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sabato 11 febbraio 2012

Una Giovanna che non brucia, troppo fredda

La Nuova Era postbellica, della pax americana o dello sviluppo, e dell’inevitabile femminismo, sarà la prima nella quale si trascura Giovanna d’Arco. Da sempre soggetto costante di commozione, anche nel vituperio (Voltaire, G.B.Shaw). La sua bibliografia, non completa, ha accumulato tremila pagine per settemila titoli. Ma da oltre mezzo secolo è ferma, se si eccettua il film di Victor Fleming nel 1948, coi sequel di Rossellini, Preminger e Bresson, e le canzoni ultimamente di Elton John, Branduardi, De Gregori, Leonard Cohen, poco verosimilmente credenti. Né ritorni si manifestano di interesse per il sesto centenario. Maria Luisa Spaziani fa eccezione, anche per avere avuto la Pulzella sua compagna costante dai dodici anni, assicura. Per un’edizione speciale degli Oscar, un’opera in sei canti e un epilogo finanziata da Mondadori. Non fortunata, benché rilanciata ultimamente da Marsilio.
Maria Luisa Spaziani assicura di sapere tutto di Giovanna d’Arco. Con Alberto Mondadori avrebbe perfino dovuto farne un “Memorie di Adriano” di autrice italiana. Il risultato è “il mio libro più caro”, assicura l’autrice in “Montale e la Volpe”: “Giovanna si è salvata dal rogo e nelle prime settimane è travolta da una straripante allegria, dalla violenta felicità per lo scampato pericolo”, un’euforia che presto cede al “rimorso per aver evitato il rogo, l’ultimo anello luminoso del suo mito”. Ma affronta la Pulzella con piglio spazianesco, dopo averne parlato con Yourcenar, Pernoud, Caillois, i de Sermoise, i nobili inglesi padroni del castello di Tiverton (Devonshire), e “numerosi storici, scrittori e Monsignori”, adotta della vicenda la versione “dissidente”, e ne fa una storia di amore cortese. Giovanna è figlia adulterina d’Isabeau di Baviera, moglie del re debole Carlo VI, col cognato duca d’Orléans, la seconda di due bastarde. Poiché la prima, Caterina, si rifiuta a fare la condottiera, Giovanna si offre di sostituirla. Sopravvive alla condanna – una strega o un fantoccio brucia al suo posto. Viene liberata per sposare il nobile Robet d’Armoise. Che dopo lo sposalizio scompare insalutato in Crociata. Una storia in ottave, quelle di Ariosto e Tasso, benché senza la rima, ma freddissima: non c’è la storia e non c’è nemmeno l’amore.
Maria Luisa Spaziani, Giovanna d’Arco

Pasolini marxista dialoga, di se stesso

Pasolini è presto stato personaggio, ai trent’anni, subito dopo “Ragazzi di vita” e prima dei film, con rubriche sui periodici. La più continuativa è stata con “Vie Nuove”, settimanale del Pci, dal 1960 al 1965, con lunghi intervalli. Una collaborazione che Gian Carlo Ferretti restituisce qui nei tempi principali, con una nutrita antologia. Nel “«ruolo»”, scrive Ferretti, “che più o meno implicitamente gli viene assegnato dal settimanale del PCI… Il ruolo, cioè, di un intellettuale che con il movimento operaio (e con i suoi intellettuali) e con il marxismo ha un rapporto spregiudicato e fortemente problematico”. Fino a conquistarsi il “ruolo” del personaggio. Tra proteste di “sincerità” e “buona volontà”. E forse il giornalismo d’opinione è la cosa sua migliore, benché sia genere malapartiano, e anche, suo malgrado, dannunziano. Tra alti e bassi.
Il genio c’è. “Il contenuto dell’Orestiade è essenzialmente politico”, lo stato democratico, sia pure rozzo, si sostituisce all’arcaica tirannia: “La dea Atena (la Ragione: nata dalla mente del padre: priva cioè dell’esperienza uterina, materna, irrazionale) istituisce l’assemblea dei cittadini che giudicano col diritto di voto”. O Pascoli in mezza pagina: un trattato. O “La lingua di Gramsci”, due pagine che sono una biografia – tanto veritiera (poco atteggiata) da farla culminare nell’anticomunismo semplice di Saba: “No, il comunismo\ non oscurerà la bellezza e la grazia!”. O “i quasi duemila anni di Imitatio Christi”, che “non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono”. E lo “stalinismo beatnik” dei “Quaderni piacentini”.
È un genio però controvoglia, molte pagine sono vacue: “Accattone e Tommasino”, o quelle ripetute sul marxismo (la forza del marxismo, la crisi del marxismo – il marxismo del Pci, di Pasolini…). In gara un paio di volte col principe dell’ “oggettivamente”, Carlo Salinari. O in sintonia con Moravia, col quale Pasolini rifonda il marxismo su “Nuovi Argomenti” – con Moravia? Un Marx nel quale vuole “inglobare Gesù”: Lucio Lombardo Radice lo mette argomentatamente in guardia, ma invano. Altre pagine sono confuse: “Invito in Calabria”, l’assurdo reportage dal Marocco (“la media dell’intelligenza tra i marocchini è bassa” – la media dell’intelligenza?), o la difesa del neo-realismo, che nel primo impegno, con la rivista “Officina”, aveva tentato di demolire, o “Il censore e l’«Arialda», che finisce contro Testori... Altre sono fastidiose, contro Pasternak, contro Fellini, contro Antonioni - “Antonioni e Moravia”, un ludibrio (anche se non senza cattiveria: i dialoghi goffi di Antonioni trovano “riscontro solo in certi endecasillabi di Quasimodo…”). E ovunque l’ingombrante politica che in Pasolini è passione posticcia: ingombrante (poco avvertita in realtà) ma anche insincera, perfino opportunista. Con tratti da “1984”: “il decennio dell’Impegno, della Realtà e della Speranza”, o “la nuova «linea» culturale”. E l’attribuzione ribadita di “una certa purezza e passione – residuo degli anni della Resistenza”, che invece evitò.
Ricorre qui l’orrido: “Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l’operato del partigiano Guido Pasolini”. Il fratello giovane ucciso come si sa a vent’anni da una formazione comunista, in un agguato organizzato, l’ultimo della sua banda di venti combattenti, quando già si era arreso, fucilato alle spalle. Una morte che il poeta dice avvenuta “in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare”.
Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere

