domenica 8 dicembre 2024
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (578)
Giuseppe Leuzzi
La forza della violenza
Un drammone al
quadrato, questa ripresa in chiave inaugurale della stagione. Al destino
infame, che colpisce amori puri e famiglie tranquille e affezionate, sommandosi
le crudeltà belliche. Con le masse al centro, bellicose (ma più che altro
caciarone) e pacifiste, secondo l’idea del regista Muscato – difficile fare pacifica
la violenza.
Alla tv, per la
quale questa prima in mondovisione è stata disegnata, è una messinscena affollata,
e anche informe, faticosa – non porta al pacifismo. Il canto invece funziona. I
due cognati mancati che si fanno la caccia a morte, Ludovic Tézier e Brian
Jagde, sono perfino verosimili, giganteschi ma naturali. Su tutti svetta Netrebko,
la trickstar di tutte le tragedie, da una sorta di parricidio a una
sorta di fratricidio, sebbene non colpevole e anzi immacolata - vuole solo sposare colui che ama: dimagrita,
perfino rimpicciolita di statura, ma dalla voce fermissima.
Una curiosità è
che i migliori “in scena”, nel ruolo e nell’economia della regia, sono tre interpreti
russi: Netrebko, Vinogradov il padre guardiano, e Preziosilla Vasilisa Berzhanskaya.
Che il canto sorreggono con una dizione da attori perfettamente nel ruolo. Curiosa
circostanza ora che abbiamo espulso la Russia dall’Europa - proprio la Russia
che più di ogni altro paese ci ha tenuto per secoli a dirsi europeo (ha provato
pure a fare l’opera, la stessa “Foza del destino” fu commissionata da San
Pietroburgo, nel 1862).
Non è la sola curiosità. È curioso
che Verdi sia specialmente ispirato là dove si toccano temi sacri. “La Vergine degli
angeli” non solo, ma tutto ciò che riguarda il convento, e la stessa etica familiare
ricondotta alla santità, lo commuove.
Giuseppe Verdi, La
forza del destino, Teatro alla Scala, Rai 1, Raiplay
sabato 7 dicembre 2024
Problemi di base giustizieri - 835
spock
“Non esistono innocenti
ma solo persone di cui non è stata provata la colpa”, Davigo?
“Non esistono
innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”, id. (variabile)?
“Dio (è) dei mafiosi”,
Scarpinato?
“Nel Dio del
Vecchio Testamento l’ultimo – e il più terribile – dei mafiosi”, id.?
La giustizia è
dei giusti?
“Il mondo è
pieno di brave persone che fanno brutte cose”, Poirot?
spock@antiit.eu
L’Europa all’ora – di nuovo – del tribalismo slavo
È guerra, “delle nazioni
contro l’Europa e delle nazioni contro se stesse”, tra America e Cina, “all’interno
della stessa America”, di tutti contro tutti, “contro i poveri, contro le
istituzioni democratiche, contro la sacralità della Terra, contro la natura che
non ne può più di noi, guerra persino contro Dio”. Siamo già morti, e non lo
sappiamo?
È guerra contro
gli immigrati, benché inermi e affamati. Dei ricchi contro i poveri, e di
poveri contro poveri. Non imperiale, di conquista e sottomissione, piuttosto di
obliterazione, di sterminio. Feroce, come sono tutte le guerre.
Un racconto lungo
una notte, dell’aprile 2024, da mezzanotte alla sei. Sulle guerre che ogni giorno
si assommano. Con la premessa: “Con le nazioni ho il dente avvelenato”. Facile.
Tanto più per un triestino: facile da “vedere”, fiutare. Dell’“Europa delle
steppe”, come lo stesso Rumiz dice, “contro l’Europa dei mari”. Un dormiveglia
lucido. È la fine del mondo? No, c’è chi ci guadagna. Ma la “nuttata” certo
sarà lunga - anche se Rumiz preferisce l’apocalittica lunga notte di Céline, si
tratta piuttosto di un travaglio eduardiano.
“Lo spettro della
barbarie in Europa” nelle parole di Rumiz, ispirato, emerge fisico, massiccio.
Ma, poi, sono solo parole. C’è un prima, e in qualche modo ci sarà un dopo. Ci sono
delle cause. Ci sono politiche, e “piani di azione”, di preferenza surrettizi.
Rumiz è un poeta della parola, e non se ne cura. E allora non c’è da
preoccuparsi? C’è. Ma in altro modo. Facendo le domande e cercando le risposte
giuste, al caso.
A p. 16, la quarta
del testo, i primi minuti della prima ora, Rumiz fa l’elenco delle guerre in corso.
Molto preciso. Ma ne manca una, quella degli Stati Uniti contro la “Fortezza
Europa”. Da trentadue anni, dalle guerre jugoslave. Lo stesso Rumiz, nel 2008,
con Monika Bulaj, ne aveva visto i segni (e ne aveva scritto ampiamente, la serie
estiva di corrispondenze “L’altra Europa” per “la Repubblica”). E su Israele a
Gaza, “uno degli eserciti più professionali al mondo” contro “una specie di
ghetto”, propone solo una lista di interrogativi – quando le risposte sono chiare
anche nel fronte sionista. Con la verità, poi, non nascosta ma fatta dire a un
colonnello dello Stato Maggiore austriaco, Markus Reisner. Storico ma militare,
di un Paese che nessuno minaccia anche se non fa parte della Nato. E da Marine
Le Pen, pensare, “con cui non condivido quasi niente”, quindi per ragioni forti:
che vogliamo, fare la guerra alla Russia? Contestualizzare non allenta la tensione,
e forse indebolisce la poesia, ma è necessario – che ne direbbe altrimenti “quella pericolosa volpe di Henry
Kissinger”?
Un dormiveglia sulle
guerre. nel mezzo dell’Europa, propriamente, fisicamente, sulla linea di confine,
con “l’Europa delle steppe”, degli slavi. Cioè con la chiave a portata di mano –
non oggi, da quarant’anni. Uomo di frontiera – lui dice di confine, ma col sottinteso
che il confine è fatto per essere superato – Rumiz non sopporta il filo spinato.
E forse non vede – da Trieste sarà meno percettibile, ma da remoto è invadente –
il tribalismo slavo, che non finisce d’imperversare. Che ha aperto e chiuso il
Novecento ma all’evidenza non si esaurito, non ha messo di inquietare.
Ma lui se lo dice
anche, seppure di passata, uscendo di casa nel borgo alla frontiera, alla fine
della prima ora d’insonnia: “Qui, a ridosso dei Balcani, ho scoperto che i nazionalismi
sono bestie malate di antagonismo”.
Paolo Rumiz,
Verranno di notte, “la Repubblica”, pp. € 8,90
venerdì 6 dicembre 2024
Ombre - 749
“Berlino e Parigi: stop
alle multe Ue”, per i ritardi delle case automobilistiche ad adeguarsi alla tabella
di marcia del “tutto verde” al 2035. E basta così, è deciso, non c’è bisogno
che si pronunci Bruxelles, la Commissione o il Consiglio Europeo.
Non c’è scandalo per questo,
né “la Repubblica” né il “Corriere della sera”, e nemmeno il, “Sole 24 Ore”, ne
fanno un caso. Da criticare era solo il governo italiano quando aveva posto la
questione un anno o due fa. Visto da destra, visto da sinistra? No, da una (remota)
provincia dell’impero.
Di un impero tedesco, di un
impero francese, cioè di straccioni, con l’aria che tira?
Unicredit è premiata, per
il secondo anno consecutivo, dal “Financial Times” come la banca migliore sul mercato,
sotto tutti i parametri. Placherà questo la tentazione politica di metterci
mano – passando per l’offerta di acquisto di Bpm? La politica non sente ragioni:
basta mettersi di mezzo, qualcosa ne verrà fuori. Magari solo le stesse condizioni che ai deputati fa Bpm di piazza Montecitorio, un interesse sostanzioso sui depositi e uno figurativo sui prestiti.
“L’immigrazione legale ha
raggiunto il massimo storico durante il primo mandato di Trump”, Hein de Haas,
autore di 600 pagine di “Migrazioni. La verità oltre le ideologie”, massima
autorità in materia secondo “il Venerdì di Repubblica”, che lo intervista. Sembra
un paradosso: lo specialista e la rivista che lo ospita sono per l’immigrazione
libera e quindi anti-Trump. Ma de Haas dice giusto: l’immigrazione “legale”.
Si apre infine la mostra
sul futurismo. Dopo indiscrezioni, critiche, liti. Di parte politica (futurismo
= fascismo, sic!) e degli studiosi, antiquari e collezionisti esclusi dal business
dell’ordinazione della mostra stessa. Che invece è montata bene, e piace. E
allora silenzio. Nei settimanali di Elkann e di Cairo, e nelle tv “private”,
compreso il carissmo Sky Tg 24. La “Domenica” del “Sole 24 Ore”, che aveva preparato
uno speciale, lo ha cancellato – i contributi pubblicando alla rinfusa, tra “I Manifesti
del cinema” e “Il danzatore nudo Spadolini”. Dov’è il fascismo – c’è un Minculpop?
Il presidente del calcio
Gravina, per prevenire la giustizia penale, si apre un processo sportivo. E lo
affida a Chiné, l’avvocato da lui preposto alla giustizia sportiva – pagato da un
paio d’anni per non fare nulla, non avendo ultimamente appigli contro la
Juventus. Il calcio sarà pure un’industria, ma di cialtroni.
“L’immigrazione può
essere un problema anche per l’Islanda”, al voto anticipato, a gennaio. E come
può essere, l’Islanda sta là sopra? Sarà a corto di cacciatori di balene? “L’immigrazione ha messo in crisi gli
alloggi, e la sanità”. Mah!, in un paese di 350 mila persone, anche meno.
Siamo costernati, poveri
islandesi. In Italia invece non c’è un problema, c’è solo il fascismo.
Fuochi d’artificio di
Biden in uscita. Guerra anche in Siria. Perdono giudiziario al figlio. Cessate
il fuoco in Libano con deroghe per Netanyahu. Un presidente sottovalutato? Quante
guerre non ha fatto in pochi anni - dopo tutte quelle che ha fatto come vice di
Obama? Anche commerciali. Contro l’Europa.
Non ha messo i dazi minacciati
da Trump, ma ha fatto di peggio, con le sovvenzioni plurimiliardarie alle industrie
americane in America.
Stellantis punta su Elkann.
