriti o, cosa
frequente, «che non ne potevano più»”.
Slavo – È poi schiavo, nient’altro. Una
verità semplice che Maurizio Maggiani richiama su “Robinson”: “Il destino degli
slavi in un nome”. Che nasce attorno al Mille: “Perché gli slavi siano divenuti gli schiavi va imputato a Ottone I
detto il Grande”, Ottone di Sassonia – “sconfitti gli Slavi li tradusse in massa nel suo regno perché fungessero da
evoluti animali da lavoro a dispos izione del cronico deficit germanico di
forza lavoro”. Cronico no, ma in certi frangenti sì.
Per
i Romani c’era il servus, dice
Maggiani, non lo sciavo. Ma un servo che
modernamente si dice schiavo, comprato e venduto, come merce. La condizione
servile degli slavi sconfitti era la novità, non la servitù, senza diritti.
In
realtà la cosa è più complessa, anche per quanto concerne gli slavi, e
anteriore e posteriore a Ottone I, come la ricostruiva un decennio fa il Matteo
Zola, collaboratore dell’Ispi e dell’Osservatorio Balcani e Caucaso, su
“Slavia”, una rubrica del suo quotidiano online estjournal.net: “Dopo
un’espansione che li portò, tra il quinto e l’ottavo secolo, in Asia minore e
in Grecia, in Africa settentrionale e sul Baltico, gli slavi subirono la
risposta dei franchi, dei tedeschi, dei danesi e dei bizantini che
– dopo averne subito il «maremoto» – riguadagnano al loro controllo ampie fette di territori slavizzati e ne assoggettano
la popolazione ancora in larghissima parte pagana. In
particolare fu notevole l’asservimento degli slavi settentrionali i quali,
occupate le pianure di una Germania abbandonata a seguito delle migrazioni
verso sud di longobardi, franchi, goti e vandali, videro il rapido
riorganizzarsi dei gruppi rimasti in entità statali via via più
organizzate. Bavari,
sassoni e poi franchi, fino ai cavalieri teutonici, per circa due secoli gli
slavi subirono la “riconquista” germanica. Tale “riconquista”
fu così violenta che il poeta ceco Jan Kollar, nel XVIII° secolo, chiamò la
Germania «cimitero degli
slavi».
“La schiavitù degli
slavi divenne proverbiale e diede origine, in pressoché
tutte le lingue europee, al termine «schiavo». Il vocabolo latino «sclavus» (schiavo,
appunto) fece
la sua comparsa nel XIII° secolo sostituendo il termine
classico «mancipium» (da cui «emancipare», uscire da stato di asservimento). …
“Fu
così che il nome di un popolo divenne un termine estensivo per una categoria
di persone, tanto che oggi lo ritroviamo nell’italiano, nel francese (esclave), nel catalano (scrau), nel tedesco
(sklave), nell’olandese (slaaf) e
nell’inglese (calco perfetto, slave).
“Durante l’alto Medioevo carovane di slavi percorrevano l’Europa da
una piazza all’altra, Venezia, Ratisbona, Lione erano i principali mercati
per questa particolare “merce”. A Verdun si trovava il più importante mercato di eunuchi del
continente. La riduzione in schiavitù delle genti slave fu moralmente
possibile, ed anzi caldeggiata, proprio in virtù del loro paganesimo”.
Simone Weil – Una mistica in
attesa – in politica. La ripubblicazione, con notevole cure editoriali, delle
lettere di “Attesa di Dio” ne danno conferma palmare. Che però non viene rilevata dal cardinale Ravasi nella sua
pur apologetica recensione sul “Sole 24 Ore Domenica”. Spiega didattico per una
colonna chi era e cosa faceva Simone Weil – di cui pure il settimanale si
occupa spesso – come se fosse un personaggio emerso dal nulla. Ricordando, nella
stessa cornice, per suffragarne l’interesse, che Cristina Campo la teneva in
gran conto, e Elsa Morante ne ha fatto un ritrattino in versi (“Sorelluccia
inviolata\ ultima colomba dei diluvi\
stroncata bellezza del Cantico dei Cantici\ camuffata in quei tuoi
buffi\ occhiali da scolara miope”), e anche Franco Fortini – “come posso attestare
direttamene nei miei dialoghi privati avuti con lui”. Nell’altra colonna spiega
che le lettere a padre Perrin sono “un esercizio spirituale e mentale di altura”.