Letture - 86

letterautore

Dante – “Lo schema dell’Inferno dantesco è un elemento comico: ed è quindi esplicito e dichiarato: né più né meno che come succederebbe in un avanspettacolo”. Pasolini tentò più volte di rifare la “Divina Commedia”. Gli ultimi tentativi sono stati raccolti postumi in “La divina Mimesis”, materiali inerti sul linguaggio. In precedenza, 1960, Pasolini aveva tentato di mandare all’“Inferno”, guidata da Dante, una prostituta, che aveva letto la “Commedia” a fumetti, sotto il titolo “La mortaccia”. Poche pagine false, di romanesco di borgata, da immigrati recenti, mescolato alla Crusca – “un pastiche linguistico”, secondo l’autore. Pasolini dice, non volendolo, perché non poteva funzionare a un lettore della sua rubrica “Dialoghi” sul settimanale “Vie Nuove” il 3 dicembre 1960 (ora in “Le belle bandiere”, p. 88): “Quello che a me interessa soprattutto è usare l’Inferno dantesco per dare un giudizio, storicamente oggettivo, e una diagnosi, marxisticamente esatta, della nostra società” – oggettivo, esatto e marxista, quale non è mai stato. Aveva preò un approccio comico alla sua “Commedia”: il Paradiso, spiega, non c’è, è in costruzione. Anzi, è conteso tra due progetti, uno neo-capitalistico e uno marxista.

Molteplice lo dice Boccaccio già nella prima “Vita”: “Alcuni il chiamarono sempre poeta, altri filosofo, e molti teolago, mentre visse”.

È americano, nero e bianco. Oggetto di appassionate dispute tra dantisti. Una di esse fa pure la trama di un giallo di successo, “Il circolo Dante”, a opera di uno studioso di letterature comparate, Matthew Pearl.

Non poteva mancare Beatrice uomo. Ma si deve a Charles S. Singleton, il dantista forse maggiore negli Usa, che ipotizza la presenza del Cristo nella “Commedia” (come potrebbe farne a meno?) in figura di Beatrice, poiché ne esplica le stesse funzioni. Di redenzione. Nel peraltro classico “Journey to Beatrice”, la “Commedia” come viaggio alla ricerca di Beatrice.
Questo spiegherebbe meglio la virulenza (mascolinità) dell’angelica donna.

Fascismo – Pound è “fascista e traditore della patria”(Pasolini). Anche Céline. Indubbiamente. Ma questo è un problema: perché sono integri (onesti) e generosi, e sono anche “giusti”. In questo diversi da Brecht, che fu comunista e antitedesco (da “sinistra” e da “destra”), ma era cinico e opportunista, ancorché “allegro”.
Avranno anche i fascisti il dono che, secondo Salinari, Marx e Engels riconoscono all’autore: “Uno scrittore che professa un’ideologia reazionaria può arrivare a un risultato poetico elevatissimo, e perciò progressivo”. In termini di ideologia. E di verità?

Italiano – Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura”, così rappresenta l’Italia unita (13): al fondo il nobile castello della meridionale “Storia” del De Sanctis, con tutt’intorno le modeste casette della meridionale crociana “Letteratura della Nuova Italia”.
Lo stesso Dionisotti dice poco dopo (27) l’Italia una nozione letteraria, in senso diminutivo. Ma non è l’unità di lingua e di scrittura, di “discorso”, la più vera?
Successivamente (38 segg.), agli inizi della sua “Geografia”, stabilisce “la preminenza veneta sulla letteratura toscana del Cinquecento”, e afferma che tardi il toscano diventa la lingua, malgrado una “colonizzazione toscana attivissima nella vita economica e civile”. E malgrado la “subitanea, vastissima, diffusione” della Commedia”. Ma come può essere il poema a sé stante, fuori dal disegno unitario della lingua e della storia?

Neo realismo – Contro Cassola Pasolini scrisse, recitò per vari pubblici, e pubblicò nel 1960 una lunga satira al “modo di Antonio” del “Giulio Cesare” – “un amaro scherzo shakespeariano” - in forma cioè di elogio funebre. Cassola è il “neo purista” che decreta la fine dei dialetti, che fa questo, che fa quello, e ogni volta se lo può permettere perché “certo Cassola è un rispettabile scrittore”. Uno scrittore di cui tutto si può dire ma non che non fosse onesto, o corretto: scriveva come pensava.
Lo steso Cassola su “Vie Nuove”, riprendendo il tema nei suoi “Dialoghi” con i lettori il 23 luglio 1960 (ora in “Le belle bandiere”), Pasolini dice di avere “sempre stimato non molto, moltissimo” e di averlo sempre letto “sin dal suo primo libro”. Cassola gli è odioso in quanto socialista: “I neo-puristi, i socialisti bianchi\ - benvisti in Vaticano -…” è l’ultimo insulto.