Cioè sul fallimento? Su uno che attivamente distrugge ciò che ha, ora la Juventus,
dopo Ferrari e Fiat. Con manager insulsi, avvocati, fiscalisti, provinciali, in
età. E fallimenti su fallimenti, con spese esagerate a nessun fine. Di incapacità
manifesta – il suo club di calcio, il più titolato in Italia, non ha uno straccio
di sponsor. In compenso naviga sui social, un build-up incessante.
In questo è capace.
Si fa grande strepito contro
lo ius soli, negando la cittadinanza per almeno vent’anni a
italiani nati e cresciuti in Italia, mentre la si dà ad americani alla quinta o
sesta generazione dopo l’emigrazione, anche solo per un “consanguineo” collaterale.
E un solo giudice si trova che dice no, a Bologna. Che ha risposto “serve un limite
di tempo allo ius sanguinis” a chi chiedeva la cittadinanza grazie
a una bisprozia, del 1876, un secolo e
mezzo fa. Per avere la pensione sociale. E l’assistenza medica.
“la Repubblica” immortala
“l’incontro di Prodi e Schlein”. Che a Bologna, la loro città, evidentemente non
avevano modo d’incontrarsi. Entrambi immortalati nella foto dell’evento mentre
guardano determinati dall’altro lato.
Curioso silenzio sugli islamisti (siriani? turchi?) che attaccano la Siria. Da dove, con che armi, che addestramento. Le normali domande, anche
per giornalisti non curiosi - ce ne saranno. Ma nessuno sgarra: c’è un ordine? tassativo?
In compenso si riciclano
le pagine sul dittatore Assad – fornite dagli assalitori? hanno agenzie di pr? Il paese degli Assad, Qardaha, che in arabo significherebbe “bestia”,
lo zio Rifaat, “il macellaio di Hama”, e B)ashar l’oculista. Non mancano le donne
e i veleni.
Un interrogativo se lo sarebbe posto anche un bambino: dopo aver liberato Iraq e Afghanistan consegnandoli agli integralisti, Biden (gli Usa, il deep State) consegna loro anche la Siria? A quelli delle Torri Gemelle, del Bataclan, e degli sgozzamenti? Non bastavano gli ayatollah in Iran?
Un interrogativo se lo sarebbe posto anche un bambino: dopo aver liberato Iraq e Afghanistan consegnandoli agli integralisti, Biden (gli Usa, il deep State) consegna loro anche la Siria? A quelli delle Torri Gemelle, del Bataclan, e degli sgozzamenti? Non bastavano gli ayatollah in Iran?
A Sky Tg 24 il professore di Relazioni internazionali,
e di Storia dei paesi islamici di Trento, consigliere dell’Ispi di Milano,
Pejman Abdolmohammadi, un italo-persiano, spiega in diretta che la guerra in Siria è voluta da Biden, come precedentemente
da Obama, contro un regime che si riteneva filo-iraniano – per ragioni religiose
(alauita come sciita). E viene subito congedato, quasi con bruschezza. La
spiegazione non è stata contestata, semplicemente la regia ha detto al conduttore
di interrompere il contatto.
“Rivoltare l’Italia come un guanto”, è Landini come Davigo.
Estrema destra – guanto, calzino, che differenza fa? E “come un guanto” che
similitudine è, che dirà al lavoratore – e chi usa i guanti, da due generazioni
almeno?
La lingua manifesta -riflette - la realtà: è ben un
sindacalismo da talk-show. Di cui la Cgil è preda.
La Cgil.
Venticinque anni fa, insomma nel Duemila, c’erano a
Roma 160 sale di cinema. Oggi sono 44. E si riempiono, con parsimonia, un solo
giorno la settimana. Un libro ne fa il mesto calcolo, “Fantasmi urbani”, Silvano
Curcio. Nella Roma hollywoodiana, anni 1950-1960, le sale in attività erano
250.
Scandalo
a Più Liberi più Libri, la fiera dei piccoli editori a Roma, per l’invito esteso
a Leonardo Caffo, filosofo, benché sia sotto processo per maltrattamenti alla
moglie. Valerio, l’organizzatrice, l’ha prima difeso e poi ha annullato la
presentazione scusandosi. Ma la verità non sarebbero le percosse, sarebbe che
Valerio e Caffo sono colpevoli di “circolettismo”. L’ultimo ritrovato di superiorità
e buona coscienza dei buoni-e-belli della Repubblica. Cioè di farsi
reciprocamente favori. Però, che novità. E non c’è altra sinistra.
Un senatore piemontese
del Pd viene assolto, dopo sei o sette anni, ma ne notizia per caso, sei mesi dopo
l’assoluzione. Il Tribunale che lo ha assolto, in camera non in dibattimento, non
ha l’obbligo di dargliene notifica – a lui o al suo avvocato.
Peggio. Il Tribunale che ha
assolto il senatore Pd è romano, e ha decido in un paio di settimane. Il Tribunale
che lo ha perseguito è piemontese e ci ha messo sei o sette anni per montare l’accusa
e dibatterla (il processo per competenza poi è passato a Roma). A Roma non c’è
la nebbia, ci si vede meglio? Niente fumus persecutionis, i giudici sono
sopra la legge.
Il giorno tanto atteso
(strapropagandato) del Black Friday si trasforma in un venerdì nero
propriamente detto, con i pagamenti inceppati, dal cavo della luce in Svizzera
– i pagamenti inceppati nel giorno delle stravendite. Il mondo potrebbe anche
finire per un corto circuito planetario.
Sbuffa Merlo su “la
Repubblica” perché Mussolini è sempre così tanto popolare: “Da cento anni
ingombra le librerie”. Ma non si chiede perché, il bravo giornalista.
Governare è più che assassinare, e perdere le guerre?
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Le armi portano ala guerra
Le “armi” del pacifismo
sono spuntate. Anche oggi che siamo, seppure a distanza (ma ne paghiamo i costi),
in mezzo alle guerre, in Palestina, in Siria, in Ucraina. Spuntate lo erano, al
fondo, anche al tempo di Cassola, di questa perorazione, nel 1980. Che però, riproposta
oggi, ha un’altra risonanza.
Allora eravamo –
l’Europa era – come al di fuori o al di sotto delle guerre, poiché l’unica che
si prospettava, seppure remotamente, era quella nucleare, tra i due grandi
imperi, Usa e Urss. Oggi quella minaccia non c’è più, e bizzarramente siamo più
esposti alle guerre. Alle conseguenze, per ora, delle guerre. E a guerre di tipologie
che si pensavano passate e quasi remote, religiose e tribali. È qui che la perorazione
di Cassola comincia a mordere: stiamo parlando di noi, dei nostri vicini – non di
deep state senza volto e comitati centrali.
Il disarmo è un’utopia
– bisognerebbe prima finirla con gli Stati. E non c’è anno che la spesa per
armamenti non si accresca. Ma capire che le armi fanno male, questo non sembra
impossibile.
C’è anche una ragione
di lungo per un appello come questo di Cassola – che fosse per questo motivo è
caduto nel vuoto: l’Italia è pacifista. L’opinione, la politica, le stesse forze
armate, e la costituzione, sono pacifiste. La leva è volontaria, e i corpi militari
sono addestrati a missioni civili, e di pacificazione. Ma – è il problema del pacifismo
– questo non risolve: l’Italia non può, non potrebbe, escludersi da una guerra di
quelle cosiddette di civiltà. Per l’Europa o per l’Occidente, per due concetti,
anche un po’ malandati.
C’è sempre un motivo
per farsi guerra. A meno di una guerra contro tutte le guerre. Ma dell’utopia c’è
bisogno – ne ha bisogno la stessa Realpolitik. C’è bisogno del domani.
Carlo Cassola, Contro
le armi, Rogas, pp. 168 € 15,70
giovedì 5 dicembre 2024
Cronache dell’altro mondo - migratorie e meridionalìstiche (313)
La Grande
Migrazione, 1910-1970, dagli stati del Sud al Nord degli Stati Uniti, ha
invertito negli anni 1970 la direzione: la combinazione di salari competitivi,
rendita urbana e dei terreni contenuta, basso costo dell’energia, contributi statali
a fondo perduto e incentivi fiscali hanno spostato gli investimenti industriali
e nei servizi al Nord al Sud, e con essi la popolazione.
Atlanta,
Austin, Charlotte, Nashville, le capitali del Sud, ancora provinciali e melense
nei film anni 1970, sono le mete preferite delle giovani coppie ricche e plurilaureate.
Attratte da un mix di posti di lavoro ben remunerati, abitazioni dal costo contenuto,
e dal clima – dall’opportunità di sport all’aperto.
Il Research
Triangle Park della North Carolina, il più grande parco di ricerca degli Stati Uniti,
ospita poco meno di 400 imprese e 70 mila operatori. Con un reddito familiare
annuo medio di 98 mila dollari. E una popolazione così distribuita: bianca al 57
per cento, nera 17, ispanica 11, asiatica 11. Per lo più di immigrati da altri
stati, sei su dieci.
Atlanta, la
capitale della Georgia, è l’empireo dei professionisti neri. Con lo sviluppo
del Sud le famiglie nere sono entrate, economicamente e socialmente, nella middle
class, per lo più professionale. Le borghesie nere del Sud emulano come
genere di vita ampi strati della borghesia bianca del Nord.
Spoon River di Sicilia
“Sicilia, un
niente che pretende di essere qualcosa”. E “la sicilianità
altro non è che la presunzione di credersi unici o, nella versione di Sciascia,
la metafora del mondo” – “esiste un frammento di mondo che non sia metafora dell’intero
mondo?”. Tanto vale dirlo subito, con la conclusione, il succo della riflessione.
Una conclusione folgorante come l’attacco. Con Giufà,
il personaggio eponimo della letteratura popolare burlesca – sciocco\saggio suo
malgrado in Sicilia, l’isola privilegia il paradosso (l’autore scuserà, ma lui
stesso è molto siciliano). Giufà, vedendo la luna riflessa nel pozzo, pensa ci
sia caduta e si premura di salvarla – congratulandosi poi con sé quando,
alzando la testa, la vede in cielo.
“Un porcile con inspiegabili gioielli”, è un’alrra
conclusione: “È l’immagine che i non Siciliani e molti Siciliani hanno della
Sicilia. Ricosruirne la storia era uno degli scopi di questo libro”. La storia
dell’immagine, naturalmente, non della Sicilia. Contrapponendo ad essa “la Sicilia
vissuta e raccontata da Vittorini – una Sicilia popolata da Gran Lombardi”, da
siciliani fattivi e dedicati.