Benché, fra le tante citazioni, privilegi quella che ne fa una mistica in
vigile attesa.
letterautore@antiit.eu
Cassese elenca oggi sul “Corriere
della sera” ben sette ragioni, tutte di peso di confluenza tra von der Leyen e
Meloni. E dunque: perché Meloni le ha votato contro? Con scapito dell’“interesse
nazionale italiano”? La coerenza politica (partitica) non convince Cassese.
Lui stesso si obietta: Meloni si
fa merito della coerenza politica, o rispetto del voto: ha vinto le Europee da
destra, non può sibito dopo andare a votare la candidata della sinistra. E si
risponde: ma ora perderà la partita nazionale dopo avere perso quella politica.
Cioè, curiosamente, Cassese, fine
giurista, semplifica. L’europa si governa con i Consigli europei, dei capi di
governo. E questi vanno a essere a maggioranza conseervatori. Di nmero e, fra
un anno, doo il voto in Germania, di peso. Bruxelles è una burocrazia.
Resta sempre vero che quanto ha ottenuto
Meloni con la sponda di von der Leyen in questi due anni e mezzo ha del
prodigioso: sui bilanci, sui migranti, sul Pnrr, su Ita e altre pratiche, fino
all’impegno per la famosa “politica mediterranea europea”. Per sorellanza di
genere, viene fatto di pensare, vedendo le due donne così spesso insieme, piccole,
esili e bionde. Ma più per una convergenza politica di fondo in questa fase, tanto
evidente quanto, stranamente, sottaciuta in Italia.
In realtà “la candidata
popolare tedesca” - dice bene Cassese di
von der Leyen - è lì a governare l’Europa, naturalmente, ma più per riguadagnare
ai Popolari in Germania (alla Cdu-Csu) il voto tedesco che è slittato all’antieuropeismo
per oltre il 20 per cento, dato allarmantissimo (ai voti di estrema destra dell’Afd
bisogna sommare quelli dell’anti-europeismo, filorusso e anti-immigrazione, di
sinistra, della “garibaldina” Sahra Wagenknecht). La Cdu-Csu governa a Berlino
col socialista Scholz, che non puo’ soffrire, anche personalmente, Meloni. Ma
da tempo ormai si fa sponda con la presidente del consiglio.
Celebrandosi
per i 165 anni di vita, col solito supplementone portemanteau (porta pubblicità), il giornale (ex) fiorentino esuma
una celebrazione del giornale da parte del primo Spadolini, il giovane storico
del secondo Ottocento che introdusse nella storiografia l’attenzione
all’opinione, ai giornali. Dei primi numeri del quotidiano, fatto usciure a
tamburo battente dal plebiscitario a oltranza Bettino Ricasoli in vista dei
referendum (Cosimo Ciccuti ricorda “l’ordine di Bettino Ricasoli: «Voglio il
giornale domattina»”), Spadolini nota la misura: mai una notizia o un fatto,
anche il plebiscito, a più di una colonna. E l’obiettività: uguale rispetto per
le opinioni avverse, per quanto debolissime, della “«Toscanina», allargata
magari alle altre province dell’Italia centrale”, o dei “fantasmi bonapartisti
del Regno d’Etruria” – per non dire del residuo partito filofrancese, pur dopo
l’armistizio a tradimento di Villafranca.
L’“obiettività”,
che naufragherà negli anni della Repubblica nei sarcasmi di Umberto Eco,
Spadolini trova realizzata dal “Barone di ferro” Bettino Ricasoli, “fedele ad
una linea di liberalismo consapevole e profondo – vero abito mentale, vera
religione dell’anima”.
“La Nazione”, 165 anni insieme. 1859-2024,
pp. 128, gratuito col giornale
Non fosse firmato
Mario Monti, europeista se ce ne sono, il fondo del “Corriere della sera” ieri,
“Un ruolo per l’Italia”, si direbbe opera di Salvini, il massimo anti-europeista
: un’Europa, la sua, o è franco-tedesca o non è. E non per potenza o intelligenza:
per non si sa che cosa. Anche quando la leadership fosse “fortemente sbagliata,
come fu il caso durante la prima fase della crisi finanziaria dell’eurozona”.