Al “realismo” Pasolini ascrive Gadda, Moravia, Bassani, Carlo Levi, Morante, e il Calvino della trilogia fiabesca. Aveva del resto debuttato nel 1955 su “Officina”, coi compagni di scuola Leonetti e Roversi, criticando il neo realismo. Ora vuole il neo realismo come “strada italiana dell’impegno” politico, quale che sia la scrittura. Uno o due anni dopo lo stesso Pasolini sarà bersaglio del Gruppo 63, con Cassola e Bassani.

Al meglio è la proposta di singolarità e novità (personaggi, ambienti, psicologie, fatti e azioni), anche se già largamente dickensiane, zoliane, veriste (da Verga a Alvaro). Riproposta dalla “linea culturale” del Pci nel dopoguerra, in ritardo di un paio di decenni su Stalin, che ne aveva fatto bandiera Gor’kij, il quale invece l’aborriva, e l’aveva imposto come “linea” – con lo stesso Gor’kij alla presidenza dell’Unione degli scrittori che fece appositamente costituire nel 1935.

Calvino, che non ci credeva né come autore né come editore (come mercato), ne fa la sua vena principale, anche della sua “fase fantastico-allegorica” (nella prima, poiché ne ebbe una seconda, ancora più consistente, a partire dalle storie di “Marcovaldo”, 1958, compresa la stessa “Giornata di uno scrutatore”, 1963. Lo fece mettendo insieme nel 1960 i tre racconti fantastici sotto il titolo “I nostri antenati” e premettendovi un’introduzione che è un atto di contrizione – tra Budapest e Praga ancora usava. Del Visconte, il Barone e il Cavaliere, nominandoli “antenati”, fece allegorie della modernità…

Pasolini - “Mio padre in gioventù è stato molto ricco”
sarà il verso migliore di Pasolini,
scattante, sonoro, e perfino veritiero,
chissà, questo poeta ha imbrogliato
molte carte, malato di opportunismo
nella indignazione incessante,
che fu la sua condanna ed è la nostra
di noi che gli vogliamo bene,
un nemico inventando a ogni passo
il quale non è che il (suo) senso di colpa
- “lavoro tutto il giorno, quando non lavoro
sto solo”. Oh sole solitario!

letterautore@antiit.eu

venerdì 10 febbraio 2012

Problemi di base - 90

spock

Fornero, ancora una lacrima?

Precari di strada indignati
sfidano i banchieri in Ferrari,
islamici barbuti rivoltati
i reziari del simpatico Obama
il mondo svegliando in pigiama:
ma può essere una buona trama
se i ricchi e potenti sono minacciati?

Bamboccioni, sfigati, abitudinari, mammoni: e la rima?

Quanti monti Monti ha sormontato
per metterci comodi in mano
ai maghi famelici del mercato?

Cosa disse veramente Dio a Mosè, in che lingua si parlavano, se Mosè era egiziano?

Non sarà che Bersani confonde le masse con le mosse?

spock@antiit.eu

Il giudice “la fa franca”

Pensieri in libertà. Il giudice Gherardo Colombo, cui si deve la denuncia della P 2, poi membro “pensante” del pool di Mani Pulite (Di Pietro, Davigo, Colombo, D’Ambrosio), dice che Mani Pulite è fallita per colpa della politica. Ma perché la politica non dovrebbe difendersi, se aggredita? Nessuno ha mai difeso, allora come oggi, la politica quando è corrotta - la stessa politica non si difende. Comunque, Mani Pulite è fallita: Temo.., per usare un’estrema sintesi, che Mani Pulite, giudiziariamente, sia servita a poco o a «nulla», e che anche culturalmente sia servita a ben poco”. Ma non dice perché è fallita giudiziariamente.
Atteggiandosi a libertino doppio, Colombo fa sua la teoria della giustizia come “monopolio della violenza”, e irride i suoi perseguitati di allora (“li abbiamo trattati coi guanti bianchi”, dice più o meno). “Tutto quello che fanno giudici e pubblici ministeri”, dice Colombo, “sarebbe reato se fosse compiuto da un privato cittadino: mettere in prigione equivale al sequestro di persona; perquisire una casa alla violazione di domicilio; sequestrare un oggetto al furto o alla rapina”. Ma tutto questo non è reato anche nel sistema repressivo dello Stato? Non è per questo che ci sono i giudici?
Colombo, Pci, fcme il futuro senatre D’Ambrosio, fu l’autore di un’incursione armata alla Camera dei deputati, per farsi “consegnare” lo statuto del partito Socialista di Craxi che tutte le sezioni avevano. Ora dice che Craxi alla Camera dei deputati disse la verità, sulla corruzione dei partiti, ma che alcuni partiti riuscirono a farla franca. Non dice quali.
Gherardo Colombo, con Franco Marzoli, Farla franca. La legge è uguale per tutti?, Longanesi, pp. 286 €13,90