Ma ci si ariva per
un un affascinante autoritratto della Sicilia. Una sorta di autoscatto: un’istantanea
ricca di umori, ricchissima.
Il sottotitolo è “Psicoanalsi
di un’identità”. In poche pagine una folta serie di problemi e di anamnesi
circostaziate. Con abbondanti esumazioni linguistiche a conforto. Specie del Trecento.
E poi del Cinque e Settecento.
Perché la Sicilia
non sarebbe Italia? Il siculo fu il primissimo italiano letterario. Per Dante
la cosa è scontata, risaputa. Nel “De vulgari eloquentia” e nella “Commedia”. Una
prima edizione dell’italiano, poi adottato nella vocalizzazione, se non la
fonetica, toscana. Il passaggio
dal siculo al toscano fu sancito autorevolmente dal veneto Bembo - che fu in Sicilia,
si può aggiungere, a Messina, prima che a Firenze. E da allora incontestato. Se
non da un Claudio Maria Arezzo (il letterato siracusano-messinese che fu per
alcuni anni lo storiografo al seguito di Carlo V), che confuta Bembo. Ma con un
intervento, per così dire, in difesa: che non s di dica che la Sicilia è Africa
– “mandar fora Siclia di Italia e dil parlar thoscano”. Machiavelli, aggiunge
Lo Piparo subito dopo, lo aveva già scritto, anche se nessuno lo sapeva (questa
cosa, se è sua, è stata pubblicata postuma): una sorta di Feltri del
Cinquecento, “non aveva dubbi: la Sicilia non è italiana” - “Discorso o dialogo
intorno alla nostra lingua”). Contro un Bembo peraltro che in effetti ribalta Dante
cialtronescamente: fra provenzale e siculo, il toscano è provenzale. Dante, nel
“De vulgari eloquentia”, riporta il toscano al siculo come un dato di fatto,
dandolo per scontato in mezza riga, e per una ragione semplice: “Perché sede del
trono legale era la Sicilia, e pertanto tutto quanto i nostri predecessori hanno
prootto in volgare si chiama siciliano”.
Una riflessione
polemica, ma piena di chicche. Emizionante la lettura in parallelo tra Vittorini
e Tomasi di Lampedusa, tra “Conversazione in Sicilia” e “Gattopardo”, sulle figure
femninili, la condizone, i ruoli. Curiosa, e sottovalutata, la chiosa che il siculoitaliano
è stato per tre secoli, da metà Seicento, la lingua dei sinodi, e delle
attività in chiesa, catechismo e predicazione, e probabilmente confessione, “fino
agli anni a ridosso dell’Unità”, quindi per due secoli. O di Gramsci – di cui
Lo Piparo è studioso – che di Pirandello, dopo aver visto “Liolà” a Torino, fa l’erede
dei riti dionisiaci dell’antica Grecia. O di Marx che sdottora di “Sicily and
the Sicilians” in una delle tante corrispondenze ai giornali americani con cui
si manteneva, qui alla “New York Daily Tribune”, 17 maggio 18690.
Contro il sicilianismo,
la diversità. “I pupi siciliani nascono in lingua italiana”, e prosperano. Ilscialisnmo,
siciitudine comoersa, è sterile. Uno Statuto autonomo della Regione Siciliana,
e solo della Sicilia, è stata varato in fretta dalla Luogotenenza del Regno il
15 maggio del 1946, ed è stato poi recepito dalla Costituzione, a nessun effetto.
L’approccio è
disincantato: la Sicilia è un “fantasma che diventa realtà”. O non è il contrario?
“Il mito della Sicilia culturalmente isolata è stato prodotto e diffuso da pensatori
e scrittori le cui esistenze smentiscono il mito”. Goethe, alla radice moderna dell’equivoco, col suo “senza la Sicilia non
ci si può formare nessuna idea dell’Italia – è qui la chiave di tutto”, va riletto
in originale: “Senza la Sicilia l’Italia non lascia nessuna immagine
nell’anima”. Non c’è Italia senza la Sicilia sta per dire che nell’isola si
assommano bellezza (natura), cultura, cucina – subito dopo la conclusione Goethe
parla di clima, paesaggi, gastronomia, arte. Senza strafare – ha appena detto severo
delle stavaganze del principe di Palagonia a Bagheria “un niente che pretende
di essere qualcosa”.
Insomma, Goethe non c’entra. E il fatto è, può dire in esergo il linguista
Lo Piparo con Isidoro di Siviglia, il primo linguista della storia: “Ex linguis
gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt”.
L’Accademia
Poetica Letteraria di Pura Lingua Siciliana di fine Settecento, i cui statuti sarebbero
stati redatti dall’abate Meli, ragiona in italiano, e si dedica in siciliano a
un poema del ficodindia – che non redige. Meli, il poeta dialettale per
eccellenza, in prosa scrive in italiano – di lui Capuana ha potuto scrivere: ”Bisognerebbe
tradurre il Meli in siciliano” (era peraltro uno scienziato, docente di chimica
per trent’anni, sempre aggiornato in materia, tra i primi ad aderire alle tesi
innovative di Lavoisier).
Un inno, alla
fine, l’ennesimo, all’isola, anche se da prefica severa. Nell’intelligenza dell’idea
e nella resa narrativa. Severo con Sciascia, in tema di “sicilianità”, l’autore
è a sua volta paradossale ma veritiero, a fronte delle montagne di vulgate che
seppelliscono la Sicilia. Anche per la frequentazione, vuole che si sappia,
dello storico Giarrizzo, personalità poco corriva - lo storico, socialista,
del Settecento, della Massoneria, del Meridionalismo, dello stesso Statuto eccezionale,
luogotenenziale, del 1946.
L’idea-programma è
dichiarata, è la “psicoanalisi di una identità”, e “l’origine continentale
della Sicilia moderna”. L’origine linguistica, prima ancora che storica – Lo
Piparo è linguista, prima ancora che ottantenne saggio. Forse con una evidenza
trascurata: i Normanni chiamati e protetti dal papa pe latinizzare la cristianità
del Sud, di rito ancora persistentemente greco-bizantino, malgrado la scomarsa
dell’impero. Dopo la debolezza manifestata dai primi riconquistatori, i
longobardi. Fatto più evidente forse in Puglia e in Calabria - dove i Normanni ristagnarono
per un secolo, guardando la Sicilia che non gli riuciva di abbordare, da terragni,
non più gente di mare.
Franco Lo Piparo,
Sicilia isola continentale, Sellerio, pp. 336 € 16
mercoledì 4 dicembre 2024
Secondi pensieri - 549
zeulig
Democrazia – La deriva populista ne ha messo
in crisi i fondamenti “scientifici”: etimologici, storici, giuridici perfino.
Il governo del popolo. Il governo dele maggioranze.
Su questo fondamento bruto (semplicistico) molto lavoro
di affinamento è stato fatto, certo. Di “fondamenti” costituzionali, cheks-and-balance,
diritti politici, e civili, e umani, inestinguibili. Il populismo, invasivo e invadente,
e perfettamente democratico, anzi “più” democratico, in quanto montante contro
i venti e le maree degli ottimati, dell’opinione pubblica dominante, della
democrazia established, piena di se stessa e delle sue buone ragioni.
Oppure resta – ritorna – il fatto base: che le
masse, che la democrazia è nata per liberare e salvaguardare, non sono democratiche.
Perché oltre la legge del numero non sanno andare. Perché agiscono per “movimenti”,
flussi sotterranei, istintivi, superficiali, in tutto quello che si vuole,
rozzi e anche indifferenti, entro limiti, alle “regole”- libertà di opinione,
di organizzazione, rispetto degli avversari, parità delle minoranze, etc. Tema
vieto, ma è il problema delle democrazie latinoamericame, pure vecchie di due secoli, africane,
asiatiche – con la sola eccezione del Giappone, e forse della Corea del Sud. Come
è democratico il regime castrista a Cuba, oppure Maduro in Venezuela? Come lo
sono le presidenze argentine e brasiliane, sempre alle armi. O in Egitto, altro
apese di antica costituzione, dal generale Naguib al generale Al Sisi. O i
“regimi” indo-pakistani pur in alternanza con regimi elettivi. O come l’en
plein, reiterato, di Berlusconi in Sicilia.
Le masse beneficiano, per così dire, di una
letteratura sterminata. Che ha l’intento di esorcizzarle. Non di democratizzarle.
Perché allora bisognerebbe interrogarsi sul suffragio universale, sui diritti
politici, e l’uno vale uno del politologo comico Grillo. Col problema connesso,
per esempio, del suffragio femminile, che ha portato ai regimi islamici, e li
sostiene quando sono sfidati, in Iran, in Pakistan, nella stessa Turchia.
La democrazia è semplice, è quella che Bobbio
dice “minima”, e cioè “un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni
collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile
degli interessati” (Il futuro della democrazia”, p. XXIV). E se il cavallo non beve?
Di chi la colpa, e come rimediarvi?
Bobbio opina che un equivoco pesa sulla democrazia
come su ogni forma politica: che l’uomo è un animale politico. Sottintendendo
probabilmente che l’uomo è un animale politico nel senso del “meglio”, del bene
ideale, a di là e anche contro i suoi inter essi. La democrazia “minima”
propone dopo avere enunciato l’equivoco (ib.): “La mancata crescita dell’educazione
alla cittadinanza… si può considerare come l’effetto di una illusione derivata
da una concezione eccessivamente benevola dell’uomo come animale politico”. Perché
“l’uomo persegue il proprio interesse, tanto nel mercato economico quanto in
quello politico”. Può essere vero. Le assemblee ecclesiastiche, nelle quali si
è formata e corroborata la procedura democratica del voto, dell’uno vale uno,
sono sempre partecipate, gli ecclesiastici sono per il ruolo, sacramentale prima
ancora che gerarchico, politicizzati. Ma non sono “educati alla cittadinanza”
gli inglesi e gli americani, che votano da alcuni secoli? O i francesi, che fecero
la prima rivoluzione popolare e di massa, per l’uguaglianza, due secoli e mezzo
fa? E perché il populismo non sarebbe democratico? È perfino costituzionale,
anzi strettamente costituzionale, radicalmente, sui fondamenti prima ancora che
sugli articoli e i commi.
Memoria – Si dilata (estende, approfondisce, irrobustisce)
con il digitale, la memoria di dati sterminata di recezione immediata, oppure
si comprime?
