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sabato 11 dicembre 2021

Problemi di base temporali - 674

spock

 “Per quanti sforzi possiamo fare per prevedere il futuro, il futuro ci sorprenderà”, Giorgio Parisi?
 
“Il passato non è mai passato”, Luciano Spalletti?
 
“L’avvenire è vuoto e la nostra immaginazione lo riempie”, S. Weil?
 
E il passato?

L’avvenire è il presente, il domani è sempre oggi?

E l’evoluzione?
 
Il passato ci salva dal futuro – non è il senso della storia?

C’è un futuro senza il passato?

spock@antiit.eu


Cronache dell’altro mondo inflazionistuiche (154)

L’inflazione a quasi il 7 per cento è l’effetto di una dilatazione dei consumi, della domanda, negli ultimi due anni, del ristagno dell’economia a causa del covid. Una domanda cui l’offerta non riesce a tenere dietro, sia di prodotti agricoli che di manufatti e di servizi, vincolata dapprima dalle chiusure forzate, e ora anche, oltre che dai lockdown, da problemi di approvvigionamento (porti intasati, scarsità e rincaro delle materie prime, a partire dal petrolio).
È uno dei misteri degli Stati Uniti: il mercato del lavoro è in deficit, molte offerte restano inevase per mancanza di domanda. La riduzione della forza lavoro si penserebbe comporti una riduzione dei redditi distribuiti, e quindi delle disponibilità complessive di massa.
L’ultimo tasso d’inflazione rilevato, il 6,8 per cento, il più alto dal 1982, il secondo anno della presidenza Reagan, evoca il fantasma dell’inflazione incontrollata degli anni 1970, dopo la crisi del dollaro del 1970 e le crisi del petrolio del 1973-4 e del 1978. Anche per effetto ora della spesa pubblica, che la presidenza Biden vuole ingente, per rinnovare le infrastrutture fisiche del Paese, trasporti e mobilità, energia, comunicazioni.

Il male è brutto, ma non ha faccia

Con le immagini, con la co-sceneggiatura di Francesca Archibugi, e con Anna Foglietta nei panni di Ilaria Capua, è la trasposizione del libello della virologa Ilaria Capua sul processo che le fu intentato artificiosamente dalla Procura di Roma per stroncarne l’attività di ricerca – molto promettente – e la carriera. La scoperta di un vaccino contro l’influenza aviaria ha precipitato Ilaria Capua sette anni fa, non un secolo fa, all’inferno. Fautrice dell’accesso pubblico alle scoperte scientifiche, fu denunciata dalla Procura di Roma come trafficante di vaccini: una vecchio dossier di anonimi del 2006, allora archiviato, fu ripreso nel 2014, dopo che Capua si era candidata alla Camera, eletta, col partito di Monti. Bisognava impedire che il partito di Monti prendesse piede? Niente è da escludere, non c’è scenario che sfugga alle Procure, abilitate a distruggere chiunque – “sono una sopravvissuta” dice di sé la studiosa, che ora lavora in Texas – e non dare conto di niente a nessuno: non c’è mai stata polizia politica così irresponsabile, anche a Beria la fecero pagare.    
Costanza Quadriglio sa come montare la suspense. E il personaggio si presta: giovane, attraente, capace e fortunata, buttata all’improvviso fuori dalla torre. Ma un po’ di contesto avrebbe giovato. Il budget, di questo come dei tanti docu-film che ora vanno, non era probabilmente cospicuo. Ma ci sarebbe voluto poco, allargare la scena, personificare le accuse, della Procura e di alcuni giornali. Il potere oscuro, falso e bugiardo, non c’è bisogno di farne un film: una storia è una storia precisa, con la sua verità storica, e non avrebbe guastato. Anzi. Della Procura che ha promosso la distruzione non sappiamo nulla – lo sappiamo, hanno fatto carriera, il capo Pignatone il papa lo ha fatto suo giudice, presiede il Tribunale in Vaticano. E dei giornalisti? Un drammone, ne sarebbe venuto fuori, non tiepidino.
Costanza Quatriglio, Io, trafficante di virus

venerdì 10 dicembre 2021

Cronache dell’altro mondo (153)

“Il razzismo? Oggi forse c’è più odio”, dice a Alba Solaro, sul “Venerdì di Repubblica”, il regista Steven Spielberg, impegnato nel rifacimento al cinema di “West Side Story”, il musical degli anni 1950: “L’America di allora aveva almeno l’alibi: erano gli anni 50…”, prima dei diritti civili.

Solo una su cinque - esattamente meno, il 17,8 per cento - delle unità domestiche americane è composta da coniugi sposati con figli.  È il risultato a sorpresa del censimento. La percentuale era il 40 per cento cinquant’anni fa.
L’età media delle donne sposate, al primo matrimonio, è di 28,6 anni – cinquant’anni fa di 20,4 anni. Per gli uomini è di 30,4 anni 
Oltre 37 milioni di americani adulti, ultradiciottenni, vivono da soli – erano 33 milioni alla precedente rilevazione, 2011. La percentuale di adulti che convivono con un coniuge è scesa al 50 per cento. Era del 52 per cetno nel 2011 – e dell’87 peer cento nel 1960.

Ecobusiness

Le biomasse, il trattamento dei vegetali per produrre energia elettrica, reimmettono nell’atmosfera tutta la CO2 assorbita in vita dai vegetali trattati nella combustione. Sono la causa singola più rilevante dell’effetto serra.
Le biomasse sono il punto forte e insieme quello più controproducente del ciclo dei rifiuti. Mettono a frutto, con la produzione di energia, l’umido, lo sfalcio, la potatura. Ma ne reimmettono nell’atmosfera la CO2 incorporata.
L’effetto serra è moltiplicato dai pellet, il riutilizzo degli scarti legnosi di lavorazione in blocchi compattati da usare come combustibile - segatura, piallatura, ritagli.
L’apporto negativo delle biomasse sull’effetto serra non è quantificabile perché non è quantificabile il dato sull’abbattimento di boschi e foreste per alimentare la produzione di elettricità –l’abbattimento producendosi soprattutto in zone tropicali remote e comunque poco controllate, come in Amazzonia. Pellet e biomasse sono comunque ritenuti il singolo fattore di maggiore impatto sull’effetto serra. Grandissimi consumatori e produttori ne sono quattro paesi che da soli fanno poco meno della metà della popolazione mondiale, Cina, India, Brasile e Stati Uniti.  

 

La colpa del disimpegno

Un regalo.
I due romanzi di Pavese sul “tradimento dell’intellettuale”, quello del confino politico in Calabria, vissuto come un errore, “Il carcere”, 1939, e quello, dieci anni dopo, della mancata partecipazione alla Resistenza, “La casa in collina” – riuniti dallo stesso Pavese sotto il richiamo evangelico. Con un identikit e ricchissime note di Gabriele Pedullà, e una corposa appendice critica, curata da Federico Musardo.
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, Garzanti, pp. CLXIV + 491 € 14

giovedì 9 dicembre 2021

Il mondo com'è (437)

astolfo

Corte Suprema UsaUn organismo politico, composto da nove membri, di nomina presidenziale, “con consiglio e consenso del Senato”, che adatta la Costituzione Usa al sentimento politico dominante. Prevista dalla Costituzione del 1787, fu una novità totale, la giustizia ritenendosi fino ad allora prerogativa regia, dell’esecutivo. prevalente. Il primo Congresso, 1789, ne definì il primo assetto. Il presidente Washington fece subito le nomine, e il 2 febbraio 1790 la Corte cominciava a operare. Dal 1869 ha l’assetto odierno.
La Corte Suprema ha giurisdizione “discrezionale” di appello su tutti i tribunali federali e statali. Di autorità incontestata, è però anche all’origine di decisioni spesso molto discusse. L’ultima, su cui è in corso una revisione, fu adottata nel 1973 per il passaggio dal divieto di aborto, salvo i casi di malattia, incesto o stupro, alla liberalizzazione totale, fino al 24-28mo mese di gravidanza – quando, a seconda delle opinioni dei genetisti, si ritiene che il feto abbia vita propria. Fu allora una decisone a grande maggioranza, 7 contro 2, di giudici nominati da Kennedy e Lyndon Johnson. Mentre oggi una maggioranza di 5 a 4, o 6 a 3, sarebbe per una limitazione del diritto di aborto, dopo l’immissione alla Corte di due giudici nominati da Trump.
A metà Ottocento, nel 1857, la Corte Suprema aprì la via alla guerra civile statuendo che i diritti e privilegi che la Costituzione conferisce ai cittadini non si applicavano agli americani di discendenza africana, anche se non erano schiavi. Ancora a fine secolo, malgrado l’esito della guerra civile, statuiva per la segregazione razziale, nell’istruzione pubblica, i locali pubblici, i trasporti.
Negli anni di F.D.Roosevelt la Corte allargò i poteri federali – per consentire l’intervento economico anticrisi. Negli anni 1960 avviò la desegregazione razziale, e il nuovo diritto civile, per gli uguali diritti delle donne, in famiglia e al lavoro, nello Stato (forze armate, polizie, impieghi) e nel libero mercato.