giovedì 9 febbraio 2012

Le liberalizzazioni sono il peggior monopolismo

Si possono fare le liberalizzazioni in soccorso del peggiore monopolismo? E a carico, non a beneficio, degli utenti? È quello che si è fatto in Italia. Non a opera del solo Monti, Monti è l’ultimo liberalizzatore di una serie ormai lunga, avviata dal tandem Fazio (banche)-Prodi (servizi) con tanto di Autorità di sorveglianza, molteplici.
La prima liberalizzazione sarebbe dalle imposte, e invece ne subiamo aggravamenti costanti. Gli ultimi, quelli disposti dal liberalizzatore Monti, hanno moltiplicato il costo di tutti i prodotti energetici, dalla benzina alla luce, di un venti-trenta per cento. Quelli sulla casa ne raddoppieranno i costi annuali. Quelli dell’Iva moltiplicheranno il costo di beni e servizi che ne fossero ancora indenni. Che ci sia un’edicola o una farmacia in più, o una pompa di benzina non porta al contrario nessun risparmio. Solo benefici alla grande distribuzione. Cambiare banca è inutile, ormai lo sappiamo, dopo così accesa liberalizzazione, o assicurazione.
La liberalizzazione è una sorta di parola d’ordine o incantesimo che allenta ogni controllo, e si risolve in un complesso di castrazione che rende i consumatori inerti prima ancora che inermi. L’effetto si vede nei mercatini alimentari. Basta niente, l’aumento del gasolio, un po’ di neve, uno sciopero di un giorno dei tir, e i prezzi raddoppiano e triplicano. Col sostegno, oltre che dell’indifferenza dello Stato, degli indici di comodo del costo della vita, elaborati dall’Istat su quelli superfurbi di Eurostat. Per i quali non c’è mai un aumento del costo della vita superiore al 2 per cento. Non ci fu nemmeno dieci anni fa, quando i prezzi semplicemente raddoppiarono con l’euro – un aumento del 100 per cento. Si può dire la liberalizzazione l’ottavo peccato capitale, se non la madre dei peccati contemporanei.
Nei servizi gli effetti perversi ognuno li ha visti con la telefonia, fissa e mobile. Con contratti rubati e tariffe incontrollabili, sotto il paravento della molteplicità delle offerte: un tempo semplici e leggibili ora sono composte, col patrocinio insindacabile delle Autorità di settore, di talmente tante voci che solo una comparazione diacronica è significativa: e questa comparazione dice che con la liberalizzazione il costo del telefono è raddoppiato. Per non palare della telefonia mobile, dove gli utili di gestione si aggirano tra il 50 e il 60 per cento del fatturato, un bengodi, per le aziende – il telefonino potrebbe costare la metà, o anche un terzo consentendo al gestore un guadagno ancora ottimo.
Al telefono si è aggiunta da un anno l’energia libera, gas e luce. Anche qui contratti rubati, a chi semplicemente si avventura a rispondere al telefono invece di chiuderlo, e promesse di ribassi contraddette dalla prima bolletta. C’è infatti chi vi assicura che avete abbattuto l’anidride carbonica, e chi il costo del kWh, ma il raffronto con la vecchia bolletta mostra che state pagando un buon 20 per cento in più, altro che riduzioni. Un vero mercato dei compari, peraltro: i vecchi monopolisti stanno al gioco della liberalizzazione e non vi prenderanno mai indietro, potete solo andare alla loro società liberalizzata, e pagare di più.
La liberalizzazione è in realtà delle tariffe. Un’autorizzazione in bianco ad aumentarle a piacere. E nessun operatore scarta. Il caso più macroscopico è quello delle ferrovie. Con la scusa della liberalizzazione hanno portato i biglietti locali al livello record dell’Underground londinese (che però “passa”) e le lunghe percorrenze poco sotto il costo del biglietto aereo.
Quello delle Autorità di protezione del mercato è un ulteriore aggravio. Ce ne sono una diecina, costosissime, per controllare un mercato di cui invece favoriscono tutti i vizi. Per primo il monopolismo. Si può anche dire che il vizio o peccato viene da lontano: non un solo risparmiatore è stato protetto dalla Consob. Non un solo utente, probabilmente, è stato protetto dalla tante Autorità di settore, a valle della prima benemerita Autorità garante della concorrenza e del mercato di Saja e Amato – parliamo di venti anni fa. Il resto è solo business.

Il mondo com'è - 83

astolfo

Disoccupazione – Quella vera è, con l’inoccupazione, quella di lunga durata. Di essa l’Italia detiene il record mondiale: chi perde il posto non lavora più. Coperta fino ad ora dai prepensionamenti e delle pensioni di anzianità, adesso non più.
Dell’inoccupazione – la difficoltà a cominciare a lavorare – l’Italia non ha il record. Ma l’inoccupazione sommata al precariato, che copre i primi dieci-dodici anni di lavoro, probabilmente sanciscono il record dell’incertezza.

Insicurezza – Mercato e precarietà contro fondamentalismi, immigrazioni: la prospettiva è rovesciata. I ricchi e potenti si sentono minacciati.

Islam – Gesù, Cristo, i vangeli sono parte eminente delle scritture-vulgata dell’islam, non Maometto per i cristiani.

Italia - La “Commedia” è il poema dell’Italia - non è comune, non ci sono altri casi.