Opinione pubblica - C’è un nesso fra la scarsa propensione al voto, meno
del 50 per cento, nelle democrazie “occidentali”, cioè nelle democrazie, e la
mancata lettura o il rifiuto dei giornali? Che dal loro canto fanno di tutto per
evitare di formare (informare) l’opinione pubblica, recependo e spiegando gli eventi
– se non per la parte meno politica, e\o, in qualche modo, anche minimo,
pruriginosa (dossier prevalentemente, e “scandali”). Ci sono altri strumenti
per formare l’opinione pubblica, il nesso tra avvenimenti pubblici e cognizioni
o forme di giudizio private, personali, che sta alla radice del voto – alla comprensione,
alla scelta, e quindi al voto? Della democrazia il fondamento è il voto di base,
il più possibile libero – cioè formato, ma liberamente, per propensioni, ascendenze,
ambiente, ideologie, partito preso, etc..
Storia - È nei volti. Si tratta di vederli – leggerli. E.
Jünger ne fa la constatazione in Sardegna, guardando passanti e conoscenti. Il
doganiere giovane con cui condivide il tavolo alla pensione è “il tipo spagnolo”.
Gli altri commensali “hanno sangue moro. Le fisionomie sono olivastre, hanno un’aria
interrogativa cupa, oppure brune, sveglie, di una mobilità da lucertola, hanno talvolta
anche un taglio netto e nobile”. E dove sono le “impronte fenicie”?, si chiede.
“Ci sono sicuramente qui dei fili mescolati al tessuto, e che ci serpeggiano, indiscernibili,
anche allo sguardo più affinato. Tanto più che contatti ripetuti si sono prodotti,
ancorché separati da lunghe interruzioni: all’inizio ai primi sbarchi di questo
strano popolo di commercianti, poi nell’espansionismo cartaginese, infine con l’intermediazione
degli arabi, che hanno apportato un nuovo schizzo di vecchio sangue semitico. Non
rimane più allora che il motivo, com’è di una melodia spesso ripetuta, e poi dimenticata”.
È nei luoghi – sempre Jünger in Sardegna (“Presso
la torre saracena” – ora in “Terra sarda” e in “Il contemplatore solitario”). “Storia
e preistoria di un’isola come questa si lasciano comprendere per altre vie
oltre che per gli studi. Sui suoi monti, nelle scogliere, e nella pace soleggiata,
fatta per le lucertole, nelle sue valli, deve ancora sonnecchiare fra gli atomi,
nell’intemporale, che nel corso dei tempi si è annodato in disegni di tappezzeria.
Devono potersi leggere nel vento e nelle onde, sui visi delle persone e nelle
loro melodie, nel modo in cui la sera il fumo dei focolari s’increspa sopra le
loro dimore”.
“I tempi passati sono vicinissimi, e che lo siano
sempre di più è uno dei doni inattesi, una delle scoperte corroboranti del
nostro presente. L’antico e il nuovo sono due qualità, due prospettive umane; l’antico
è senza posa presente e il nuovo è sempre stato là”.
Il tempo è cambiato, la percezione del tempo. E con
essa la storia. Sempre Jünger, ib.: “La maniera sottile e miracolosa con cui
noi oggi sappiamo aprirci l’accesso del più lontano passato proviene dalla
metamorfosi della nostra percezione del tempo. L’antico e il nuovo sono due qualità,
due prospettive umane. Lo sguardo storico vi acquisisce una potenza di concentrazione,
di evocazione magica, si fonde con quello del poeta. Questa combinazione dell’umanità
più lontana tirata fuori dalle sue ombre, è uno dei nostri spettacoli grandiosi.
Che sono, in tutto questo, i ritrovamenti degli scavi e dei documenti? Perché
cominciano a parlarci oggi, mentre sono sempre esistiti? Hanno per lo spirito
la funzione di talismani, ed è impressionante vedere quando vengono sfiorati, come
la lampada di Aladino, che cosa viene fuori dalle arcate dei millenni”.
zeulig@antiit.eu
Pavese e il mito
Un ritratto di Cesare
Pavese, poeta, narratore, traduttore eminentissimo e fertilissimo, manager editoriale
(della “vera” Einaudi, quella che fece testo per un paio di decenni), nei suoi
luoghi. Riportati in vita con moltissimo materiale di repertorio, degli anni 1930
e 1940, soprattutto a Torino, e nelle Langhe, fino al romano Hotel de la Ville per
il premio Strega 1950. Con le persone che
hanno contato per Pavese o ne hanno tenuto e ne tengono in vita la memoria. Con
vecchie testimonianze di contemporanei, amici o per qualche verso beneficati –
Ferrarotti, Raf Vallone, Fernanda Pivano (ancora lusingatissima e meravigliata dell’attenzione
critica che da Pavese ricevette da giovane, come traduttrice dall’americano, e sprezzante
contro tutti i pettegolezzi). Con l’esumazione anche di Bianca Garufi, collega
alla Einaudi, figura mitica del soggiorno romano di Pavese, per la quale e con
la quale scrisse in pochi giorni nel 1947 i “Dialoghi con Leucò”. E il commento
qua e là, sintetco e affilato, all’opera letteraria di Pavese di Gabriele Pedullà
- un romano che cura molto gli scrittori piemontesi, Fenoglio prima di Pavese.
Claudia Durastanti ne magnifica le traduzioni.
Un documentario
che invoglia a saperne di più, sull’autore e sul personaggio. La biografia di
Pavese è ancora da fare, benché abbia tanti ingredienti per stimolarla: inquietudini,
amori, arresti, tradimenti, un iperletterato e uno sportive che si uccide a 41
anni - quella di Lorenzo Mondo, “Quell’antico ragazzo”, è piuttosto una testimonianza.
Si sa un po’ – il documentario ne parla a più riprese - del suo “non impegno”
politico (scandaloso negli anni 1940, ma adesso?). Mentre non si pone abbastanza
attenzione alla sua visione “mitologica” della vita, dell’esistenza – come Nietzsche,
anche se non c’è alcun punto di contatto. Un bisogno già forte, nel diario e nei
primi racconti, nei mesi di confine politico che passò a Brancaleone in Calabria
(visse nel borgo sperduto tra reminiscenze greche, e mitizzava le servette). E
in questa dimensione, più nel mito che nella storia, confuso e inetto nelle relazioni
affettive (pari pari come Nietzsche mezzo secolo prima di lui): appena una donna
sorrideva, si proponeva di sposarla.
Una scena da grande
cinema Gagliardo s’inventa a metà del documentario, che sembra anch’essa di materiali
d’epoca e invece è girata dal vivo: la balera. Con le canzoni d’epoca, la cantante
che si atteggia a cantante, chi si limita a bere il suo mezzo bicchiere, chi
gioca a bocce, e i tanti che ballano: una girandola di personaggi che si veste,
canta, parla, balla come usava.
Giovanna
Gagliardo, Il mestiere di vivere
martedì 3 dicembre 2024
Il mondo com'è (480)
astolfo
Anton Coppola – Antonio
Francesco Coppola all’anagrafe, zio del regista del “Padrino”, ricordato dal
maestro Pappano nelle memorie, “La mia
vita in musica”, come uno di quelli che “riuscivano miracolosamente a mettere
su un allestimento nel giro di pochi giorni” – un allestimento d’opera, opera
complessissima – è stato compositore di successo negli anni giovanili, prima
della guerra. Autore in particolare dell’opera lirica “Sacco e Vanzetti”, sul
caso della condanna degli anarchici italiani che divise l’opinione.
Fu musicista
(flautista, direttore d’orchestra, compositore) anche il fratello Carmine, il
padre di Francis Ford, il regista.
Italia Coppola – Italia Pennino,
la madre di Francis, era anche lei legata alla musica. Era zia di Riccardo Muti
– una prozia. Figlia anche lei di musicista, il compositore di canzoni
napoletane Francesco Pennino. Fu paroliera di canzoni famose per i film di
Francis Ford, “Non ci lasceremo mai”, per il matrimonio di Connie nel
“Padrino”, “Ninna nanna a Michele”, con musica di Nino Rota, per il “Il padrino
parte II”, e “Come Back to Love (the Chief’s Death)” per “Apocalypse Now”.
Oltre che di molte canzoni per le colonne sonore del marito Carmine, per “The
Black Stallion”, un film di avventure per bambini del 1979, “Napoleon”, il
capolavoro di Abel Gance che Francis Ford ha recuperato e restaurato nel 1981,
affidandone il commento musicale al padre (un’esecuzione a Radio City Hall, con
grande orchestra), e “I ragazzi della 56° Strada” (“The Outsiders”) dello
stesso Francis Ford, 1983. Da ultimo divenne un personaggio, pochi anni prima
della morte, a 91 anni a gennaio del 2004, con un best-seller sulla
cucina italiana, “Mama Coppola’s Pasta Book” – aveva grande fama di cuoca.
L’annata 1998 del
vino zinfandel dei vigneti che possedeva prima di venderli per il suo ultimo film
Francis Ford Copola aveva battezzato Edizione Pennino. E col nome di “Mammarella”
ha lanciato una produzione, tuttora attiva, di piatti pronti “organici”, di
pasta variamente condita. Spiegando che Italia si faceva così chiamare dai
nipoti, piuttosto che nonna, grandma, che la faceva vecchia (il maestro
Muti stigmatizza domenica sul “Corriere della sera” l’uso in America di legare
l’italianità alla “mamma”: “In America le trattorie hanno sempre il nome della
mamma: Mamma Maria, mamma Rosa…”).
Giusy Devinu – Presto dimenticata,
morta di soli 47 anni, nel 2007 (la ricorda solo Pappano. “La mia vita in
musica”, come “scomparsa troppo presto”) è la soprano cagliaritana che fu
Violetta nei migliori teatri, a Spoleto, la Fenice, la Scala, e a Parigi. negli
anni 1980.
Delitto Matteotti – Mussolini, ligio
allo Statuto, ne riferì in Parlamento, prendendosene la responsabilità. Dopodiché
passò al regime, promulgando la legislazione totalitaria. Un salto di cui tutte
le storie del fascismo danno ovviamente conto, ma senza un perché – uno specifico,
per la situazione, il momento. Un dettaglio non indifferente è fornito a Aldo
Cazzullo sul “Corriere della sera” da Margherita “Magalì” Sarfatti, nipote
dell’omonima amante e ispiratrice di Mussolini. A proposito dell’“orrendo delitto
Matteotti” che cosa disse la nonna a Mussolini? “Gli consigliò di non indietreggiare,
anzi di assumersi tutta la responsabilità politica dell’accaduto. Lui lo fece.