Influenza – Il virus epidemico di prima del covid. Con il quale si è imparato a convivere. “Malattia infettiva, contagiosa, epidemica”, la classificava la vecchia Enciclopedia Universale Garzanti, “dovuta a un ceppo di virus continuamente modificantesi, l’immunità è limitata. Il quadro clinico ha gravità variabile secondo il ceppo virale infettante”. Solo le complicazioni sono più lievi (il covid vi si aggiusterà?): “sinusite, otite, bronchite, polmonite”.

Nazicomunisti - “Comunisti” furono in Germania non solo gli ebrei, anche alcuni nazionalisti. Niekisch per esempio, quello della Repubblica dei Consigli di Monaco, dopo il ‘45 professore a Berlino Est, antisemita ma antinazista, cui gli Strasser si ispirarono, autore nel 1932 di Hitler, una disgrazia tedesca, e poi di libelli che gli valsero l’ergastolo per “alto tradimento letterario” dal tribunale del popolo dell’ex compagno Freisler. Erano nazionalbolscevichi i killer di Rathenau. “Non possiamo unirci ai comunisti”, disse Kern, il terrorista che “I Proscritti” di Ernst von Salomon immortalano,.“perché la Russia non vuole che essi vincano”. Lo stesso aveva detto Spengler: “I marxisti avevano il potere in mano. Ma abdicarono volontariamente”. La Novemberrevolution del 1928 fu abborracciata e inerte, il potere inseguito per quarant’anni considerato una sventura: “La rivoluzione tedesca divampò per incendiare la sua stessa casa” – con i danni conseguenti, Weimar, Hitler, la guerra, lo sterminio, il dopoguerra, di un paese socialista che non ha avuto il socialismo: “Una rivoluzione fallita è una ferita aperta”, dice ancpra Spengler, “che non sopporta alcun contatto”. Lenin aveva appena diffuso L’estremismo, malattia infantile del comunismo, contro i comunisti tedeschi - gli italiani sono in nota.
L’analisi di Kern condivise Rote Fahne, il giornale della Kpd, il partito Comunista: se solo i capi l‘avessero voluta la rivoluzione era fatta. Il sogno del terrorista, “la vittoria del germanesimo in terra”, era una Germania comunista: “Se esiste una forza che è necessario combattere con ogni mezzo è l’Occidente”. Il mausoleo sulla Saleck di Kern e Fischer, i due ex ufficiali di marina assassini di Rathenau, fu inaugurato sotto Hitler dal locale segretario sindacale, lo stesso che nel ‘22 aveva organizzato la caccia ai killer.
Ernst von Salomon, cadetto nei Corpi franchi a sedici anni, fu molto legato a due dei suoi fratelli, il maggiore Bruno, operaio per scelta a Amburgo, agitatore politico con un giornalino per il movimento di solidarietà contadina, poi membro attivo della Kpd, e il minore Günther, precoce nazista. Erwin Kern era apparso a Ernst quale Dio giovane, possente, che da solo umiliava la Francia nella Ruhr occupata. Teneva sul comodino cento boccette d’acque odorose, scriveva versi ermetici, centrava con la pistola l’asso di cuori da cinquanta metri, ricavava esplosivi dai rifiuti, organizzava reti terroristiche separate, in contatto con l’O.C. l’Organizzazione Consul, l’esercito clandestino tedesco, informale, del primo dopoguerra, e voleva il comunismo. Ernst e Kern si fecero membri di diciotto gruppi eversivi, di ogni orientamento. Iniziarono in modo convenzionale, abbattendo un ufficiale francese donnaiolo. Poi s’allargarono ai Sudeti e all’Alto Adige. E quando crearono il proprio gruppo lo divisero in due: cinquanta nazionalisti e cinquanta comunisti, con a capo “Edi”. Von Salomon resterà legato a Edi anche dopo l’assassinio di Rathenau, in carcere e fuori.
Il romanzo di von Salomon, 1930, fu voluto a Einaudi nel 1941 da Giaime Pintor - neofita comunista dopo essere stato convinto fascista.

In Germania il richiamo ambiguo si fece strada subito dopo la sconfitta del 1918, tra i giovani e giovanissimi terroristi dei Freikorp nella aree occupate, e attraversò tutto il dodicennio nazista, nella stessa amministrazione dello stato. Harro Schulze-Boysen, che nella guerra sarà arrestato e giustiziato a Berlino quale organizzatore e capo di una “Rote Kapelle”, l’Orchestra Rossa, di spie sovietiche, si era arruolato quattordicenne nei Freikorp in Slesia. Perdurava in molti l’equivoco del nazismo che si voleva comunismo, non fosse stato per i “sottouomini mongolici”, gli slavi, che gli avevano rubato l’idea. Nel primo discorso al suo partito, tremila simpatizzanti al circo Krone, ingresso un marco, gratuito per i mutilati, vietato agli ebrei, Hitler si rivolse a “intellettuali e operai”. Il Primo Maggio decretò festa nazionale e il nazismo partito del lavoro. Nella bandiera del Reich volle il rosso, col bianco nazionalista e la svastica “ariana”. Ci furono scioperi a centinaia in Germania ancora nel ‘36 e nel ’37, prima del boom. Ci fu un’ala bolscevica nel partito Nazista, dei fratelli Gregor e Otto Strasser, che Hitler espulse dal partito Nazista perché volevano nazionalizzare l’industria, e alle elezioni del 1930 fondarono un Fronte Nero, l’Unione dei Socialisti Nazionali Rivoluzionari, prima di finire l’uno con tutte le SA e l’altro in esilio. Erano ancora nazionalbolscevichi i tanti gruppi della burocrazia di Stato che nel ‘42 finirono perseguiti come Orchestra Rossa.
Con Schulze-Boysen e la moglie, nipote del principe Eulenburg, animatori del circolo politico detto “Orchestra Rossa”, furono giustiziati, tra i tanti, anche Arvid Harnack e Rudolf von Scheliha. Harnack, economista, il cui nonno aveva innovato la teologia luterana di Fine Secolo, maestro di Karl Barth, negatore dell’Immacolata Concezione, la divinità di Cristo, la resurrezione dei corpi, l’esistenza del demonio, e il cui zio Ernst sarà tra le vittime della furia di Hitler dopo il 20 luglio, fu arrestato poche settimane dopo essere diventato Oberregierungsrat al ministero dell’Economia, direttore generale. A diciotto anni membro dei Freikorp, e dal ‘37 del partito Nazista, Harnack, creatore con Friedrich Lenz della scuola di economia nazionale, aveva costituito un Gruppo di studio dell’economia sovietica, Arplan, per pianificare il futuro della Germania dopo il nazismo. Dal ‘41 collaborava con la rivista sovversiva Die innere Front e dal ’42 con i servizi segreti sovietici, ai quali spiegò nei dettagli la Soluzione Finale, sulla base delle notizie attinte al ministero degli Esteri da von Scheliha – un diplomatico eroe di guerra a Verdun, attivo nella resistenza cattolica e nella protezione degli ebrei.
Diffusamente, c’è anche da dire, Weimar sentì a destra l’attrattiva del “bonapartismo di sinistra”, il leninismo quale apparve al celebrato antichista Eduard Meyer. Arnolt Bronnen, nato Bronner, nome d’arte A.H.Schelle-Noetzel, scrittore, drammaturgo, amico austriaco di Brecht, diventò l’amico di Goebbels, per finire a guerra perduta sindaco comunista al paesello. “Comunisti” furono nella Germania nazista non solo gli ebrei, anche alcuni nazionalisti. Ernst Niekisch per esempio, quello della Repubblica dei Consigli di Monaco, dopo il ‘45 professore a Berlino Est, antisemita ma antinazista, cui gli Strasser si ispirarono, autore nel 1932 di “Hitler, una disgrazia tedesca”, e poi di libelli che gli valsero l’ergastolo per “alto tradimento letterario” dal Tribunale del popolo, presieduto da un ex comunista, Roland Freisler. Erano nazionalbolscevichi i killer di Rathenau, i due ex ufficiali di Marina Kern e Fischer. “Non possiamo unirci ai comunisti”, disse Kern, “perché la Russia non vuole che essi vincano”. Lenin aveva appena diffuso “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”, contro i comunisti tedeschi. L’analisi di Kern condivise “Rote Fahne”, il giornale della Kpd, il partito Comunista: se solo i capi l‘avessero voluta la rivoluzione era fatta. Il sogno del terrorista, “la vittoria del germanesimo in terra”, era una Germania comunista: “Se esiste una forza che è necessario combattere con ogni mezzo è l’Occidente”.