In parallelo con la crisi c’è una straordinaria fioritura da vent’anni di testi sull’italianità. Per primi, dopo la crisi del 1992, storici e critici di grande spessore: Ernesto Galli della Loggia, Remo Bodei, Pietro Citati, Antonio Gambino, Paul Ginsborg, Alberto Arbasino. Tutti malevoli, fino allo sberleffo. Galli della Loggia, interrogandosi sul perché “i pur ragguardevolissimi traguardi” dell'Italia contemporanea siano “perlopiù descritti come fragili e inconsistenti, al limite negatori della vera identità italiana”, trova che all’origine sono “sopratutto gli intellettuali letterati, estranei per formazione alla prospettiva della modernità, e anzi suoi critici”. L’ideologia del declino è l’“effetto dell’egemonia degli intellettuali letterati sul discorso storico-politico italiano”. È un vezzo, dunque. Già Dante vedeva l’Italia marcia e dissolta, ben prima che nascesse. E forse è un tic.
La lettura apocalittica è agevolmente rovesciabile. Italiani sono parecchi modelli oggi nel mondo: la microorganizzazione aziendale, la flessibilità, l'università (sì, la preparazione dei famigerati laureati), la dietetica, la pedagogia, e l’effimero nicoliniano, o revivificazione estetica delle città. Modelli anche in negativo: dal democraticismo, con tutte le sue insulsaggini, alla criminalità organizzata, ma vivi. E sarebbe un percorso più congruo. Perché l’identità è quello che diceva Croce: “Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia”. Ma l'Italia si sente lo stesso male, e anche questo fa parte della storia.
Galli della Loggia correggeva in parte il suo recente “La morte della Patria” in una nuova edizione, e apriva con “L’identità italiana” una collana del Mulino da lui diretta, impostandola su una trentina di temi. In una delle accensioni di questo saggio, Galli della Loggia spiegava il “moralismo disintegratore” degli “intellettuali letterati” col fatto che non possiamo non dirci cattolici. Da Dante in poi il pessimismo gira attorno all'invadenza della Chiesa. Ma, notava, “la sistematica commistione di politica e morale, di politica e «carattere» è proprio ciò che essa (la Chiesa) fa abitualmente, così come vuole la sua natura, terrena e spirituale insieme”. Se laica, “la cultura in Italia si organizza e pensa come antichiesa”. E in conclusione egli stesso, benché storico, dava ragione agli “intellettuali letterati”, a motivo del loro successo nell’opinione.
Meglio di tutti era il letterato Arbasino a entrare, con “Paesaggi italiani con zombi”, nella realtà. Non era nuovo, Arbasino, per formazione e per curiosità, a dire le cose: era stato il social scientist degli anni del terrorismo. Vent’anni fa, antropologo in casa, registrava e decifrava spezzoni di comportamenti e di linguaggi con il disagio che si ha per culture estranee. Ma presentando estratti tragicamente limpidi delle ultime lettere di Aldo Moro - e un raffronto ancora più scandaloso tra l’ultima lettera di Moro (“il mio sangue ricadrà su di voi, sul Partito, sul Paese”) e l'ultima lettera di Maria Antonietta di Francia. Moro, tra l’altro, dimentica di maledire i suoi assassini, chiosava Arbasino. E ricordava che nemmeno vent’anni erano passati da quando “il papa si metteva in ginocchio davanti alle Brigate Rosse“. Inatteso luogo di umanità molliccia trovava poi lo scrittore nella sua Milano, nel viaggio di ritorno intitolato “Stagioni morte”, che è parte dei “Paesaggi italiani”.
Per stare alla storia è bene ricordare che il disagio è recente. “L’Italiano” di Giulio Bollati, concepito nel clima degli anni Sessanta, era ancora opera equilibrata di storico, benché di formazione letteraria. La demoralizzazione aveva avuto un preannuncio una dozzina d’anni prima chiusa la gloriosa stagione del terrorismo, con Carlo Tullio Altan e l’editore Feltrinelli, e debordava con la “rivoluzione italiana”. “La nostra Italia” dell’antropologo culturale Tullio Altan era fatta di “arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo”. Da allora la ”rivoluzione italiana” ha portato a galla molti detriti, come ogni alluvione. Ma è alluvione di acqua sporca. C’è una causa reale della debolezza italiana, concludeva Galli della Loggia, ed è la superfetazione della politica, ingombrante, eccessiva, che ha svilito e svilisce lo Stato. Si può aggiungere tranquillamente che la cattiva politica è molto più ingombrante con la “rivoluzione”. Non è arduo far sentire gli sconfitti, o i semplici perdenti, colpevoli oggi in epoca di denunce infamanti e di autodenunce assolutorie: gli Italiani del Sud tutti mafiosi, ladri i politici di professione di maxweberiana memoria, belli-e-buoni solo i giudici e i carabinieri. Ma dopo questo diluvio sono perdenti anche i vincitori, quelli che Occhetto, Orlando e Bossi organizzavano con le monetine e i fax, che imboviti non vanno più nemmeno a votare.

Oriente – La primavera araba, come la storia recente del mondo islamico dopo Nasser, è una sorta di precessione della democrazia, le masse dilagando a occupare la politica prima di ogni Bildung, la stessa tradizione essendo indebolita sradicata. Portate a galla dalla guerra e dall’Occidente. Che il mondo, e per primo il loro mondo, spazzano via di poesia e saggezza, di virtù e bellezza, e dello stesso di Dio, che si riducono a brandire come una clava, armate di sporcizia e rozzezza, marionette di ras e raìs, tribù e affaristi, e mullah del maligno.
Questo Oriente, l’Oiente contemporaneo, è quello occidentale. Strappato alla tradizione, durata solida fino al Cinquecento, storica, filosofica, politica, e ad essa ormai avulso, che arranca nella modernizzazione, prolifico, confuso, miserabile.

Quello metafisico è invenzione di Francesco Saverio. Ben consistente all’epoca ma ora, da due secoli ormai, inesistente. Se non in funzione antioccidentale, una reazione all’inizio degli stessi occidentali. L’Oriente è creazione dell’Occidente, l’Occidente pure, e così tutto ciò che è anti, imperialista, europeo, occidentale.