E approfittò di quell’assassinio per instaurare una dittatura”. Considerando
l’opportunismo e la costante incertezza dell’uomo Mussolini, un passo da non
sottovalutare.
Fairbanks, Alaska – È la città, la
seconda più grande dell’Alaska, ora di 32-35 mila abitanti, di un emiliano, Felice
Pedroni, un immigrato giovane e avventuroso, che la rese ricca appena fondata
con l’oro. Il fondatore – il primo costruttore di abitazioni nel deserto di
fango e capanne – fu un Elbridge Truman Barnette, di cui nulla si sa, nel 1902.
Che qualche tempo dopo battezzò le sue case con questo nome, dal vice-presidente
degli Stati Uniti in carica con Th. Roosevelt dal 1905 al 1909, Charles W.
Fairbanks, repubblicano. Probabilmente per ragioni di comune loggia o
appartenenza massonica, nel Rito scozzese antico e accettato, di cui Fairbanks
era Gran Maestro. Felice Pedroni è una sorta di “patrono” laico della città,
poiché nello stesso 1902 che si costruivano le prime case scopriva nel territorio
adiacente la prima miniera d’oro: diede ricchezza all’agglomerato, ed è per
questo ricordato, anche se morì poco tempo dopo, nel 1910.
Tutto Pedroni
aveva fatto in poco tempo. Il 22 luglio 1902 aveva scoperto il filone d’oro
nel greto di un torrente oggi denominato, a suo ricordo, Pedro Creek. Subito
ottenne la concessione per l’estrazione dell’oro. E l’8 settembre poteva
fondare nella sua baracca un Distretto Minerario di Fairbanks, di cui si portò
presidente. Presto organizzò anche un viaggio in Italia, per trovare moglie, da
ricco. Non tornò al suo paese, Fanano, nel modenese, troppi brutti ricordi,
provò nel bolognese, a Lizzano in Belvedere, dove si propose ad Egle “Adelinda”
Zanetti. Che però non poté sposare, una vita in Alaska non lusingando né
Adelinda né la sua famiglia. Tornato a Fairbanks, sposò una ballerina di saloon,
donna che presto trovò “incontentabile”, una irlandese, Mary Ellen
Doran. Che pretese anche una residenza, un ranch, nel continente, nello
stato di Washington. Senza però dargli pace. Prima di morire, Pedroni ebbe
anche a litigare col socio con cui aveva messo in valore la miniera, in
tribunale.
Fairbanks lo ricorda
ogni anno nella manifestazione detta dei Golden Days, i giorni dell’oro: si fa
una gara per scegliere un sosia di Pedroni, che poi entra in città a cavallo, e
va a depositare in banca un sacchetto pieno d’oro. Anche Fanano, che si è
gemellata con Fairbanks, ne onora la memoria, con una targa che ricorda la
traslazione delle sue ceneri nel 1972 al locale cimitero. E in suo onore la
locale trattoria è stata ribattezzata “L’osteria dell’emigrante”.
Orfano di padre, rifiutato, pare, dalla
famiglia di una ragazza cui si era proposto in matrimonio perché povero e ignorante,
era emigrato a 23 anni. Dapprima in Francia, nel 1881, poi, nello stesso anno,
negli Stati Uniti. Lavorando da bracciante, e poi da minatore. Scoppiata la
febbre dell’oro, nel 1894 si trasferì in Canada, e da qui pochi mesi dopo nel
bacino dello Yukon, cioè in Alaska. Ebbe fortuna solo sette anni dopo, avendo resistito
alle condizioni climatiche proibitive della regione.
Grande migrazione – Dal 1910
al 1970 circa sei milioni di afroamericani sono emigrati dal Sud degli Stati
Uniti al Nord. Da North e South Carolina, Georgia, Tennessee, Mississippi, Louisiana
agli stati americani del centro-nord. Specie nelle città, che videro così la
formazione di ghetti neri, quartieri a popolazione principalmente nera – specie
a New York (Harlem), Chicago (Bronzeville – ma Chicago ha anche il soprannome
di “città nera”, fu la destinazione prescelta da almeno mezzo milione dei sei
milioni censiti nella Great Migration), Detroit (oggi in grande maggioranza,
fra l’80 e il 90 per cento, abitata da afroamericani), e Cleveland, in Ohio.
Nel 1910 gli Stati Uniti contavano 13 milioni e mezzo di immigrati, il 14,5
per cento della popolazione, quasi tutti dall’Europa. La riduzione del flusso
europeo, nel primo Novecento, portò a un incremento dell’immigrazione asiatica.
Che però non era gradita – negli Stati Uniti era dominante l’eugenetica: contro
di essa si vararono leggi restrittive dell’immigrazione. Per il contemporaneo
sviluppo industriale del Centro-Nord la migrazione dall’Europa fu sostituita da
quella interna, la Great Migration.
Dall’indipendenza, da quando si fecero statistiche demografiche, ne1 1780,
fino al 1910, oltre il 90 per cento degli afroamericani viveva negli stati del
Sud. In particolare in Louisiana, South Carolina e Mississippi. Nel 1970 restava
al Sud poco più della metà degli afroamericani. E anche loro si erano
urbanizzati: nel 1900 solo un quinto degli afroamericani del Sud viveva in aree
urbane. Nel 1970 più dell’80 per cento, per lo più in aree urbane di grandi dimensioni,
nelle città.
Anton Guadagno – Ricordato
anche lui, come Anton Coppola, da Pappano in “La mia vita in musica” come uno
di quei musicisti italiani in America che “riuscivano miracolosamente a mettere
su un allestimento nel giro di pochi giorni”. Nativo di Castellammare del Golfo
(Palermo), è stato direttore del Metropolitan di New York e della Wiener
Staatsoper per l’opera italiana.
Jim Crow – Le leggi Jim
Crow sono un sistema di leggi locali, e degli Stati meridionali degli Stati
Uniti, che a cavaliere del 1900 crearono l’apartheid per gli afroamericani.
A opera del partito Democratico. Sotto la sigla “uguali ma separati”. Con la
separazione in tutti i servizi pubblici (trasporti, ristorazione, sanità,
igiene) e privati (domestici e sociali). Un regime non istituito, non
dichiarato, che tuttavia canonizzava legalmente la separazione nelle scuole,
nei trasporti, nei luoghi pubblici (parchi, bagni, bar, ristoranti). E nelle
forze armate.
Succedevano ai
“codici neri”, applicati dall’indipendenza fino alla fine della guerra civile,
nel 1866, che già avevano ridotto i diritti degli afroamericani.
Le leggi Jim Crow furono
dichiarate incostituzionali dalla Corte Suprema nel 1954. Con una sentenza che
verrà applicata solo dieci anni più tardi, nel 1964, dalla presidenza di Lyndon
Johnson, il vice e successore di John Kennedy, col Civil Rights Act. Dopo un decennio
di protesta civile, animata dal reverendi Martin Luther King, Ralph Albernathy
e altri, a partire dal famoso episodio di ribellione di Rosa Parks, una giovane
nera che si rifiutò nel 1955 a Montgomery, Alabama, di cedere il posto in autobus
a un bianco, e fu per questo arrestata. Ma ancora nel 1965 si registrava un Bloody
Sunday – in realtà due repressioni violente, una di domenica e una di due giorni
dopo, per impedire una marcia di protesta, pacifica, da Selma a Montgomery, in
Alabama, per protestare contro il governatore dello Stato. Il 7 marzo 1965 la
polizia di Selma e una squadra armata di cittadini bianchi attaccarono la marcia
appena partita, di 500-600 persone, ferendone una cinquantina. Da qui il bloody
Sunday con cui è ricordata - un evento molto amplificato perché in diretta
televisiva per tutto il Paese. Due giorni dopo gli organizzatori ritentarono la
marcia, ma ne furono bloccati alla partenza. Dopo lunghe trattative, la marcia
fu effettuata il 21 marzo, e dopo quattro giorni si concluse, pacificamente, a
Montgomery. In agosto il Civile Rights Act del 1964 fu implementato di un
Voting Rights Act, chiudendo del tutto la stagione del separatismo.
astolfo@antiit.eu
Giallo Napoli, macchietta
Vincenzo Palmieri, ispettore di polizia, torna a Napoli dopo un comando Europol
da lui cercato a Stoccarda, col tormento sempre del camorrista, “O’ Muschillo”,
che ha assassinato i suoi genitori, onesti commercianti, e si dice morto in Brasile.
A Napoli sa risolvere i casi che via via si presentano all’antica, attraverso
la rete di conoscenze e delinquenti minori. Entrando in urto con i canoni regolamentari,
impersonati dalla sua capo. Una donna sola, che si passa le notti con compagnie
scelte online, sempre insoddisfatta, ossessionata dai punteggi per la
promozione.
Salvatore Esposito impersona l’ispettore con la giusta misura – la bonomia
sopra il tormento. Nel
fisico e nel soprannome evoca Bud Spenser-Carlo Pedersoli, e la tetralogia che girò
dal 1972 al 1980 con Steno, “Piedone lo sbirro”. Ma in una Napoli che la miniserie fa “recitata”: da macchiette, caratteristi
senza misura e non controllati. A cominciare dalla commissaria. Un ambiente e una
recitazione stranamente in contrasto con le scene d’apertura, a Stoccarda, dove
tutto è invece agile, sintetico, legato, e in medias res, allusivo il giusto.
Il plot¸la scoperta delle modalità e degli autori del delitto del primo
episodio, prende una o due scene, due o tre minuti dell’intera serata.
Alessio Maria Federici, Piedone – Uno sbirro
a Napoli, Sky
lunedì 2 dicembre 2024
Problemi di base epocali - 834
spock
“L’Europa deve cambiare, oppure sarà una lenta agonia”, Mario Draghi?
L’Europa è una
strana creatura, muore da tanti anni?
Ma come fanno
Wwf, Legambiente, Fridays for Future etc.
a raccomandare pale eoliche e pannelli solari?
L’ambiente va
protetto distruggendolo?
Le sparatorie
fra adolescenti a Napoli erano prima di “Gomorra”, il film, o sono venute dopo?
“Nulla ci appartiene,
solo il tempo è nostro”, Museo Diocesano Santa Severina?
spock@antiit.eu
Giallo squallore
Una periferia grigia
e umida, sporca. Filippo Timi invecchiato e stanco. Una caccia senza indizi a
un assassino volubile, seriale, plurimo, sterminatore di intere famiglie. Se non
una sfida in stampatello. Tutti i delinquenti dei dintorni sono sospetti, ma le
prove calligrafiche sono inutili. Molta atmosfera, di squallore, e poco altro.