A questo punto
Monti ha aperto un abisso doppio. La gestione franco-tedesca, Sarkozy-Merkel,
della crisi post-2008 non è stata “fortemente sbagliata” nella prima fase della
crisi, lo è stata sempre, e ha cancellato l’Europa dal rango delle grandi
potenze economiche mondiali. Non solo, e non si sa se è peggio: ha ridotto l’Europa
a un cumulo di macerie politiche, proteggendosi con una serie di ascari, dall’Olanda
all’Austria, i “frugali” – mentre il mondo pompava le economie, i “frugali” chiudevano
il rubinetto. Nel mentre, mirabile impresa, che aumentavano il loro e l’altrui debito, quello della Francia soprattutto, ma
anche della Germania. La “frugalità” è stato un capestro politico, del tipo
mercantilistico, mors tua vita mea.
Monti distingue
una prima da una seconda fase, intendendo per questa seconda fase quando al
governo c’era lui e ci ha portati al tasso di massima fiscalità, diretta e
indiretta (patrimoniale), nel mondo.
Ora l’Europa è
quella che lui stesso dice, pur deprecandola. Non ce n’è un’altra. Non un’Europa
federalista. E nemmeno intelligente. Solo un’accozzaglia di
debolezze, istituzionali e politiche. Oggi nemmeno più franco–tedesca ma, come
lo stesso Monti dice, vuota: tra “la debolezza economica e identitaria della Germania”, e “il totale stordimento politico”
della Francia” - stordimento totale di Macron, e non della Francia di Sarkozy, di
cui la Merkel si faceva beffe di notte, al bicchiere della staffa con i
collaboratori?
Monti ha i limiti
del tecnocrate. Non lo sfiora nemmeno l’evidenza politica, il tentativo
post-elezioni europee di isolare l’Italia, perché ha un governo di destra, che
ha vinto le elezioni. Che non è nemmeno un tentativo, non è una strategia: è un
non saper che fare. Da parte di un governo socialdemocratico in declino netto,
e di una destra macroniana comunque sconfitta dalla destra lepenista.
È un dato di
fatto: il socialista perdente tedesco si fa forza col socialista spagnolo, e il
Macron antirusso con l’antirusso polacco. Meloni (l’Italia) sta a destra, in
uno schieramento all’offensiva in tutta Europa. I leader tedesco e francese si
comportano di conseguenza: il socialista Scholz non riesce a parlare con Meloni,
il liberale (destra) Macron ha provato a utilizzarla contro Le Pen, e poi l’ha
rimessa nel fronte ostile.
La piccola ginnastica
che Meloni secondo Monti dovrebbe fare per ingraziarsi Scholz e Macron, due leader
peraltro mediocri oltre che perdenti, è tutta l’Europa che resta?
Nelle memorie (non
tradotte, benché romanzesche), piene di episodi di grande richiamo, “Confessions
of «The Old Wizard»” in inglese, Hjalmar Schacht, il banchiere centrale che salvò
la Germania dalla catastrofe monetaria negli anni 1920, e poi una decade dopo, trova il suo primo
lavoro fisso, dopo una lunga esperienza da giornalista economico, “in una delle
grandi banche «D»”. Erano la Deutsche Bank, fondata e presieduta da George von
Siemens, la Dresdner, la Darmstadt (che poi si fuse con la la Nationalbank
prendendo il nome di Danat, per finire nel 1931 nella Dresdner), e la Diskonto.
Schacht veniva da
una lunga collaborazione con von Siemens,
che non sapeva nulla di banca (carta e denaro per lui non facevano differenza), fino alla sua morte nell’ottobre 1901. Poi
aveva ricevuto inviti da parte del principe Ernst Günther dello
Schleswing-Holstein, fratello dell’imperatrice Auguste Viktorikia, quindi cognato
dell’imperatore Guglielmo II, come amministratore dei suoi interessi. E da Emil
Rathenau, della Aeg, la società elettrica. Scelse la Dresdner come la più
vivace intellettualmente.