astolfo@antiit.eu

Brutta storia, essere donna e madre qualche anno fa

“Fino all’adolescenza trovo normale che mio padre sia in cucina e mia madre ai conti”. Un padre e una madre che ricorda con ammirazione, oltre che affetto – “di Edipo me ne sbatto”: lui cucina, cura i fiori e la racconta le fiabe, lei bada agli affari, la drogheria con annesso caffè, un perpetuo conteggio di crediti e debiti, in un paese normano, presso Rouen. Una madre da cui però ha saputo che “è bene avere immaginazione”. E che “il mondo è fatto perché ci si butti dentro e se ne goda”.  
Un’infanzia felice, di figlia “voluta”, con zie improbabili – una galleria di eccezione apre il racconto. La scuola dell’obbligo, dove Annie scopre il “dover essere”, i ruoli, le differenze. Poi il liceo in città, e l’università. Dove scopre le differenze sociali, e si scopre, perspicace, ora si sa, ma allora insolente, altra da quello che viene narrando. Scontenta già del suo stato e dei ruoli cui è confinata, dalle compagne di studi e, di più, dagli uomini, giovani studenti o laureati. Ma passiva, comunque inattiva. Anche nel matrimonio, cui giunge come tanti ai suoi anni, 1960-70, “per amore”, salvo ritrovarsi tra mille difficoltà pratiche, acuite dalla presunzione di un ruolo femminile da parte del marito. E poi, ancora di più, in quanto madre. Di uno. E poi di due figli.
“Detesto Annecy”, l’incolpevole città è la testimone di questa vicenda amara: il matrimonio, la domesticità, la maternità, la frustrazione, l’incomprensione, la separazione. Inevitabile il seguito, il cambio di rotta: l’insegnante moglie e madre diventerà la saggista femminista, anche su “Le Monde”, e la narratrice de “Gli anni”, memorialista del secolo. Di quando, “sembra un secolo”, si leggevano a grande diffusione “Intimità”, “Bolero”, “Confidenze”, e i fotoromanzi. E la scuola diventa mista all’università.
Uno storione personale, a mezza età – uno dei primi, Ernaux ne farà il suo genere personale. Partendo dalla constatazione “tutte le donne hanno il cervello romanzesco, è provato”. Della scrittrice da giovane, prima esilarato, “sono andata verso i ragazzi come si parte in viaggio”, poi dolente, poi querulo, da femminista anni 1970. Scritto bene, veloce, di vocabolario smisurato – grande prova dev’essere stato per il suo traduttore di sempre, Lorenzo Flabbi. Ma scontato, non poco. Sontuoso dapprima, con le zie e i genitori, non convenzionali. Poi via via di maniera, nel ruolo della critica sociale dello stesso passato. Un racconto noto, da Aleramo, “Una donna”, 1906 (il titolo di Aleramo curiosamente Ernaux darà nel 1987 allo storione della madre appena morta, ma non in chiave rivendicativa - in contemporanea dedicava un saggio a Pavese, autore che ritorna spesso nei suoi scritti, alla lettura di La bella estate, titolo che vuole antifrastico, la domenica della vita della giovane protagonista essendo segnato dal suo essere donna).  
Annie Ernaux, La donna gelata, L’Orma, pp. 192 € 17
 

 

mercoledì 8 dicembre 2021

Secondi pensieri - 465

zeulig
 
Avvenire – “L’avvenire è vuoto e la nostra immaginazione lo riempie”, S. Weil affascinata dal mito cortese apre “In che consiste l’ispirazione occitana”. Non è così semplice, ovviamente.
 
Carboneria – Si può dire l’assetto stabile della società italiana, dove pure nessuno ha mai tenuto un segreto. “Forse sarò stato l’ultimo viaggiatore in Italia”, scrisse Stendhal in “Dell’amore”, 1822 legando il segreto e la reazione politica - ultimo viaggiatore felice:  “Dopo la carboneria e l’invasione austriaca mai più uno straniero sarà ricevuto da amico nelle case in cui regnava un’allegria sfrenata”.
Eugenio Garin, lo storico della filosofia, trovava che il principio base dell’ermetismo nel Rinascimento - e cioè dell’Italia - è che “ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per realizzare i miracoli dell’unità”. È così nel ribellismo, carbonaro, italiano: repubblicano e monarchico, socialista e sanfedista, diabolico e beghino. Il ribellismo della bassa forza, all’origine, dell’esercito napoleonico, che in Calabria trovò fertile humus, e da lì risalì a Napoli e negli altri Stati italiani. Uccise Murat a Pizzo per conto del Borbone, e poi si rivoltò contro il Borbone – finanziato dal principe di Canosa, che del Borbone era ministro di Polizia.
 
Complotto - Un complotto ci dev’essere. Poiché si sa, gli uomini quando non credono a Dio non è che non credano a nulla, credono a tutto. E c’è bisogno di un potere da sbugiardare. Lo stesso mito è pettegolezzo, stagionato, ripetitivo. Il cappellano di Kafka lo dice al signor K.: “Non è necessario arrivare alla verità delle cose, basta ritenerle necessarie”.
 
Senza paranoia, non è un complotto. Con è il moto perpetuo, la quadratura del cerchio
 
Spesso legato, un tempo, ai gesuiti, e poi alla massoneria – con recente insorgenza in Gelli, la “massoneria deviata”. La fratellanza viene dall’epoca in cui la filosofia era dei mugnai, sarti, ciabattini, muratori celti delle brughiere scozzesi, e dei fabbri. Epo-ca democratica, il Cinque-Seicento, il mattino dei maghi. In cui un catto-lico fondava la massoneria, l’architetto William Shaw, per tutelarsi tra i calvinisti del re Stuart Giacomo VI. È laico solo il cristiano. Era un’idea latina, il vangelo l’ha fatta propria, e poi la chiesa. Talvolta l’ha repressa, talaltra l’ha difesa. Vale in materia quanto il patriota Croce stabilisce: “Io me la prendo con la Massoneria non già, come si fa d’ordinario, perché la giudichi perniciosa accolta d’intriganti e affaristi, ma appunto perché quell’istituto, originato sul cadere del Seicento, al primo fissarsi dell’indirizzo intellettualistico, plasmato nel Settecento, messo ora al servizio della democrazia radicale, popolato dalla piccola borghesia, rischiarato dalla cultura dei maestri elementari, rafforzato dal semplicismo razionalistico del giudaismo, è il più gran serbatoio della «mentalità settecentesca», uno dei maggiori impedimenti che i paesi latini incontrino ad innalzarsi a una vera comprensione filosofica e storica della realtà”. Dunque la “mentalità settecentesca”, dei lumi e della ragione, è il complotto.
 