Il pezzo forte della prima puntata è la colonoscopia di Timi, se è lui: bel lato
B.
Sembra un esercizio
registico, controvoglia. I D’Innocenzo lasciano la loro firma. Ma su una
sceneggiatura, forse su un soggetto, inafferrabile.
Damiano e Fabio D’Innocenzo,
Dostoevskij, Sky
domenica 1 dicembre 2024
Ma queste guerre tra arabi sono molto “nostre”
Ci sono “guerre”
tra sunniti e sciiti, compresi gli alauiti un po’ sciiti. E ci sono da qualche
tempo jihad, guerre sante. Anche tra fratelli. Ma a questo punto, col jihadismo
sunnita che parte dalla Turchia, dove si è addestrato ed è stato armato, troppe
cose che erano nell’ombra e vengono alla luce non quadrano. È un jihadismo
strano, non per la religione e non per la democrazia. Perché “gli arabi” sono fatti
così, saltano sul tavolo e lanciano le tribù? No, quello è Lawrence d’Arabia,
un film di masse: gli arabi non sono cretini, anzi piuttosto calcolatori. Il
jihadismo ha messo e tiene in subbuglio il Mediterraneo orientale: è una spina nel
fianco dei suoi stessi regimi, e del fianco Sud dell’Europa, organizzata e
armata da non si sa chi, ma non nel vuoto. Evidentemente.
Il punto
di partenza è che in Turchia non si prepara una jihad di soppiatto: ogni
atto è registrato, e represso, in Turchia. Anche un divieto di sosta nella più
sperduta campagna attiva immediatamente un fischietto. Ma, poi, niente quarta
del sommovimento arabo da venti anni a questa parte. Dalle “primavere arabe”
della presidenza Obama, che hanno ribaltato i regimi militari arabi che gli stessi
Stati Uniti avevano portato al potere negli anni 1960, in funzione anti-britannica.
Col risultato che al Cairo un generale è succeduto a un altro generale dopo un
paio d’anni di Fratellanza Mussulmana, che gli Stati Uniti ci assicuravano democratica,
ma soprattutto si dedicava al velo e alle chiese, da incendiare o bombardare. In
Libia è stato compiuto il disastro che sappiamo. In Iraq e in Siria la liberazione
si è fatta aprendo la strada ai jihadisti. Aberrante: lo sciismo a Baghdad rischia
di avvicinare l’Iraq all’Iran e il regime Assad in Siria, alauita quindi un po’
sciita, non è democratico, ma sostenere i jihadisti sembra aberrante. E però è
stato fatto. E come tutto mostra si continua a farlo.
Dice: ma
Assad si è messo con Putin. Sì, ma chi ce l’ha costretto? E che sostegno dà, può
dare, a Putin?
Le guerre
di Bush jr. all’Afghanistan e all’Iraq si potevano in qualche modo giustificare
come una reazione, ance se bizzarra, all’attacco alle Torri Gemelle – il primo
atto di guerra subito dagli Stati Uniti in territorio americano in oltre due secoli
di storia. Ma le guerre-non-guerre di Obama nel Mediterraneo nei quattro anni
della terribile Clinton al Dipartimento di Stato, riprese da un incredibile, se non fosse reale, Biden, hanno reso invivibile mezzo
Mediterraneo. E non può essere un caso – una serie di errori? No, l’America sa
quello che fa: analizza, discute, decide, programma, ordina, ha una politica
estera, perfino ferrea.
Ora il messaggio è che i jihadisti turchi (??) ci libereranno da un regime asservito
all’Iran e ala Russia. I jhadisti? Gli avranno pure insegnato a non tagliare
più le teste, non in videoconferenza, ma cosa si costruisce col jihadismo?
Né bisogna
dimenticare il passato, che non è fantasmatico. Quando Al Qaeda veniva organizzata
e armata dagli Stati Uniti, contro la Russia. O il Gia algerino, Groupe
islamique armé, che provocò 200 mila morti (e forse 500 mila), che aveva
sede a Chicago – e a Londra si poteva fare pubblicità con un giornale, “Al
Ansar”.
Palestina senza pace, già un secolo fa
Il rapporto impossibile,
nella Palestina anni 1930, tra il capo della polizia britannica a Tel Aviv,
città fondata dai sionisti ebrei, di nuova immigrazione, e una giornalista
ebrea. Tra ebrei immigrati, i “sionisti” in cerca di una patria, di destra (“fascisti”)
e di sinistra (“socialisti”), e i palestinesi, e tra sionisti e palestinesi contro
il protettorato britannico. Con atentati quotidiani, tra ebrei e arabi, e
contro i britannici. Londra decide di passare alle maniere forti, con esecuzioni
sommarie per i colpevoli di terrorismo. E il rapporto fra il mite ispettore di
polizia di Tel Aviv e la brillante e combattiva sionista giornalista ne soffre.
Una soriace ptede molto – con poche cadute (la spitya scena di sesso, il r
apportos entiment ale, romantic, tutosomato freddo.
Un film storico e
politico. Che però prende molto. Disteso e insieme serrato, di episodi tutti per
qualche motivo avvincenti. Anche perché girato, inconsapevolmente?, alla vigilia
della guerra in Israele e a Gaza, e su questo sfondo ancora più interessante.
Con poche cadute: la solita scena di sesso, la brutalità del terrorismo, e dell’antiterrorismo,
e la stessa storia d’amore tutto sommato fredda, all’inglese?, non
sentimentale, non romantica. .
Con un curioso
sottoquadro politico. Il racconto è visto da Tel Aviv, quindi in ambito ebraico,
nei rapporti fra organizzazioni sioniste, e fra i sionisti e i britannici. I primi
divisi tra Haganah, un movimento paramilitare legalitario, e Irgun, un gruppo
terrorista estremista, contro arabi e britannici indistintamente.
Organizzazioni note sulle quali il film semplifica, e un po’ tradisce i fatti.
Dice Irgun un gruppo terrorista fascista ispirato da Žabotinskij,
e Žabotinskij un mussoliniano. Mentre Žabotinskij non era mussoliniano, benché
avesse tentato un appoccio verso Mussolni, per la sua politica anti-inglese (ma
filoaraba). E non era per il terrorismo. E idealizza come intellettuale e poeta
Abraham Stern, che fu invece l’aedo e l’organizzatore del terrorismo più crudo,
nonché fautore durante la guerra di una alleanza stretta con Hitler in funzione
anti-britannica in Palestina.
Non un errore,
poiché i fatti sono noti, e incontestati, ma una scelta. Perché Žabotinskij era
russo e e Stern polacco? Non sarebbe un caso: da sempre, dai tempi di Kim”, l’Inghilterra
si fa un’epopea della guerra sotterranea alla Russia. Mentre ha sempre sostenuto,
anche se male, e tuttora sostiene, anche se non a buon fine, il revanscismo polacco
– l’“armiamoci” in Ucraina è placco e inglese.
Michael Winterbottom,
Shoshana, Sky Cinema, Now
sabato 30 novembre 2024
Cronache dell’altro mondo - migratorie (312)
In aggiunta alla crescita dell’astensionismo,
le modificazioni elettorali americane sono spiegate con le variazioni
demografiche degli ultimi cinquant’anni: per una migrazione interna di vaste proporzioni.
Analoga a quella italiana dal Sud al Nord degli anni del boom, ma di
segno inverso: dal Nord al Sud. L’effetto è che fra i 435 deputati della Camera
dei rappresentanti, l’unico dei due rami del Congresso che riflette proporzionalmente
l’elettorato, la rappresentanza degli Stati del Sud supera ora quella degli Stati
del Nord, tradizionalmente più rappresentati.
Tra la Camera del 1968 e quella del
2022 lo stato di New York risulta avere perso 15 seggi, la Pennsylvania 10, l’Ohio
9, l’Illinois 7, il Michigan 6, il New Jersey 3. Mentre ne hanno guadagnati la
Florida 16, il Texas 15, l’Arizona 6, la Georgia 4, la North Carolina 3, la South
Carolina 1.
Cronache dell’altro mondo - meridionalistiche (311)
Tra
il 2020 e il 2021 il pil Usa è aumentato del 48 per cento – il pil reale, al netto
dell’inflazione. Ma di più è aumentato al Sud. In Texas, Florida, Arizona,
Georgia, Tennesseee, North Carolina, South Carolina e Georgia è aumentato del 63
per cento, negli Stati del Nord del 27.
A questa inversione dei tassi storici di crescita
ha corrisposto un’inversione della Grande Migrazione storica, 1910-1970, dagli Stati
del Sud a quelli del Nord. Oggi le capitali del Sud, Austin, Atlanta,
Charlotte, Nashville, sono le mete preferite delle coppie giovani plurilaureate
pluireddito, per le occasioni di lavoro migliori - e per il clima.
La nuova migrazione, 2000-2023, ha coinvolto
16 milioni di persone. Con un saldo positivo per 25 stati, al Sud, e negativo per
26, al Nord. Il saldo è positivo per il 19 per cento della popolazione, uno si
cinque, in Arizona, il 18 per cento in Souh Carolina, il 15 in Florida, il 14
in North Carolina, l’11 in Tennessee, il 9 in Georgia e in Texas.
Il saldo
è negativo in particolare per lo stato di New York, meno 20,4 per cento, un residente
su cinque, e per la California, meno 9,7, uno su dieci. I due stati che hanno
dominato l’opinione e l’imagine nel dopoguerra. Elevato anche per Illinois,
meno 15,2, New Jersey, 11,8, Michigan 9, Massachusetts 8,6, Ohio 5,1,
Pennsylvania 3,1.
Se la pace viene col Giubileo
Una presentazione
e una celebrazione, di Roma – dei “lavori a Roma” - e del Giubileo. Da parte
del giornale forse più laico, se non anticlericale. Ma col papa gesuita tutto
si risolve: una celebrazione del “Giubileo di papa Francesco e del sindaco
Gualtieri” – che a Roma è molto criticato ma è il miglior fico Dem.
Una compilazione,
sotto la scorza agiografica, comprese “Le opere di Roma Capitale”, piena di
spunti. Molto è spiegato del giubileo in
senso proprio, come evento religioso, dai vaticanisti La Rocca e Scaramuzzi, e
da Angelo Scelzo, l’ex vice-direttore della sala stampa del Vaticano. Molte le
testimonianze personali, più significative quando di agnostici (Recalcati,
Niola, Fuksas, Manconi, Simona Marchini, il maestro Mariotti, Claudia Koll).