Opinione - Basta poco a cambiarla. È un preconcetto metodologico che la mentalità sia il processo più lento, di vischiosità superiore alla demografia, alla salute, all’economia, insensibile agli eventi. Ha invece accensioni fulminee, per eventi perfino banali. La vittoria della Francia “tricolore e multicolore“ al Mondiale di calcio ha svelenito il razzismo francese di ritorno. Analogo effetto ebbe in Italia la vittoria del 1982 al Mondiale di Spagna: per qualche settimana le città furono più ordinate, e l'ottimismo si riverberò proficuamente sugli anni successivi.

Ricchezza – L’Italia è anche il paese che ha la maggiore area di maggior benessere in tutta la Ue: il blocco Emilia-Romagna, Triveneto, Lombardia, a la Valle di Aosta. Cui fa seguito una fascia, Lazio, Toscana, Liguria e Piemonte, 15 milioni di persone, al secondo miglior livello. La Padania, con 20 milioni di persone, pareggia il conto delle aree altrettanto ricche in tutto il resto d'Europa.

Sinistra-destra – Carlo Galli ne rovescia la tradizionale identificazione, per l’ordine e per la rivoluzione: la sinistra è ora per l’ordine, la destra per il disordine, o “indeterminatezza”. È questo, anche, il modello culturale oggi dominante. “La storia è schiacciata sul personale, il mondo (presente) è una giungla – mercato e precarietà contro fondamentalismi, immigrazioni – da cui bisogna ed è lecito difendersi con tutti i mezzi”. Inefficaci le vecchie distinzioni, libertà contro autorità, progresso contro tradizione, collettività contro individuo, e uguaglianza contro individualismo: ci sono destre destre libertarie e sinistre autoritarie, dice il filosofo, destre comunitarie e sinistre liberali.

astolfo@antiit.eu

martedì 7 febbraio 2012

Alda, Sibilla sempreverde

Impressionante freschezza, a quasi vent’anni dalla prima edizione nel 1994, di ritmi, di sensazioni, di cultura. E una forte presenza, di una personalità molto strutturata. Come si finisce così al manicomio? È la Sibilla di Eraclito: “La Sibilla con bocca fole dice, attraverso il dio, cose senza riso né ornamento né unguento”. Dice cose.
Alda Merini, Reato di vita, La Vita Felice, pp. 160 € 13,50

Calciopoli scopre il Grande Vecchio - è la Legge

Una porta aperta sulla Legge, che sarà alla fine il solo Grande Vecchio di questi quarant’anni di Storia Impossibile, con i giornali, di questa Legge manutengoli: è la sentenza di Napoli su Calciopoli. Sfuggita forse di mano, con la imprevedibile giudice Casoria, invano ripetutamente ricusata. Oppure trascurata – si tratta pur sempre di partite di calcio e non di bombe. Comunque, la sentenza è ora agli atti, voluminosa e chiara: il verdetto è contraddittorio (un’assoluzione con condanne….), i procedimenti che mette in chiaro sono una terribile verità. L’inchiesta è stata montata e sviluppata “con parzialità”. L’accusa è arbitraria e “incomprensibile”. La difesa è stata “in fatto molto ostacolata dall’abnorme numero di telefonate intercettate, oltre 170 mila, e dal metodo adoperato per il loro uso”. Le partite non sono state truccate. I sorteggi degli arbitri nemmeno. “Inaffidabile” uno dei due testi d’accusa, Martino, un uomo del Milan, “vane parole” quelle dell’altro teste d’accusa, Nucini, un arbitro scartato. L’inquirente Auricchio è più volte citato nella sentenza a discarico degli imputati. Il campionato non è stato alterato. Come dire: l’inquirente Auricchio e i suoi giudici si sono inventati tutto. Inoltre - il giudice non può dirlo, perché non è stato materia di dibattimento, ma è un fatto confermato dallo stesso dibattimento - l’inchiesta è stata disposta da Auricchio pretestuosamente. Senza alcuna denuncia o indizio di reato, solo la sua amicizia con Franco Baldini, nemico personale di Moggi - personaggio peraltro fra i più discutibili del calcio: con un’altra Consob, le ripetute manomissioni dell’As Roma l’avrebbero portato in galera. È del resto insensato il procedimento contro Moggi in capo a una Procura antimafia, se non per i rapporti personali di Auricchio con i giudici napoletani. Il peggio di tutto è il motivo della condanna. Moggi è stato condannato per “tentata frode”, con la rete dei telefonini svizzeri non intercettabili. Una colpa che in un tribunale terzo sarebbe stata invece legittima difesa: Moggi, che sapeva di essere intercettato, se ne difendeva. Ma in Italia è proibito difendersi dalla violenza delle istituzioni. È questa la verità terribile di questo stravagante processo. Alla cui luce la Storia Impossibile diventa perfino incontrovertibile: è il fatto non tanto di servizi deviati e complotti quanto della “irresponsabile irresponsabilità” degli apparati giudicanti – è la lettera rubata di Poe, la prova del delitto in evidenza, è la “normalità”. Col contributo dei media, fogli dei padroni per i quali ogni diversivo è buono, basta non toccare gli affari, e ogni verità scaccia l’altra – oggi anche gli juventini sono convinti che Mossi si comprava le partite. Con l’aggravante dell’impunità: nessuno può chiedere i danni al colonnello Auricchio o ai giudici Beatrice e Narducci, che faranno comunque la loro carriera nelle rispettive istituzioni a ruoli aperti, e anzi l’hanno già fatta, Auricchio è quasi sindaco di Napoli, dietro il Masaniello De Magistris. Beatrice in Cassazione. Narducci, concorrente di Auricchio a quasi sindaco, comunque quasi Procuratore Capo.
Fuori da questo scandalo, dall’operato criminoso della Legge, Calciopoli è l’affare della politica che ci domina. La vecchia Dc, di Abete e Petrucci. Che si spinsero fino a sabotare la Nazionale al Mondiale che poi vinse in Germania. E Milano. Che ne approfittò per prendersi tutto il calcio. I giornali milanesi, “Corriere della sera” e “Gazzetta dello sport”, alimentarono lo scandalo con le confidenze degli investigatori. E tentarono anch’essi in tutti i modi di sabotare Lippi e la Nazionale, troppo “juventini”. Il Milan si prese la direzione tecnica, con Demetrio Albertini in veste di commissario di fatto della Figc, Donadoni alla Nazionale, e il fidato Collina alla guida degli arbitri. L’Inter si rifece con gli ineguagliabili giurisperiti Borrelli e Rossi, per prendersi tutto, da Ibrahimovic ai campionati, passati e futuri – un paio a danno della Roma. Un’influenza sempre dominante, questa di Milano. Moggi, gli altri dirigenti, nessuno dei quali di Milano (l’unico rimasto impigliato ha avuto, senza motivo, la pena più mite), e gli arbitri si condannano anche per le frequentazioni sociali, “a casa Pairetto più volte”, o a casa Giraudo o a casa Bergamo. Che congiurati, si vedevano con le signore... Mentre Collina, superstipendiato per “consulenze” dalla Opel, sponsor del Milan, che andava a pranzo col dirigente del Milan per gli arbitri, Meani, ogni settimana, nel ristorante di lui, passando per una porta secondaria, è l’eroe di Calciopoli. Questo definisce la natura “morale” (immorale) dello scandalo. Ma il peggio è, non è inutile ribadirlo, l’abuso della Legge, che il processo documenta. Ufficiali dei carabinieri che s’inventano le indagini per fare carriera, per nient’altro. Giudici che le avallano o promuovono, sempre per fare carriera. Sotto la Grande Madre Dc - che si sarà pure sciolta, ma evidentemente ha fatto il ghiaccio. Si spiegano così le indagini a senso unico per Piazza Fontana, l’evento e il metodo all’origine della Storia Impossibile: dapprima contro la sinistra, poi contro la destra. La politica, purtroppo, non c’entra, la corruzione è delle istituzioni.