Tre delle quattro
“grandi D” non esistono più. Ultima a scomparire è stata Dresdner, rilevata nel
2002 da Allianz, in forma di salvataggo. Poi incorporata, nel 2009, nella
Commerzbank – una fusione per rianimare Commerzbank, che però non ne ha ricavato
beneficio. Resiste solo Deutsche. Con la neo-costituita Dz-Bank, la centrale
delle banche cooperative (oltre 900).
Oggi Unicredit è
la quarta o quinta più grande banca tedesca per valore degli attivi
(Bilanzsumme). La seconda di fatto, togliendo dalla classifica Kfw, la Cdp
tedesca, e Dz-Bank. Mentre Commerzbank, classificata poco sopra Unicredit, è da
un venticinquennio in crisi, secondo tutti i parametri Bce, e alla ricerca di un
partner che ne assicuri la sopravvivenza (in questa veste si è parlato di
Generali, e poi anche di Unicredit). Alla pari da qualche mese con JpMorgan
Europe (specializzata nella collocazione dei più fallimentari fondi d’investimento….),
e con la banca regionale del Baden-Württemberg.
Kafka si processa e si condanna. Sotto ogni aspetto colpevole. Di mancata
resistenza – di mancanza di carattere, che culmina nella frase finale, la vera
condanna del processato: “E fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”.
Uscito postumo, e letto come una sorta di testamento
metafisico, sulla condizione umana, acquista alla rilettura un senso di saputo,
di già visto, per chi dell’autore ha esplorato qualche aspetto personale, anche
solo le corrispondenze pubblicate. Una specie di autoritratto in forma di
autodiagnosi, come dall’analista.
Il personaggio, per quanto anonimo, è ben delineato.
Ritratto sull’autore, su quello che di lui si è poi saputo, dalle lettere, a
cominciare dal padre, e dai rapporti di lavoro, con le fidanzate, con gli
amici. La colpa è ignota al “tribunale” stesso. Ma non all’autore. Il
processato non è coerente, è anzi instabile, è debole, perso “in gelosie meschine,
in falsi amori, in timidezze malate, in adempimenti statici e ossessivi” (Primo
Levi, che ne è anche il traduttore). Che non era (probabilmente) Kafka, ma così
si vedeva.
Franz Kafka, Il processo, Einaudi, pp. 268 €
10
Giuseppe Leuzzi
Se il
problema del Sud è l’Italia
La Repubblica di Venezia aveva ben un millennio di
vita, prospera, estesa a buona parte delle Venezie di oggi, e della Lombardia.
E quando ultimamente le terre veneziane di terraferma, come Milano e la
Lombardia tutta, erano passate a Vienna, si mantenevano ugualmente prospere, e
ben governate. Città-Stato marinare avevano prosperato a lungo nel Mediterraneo,
Pisa, Genova, anche Amalfi. Città-Stato repubblicane avevano prosperato ovunque, attorno
all’Appennino tosco-emiliano. Per poi trasformarsi in principati, un po’
dispotici ma ben locali, attenti cioè, e coltivati, in senso proprio, della
vita nei campi, e figurato, della vita intellettuale e artistica. ll Piemonte
bene o male si governava con una dinastia quasi millenaria. La signoria in
Toscana faceva la storia d’Italia e di quella che sarà la cultura “occidentale”.
Bologna e Ancona si governavano bene anche sotto il papa. E Roma, naturamente, che
si privilegiava di tante ricche rendite ecclesiastiche – metteva in qualche
modo a frutto le rendite.
L’unità si è fatta per empito rivoluzionario. Non si
pone bene mente a questo: l’impresa di Garibaldi ha cancellato una differenza
storica. Che un economista dello sviluppo direbbe abissale. Non di lingua e nemmeno
di cultura, patrioti meridionali si trovavano a loro agio a Torino, o a
Firenze. E a Torino e Firenze nessuno pensava a loro in termini di diversi. Ma
il Sud era diverso, per storia e per
cultura. Materiale: per assetti sociali e produttivi. Per assetti istituzionali,
con una corona che dopo cinque secoli di dominio, a partire dagli aragonesi,
sapeva poco o nulla del suo regno, e non se ne curava.
Questa è la verità dell’unità: uno sviluppo rivoluzionario,
volontaristico, che colmava una differenza abissale fra il Centro-Nord e il Sud
– compresa la Sicilia, che, seppure autonoma di fatto da Napoli, si adagiava su
una nobiltà putrefatta.