O sia il complotto la storia vista dai camerieri. Per cui Lenin è un generale tedesco, Hitler è, anche questo si sa per certo da Rolf Hochhuth, il papa Pio XII, e la regina Elisabetta Churchill magro. Ci si è sempre chiesti che fine avesse fatto Churchill. È storia sempre attraente. La Stazione Finlandia è un bel plot, verrebbe un bel film, con Lenin nel vagone piombato della Wehrmacht. Il vagone piombato è un avanzamento: nel precedente della storia il principe Ferdinando, pretendente al trono di Bulgaria, era rientrato a Sofia da Vienna nel 1913 nel gabinetto del treno, anche se si trattava dello Orient Express, allora lussuoso. Un altro tipo di storie vede l’oro mutarsi in piombo, il piombo in colomba, e la colomba uscire candida da una pozza putrida, tutto in un soggetto e anzi in una persona, spesso in unità di tempo e luogo. Alcuni schemi aiutano, del tipo “da una parte dall’altra”, o “sia sia”, invece che “o o”. Sono logiche povere, messe a punto da francescani e domenicani alle prese con l’Inquisizione. Ma che il dogma tridentino, pur codificando il peccato, riconosce, per la complexio oppositorum del Cusano, l’intelligenza non è netta. Alla fine non si stringe nulla, ma se piace è divertente. È come allo stadio: si canta, si urla, ci si accoltella pure, senza guardare la partita. Non è dunque la storia dei camerieri disprezzabile, come Hegel vuole, e il conte Tolstòj, che mette le mani avanti - “non si può essere grand’uomo per il servo, perché il servo ha un altro concetto della grandezza”: si può essere camerieri e eroi.
 
Il complotto è, come il giallo, genere democratico: ognuno è un detective, e basta poco per creare golpe a diecine, ordinari. Ma il giallo si impone con l’enfasi sulla giustizia, che è il fondamento dell’uguaglianza. Con la democrazia delle stesse situazioni, verbosamente realizzata da Agata Christie, che Eco tenta di nobilitare in induzione, che sarebbe poi la deduzione. Mentre si sa che non è così, e nella sherlockholmesiana e nel noir se ne vedono le tensioni, l’impossibilità pratica: la giustizia è l’in-giustizia. Il sentimento della giustizia cioè è sconfitto. Non alla Manzoni, o alla Sciascia, per l’ambiguità della storia o della provvidenza, ma per le pulsioni invincibilmente perverse degli uomini, e delle donne, e per l’indigenza delle istituzioni incorreggibile. Sciascia immagina il giudice pensoso, per un’idea della giustizia astratta, da candido maestro di scuola. Ma nessuno autore vero di gialli si attende nulla dai giudici. Il che ha a che fare con la giustizia – che non è un fatto di tribunali – ma di più con l’enfasi anarchica che sta all’origine della fortuna del genere. È insomma un gioco, ha ragione Kipling. Divertente, pur coi tanti morti. Senza disprezzare il fenomeno secondario: indurre la credenza pubblica, il regime politico è ancora elettorale. Ma sui segreti non bisogna indulgere.
 
Progresso – Un’idea “non fondata in ragione”, secondo Simone Weil nella fase irenica, occitanica, in piena guerra – “In che consiste l’ispirazione occitanica” è del 1942: “La si è legata alal concezione scientifica del mondo, mentre la scienza gli è contraria, prorpio come la filofia autentica. Questa insegna, con Platone, che l’imperfetto non può provenire dal perfetto né il meno buono dal migliore. L’idea del progresso è l’idea di un parto per gradi nel corso del tempo, del meglio dal meno buono. La scienza mostra che un accrescimento di energia non può venire che da una fonte sterna di energia; che una trasformazione di energia superiore in energia inferiore non si produce che come contropartita di una trasformazione almeno equivalente di una energia superiore in energia inferiore. Sempre il movimento discendente è la condizione di un movimento montante. Una legge analoga regge le cose spirituali. Noi non possiamo essere resi migliori, se no con l’influenza su noi di ciò che è meglio di noi”. E: “Ciò che è meglio di noi, noi non possiamo trovarlo nell’avvenire. L’avvenire è vuoto e la nostra immaginazione lo riempie. La perfezione che noi immaginiamo è a nostra misura; è esattamente così imperfetta che noi stessi. Possiamo trovarla nel presente, ma confusa col mediocre e il cattivo; la nostra facoltà di discriminazione è imperfetta come noi stessi…”.
L’argomentazione logica è ineccepibile – l’avvenire è il presente, il domani è sempre oggi. Ma poi resta il fatto, siamo capaci di meglio. La medicina c’è, la chimica pure, e anche le conoscenze si allargano, sia pure sotto il (deprecato?) segno della tecnica: la comunicazione, l’alimentazione, le scienze stesse. Possiamo immaginare di meglio, in ogni aspetto, e non solo desiderarlo, ma applicarsi a esso, sia pure vanamente, in assoluto. Il progresso si può dire limitato, la filosofia non progredisce, per esempio, ma è buon esercizio, e anche utile. Utile ai più, malgrado tutto.  
 
Totalitarismo - La politica si fa totalitaria in modo logico, perfino pulito. Col “ragionamento glaciale” che Hitler vantava e Stalin ha esercitato, introdotto in filosofia da Socrate. Arendt lo spiega in un appunto: “Se la filosofia occidentale ha sempre sostenuto che la realtà è verità, adequatio rei et intellectus, il totalitarismo ne ha tratto la conseguenza che noi possiamo fabbricare la verità nella misura in cui fabbrichiamo la realtà”. Il dittatore totalitario non è Attila né Napoleone, non rapina, neanche per le sorelle. È un demiurgo, fabbrica realtà-verità, indifferente al rosso e al nero. E non per farci più saggi ma per coinvolgerci “nel deserto delle proprie conclusioni e deduzioni logiche astratte”. Il difetto è antico, stando a Bacone, che però è uno che crede, pure lui, alla  verità: è di Aristotele, il quale la fisica fece dialettica, e la metafisica volle realista. Gli scolastici fecero peggio, abbandonando l’esperienza.  

zeulig@antiit.eu                                                                                                               

Un Macbeth in macchina

Anche Livermore mette l’automobile in secna all’opera. E fa di più di Michieletto, che le auto teneva immobili, nel garage all’aperto al Circo Massimo come quinte: la mette in movimento, sulla scena alla Scala, dentro un bosco di betulle (in Scozia?).
La formidabile orchestrazione di Daniele Gatti, pulita, serrata, incalzante, di musica come fosse nuova (al balletto per il ritorno di Macbeth e Banco vincitori, non danzato, dà il ritmo della tarantella), e la sontuosità del coro, pilastro della tragedia, salveranno questa lussuosa edizione del “Macbeth”? Per lo spettatore alla tv, per la quale la costosa rappresentazione è stata disegnata, è una fatica. Una pena anche, specie per Luca Salsi, un Macbeth barboneggiante, piegato in due dall’inizio, quando è un vincente e non un assassino e un pazzo, in costume e assetto da domestico lagnoso, costretto alle fine perfino a prendere Lady Macbeth con movenze porno su un montacarichi, dopo aver duettato con la stessa su e giù nella cabina. Un poveraccio, a petto dei pettoruti Abdrazakov (Banco), Francesco Meli (Mac Duff) e Iván Ayón Rivas (Malcolm).
Scene, degli studi Giò Forma e D-Work, e costumi, di Gianluca Falaschi, sono una fantasmagoria continua, di sorpresa, come a un defilé qualificato di alta moda. Un impegno che s’immagina colossale. Non solo la scena è caleidoscopica, in pochi minuti, tra terzo e quarto atto, una mezz’ora, le coriste esibiscono ognuna un modello esclusivo, con acconciatura individualizzata ed elaborata – anche la parte maschile cambia d’abito, ma sembra con roba da magazzino. Netrebko, la lady Macbeth sulla quale tutta l’opera si regge, che si è presentata alla prima in forma, di voce e di presenza, è costretta, ingannatrice e prevaricatrice quale è, alla bella figurina frontale, immobile e inespressiva se non per la voce – non altrettanto ben servita quanto a costumi e acconciatura.
Una rappresentazione che si vuole una distopia, del male che incombe. Ma allora grafico, sterile.
Giuseppe Verdi, Macbeth, Teatro alla Scala

martedì 7 dicembre 2021

Cronache dell’altro mondo (152)

La cancel culture abolirà il Thanksgiving, la festa per eccellenza degi Americani? Non si osa, ma sarà inevitabile: si rende grazie per una conquista, a danno delle tribùi amerindie, consumando cibi autogeni, sottratti agli indiani: tacchino, mirtilli (ossicocco), patate, mais, fagiolini, carote, zucca, novi pecan, ananas. Alla prima festa dei Padri Pellegrini, un anno dopo lo sbarco, furono invitati i nativi. Ma poi no.