L’evento si annuncia anche beneaugurante, stando all’attualità: una qualche
forma di cessate il fuoco in Palestina e in Ucraina.
Ottavio Ragone-Conchita
Sannino-Francesca Giuliani, Roma 2025 – Il Giubileo, Urban la
Repubblica, pp. 168, ill. gratuito
venerdì 29 novembre 2024
Meloni al centro in Europa
“Migrazione
priorità dell’Europa”, spiega il neo presidente del Consiglio Europeo, il
governo politico europeo, il portoghese Antonio Costa, socialista: “Con Meloni
lavoreremo bene”. Meloni non ha votato Costa per la presidenza, ma Costa non se
ne fa un problema: “Meloni è stato il primo leader che ho visitato. Abbiamo parlato
molto bene, sono sicuro che lavoreremo molto bene insieme”.
Continua lo
sfondamento di Meloni in Europa. Sottovalutato dai media in Italia, ma
importante di fatto, e anche interessante. Per avere il suo appoggio von der Leyen,
giù pluriministro in Germana e esponente di primo piano della Dc tedesca, la
Cdu\Csu (i Popolari), ha rischiato la bocciatura al secondo mandato, al voto del
Parlamento.
Meloni è
diventata centrale per i Popolari, non da ora, soprattutto in Germania. In tutta
Europa ma in Germania di più: per provare a bloccare la valanga popolare verso
la destra estrema - e la sinistra-destra estrema, di Afd e di Sahra Wagenknecht
- contro l’immigrazione incontrollata.
Collegata
al tema immigrazione è ora infine una politica europea verso il Mediterraneo. Anche
questa una strada aperta da Meloni, col Piano Mattei. Dopo sessant’anni di resistenze,
la Commissione di Bruxelles si dota infine di una Direzione Mediterraneo – tra l’altro
confidata a un italiano, l’ambasciatore Sannino (con un commissario per il
Mediterraneo, incarico provvisoriamente affidato alla croata Šulka, del partito
Hdz, nazionalista, anche se non fa parte dei Conservatori europei, lo schieramento
di Meloni). Un’area dove il problema maggiore in questo momento è proprio l’immigrazione.
Da regolare con accordi con i Paesi africani e mediorientali che più alimentato
i flussi.
Ombre - 748
“Esiste un mercato, con le leggi del mercato.
Poi esiste una legge, che non ho scritto io, legge del golden power. Il governo
valuterà perché deve valutare, lo prevede la legge. Non ce lo siamo inventato noi”.
Giorgetti, ministro dell’Economia, sa che sull’affondo di Unicredit su Bpm il
governo non c’entra – dove sono gli interessi nazionali in gioco (“golden
power”)? Ma non può contraddire il suo
capo, che è Salvini. Logica leghista – il capo ha sempre ragione?
Dove un candidato filorusso, o anche solo
non antirusso, emerge, in Georgia, Romania, Moldavia, o si impedisce il voto (ai
moldavi che lavorano in Russia), o si invalida – si tenta. La democrazia si vuole
totalitaria.
“Sorteggio Mondiali: rischio Turchia per gli
Azzurri”. La Turchia? Per gli Azzurri tutto è un rischio? Tanto patriottismo e tanto carbone
bagnato?
Mai si è puntato tanto sullo sport, sulle vittorie, i numeri 1, gli
ori, i record. Significa che non abbiamo altro di cui lusingarci - è sempre l’ideologia dei “primati” nazionali, Ottocento, che ha presieduto all’unità, e da lì non ci siamo mossi? Ma sempre
col complesso di inferiorità, della “proletaria”.
Il nazionalismo è debole di costituzione? È
mangione, niente gli basta mai.
Tre e quattro
pagine, per tre e quattro giorni, sulla “maggioranza in fibrillazione”, per canone
Rai e sanità in Calabria. Senza mai dire la verità, su Salvini e la sua Lega.
Che voleva ridurre il canone Rai di tre o quattro euro, tre o quattro euro l’anno,
non l’ha ottenuto, e per vendetta ha affossato la . sanità in Calabria. Regione
che fino a tre ani fa governava. E non c’è da ridere.
La consigliera municipale Avs di Genova, femminista,
che ha denunciato di essere stata abusata a 12 anni, sbeffeggia in vario modo, ripetutamente.
in più forme, i messaggi politici di solidarietà ricevuti. Non dal suo partito,
però, non ne ha ricevuti: “Nessun messaggio di solidarietà dal centro-sinistra”.
Lì la conoscono meglio?
“Stucky” mercoledì, “Don Matteo” giovedì, Rai
2 e R ai 1, quindi la bibbia dell’Italia, mettono in scena due mariti a cui la
moglie adultera dà fastidio ma non poi tanto. È una forma di maschilismo. Ma
non in senso liberatorio, per lui oltre che per lei?
Ogni
partita dell’As Roma la passata stagione ha visto l’Olimpico esaurito (99
per cento il tasso di occupazione, dice il bilancio, “circa 63 mila tifosi”
ogni partita casalinga”). Altrove si sarebbero costruiti monumenti su questa
passione. A Roma no – la squadra naviga in zona retrocessione.
Un allenatore della Roma, Juric, è stato licenziato
perché non faceva giocare Hummels, “un campione del mondo”, e teneva Dybala di riserva.
Il successore, Ranieri, ha tenuto Dybala di riserva, e ha fatto giocare Hummels.
Risultato, sintetizza Luca Valdiserri, grande romanista: “Autogoal a Firenze,
errore sul goal di Lukaku a Napoli, rigore dopo 90 secondi ieri contro il
Tottenham. Il peggiore in campo, insomma”. Che altro deve fare, povero Hummels?
Dopo avere rifilato alla Juventus per 50 milioni
un calciatore che s’infortuna, Douglas Luiz, l’Aston Villa, club inglese, si dice
felice per il calciatore, che “ha scelto un grande club”, e non pensa proprio di
riprenderselo a gennaio – la cifra non è stata ancora pagata del rutto. Un tempo
gli italiani passavano per furbi. Ora solo per scemi?
Invece, poi si scopre che è un jeu de
dupes, un gioco delle tre carte. Tra Sawiris, l’ex patron di Infostrada-Wind,
ora dell’Aston Villa e altri interessi in Inghilterra, e John Elkann, della cui
finanziaria Exor Sawiris è consigliere. Aston Villa si è “fatto il bilancio”
con i 50 milioni della Juventus. Che per 22 milioni però figuravano cessioni di
due calciatori Juventus, Iling jr. e Barrenechea. Vendendo i quali il club di
Elkann ha potuto mettere in bilancio una plusvalenza di 20 milioni (poi Aston Villa
ha ricollocato i due, al Bologna e in Spagna, guadagnandoci qualche milione
vero). Che calcio!
Fitto vice-presidente, von der Leyen presidente,
politica mediterranea, direzione Mediterraneo:
Meloni incassa in poche ore una serie di
successi a Bruxelles. Dove invece i media la davano per paria. E sarà la “sindrome
Mottola”? Michele Mottola è un capo redattore del “Corriere della sera” rimasto
negli annali perché, dovendo il giornale parlare di “Lascia o raddoppia” ed essendo
la redazione restia, la rassicurò: “Che problema c’è? Se non ne parliamo noi nessuno
saprà di Mike Bongiorno”.
Curioso che il raddoppio
dei fondi pubblici per i partiti sia stato proposto dal Pd, che è in minoranza.
Ma sapeva di fare mossa gradita. Poi hanno sbagliato a formulare la proposta - emendamento
invece di una legge….
Non curioso invece
che Mattarella, che è sempre Pd, abbia bocciato l’“emendamento”. Emendare da
che cosa? Dalla legislazione come capita.
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L’infelicità della felicità
Un saggio delle
lettere che la poetessa, morta suicida nel 1938, a 26 anni, un anno dopo avere
cominciato a lavorare, supplente di lettere in un istituto tecnico, scriveva
con continuità ai familiari. E con appplicazione. Soprattutto alla nonna a
Pavia. Dopo ogni sia pur minimo spostamento: a Pasturo, in montagna, nella casa
di vacanza di famiglia, e poi a Campiglio, oppure a Napoli e Sorrento per
Pasqua, inseme col padre, al mare ad Abbazia, Portofino e altrove, e poi, dopo i
vent’anni, in Inghilterra per l’inglese, accompagnata dai genitori, in
Germania, per il tedesco (nella Berlino imperiale di Hitler, qui però del tutto
assente: mai un accenno di politica), e a Breil, Vatournanche e Champoluc per
praticare l’alpinismo.
Un piccolo documento
di valore biografico. Testimonianza di una vita serena. Perfino nell’ultima lettera
(qui ricostruita, l’originale il padre lo distrusse, per evitare che la madre
se ne crucciasse). Una vita piena, di vacanze, viaggi, affetti, zie, domestici,
di una giovane piena di meraviglia per la vita e di interessi.
Una nota al testo
sarebbe stata opportuna. Anche sul titolo, che non trova nessun riscontro nella
scelta. Le lettere sono anche indirizzate a familiari donne, e tutte allegre e
fiduciose. Il fatto che abbiano tutte conservato queste lettere, di una figlia e nipote ragazzina, è il più commovente,
L’unico uomo,
oltre il babbo, nominato è l’amatissimo professore di latino e greco al ginnasio,
Antonio Maria Cervi, che le fa una corte discreta, benché lei sia ancora quindicenne,
facendosi trovare a Napoli o Sorrento, per guidarla a Pompei e altrove, per poi
lasciarla, alla prima liceo, avendo chiesto il trasferimento a Roma (la storia
con “Antonello”, poi “Nello”, non finisce qui, e forse ci sarà addirittura un
figlio mai nato nel mezzo).
Antonia Pozzi,
È terribile essere una donna, Garzanti, pp. 95 € 5,90
giovedì 28 novembre 2024
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (577)
Giuseppe Leuzzi
La Sardegna può dunque
dirsi “l’isola senza figli”: ha con la Corea del Sud il record del numero più
basso di bambini per donna in età fertile. Ma tutto il Sud non se la passa
bene: alla Sardegna fanno seguito, in questa classifica negativa, la Basilicata,
il Molise, l’Abruzzo.
Si
fanno figli dove si è più ricchi, non più dove si è più poveri – l’eugenetica
deve aggiornarsi. Il tasso di prolificità più alto in Italia è in Trentino-Alto
Adige. La Campania e la Sicilia, che ancora venti anni fa si contendevano il
primato, ora sono indietro.