La differenza è rimasta, sotto forma di questione meridionale.
Per la quale nessuna rivoluzione è stata risolutiva – ma di fatto nessuna rivoluzione
è stata mai messa in atto, e nemmeno prospettata. L’ultima “riforma”, la più generosa, la Cassa
per il Mezzogiorno, è stata di fatto concepita (sic!) e realizzata più per la
grande impresa (che in Italia, a parte le allora Montecatini e Fiat, era
pubblica) che per i bisogni di integrazione del Mezzogiorno nel processo di
sviluppo - nella storia dell’Italia, del maincurrent.
La Lega è intervenuta per risabilire le distanze – la
Lega Lombardo-Veneta, è utile ricordarlo: ognuno per sé. Arguendo anche: ognuno
per sé è meglio per tutti. L’unità “patriottica” – rivoluzionaria – si è, si
era già, di fatto frantumata nelle piccole patrie. Con l’autonomia differenziata
siamo al culmine di un processo di disintegrazione già lungo – a opera della
destra politica come della sinistra, è bene essere precisi. Una disintegrazione
che può andare anche, in ipotesi, a beneficio del Sud, se non altro perché lo
mette di fronte a una mangiatoia vuota – lo era anche prima, poca roba, ora lo
è per legge.
Né è illegittima l’osservazione che l’autonomia
differenziata era già il privilegio di due regioni meridionali, la Sicilia e la
Sardegna, dotata anche di fondi statali speciali. Ma non si può non rilevare
che tutto questo avviene a compimento di quarant’anni di disprezzo non celato
lombardo-veneto per l’Italia al di sotto dell’Appennino, come diceva il rappresentante
più nobile del leghismo, il professor Miglio - il leghismo salviniano del
2018-2029, che furbescamente capitalizzò il vuoto di offerta politica agli italiani
che da decenni disperatamente votano a destra, specie al Sud, non fa testo.
La realtà è questa: che l’autonomia differenziata può
agire bene oppure male – non ci sono leggi migliori, in essere o in
prospettiva. Ma è proposta da un partito (mediocremente) razzista. Nelle
persone di un dentista milanese senza altra storia, che faceva il signorotto nella
disprezzata Roma, con villino a due piani e giardino, grazie alle vituperate
prebende parlamentari. E di un pr di discoteche.
È un’Italia ora un po’ povera, là dove era ricca. Nonché controrivoluzionaria - tignosa, rancorosa, là dove era entusiasta e coinvolgente. Era
il tema di “Fuori l’Italia dal Sud” trent’anni fa, che pure ebbe un (modesto)
successo di stima, e la cosa non è migliorata.
Dietro
“Rosarno”
Dopo l’avventurata scoperta - su denuncia di parte e non
degli Uffici del lavoro, su denuncia cioè di ditte concorrenti - del lavoro nero
a ritmi schiavistici di immigrati non residenti e anzi “non esistenti” nella
confezione dell’alta sartoria attorno a Milano, si “scopre” lavoro nero un po’
dappertutto ora al Nord. “la Repubblica” si scandalizza per “gli schiavi del
Barolo pagati 5 euro l’ora” - con “bastonate se protestiamo” - alloggiati “a
due passi dalla stazione di Alba”, dove “uno
stimato medico affitta un tugurio per 500 euro a brandina a 17 lavoratori
stagionali”. A Verona si scoprono per caso 33 braccianti “ridotti in schiavitù”.
A Sabaudia “gli schiavi sikh a due passi dal mare dei vip”, a 4 euro l’ora –
siamo negli ambienti dove Satman Singh è morto un mese fa per un braccio
mozzato nella fienagione, buttato in una cassetta della verdura, mentre veniva
lasciato a dissanguarsi per strada. I caporali sikh si fano pagare 17 mila euro
per un ingresso “clandestino”, che sono poi scontati sulla paghetta giornaliera.
Eccetera.
Le scoperte si succedono. Senza dire che sono le
ultime di una serie, ma non importa: il fatto è diffuso, e noto. Compreso il
caporalato, locale e immigrato, anch’esso. Cosa cambia? Che il lavoro nero non
è “Rosarno”, catapecchie comprese.