Si attende con fiducia, anche dai gruppi pro-aborto, la decisione della Corte Suprema che limiterà il tempo massimo dal concepimento entro il quale poter abortire legalmente. Chiamata a
pronunciarsi sulla validità della sua stessa giurisprudenza in caso di aborto, il caso Roe vs. Wade del 1973, la Corte Suprema deciderà ad horas quasi certamente per una limitazione dei tempi  massimi dal concepimento entro i quali poter abortire. Il caso è posto da una legge del Mississippi che vieta l'aborto dopo la quindicesima settimana.
La materia è regolata dagli Stati, e la decisione della Corte nel 1973 ha alimentato una sorta di  dissoluzione del sentimento nazionale, di sospettosità locale verso Washington, e di decisioni disparate dei vari Stati, per cui una nuova normativa della Corte Suprema è auspicata. Anche se la maggioranza della Corte è ora conservatrice: meglio una norma federale che sia accettata che una situazione di divisioni e disordini.
La decisione del 1973 fu presa dalla Corte Suprema a maggioranza larga, 7-2. Sulla base del Quattordicesimo Emendamento della Costituzione, della libera scelta di ciò che attiene alla sfera intima dell’individuo, senza più la necessità di violenza subita o rischio di vita, o malformazione del feto. Fino al tempo in cui il feto è in grado di vita autonoma - cioè a 24-28 settimane dal concepimento, a seconda delle scuole di medicina.

Ombre - 591

Sei colonne, titolo a tutta pagina del “Corriere della sera” per la consegna del Nobel allo scrittore afro-inglese Gurnah, a Londra. Venti righe, su un colonnino, in ribattuta, per la consegna del Nobel a Giorgio Parisi a Roma. In una cerimonia pure bella e pubblica, a differenza di quella, nell’Aula Magna della Sapienza, un museo di arte Novecento, con discorsi pacati, e notevoli intermezzi musicali. Milano è provinciale, si sa, ma è ancora al punto che niente succede se non succede a Londra.
 
“Da piccolo, essendo copto, non gli permettevano di giocare (al calcio)”, ricorda la madre di Patrick Zaki con Marta Serafini sul “Corriere della sera”. Senza scandalo, è normale che i copti, il venti per cento degli egiziani, non possano giocare al calcio dopo l’arabizzazione del paese – l’Egitto non era arabo e non lo è ancora. Sotto un islam, che, si può testimoniarlo di persona, era duro già quarant’anni fa. In un paese che un secolo fa era all’avanguardia nel movimento di liberazione femminile. A chi giova (papa Francesco, gli ebrei in genere) dire l’islam tollerante? Il delitto di cui Zaki è accusato è di avere scritto che i copti sono discriminati.
 
La Cgil chiama lo sciopero generale contro il governo più di sinistra degli ultimi tredici anni - contro il taglio delle tasse… Può darsi che il 16 riesca a fermare  i trasporti – il segno più visibile dello sciopero è da tempo sui servizi. Ma sarà difficile. Certo non fermerà la produzione. Spiega lo sciopero solo Landini, capopopolo tv capitato alla guida della Cgil con due anni di crisi, anzi di buco, che non sa cosa succede, e comunque non gli interessa.
Non c’è più destra e sinistra? Come no, la destra c’è.  
 
L’ambasciata di Svezia adotta Zlatan_11 come password per il wi-fi al suo interno - Ibrahimovic al Milan è sempre stato numero 11. 

Lo streaming della cerimonia alla Sapienza nell’Aula Magna la consegna del Nobel a Giorgio Parisi alla fine ha allargato il quadro indietreggiando alle prime file dei partecipanti. Tutte teste bianche.
Il neo Nobel lo notava in una delle prime interviste: quand’era giovane si arrivava in cattedra anche a trent’anni, ora a cinquanta-sessanta. La Sapienza celebrava  i suoi fasti, e i suoi nefasti
 
“Nel commercio globale la Cina viola tutte le regole. Pechino nel 2001 è entrata nel Wto diventando «la fabbrica del monco». E la concorrenza adesso è fuori dal mercato”. Arriva Rampini e il  “Corriere della sera” scopre la Cina, il mercato dell’affarismo?

Mille le magagne che Gabanelli, Taino e Di Vico finalmente elencano lunedì. L’affarismo come arma di conquista, più della bomba atomica: per niente caro e vittorioso in partenza.
 
Si commemora Pearl Harbour spingendosi così la sfida giapponese agli Stati Uniti, apparentemente assurda:  il Giappone (si dice il militarismo giapponese, ma di fatto era il Giappone) temeva che l’America prendesse qualche iniziativa in favore della Cina occupata – allora occupata dal Giappone. Così vanno le cose del mondo.
 
Il finanziamento privato dei partiti, di cui “l’Espresso” fa alcuni esempi, è di solito immediatamente collegato a un beneficio ottenuto dal partito finanziato – per esempio un appalto, una variante al piano regolatore. Senza vergogna. Senza che la giustizia, di solito, ci faccia caso.
 
Con regolarità, ogni giorno arriva ai giornali una “notizia” sull’indagine torinese a carico della Juventus – anche non congruente, ma quanto basta per fare un titolo. In assenza, si fa un’altra perquisizione, “accurata” – ormai, alla terza, o quarta sarà lunga qualche giorno - della Guardia di Finanza negli uffici del club, nelle residenze dei dirigenti. È la giustizia scandalistica, giudici e finanzieri devono potersi divertire. Per la quale paghiamo.
 
Pairetto, sempre lui, ha preparato a Bologna la Roma per l’Inter. Senza centravanti e senza esterno d’attacco – voleva ammonire anche un secondo difensore, e l’allenatore della Roma ha dovuto toglierlo. Un arbitro non emarginato dopo gli “errori” pro Inter col Sassuolo – un regalo di tre punti.
Ha provato anche a far storpiare Zaniolo, ma i bolognesi non se la sono sentita.
 
Incredibilmente infelici i propositi di ben due ministri, il ministro del Lavoro Orlando, colonna Dem, e la ministra per i Giovani Dadone, 5 Stelle, a freddo, di cui nessuno sentiva il bisogno, per sport, di legalizzare la marijuana. D’accordo subito il Procuratore Nazionale Antimafia, de Raho. Al punto da far venire il dubbio che non si tratti di una misura affaristica, della lobby del “fumo”. Non c’è intelligenza politica? Ministri di un governo pure ritenuto serio, quasi quadrato.

Ombre cinesi

Susanna Tamaro rende onore ad Alex Schwazer che ha saputo uscire dalla droga, e tornare un atleta sano, oltre che vincente. Lo fa adesso, dopo l’assoluzione di Schwazer in Tribunale dall’accusa last minute  di doping  del 2016. Last minute per estrometterlo dall’Olimpiade di Rio. La scrittrice però non dice che la decisione fu presa da Sebastian Coe, Lord Coe, il presidente della federazione mondiale di atletica Wada, a capo della quale si era appena insediato, per lasciare campo libero agli atleti cinesi, allenati dai Damilano (vinsero poi qualche bronzo).
La Cina del Presidente Xi vuole atleti vincenti in ogni disciplina e in ogni competizione, Mondiali, Olimpiadi, Continentali. Come già l’Unione Sovietica. Particolarmente intensa è la formazione di atleti nelle discipline sciistiche, lo sci essendo un sport nuovo per la Cina. In vista dell’Olimpiade invernale in Cina fra due mesi.
Il boicottaggio diplomatico americano dell’Olimpiade invernale cinese per la continua violazione dei diritti umani, nello Xinjiang dopo Hong Kong e il Tibet, non preoccupa Pechino nella nuova fase imperialistica, del presidente Xi. Anche se dovesse essere seguito, come è certo, da Gran Bretagna e Australia, e forse da alcuni paesi della Ue. Riguarda la non partecipazione alle cerimonie di piccoli gruppi di funzionari statali. Un’assenza e un trambusto che potrebbero disorientare gli atleti delle Nazioni boicottatrici.