lunedì 6 febbraio 2012

Ombre - 118

Nella precedente grande nevicata a Roma, a marzo del 1971, alle prime chiamate i vigili del fuoco accorsero con gli idranti: volevano sciogliere la neve con l’acqua.

I portieri di Roma, 34 mila euro l’anno con abitazione in comodato, non lavorano sabato e domenica e quindi non hanno spalato a Roma la neve all’uscio. Nessun privato l’ha fatto. Pochi negozianti – le commesse non sono pagate per spalare la neve. Pochi parroci, anche se le chiese hanno accesso da larghe scalinate senza corrimano. Nessun commissariato di Polizia. Erano tutti ai tg a lamentarsi?

Il celebrato giudice Davigo, quello dell’Italia da rivoltare “come un pedalino”, dà domenica al “Corriere della sera” un’altra lettura di Mani Pulite: finiti i soldi del sottogoverno, gli “imprenditori” cominciarono a denunciarsi l’un l’altro. Dunque fu l’opera di pentiti in affari.
Mani Pulite fu soprattutto un golpe, con migliaia di processi e carcerazioni illegali. Che ha liberato la corruzione e non l’ha sradicata – negli appalti si vede a occhio nudo. Ora si capisce perché.

Incomparabile Vietti: “Il magistrato è un unicum”, e perciò irresponsabile, non si può paragonare ai medici. O non è il contrario, lo sanno pure i bambini: un medico non sbaglia per partito preso, l’arbitro sì. Ma Casini dove li prende?

L’Italia sembra piena di ricercatori. Che tutti emigrano all’estero. Perché l’Italia non fa ricerca.
E questo è vero: i ricercatori di cui l’Italia è prodiga sono solo figli del dottorato, una ricerca che è poco più della (vecchia) tesi di laurea.

Bersani lo critica e Celentano dà i soldi di Sanremo in beneficenza. Show? Business?
Il molleggiato era in sospetto di “qualunquismo” trent’anni fa. Bersani forse non è cresciuto.

“All’inizio per il Pm la corruzione di Mills a opera di Berlusconi fu il 2 febbraio 1998. Poi il Pm l’ha spostata al 29 febbraio 2000. Ma la Cassazione ha detto 11 novembre 1999”. Il Giusto Mezzo.
A Milano non è cambiato nulla dal Seicento. E se gli spagnoli di Manzoni fossero milanesi, che spagnoleggiavano?

Imarisio propone di chiedere scusa a Domnica Cemortan: “La sensazione è che il suo nome sia stato buttato sul tavolo dagli inquirenti… come strumento di pressione per rendere ancora più difficile e insopportabile la vita domestica di Schettino. Un diversivo”.
Finisce che dovremo riabilitare pure Schettino, tra un complotto e l’altro.
Ma “la moldava” chi l’ha creata e ce la butta tra i piedi? Una che sa l’italiano meglio di tutte le italiane della tv, privata e pubblica.
A meno che le inviate non siano inquirenti.

Si legge il “Corriere della sera” di questi giorni, fino alla pagina 18 o 20, come il giornalino della bontà: Monti è un angelo. A volte è un arcangelo.
A Monti, dice il “Corriere”, ha scritto pure una bambina di due anni. Per e-mail.