Si dice, si diceva, “Rosarno” per coprire il resto? Di
fatto è così. Rosarno si è distinta perché gli “stagionali” erano
sindacalizzati. E vittime, nel caso, di una coltura in disarmo, se non
moribonda, dopo l’abbattimento di tre quarti degli agrumeti per il porto di
Gioia Tauro e la contigua area di servizio, senza più quindi i collaterali per
finanziare il rinnovo e il cambiamento delle specialità, in un mercato che
premiava le produzioni anticipate e quelle ritardate - il che significa il
rinnovo delle piantagioni, con cinque-sei anni di mancata produzione.
Il Sud è tropo spesso il cache-sex di colpe e malaffare
nazionali – mi assolvo col Sud è la chiave del perdutate successo leghista nel
Veneto e in mezza Lombardia.
Sudismi\sadismi:
l’odio-di-sé meridionale
È mancata quest’anno la solita pagina del “Corriere della
sera” contro i 100 alla maturità in Calabria. A firma Gian Antonio Stella.
Il motivo è che la maturità quest’anno è andata male
nelle terre di Stella – e non a opera di commissari meridionali (le commissioni
d’esame sono ora studiate per evitare i meridionali al Nord)? A Pordenone e
dintorni, per esempio, il 77 per cento dei maturandi dei licei scientifici sono
stati bocciati a Matematica, allo scritto obbligatorio. Ma no, non sarà questo
- nella provincia di Udine i risultati magari saranno stati migliori (il
“Corriere della sera a ogni buon conto ha evitato di dare la curiosa notizia di
Pordenone e provincia). È che Stella scrive, solitamente contro Calabria e Sicilia,
strana specializzazione, su input di informatori locali. Giornalisti o aspiranti.
I quali sanno che Stella ne farà scempio. Lo fanno per odio-di-sé – solo in
Calabria non si sa la matematica (ma no, vincono tutti i concorsi internazionali),
o in Sicilia? Per “una buona parola”, la famosa raccomandazione. Si è rotto il relais?
L’uninominale
di Sgarbi
L’uninominale secco, inglese, si fa finta
che sia la democrazia integrale. Non va quindi bene con la concezione italiana
della politica, trasformista (libertà di coscienza). Si è tentato di
introdurre l’uninominale ma è stato
subito sabotato.
Anche perché è stato un uninominale per
modo di dire. Non stagionato – un sistema elettorale ha bisogno di rodaggio. Con
candidature non locali, legate alla circoscrizione (constituency, il termine inglese è più appropriato). Con percentuali
di recupero raccogliticce, in sede regionale e nazionale. Non un uninominale
secco. E senza un rapporto duraturo tra eletto e territorio, che invece
è fertile.
E tuttavia è un sistema con molte virtù. Il
deputato assenteista per antonomasia, Vittorio Sgarbi, eletto alla Camera nel collegio uninominale della Locride in
Calabria nel 1994, ci andava di rado, e per visite brevi, ma ha lasciato
impronte durature. A Gerace, a Ardore, a Serra San Bruno. Perfino fuori della
circoscrizione, a Mileto. Quando ci è tornato per la Europee dappertutto è stato salutato come se fosse di casa – non è poi andato a Strasburgo, ma per
alchimie interne al suo ultimo partito, Fratelli d’Italia.
L’antimafia
vira a destra
La Procura di
Caltanissetta continua le indagini sul dossier “Mafia e appalti”, avviato
attorno al 1990 da Giovanni Falcone, e incrimina uno dei più giovani sostituti procuratori
(allora, oggi in pensione), Gioacchino Natoli. In concorso con un capitano,
allora, della Guardia di Finanza, Stefano Screpanti, e con l’allora Procuratore
capo di Palermo Pietro Giammanco.
Giammanco, ora morto, è
quasi universalmente ritenuto una sorta di capomafia a palazzo di Giustizia. Cosa
non vera – non possibile – ma così è. Natoli è invece difeso dai falconiani, in
particolare dalla sorella del magistrato, Maria – “ne conosco la rettitudine e
l’amore per le istituzioni”.