Mirko Pellegrini, l’imprenditore beniamino del Pd romano
per gli appalti del Campidoglio, su cui ora la Procura di Roma non ha potuto non aprire
un’inchiesta, non era coinvolto in uno o due processi per mafia in Calabria? Sì. E aveva, ciò malgrado,
le necessarie certificazioni antimafia? Su questo non si indaga, ma è chiaro che sì. L’antimafia è mafiosa, un po’.
A Palermo un’impresa scarica
per anni tonnellate di rifiuti “speciali”. Senza la mafia, solo imprenditori insospettabili.
A Catania si scopre un traffico forse miliardario, comunque mondiale, di
immagni e suoni fuori diritti. Senza mafia. Siamo caduti in basso?
Peggio a Catania.
Un’organizzazione mondiale di pirateria tv è stata scoeprta, che fatturava
centinaia di milioni - con danno per le piattaforme più seguite, Sky, Dazn,
Netfix, Disney
+,
Mediaset, Paramonut e Amazon Prie, “quantificato in circa dieci miliardi di
euro l’anno”. Salute! Ma: senza mafia? Nonc’è più religione.
Leggendo in parallelo le
cronache di Roma e quelle della Calabria si trovano più inchieste, arresti e condanne
per associazione criminale nella capitale che nella regione mafiosa (le
cronache calabresi hanno molte più pagine di criminalità, ma sono aggiornamenti
di processi, liste di condannati e assolti, con relativi avvocati, e poi di
assolti e condannati, di processi più che di nuove denunce). È normale, Roma ha
una popolazione una volta e mezzo la Calabria, e molti immigrati incontrollabili,
ora anche bengalesi e cinesi, un tempo rumeni e albanesi. Ma, è questa la
sorpresa, a Roma le bande sgominate non “fanno testo”: si scorrono i titoli,
senza fastidio – la città è altra.
Un’operazione “Levante”, della
Guardia di Finanza e della Procura di Catanzaro, porta alla luce un
traffico di immigrati molto proficuo. Dal Medio Oriente: Iraq, Iran,
Siria, Libano, Afghanistan, in fuga da regimi infausti e da guerre, al costo di
7-10 mila euro per passaggio via mare sulle coste calabresi, più un altro migliaio
per attraversare l’Italia e “passare” la frontiera a Ventimiglia o al Brennero.
Un’organizzazione di due minimarket e un negozio di telefonia - col “money transfer”
per eludere la tracciabilità. Una non notizia, nessun giornale ne ha parlato, giusto
l’Ansa. Ma curiosa: l’organizzazione non era collegata alla mafia, alla ‘ndrangheta.
La mafia non controlla più il territorio – i Carabinieri ci hanno rinunciato?
Il vento del Sud
“Maxi-parco
eolico marino: 1,5 miliardi sulla Calabria”. S’intende a favore della Calabria,
il “catenaccio” segue trionfante: “Previsti 1.500 posti ed elettricità per 600 mila
famiglie”. Un bengodi: posti e famiglie, che di più? Per un progetto offshore, nel mare di Corigliano, Alto Jonio
cosentino. Per 120 Megawatt di “solare galleggiante”, su piattaforme semisommergibili
composte da triangoli equilateri componibili, 16m. x 16m. x 16m.. E 420
megawatt di eolico, con 28 turbine galleggianti. È il progetto di una società di
gestione del risparmio, che punta ai guadagni miracolosi delle “fonti
rinnovabili” di elettricità, pagate dallo Stato, cioè dal fisco, cioè da noi.
Attraverso gli “oneri di sistema”, un prelievo forzoso di alcune centinaia di
euro l’anno su tutte le abitazioni, 35 milioni
– roba miliardaria.
Non è il solo progetto. Un altro, denominato rispettabilmente Enotria, della spagnola Acciona, vuole pale eoliche davanti a Squillace e Stilo, siti storici e archeologici di rilievo. È già al vaglio del ministero dell’Ambiente (con 246 allegati…) per la Valutazione d’Impatto Ambientale. Per 37 aerogeneratori, cioè pale eoliche, ognuna alta 355 metri – più di tutti i grattacieli di Milano, più anche di quelli di Manhattan. Collegati da cavidotti, che faranno capo a stazioni di connessione e trasformazione a terra, a Cropani, Botricello, Cutro, Scandale – una lunga fetta della costa. Stazioni automatiche.
Sembra di sognare, i progetti si succedono. Un terzo progetto si dà già
per approvato, per 23 pale eoliche, alte ognuna 206 metri, nelle alture tra il Pollino e la Sila
Greca, in territorio di Acri, San Demetrio Corone, Terranova da Sibari, e nel Comune sparso (36 frazioni)
dei Casali del Manco, la “Toscana del Sud”, tra Cosenza e la Sila. Tutte località di pregio
naturalistico. Si deve essere sparsa la voce che in Calabria si può? Anzi che il governo
regionale non solo facilita ma anche finanzia, nella sua micragna, questi mostri d’acciaio da 200 e
rotti metri. Che altrove non vogliono. Ne sono già stati installati, sparsi sui dossi, 624, O anche:
come Acciona, da Madrid, sia finita al Golfo di Squillace sarebbe una storia interessante. Non avrà
qualche manager, consulente o partner calabrese che ha curato la pratica? Perché la mentalità è sempre
quella, disruptive. Non intesa a capitalizzare (accrescere, accumulare sul già cumulato), ma a
distruggere. Per innovare certo, non è questa la civiltà, il futuro? Il ritardo del Sud è economico
(deficit di capitali, di investimenti, di infrastrutture), ma anche culturale: la povertà è, senza
offesa, anche stupidità – specie se si abbonda in risorse. Succede con le pale come per il Ponte,
che distrugge un altro pezzo di Calabria, per niente.
Ma, poi, c’è poco da almanaccare. Le pale sono l’ultimo Grande Progetto
di “sviluppo del Sud”, dopo le raffinerie appestanti, i petrolchimici velenosi, e le acciaierie
a bordo mare, a Posillipo e aTaranto. Perché le pale eoliche si impiantano solo al Sud.
Non ci sono solo i progetti per la Calabria, due parchi eolici marini
sono già in costruzione in Sicilia (mare di Marsala) e in Sardegna (un megaparco, da 42 turbine o aerogeneratori,
fuori costa sud occidentale, a 35 km). Sommando i numeri 2022 dell’Associazione Nazionale
Energia del Vento (Anev) si vede che gli impianti sono per oltre il 90 per cento al Sud.
In Puglia più che in Calabria – ma la Calabria compensa il minor numero di pale con la maggiore potenza
(più alte e più grosse).
Questo l’elenco: Puglia 1.615 pale eoliche, Sicilia 1.574, Campania 1.196,
Sardegna 753, Basilicata 713, Calabria 624, Molise 321, Abruzzo 250. Nel resto d’Italia mance: Toscana
88, Liguria 56, Emilia Romagna 36, Lazio 30, Piemonte 9. Il resto delle regioni, Lombardia,
Veneto etc. (“altre) ne ospitano 21 in totale.
Il vento soffia solo al Sud.
Antonio, santo del Sud
Sa
di beffa leghista (antileghista?) la diffusione del nome Antonio al Sud, e specie
in Calabria – Antonio da Padova. Un secondo nome, devozionale, in congiunzione
col primo, quello che si è destinato alla creatura. All’anagrafe prima che in parrocchia,
determinando quella crasi che poi rovinerà tutta la vita – il parroco si
presume meglio alfabetizzato del vecchio “ufficiale dello stato civile”, e comunque
in grado di distinguere i santi. Più diffuso perfino del nome secondo none Maria
– Francesco Maria, Giuseppe Maria, etc. Che avrebbe il merito di rendere impossibile la
crasi, salvando molte vite.
Una
devozione da paura del parto? Un voto beneaugurante per il nascituro, che sia
sano e bello se non santo? Un “segno” per i figli Gemelli – il santo si celebra
il 13 giugno?
Rovinare
la vita è esagerato, ma insomma è un niente che crea problemi, quotidiani: alla
firma degli innumerevoli fogli in banca o alla posta. Specie ora, con la firma
digitale, la futurista aeroscrittura, senza poter poggiare il dorso della mano.
E con la quotidiana declinazione del nome di battesimo alle varie polizie, e ai
numeri verdi che ostinati marcano la solitudine – “tutto attaccato, senza la e
(la a, la i, la o)”: Giuseppantonio, Francescantonio, Pietrantonio, Giannantonio,
Domenicantonio, Mariantonia…
Il Sud è un po’ Nord
Il Sud
è ben europeo. Sia perché l’Europa è ben Grecia, e Mediterraneo. Ma anche per
essere stato e in vario modo essere ben collegato e presente in tante correnti intellettuali
europee moderne e contemporanee. Specie nell’Illuminismo, e nell’Idealismo-cum-materialismo - nella “filosofia tedesca” su
e attorno a Hegel. La squalifica del Sud, si sa, è opera recente, della politica
antiborbonica prima (inglese e francese) e poi delle politiche economiche (in
senso accademico: politiche pubbliche, di investimenti pubblici) e commerciali
successive all’unità d’Italia – poi il “ritardo” si è introiettato e ora è
difficile riprendere il filo. Da ultimo col business dell’antimafia: tra Carabinieri e giudici il Sud non sa come rivoltarsi.
Si
ricorda in questi giorni e si celebra Giuseppe Galasso, lo storico che al
passato del Sud ha dedicato gran parte delle sue ricerche, in occasione del
completamento della sua vasta Bibliografia. Nella quale il posto d’onore occupa
l’opera sua di maggior mole, anche se non di maggiore innovazione – non è una
ricerca di archivio, è una narrazione, di recupero e trattamento delle
fonti. Un’opera del 1996, già a questione
meridionale ampiamente riaperta, sotto i colpi dell’antimafia. L’opera, in tre
volumi, ha più punti d’interesse. Ma uno è specifico: il Sud non è la
periferia, culturale, economica, politica, dell’Europa, o una barriada, una favela, o un deserto. Al contrario ne è stato il nucleo fondatore, vivificante,
e ne resta un carattere identitario, peraltro non del tutto inerte o retrogrado.
Galasso spiega e tratta il
peso del pensiero geco, ovviamente, che per tanta parte si sviluppò nella Magna
Grecia. E l’antropologia del contadino, nel vincolo e rispetto della terra, persistente
al Sud ancora nel Novecento. Altro avrebbe potuto aggiungere: il paesaggio (l’orto,
il giardino), la famiglia, il “cucinato”. Il garbo. E il linguaggio
polisemantico.
leuzzi@antiit.eu
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