La pacca sul sedere del papa

Una scelta delle lettere che Rodari scrisse alla casa editrice, “la Ditta”, in trent’anni di rapporto, dal 1952 al 1980. “Scrivendo e contemporaneamente giocando a scrivere”, può notare Bartezzaghi nella presentazione. Con un progetto per coincidenza attuale, di giornata, la pacca sul sedere – “la pacca sul sedere del papa”, nientemeno, “la storia di uno di Maccagno che parte dal suo paese per andare a dare una pacca sul sedere al Papa… e torna a casa soddisfatto”: “un libro umoristico” che oggi non si potrebbe, il rispetto per la donna (c’era anche la pacca peccaminosa, sul sedere femminile – e tra i gay su quello maschile) estendendosi a ogni contatto, ma una volta usava per correggere i bambini, anche fuori della scuola. Maccagno sul lago Maggiore dietro Varese, che poi però non risulta che il varesino Rodari abbia onorato con la pacca al papa.
Uno dei tanti progetti che formicolano in queste lettere. Scelte perché scherzi linguistici per lo più, sugli interlocutori,  sull’editrice, sui pagamenti in ritardo. L’immagine che danno è di un Rodari privato uguale alle sue filastrocche, leggero e acuto. Ma anche molto dentro la pedagogia scolastica, nei progetti editoriali cui è chiamato a partecipate (Andersen, la matematica, la fonetica, i testi scolastici, le letture consigliate).Atttento anche alla grafica dei libri, alle illustrazioni. Con gustosi profili dei corrispondenti. Non di quelli consueti, stranamente, Bollati, Ponchiroli, ma di quelli occasionali, Arpino, Cerati, Davico Bonino – Davico Bonino inviato da Einaudi a Prato a circuire i giurati del premio Prato in favore di Rodari è una fulminante “cosa mai vista: un torinese disinvolto e dei toscani intimiditi”. Spesso toscaneggia, con qualche lombardismo - “culo e camicia”, varesotto.
La scelta dà anche un curioso ritratto di come si era (poco) comunisti già negli anni 1960-1970. Rodari, già direttore del “Pioniere”, il giornalino dei piccoli del partito Comunista, poi fondatore di “Avanguardia”, il giornale della Fgci, la federazione giovanile comunista, continua a viaggiare a Mosca, e scrive alla casa editrice come comune corpo politico, ma usa “amici” e non “compagni”, e in una delle lettere della scelta, dopo l’uscita del “Libro degli errori” nel 1964, lamenta ripetutamente la nessuna attenzione dell’“Unità”, il giornale del Pci, consigliando di coinvolgere per le recensioni Camilla Cederna, Eco, Guareschi, Pestelli, Emilio Servadio, Flora Antonioni, tutti fuori del Pci e qualcuno nemico. Mentre l’esperienza quotidiana a “Paese sera”, con la rubrica firmata Benelux,  liquida, in una sola delle lettere qui raccolte , a Ponchiroli: “Mi pagano per scrivere un pezzettino di pagina tutti i giorni: ti sembra una cosa seria, da dedicarci la vita?” Torna sempre entusiasta dell’italianistica oltrecortina. E sa del “monumento equestre o pressappoco” che gli viene “quotidianamente innalzato nell’Unione Sovietica”. Ma avrebbe anche gradito ricevere un centesimo, ha lamentato in precedenza , ogni volta che in Unione Sovietica aprono un suo libro. Si complimenta con Cerati per la “Storia del marxismo”, fine 1978, immaginandola di successo commerciale, ma gli ricorda che a Roma i cardinali hanno tirato fuori dal cilindro papa Woytiła: “Luciani era una «passeretta» patetica, Voitijjiila è un falcone, deve avere le scarpe del Quarantotto, potrebbe fare il sollevamento pesi con il Cupolone” – decisamente in palla con i papi.
Non manca solo la pacca sul sedere del papa, un progetto ancora più fantastico Rodari non realizzò, con Leopardi bambino: “Prendere Leopardi bambino, a Recanati: scrivere un «manuale dei giochi» che facevano lui, Carlo e la Paolina vestita da prete (pensa! le messe nere!), intitolare il tutto «I giochi di Recanati»”, e farcirlo con le parole del «Sabato del villaggio» e della «Ginestra»”. Peccato. 
Gianni Rodari, Lettere a Don Julio Einaudi Hidalgo Editorial, Einaudi, pp. 126 € 10,50

lunedì 6 dicembre 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto 476)

Giuseppe Leuzzi

Fu Scelba, un presidente del consiglio che più siciliano non si può, a impegnarsi con  determinazione e ottenere il ritorno di Trieste in Italia. Questo è anche il maggior merito che Scelba si faceva nel 1990, un anno prima della morte, nel libro di memorie “Per l’Italia e per l’Europa”, “il mantenimento dei confini orientali contro la prepotenza di Tito”.
 
“Il successo per Andrea Camilleri è arrivato prima al Nord”, spiegano le figlie  a Lucio Luca sul “Robinson”, malgrado la difficoltà del suo “siciliano”: “Al Sud è stato scoperto solo più tardi”. Perché al Nord si legge di più? Ma anche perché il Sud è quello del Nord.
 
I Borboni erano di due specie
I Borboni – se n’è fatto un’idea precisa Álvaro Mutis, “Amirbar”, 119-120 – erano di due specie: lasciavano governare o governavano. Gli eredi del figlio minore di Luigi il Santo manifestano “una curiosa particolarità del carattere”: esercitare direttamente il potere, per il gusto dell’intrigo, con scarso rispetto della realtà. Grazie “alla abilità di maneggiare le debolezze e le ambizioni dei sudditi e di sapersi sempre mantenere al margine , o meglio al di sopra, degli accidenti immediati che scatenavano gli intrighi dei loro accoliti”.
Alcuni Mutis li vuole bravi a questo gioco: Enrico IV, Luigi XIV, Luigi XV, Luigi XVIII. Altri no: Luigi XVII e Carlo X. O in Spagna Carlo IV e Ferdinando VII.
I Borboni sono tutti qui.
 