La Procura di Caltanissetta
non ha documenti né pentiti a sostegno. Si basa sull’inchiesta avviata nel 1991
dal procuratore di Massa Carrara Augusto Lama (poi attivo a Massa come giudice
tributario e del lavoro, da qualche mese in pensione), con l’ausilio del maresciallo
della Finanza Piero Franco Angeloni (che l’esperienza poi immortalò nel libro
“Gli anni bui della Repubblica”, contro Claudio Martelli ministro della
Giustizia), sulle infiltrazioni mafiose nelle cave di marmo acquisite allora dalla
Ferruzzi-Gardini. Inchiesta a cui Natoli a Palermo non avrebbe dato il dovuto
seguito.
Natoli non ha risposto
alle contestazioni della Procura di Caltanissetta, confluite a Carrara in massa
– si è riservato di leggere gli atti d’accusa. Ma subito la sinistra lo ha difeso
– Pd e 5 Stelle in Commissione antimafia. I parlamentari del centrodestra si attengono
alla “ricerca legittima della verità”.
La giustizia, come si sa, è apolitica.
leuzzi@antiit.eu
In vista delle
elezioni presidenziali a novembre solo il 19 per cento degli americani ritiene
che la democrazia negli Stati Uniti è un buon esempio, da seguire, per altri
paesi.
Il parere più
diffuso, del 72 per cento degli americani, è che la democrazia negli Stati era
un buon esempio ma non lo è più. Il restante 8 per cento è del parere che “non
è mai stata” un buon esempio per altri paesi.
Nel resto del mondo,
solo il 40 per cento, di una “mediana” di adulti in 34 altri paesi, ritiene che
la democrazia americana è stata, e non è più, un buon esempio. Un 21 per cento
la ritene un esempio tuttora valido. Il restante 22 per cento è contro – non è mai
stata un buon esempio.
(Pew Research
Center, dati elaborati su sondaggi realizzati ad aprile)
“Se si nazionalizzano gli investimenti
finanziari e monetari russi in Occidente l’Arabia Saudita liquiderà i suoi
investimenti in titoli di Stato occidentali”. L’avvertimento è venuto,
informalmente, dopo la decisione, che sarebbe stata presa al vertice del G 7 in
Puglia, sulla nazionalizzazione degli asset
russi. Da emissari del principe ereditario saudita Mohammed ben Salman, il
re de facto del reame.
Il principe ereditario saudita
non è il solo. Gli Emirati (Abu Dhabi, Dubai) e il Qatar sono in allarme, tanto
più per avere investimenti industriali e immobiliari in Europa, e non solo
finanziari.
Il G 7 non è stato seguito da
alcun atto specifico. Anche perché la questione è di diritto internazionale, sarebbe senza precedenti, e riguarda cifre enormi - gli attivi della sola Banca centrale russa, e solo in Europa, si aggirano sui 200 miliardi. Ma il rapporto americano con l’Arabia Saudita è comunque da
alcuni mesi deteriorato. Una novità.
Il regno fu creato nel primo
Novecento dalla dinastia saudita con ìl sostegno americano, contro l’influenza britannica
preponderante in in Iraq e Emirati (Kuwait, Abu Dhabi, Qatar, etc.): posta il
petrolio. I principati, arricchiti dallo shock
petrolifero del 1973, hanno poi seguito politiche rigorosamente filo-occidentali.
Ma da qualche anno non più. Il Qatar è intervenuto in Libia d’accordo con la
Russia. L’Arabia Saudita segue da qualche tempo una politica filorussa sul
petrolio, filocinese sul commercio estero, e di buon vicinato perfino con l’Iran,
dopo la guerra by proxy nello Yemen.
Gli Stati Uniti hanno mantenuto
un rapporto privilegiato con l’Arabia Saudita, fino alll’11 settembre 2001 incluso
– senza far pesare le evidenti connessioni saudite degli attentatori,
nazionalità, culto, visti, appoggi negli Usa. È nella penisola arabica che Trump ha
avviato, e poi in molti casi portato a effetto, la politica di pacificazione
dei potentati arabi con Israele – gli Accordi di Abramo.
Col nuovo corso saudita, con l’accesso
al trono della seconda generazione dei principi, il legame già strettissimo si
è allentato.
“Colui che deve legare deve possedere una teoria
universale delle cose, per essere in condizione d’incatenare l’uomo, che di tutte
le cose è, per così dire, l’epilogo”. Un disegno del tardo Bruno, probabilmente
degli anni dei lunghi processi prima della condanna, sul controllo
dell’opinione pubblica o dei mercati, con terminologia odierna, che avrebbe
potuto essere il pendant di Machiavelli e del “Principe” per la
configurazione e il controllo dei rapporti sociali, attraverso la psicologia,
il condizionamento individuale.
“Le forze che legano in prospettiva universale sono
il Dio, il Demone, l’Animo, l’Essere animato, la Natura, la Sorte e Fortuna,
infine il Fato. Questo grande reticolo di vincoli, che copre l’universo e non
può essere designato con unica denominazione, non lega sotto specie e senso di
corpo: il corpo infatti non percuote il senso da sé, ma attraverso un genere di
energia che nel corpo risiede e dal corpo procede. E questa energia che
metaforicamente si designa come la mano che lega: e questa che, con varia
preparazione, si piega ed orienta a gettare i suoi lacci”.
Un abbozzo di trattato – un testo di cui ci sono pervenute
le prime 23 pagine (si fermano al § XXIII).
“La
grazia dei vincoli”, così il trattatello è presentato in una riedizione moscovita, una
riscoperta del 2019. Con l’ipotesi che sarebbe stata la vera causa della
condanna di Bruno, non le tante addotte nel confuso processo che precedette la
condanna – processo di cui in effetti mancano molti atti, come Luigi Firpo e gli
atri “bruniani” hano dovuto constatare sconcertati. Un “mago sociale”, secondo questa nuova vulgata, Bruno ipotizza che conquisti l’umanità attraverso il
“legamento”, cioè soddisfacendo i desideri. Il collegamento viene a questo
punto ovvio con l’odierna società dei consumi, dei desideri coltivati o della
persuasione occulta, che non è in effetti lontana dal timore-desiderio di
Bruno. Come un amante opera una rete magica di gesti, parole, favori, doni, cosi
il “mago sociale” può gettare la sua rete per conquistare la “preda umana”
attraverso il “legamento”, cioè soddisfacendo
i suoi desideri – quelli che lui controlla, se non li ha creati.
Giordano Bruno, De vinculis in genere, free
online
La diffidenza
sulla ricandidatura di Biden si collega nella memoria alla ricandidatura
di F.D.Roosevelt a fine 1944, quando le sue
condizioni di salute erano peggiorate visibilmente – morirà alcune settimane
dopo il voto.
Nessuno contestò
all’epoca la quarta candidatura di F.D.Roosevelt, che resta nella memoria,
anche degli storici, come il miglior presidente, con Lincoln (e con
Washington). Ma era già criticato per gli esiti della conferenza di Yalta, in Russia,
dove furono decisi gli assetti postbellici dell’Europa, Germania e Italia
incluse. E dove – si disse, ed era vero – il presidente aveva capitolato alla
pretesa di Stalin di prendersi l’Est Europa.
Dubbi dello stesso
tipo, non detti ma noti, circolano ora sugli impegni di Biden in Ucraina. Un
paese che aveva favorito da vice-presidente. In una guera che l’America fino ad
ora ha considerato minore e remota, ma che ora teme.
I dubbi sono
connessi ai poteri che il presidente americano si è appropriato come
comandante-in-capo militare, nel corso del Novecento, a partire dalla guerra alla
Spagna per Cuba e le Filippine. Il presidente americano passa nell’opinione
mondiale come un autocrate. Mentre i costituzionalisti ci spiegano essere poco
più di un presidente del consiglio. Forse un primo ministro, ma senza il potere
di sciogliere il Parlamento - e senza una maggioranza imbattibile in Parlamento
con appena un terzo del voto elettorale (anzi sottoposto a maggioranze
parlamentari mobili, è il Congresso che ha poteri pieni). Il suo potere deriva
da quello che l’economista e diplomatico Galbraith, un Democratico, famosamente
chiamò il complesso militare-industriale. La nomina governativa di Procuratori Speciali, per inciso, per casi giudiziari specifici, contestata ora dalla giudice della Florida che si occupa dei documenti riservati abbandonati da Trump in cantina, è stata recentemente condannata dalla Corte Suprema come autocratica.