Se Mani Pulite non è mafia
Non c’è mafia se non esibita.
L’esibizionismo è stato il marchio di Mani Pulite, la Procura milanese di Borrelli e Di Pietro, non il contrasto del delitto, l’esibizione del potere: era una banda mafiosa?
Troppe le tecniche mafiose che ha usato: il discredito (le “voci” perfezionando in “indiscrezioni”, di fonte cioè certa), pe isolare l’obiettivo, le false voci, la selettività (Gardini e non Prodi, Berlusconi e non De Benedetti, alcuni Dc e non altri, i socialisti e non i comunisti, liberali e repubblicani in massa, anche se pochi, nessun fascista, neanche per caso), il palese trattamento di favore per gli amici, giornali, politici, giurisperiti (esibire il potere), la rudezza, la violenza illimitata. E l’esibizionismo, appunto.
Mafiosa, purtroppo, anche l’impunità. C’era un primario giudice di Mani Pulite che pretendeva dalle banche alloggi di favore gratis per i congiunti. E prestiti di cento milioni di lire da un indagato, cui li avrebbe restituiti, a suo dire, in contanti, in una scatola da scarpe.
Sciascia aveva ragione anche sul “professionismo dell’antimafia”, il famoso articolo pubblicato il 10 gennaio 1987 sul “Corriere della sera”. Sbagliava nell’obiettivo singolo, individuando in Paolo Borsellino uno che aveva avuto uno scatto in carriera, a detrimento di altro giudice, per il fatto di occuparsi di mafia. Ma aveva ragione nel fatto, della mafia usata come terreno carrieristico. Con metodi, va aggiunto, mafiosi: il sospetto, la denuncia anonima benché autorevole (l’indiscrezione, la fuga di notizie, l’anticipazione). C’è curiosamente in ogni azione giudiziaria antimafia, per esempio nella Commissione parlamentare, specialmente la prima, spesso un sostrato mafioso. La giustizia è tutto l’opposto: è costituzione, leggi, apparati repressivi con l’imprint del bene. Giudici e commissari invece, senza saperlo?, più spesso copiano i metodi mafiosi, della violenza sfrontata. Accusando cioè, e spesso anche condannando, per il proprio interesse, senza colpa delle loro vittime. I lavori della prima Antimafia parlamentare, che il giornalista “Straccio”, Paolo Liguori, pubblicò sul “Giornale” di Montanelli, sono cattivissimi su Michele Pantaleone, il socialista di Villalba, sociologo e parlamentare, che documentò la mafia degli anni 1960  (“Mafia e politica”, 1962,  “Mafia e droga” 1966, “) i primi intrecci della Repubblica tra mafia e politica, rivangando  tutte le voci che lo davano intrigante in paese, borsanerista in guerra, incettatore di grano nel dopoguerra, adultero eccetera.
Già nel 1969 Pantaleone poteva pubblicare, sempre da Einaudi, “Antimafia: un’occasione mancata”. Ma le voci di cui si nutriva la prima Commissione erano le Note di servizio dei Carabinieri di Villalba, notorio centro di mafia, controllato fin dal primo dopoguerra da Calogero Vizzini – le Note di servizio raccolgono le voci degli informatori, che a giudizio del maresciallo comandante la stazione, o brigadiere, hanno qualche fondamento. Oppure sono utili allo “Stato” - al ministro, al potere.
 
Orgosolese, quindi delinquente
Chiudendo il saggio di Franco Cagnetta, “Inchiesta su Orgosolo”, pubblicato sulla rivista “Nuovi Argomenti” nel 1954 , a fine ottobre dello stesso anno Ranuccio Bianchi Bandinelli annota nel suo “Diario di un borghese”: “Finita la lettura ci resta in mente il ritornello: «Orgosolese, e quindi delinquente» che si ripete attraverso tutte le testimonianze raccolte, in bocca ai rappresentanti dell’autorità statale”. Il che portava Bianchi Bandinelli “a una riflessione e constatazione assai grave: che l’attuale governo sta applicando a poco a poco a tutta l’Italia la stessa mentalità rozzamente colonialistica con la quale aggrava il fenomeno del cosiddetto «banditismo» orgosolese”.
L’“attuale governo” era quello di Mario Scelba, il superministro siciliano ingrato alle sinistre politiche, a lungo all’Interno, con la nomea di ministro, o politico, di Polizia. Ma forse Scelba non c’entra, niente essendo cambiato settant’anni dopo, tra “i rappresentanti dell’autorità statale”.
Il saggio originario di Cagnetta, che nel 1975 sarà ampliato in una narrazione, “Banditi a Orgosolo”,  ancora recentemente, nella prefazione 2002 a “Banditi a Orgosolo”, era giudicato di grande valore dall’antropologo Luigi Lombardi Satriani: “L’inchiesta su Orgosolo ha acquisito da tempo il valore di classico, sia per i risultati da essa conseguiti, che per il valore dirompente che ebbe per gli studi antropologici italiani”. Per gli studi evidentemente, ma non per lo Stato e i suoi alfieri.
A Cagnetta Bianchi Bandinelli aggiunge un codicillo: “Alla documentazione storica raccolta dal Cagnetta, si possono aggiungere le lettere di papa Gregorio, contenute nel volume 77 della Patrologia del Migne; in una di queste si rimprovera aspramente il vescovo di Cagliari per il fatto che gli abitanti della Barbagia siano ancora idolatri, adoratori di pietre: e si indica come mezzo di conversione la prigione ai poveri e l’aumento dei balzelli per i benestanti”.
Papa Gregorio, cioè Gregorio Magno, siamo a fine VIImo secolo. Ma le cose non sono mutate – “l’inchiesta di Cagnetta”, poteva concludere Bianchi Bandinelli, dimostra quanto poca presa abbia fatto sui barbaricini una religione imposta con quei metodi di polizia”. O una legge.
 
Sicilia
Per candidare il loro sindaco a Palermo, si riuniscono i partiti del centro destra, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega e altri minori, una ventina di persone in circolo, e sono tutti uomini. Facce assorte, senza lampo, di burocrati. Di una certa età – una fotografia su “la Repubblica” li immortala. Si vuole l’isola fantasiosa, ma evidentemente no.
 
L’isola ha un ruolo trascurato negli eventi del 1943-45, anche dagli scrittori siciliani, anche di eventi drammatici. Uno è raccontato da Miriam Mafai, “Una vita, quasi due”, in quegli anni giovanissima impiegata ministeriale in conto Pci: le rivolte dei “non si parte”, di madri, mogli, famiglie intere contro la leva militare, per continuare la guerra con gli Alleati contro i tedeschi. Con ventisette morti e qualche centinaio di feriti a Palermo, l’assalto e la devastazione del Municipio a Catania, la proclamazione della Repubblica a Comiso e a Piana degli Albanesi.
 
Miriam ricorda Giuseppina Vittone, 21 anni, di Torino, attiva nella Resistenza, mandata a Palermo per le elezioni del 1948: “Mi mandarono subito a fare un comizio a Bisacquino, uno dei grossi centri contadini della provincia. Fu un incontro che ancora oggi ricordo con orrore: non capivo nulla di quello che dicevano quei compagni… Ricordo ancora questa piazza di Bisacquino, che le donne non traversavano mai: la piazza principale frequentata solo dagli uomini. Anche la spesa la facevano gli uomini, ai quali forse avrò parlato della Resistenza, della guerra di liberazione. Ma il comizio venne interrotto dal prete che fece suonare le campane”. L’incontro tra Piemonte e Sicilia deve sempre finire in disastro?
 
La Sicilia rimase staccata da Roma dopo lo sbarco Alleato: non se ne sapeva nulla, fino ancora nel 1945. A lungo, ricorda ancora Mafai nelle tarde memorie, della Sicilia al governo di Roma non si seppe nulla o quasi.
 
Prendiamo “la Repubblica-Palermo” di martedì 9 novembre, un giorno qualsiasi. “No Vax e contagi tra i piccoli, la Sicilia teme la quarta ondata”. “L’alta velocità resta ancora un miraggio”. “Nuovi nubifragi, la Palermo-Agrigento diventa un fiume”. “Mediterraneo, l’emergenza continua”.  Prima pagina. Seconda. “Covid, boom di casi tra i più piccoli. Colpiti da 6 a 10 anni”.  “Nella provincia di Siracusa il vaccino fa più paura del virus”. Terza pagina: “Maltempo, disastro in mezza Sicilia, oggi allerta fino a mezzanotte”. “Navi in attesa, hotspot strapieni, torna l’emergenza migranti”. Sesta: “Traffico, tanto smog e pochi alberi, la Sicilia non è una Regione verde”. Senza fiato, senza speranza.
 
“La Sicilia deserta”,  titola il giorno dopo lo stesso giornale, coscienza dell’isola illuminata: “23 mila emigrati negli ultimi due anni”. Su una popolazione di sei milioni sono molti o pochi? Sono, è vero, persone per lo più qualificate, studenti universitari o laureati, che studiano o lavorano fuori dall’isola. Ma questo è un male o un bene, la Sicilia che esporta persone intelligenti e qualificate? Comunque richieste?
 
A  commento della “fuga”, triste parola, Gianni Riotta esuma il detto: “Cu nesci, arrinesci”. Che vuole dire: “Chi s’impone, riesce”. Ma si può leggere in chiave geografica: chi esce dall’isola riesce, ha successo. Ma non sempre, perché? Alcune volte sì, altre no. L’isola si vuole pessimista?
Ma forse neanche questo è vero. L’isola gioca con le parole, cioè con se stessa – anche le isole  sono fatte di parole.

leuzzi@antiit.eu

A letto con la paleontologa

Una donna povera, vive con la madre vendendo piccoli fossili ai turisti, ammoniti e belemniti, senza studi, solitaria, in un remoto villaggio al mare della Cornovaglia, Mary Anning, è nel primo Ottocento il punto di riferimento della paleontologia. A dodici anni ha recuperato dalle falesie un fossile di ittiosauro, il primo scheletro completo di ittiosauro, di cui il British Museum si inorgoglisce. E poi ancora il primo scheletro completo di plesiosauro, e il primo fossile di rettile volante, lo pterosauro. Oltre a varie specie di fossili di pesci. Morendo peraltro presto, a 48 anni, di tumore al seno.
Francis Lee, regista e scenggiatore, apostolo gay, innesta la storia della ricercatrice illuminata e fortunata, povera e non educata, su un amore saffico – per completare a tre dimensioni, dice, lo stato di derelizione: essere donna, povera, lesbica, nel primo Ottocento. E il programma lascia il film, presentato a molti festival e ovunque in qualche modo apprezzato, fuori dalle sale, senza distribuzione. Mancherà anche per questo lo status di film di culto – o lo acquisterà per questo, per le scene dal vero, pare, comunque esplicite, anche se brevi nelle due ore del film, di sesso tra donne?
Il villaggio, di Mary Anning e del film, in realtà non è remoto: Lyme Regis è una delle prime località frequentate per le nascenti cure marine, tra fine Settecento e primo Ottocento. Jane Austen vi ha ambientato. “Persuasion”, Fowles “La donna del tenente francese”, e Tracy Chevalier ultimamente “Strane creature”. Questo è il romanzo biografico di Mary Anning, su cui Lee ha impiantato il film. Creando un racconto di derelizione che rasenta il capolavoro – un sorta di “Pranzo di Babette” senza pranzo. Un mondo nordico, grigio, ventoso, chiuso. Della cultura del destino e del peccato: grigi gli ambienti, le atmosfere,  i visi, le vesti, gli sguardi, le interiezioni, minime, ripetute, assordante il brontolio ossessivo del vento e del mare, ad accentuare la solitudine. Un mondo di silenzi e abbandono, anche se si parla di turisti e di bagni di mare. Che diventa a colori nell’intermezzo bollente tra le due protagoniste, una incongrua Kate Winslet, nel ruolo ormai consueto di donna incattivita, e l’effervescente Saoirse Ronan, che risorge dalla catatonia con baci a profusione.    
Francis Lee, Ammonite – Sopra l’onda del mare, Sky Cinema 

domenica 5 dicembre 2021

Problemi di base complottistici - 673

spock
 
Se c’è complotto è della realtà senza ragione?
 
Ma il complotto non è contro la realtà senza ragione?
 
Il complotto è l’altro nome della politica?
 
Il complotto all’operetta è diverso dal complotto all’opera - nell’operetta il fatto che i congiurati cantino è plausibile?
 
Il complotto non è più giudaico e massonico?
 
Gli uomini quando non credono a Dio non è che non credano a nulla, credono a tutto?
 
Ma non c’è bisogno di un potere da sbugiardare?

spock@antiit.eu

Torino fa simpatica la Juventus

Torino no, il club di calcio, Juventus sì: va a senso unico l’inchiesta torinese sulle plusvalenze fittizie nel calcio. Se ne occupa un pool di tre grossi giudici, il vice Procuratore Capo Marco Gianoglio, e ben due sostituti Procuratori, uno studioso del diritto nel tempo libero, e un calciatore dilettante. Coadiuvati da forze incalcolabili della Guardia di Finanza, che a giorni alterni peequisiscono gli uffici del club degli Agnelli, e gli uffici e le abitazioni dei dirigenti, alla ricerca del corpo di reato.
Uno squadrone. Gianoglio, esponente capofila di Area Democratica per la Giustizia, è reduce da un autogoal al Csm, dove ha favorito la vittoria dei giudici di destra, ma è il giudice ex compagno che eliminò i Ligresti dalla Sai lasciandola a Unipol, il gruppo ex compagno di via Stalingrado a Bologna, e ultimamente ha affossato Appendino, la sindaca - questa senza condannarla, ma spianando la strada a una sindacatura Dem. Finora non ha trovato il corpo del reato. Ma ha creato una buona suspense: ogni giorno i giornali possono fornire una notizia in attesa della notizia - una specialità del giornalismo ultimamente. Per esempio, per una settimana: “Non si trova la carta segreta di Cristiano Ronaldo”. Gianoglio e la Finanza sanno che ce n’è una, ci dev’essere, perché hanno ascoltato in massa i cellulari dei dirigenti e collaboratori Juventus da qualche mese o anno a questa parte. La carta non si trova ma non c’è da preoccuparsi: la settimana prossima il giudice o la Finanza daranno un’altra notizia, in attesa della notizia.
Il fatto è reale, e discusso da tempo, anche in sede di giustizia sportiva: tutte le società di calcio sopravvivono contabilmente con plusvalenze fasulle, contabilizzando guadagni fittizi su acquisti e cessioni di calciatori. A volte aiutandosi a vicenda – plusvalenze “a specchio” – con scambi cioè a cifre esagerate. Secondo Sky Sport, i sette maggiori club della serie A, Juventus, Roma, Napoli, Milan, Lazio, Fiorentina, hanno contabilizzato in dieci anni due miliardi e mezzo di plusvalenze - tre miliardi tutta la serie A. “Il Sole 24 Ore” conferma: “Nel 2015-2016 i club di serie A hanno realizzato plusvalenze per 376 milioni”, l’anno scorso erano raddoppiate, a 736 milioni.
La cosa non è illegale. Ed è anzi pesante in realtà per i bilanci, poiché queste operazioni fittizie impongono degli ammortamenti corrispondenti, e quindi un  assottigliamento del patrimonio. È il rimprovero del “Sole 24 Ore”: “Nella stagione 2015\2016 la serie A aveva accumulato 518 milioni di costi legati ad ammortamenti e svalutazioni del parco calciatori”, l’anno corso, quattro anni dopo, “si raggiunge la vetta di 1.087 milioni”, più del doppio. Non una soluzione, dunque, le plusvalenze: un marchingegno per continuare a respirare, anche se a un costo. Senza danno, peraltro, per nessuno: non per la concorrenza. E comunque legale.
A che prova dunque la Finanza e la Procura di Torino si applicano alla Juventus? Forse a far diventare gli Agnelli simpatici, se la giustizia è questa.  

Morire a Parigi

Il genere demenziale trasposto nella buona borghesia di New York City? Un effetto forse non voluto, ma è la sola chiave di lettura – di connessione – di due ore di film.
Attorno a Michelle Pfeiffer, personaggio estroso, che decide di finire come le ricchezze, le quali come si sa finiscono, un mondo di buffi. Un figlio obbediente, una chiromante, un gatto nero, incarnazione del marito morto?, una vicina vedova e sola a Parigi, un detective nero, evocazioni spiritistiche, una fidanzata brutta del figlio, un promesso sposo della fidanzata del figlio, vari barboni, di varia moralità e loquela. Un apologo a metà tra la favola morale (la signora ricca-e-bella-e-invidiata che perde tutto, per l’incuria che ricchezza, bellezza e invidia comportano) e la critica sociale (la ricchezza comporta dissolvimento), scandita da battute “micidiali”. Tra New York City e Parigi, dove la vicenda si conclude.
“Paris Exit” è il titolo originale, più giusto, poiché nella ville lumière si va per disfarsi. Il cinema canadese ci ha abituati a storie senza storia, storie aperte. Qui l’abbellisce con Michelle Pfeiffer, e interni sontuosi perfino caldi, un po’. Ma lo stesso la storia rimane gelida. Forse per questo non è andato in sala.
Azazel Jacobs, Fuga a Parigi, Sky Cinema