È Angela Merkel che va a salutare a Bruxelles la bionda, bella e giovane Helle Thorning Schmidt, primo ministro danese. E anzi se l’abbraccia. Benché siano di due partiti diversi, e anzi non si conoscano. Potenza dell’indipendenza.

Sublime barocca sottomissione, involontaria, del bocconiano liberista professor Monti all’Autorità Giudiziaria in quel parificare la retribuzione degli imprenditori pubblici a quella dei giudici di Cassazione? Una vera impresa.

Un colonnello della Finanza mostra al Tg 2 i cani lupo a caccia degli evasori. È per questo che non li trovano?

Il direttore delle Entrate Befera preannuncia (minaccia) controlli rigorosi sulla prossima dichiarazione dei redditi. Prima che faceva?

A Pisa l’Ikea ha aspettato sei anni per definire l’apertura di un punto vendita. E ha ottenuto l’autorizzazione per una superficie dimezzata rispetto al progetto originario. Il presidente della Ue Barroso ha citato questo, tra gli altri, come esempio di malgoverno. Il presidente della Toscana Rossi l’ha rimbeccato: “Non consento a nessuno di denigrare la Toscana”. Cioè ha voluto dare ragione a Barroso – ma dove li prendono?

Rocco Princi, un panettiere calabrese che ha messo su quattro negozi a Milano, ha avuto la visita del fisco in sua assenza, un sabato di grande affluenza, per cinque ore, vessatorio, senza motivo. Il lunedì successivo è stato scippato di cinquantamila euro all’uscita da un negozio. Ma i finanzieri non sono accorsi all’allarme, neanche i carabinieri.

Angela Merkel che va a sciare in una pensione di seconda categoria. Con foto. Angela Merkel che fa la spesa al supermercato. Con foto. Il fotografo casualmente appostato per l’“istantanea”, e Angela Merkel senza scorta, senza nulla di meglio da fare, vestita come una casalinga. Cameron dal droghiere è invece azzimato, e roseo. La democrazia della presa per il culo - nell’anno 2012: il futuro è brutto.

Le liberalizzazioni di Passera elimineranno i residui artigianali e commerciali di qualità di centri storici. A Roma per esempio, che per quarant’anni aveva resistito alla micidiale “isola pedonale”. Ma nessun asorrosa, protettore della tradizione, è insorto. Centralismo democratico?

L’unità bancaria dei cattolici

A chiusura del centocinquantenario valga quanto era possibile scrivere dieci anni fa, dopo l’ingresso di Unicredito in Generali – eliminate le scorie Fazio e Profumo, la situazione è com’era allora:
“L’asse Uni-Generali – in concreto Uni-Mediobanca-Generali – completa il Blitzkrieg con cui la finanza cattolica, a quasi un secolo e mezzo dall’unità, completa l’occupazione del potere. I due gruppi di influenza marcatamente confessionale, Unicredito e Intesa, controllano i tre quarti almeno di quello che fino a quindici anni fa era ancora un fortilizio laico. Restano fuori il San Paolo Torino di Rainer Masera, ma le Fondazioni scalpitano, ben confessionali anch’esse, e il fortilizio dell’ex Pci, il Monte dei Paschi.
“I quindici anni decorrono da quando l’avvocato Bazoli, l’uomo d’affari della curia di Brescia, è sbarcato a Milano sulle spoglie del Banco Ambrosiano. Da dieci anni l’impresa di Bazoli è stata facilitata dalla Banca d’Italia, da quando è retta anch’essa da un uomo molto devoto, Antonio Fazio. Fazio e Bazoli sono due cattolici diversi, e anzi antitetici. Vecchio “popolare” Fazio, liberale, pluralista, molto “democristiano” Bazoli, uomo di potere. Su Mediobanca-Generali Fazio ha dato e darà dispiaceri a Bazoli. Ma molti pezzi di strada li hanno fatti insieme, Bazoli sulle tracce della liberalizzazione disposta da Fazio, e della dottrina da lui propugnata degli “accorpamenti risanatori”.
“Profumo è un corpo estraneo in questo schieramento. È venuto alla ribalta in un famoso convegno dell’allora Pds, tenuto a Siena nel 1997, convocato da Massimo D’Alema per spiegare ai manager la nuova filosofia di mercato del suo partito. E lavora in Unicredito a contatto privilegiato con Pietro Modiano, un manager cresciuto nel Credito Italiano e ora vicedirettore generale del gruppo, marito di Barbara Pollastrini, fiduciaria Ds a Milano e deputata. Ma Profumo serve: viene da Merrill Lynch, ha fiuto e capacità per le fusioni, e ha in progetto di estendere l’influenza di Unicredito oltralpe e all’Est. In Polonia, Croazia, Slovacchia, e forse in Austria e Baviera, il modello di banca crossborder di Profumo - tutto proiettato in una Europa cattolica romana - fa sognare i suoi provinciali azionisti.
“Attorno a Fazio e Bazoli la nuova galassia confessionale ha già un assetto durevole, tecnico (economico) e politico. Bazoli ha il sostegno incondizionato di Giuseppe Guzzetti, il presidente della Fondazione Cariplo, una vita in politica con la Dc. Si è candidato per i Popolari al vertice dell’Ulivo per le elezioni del 2001. Ha lanciato un ponte alla Fiat col convertendo e trova una sponda in Umberto Agnelli, nuovo capo famiglia e azienda, senatore della Dc dal 1976 al 1979, nel gruppo dell’Arel, creato da Nino Andreatta - con, tra i tanti, Bazoli. L’asse Uni-Generali ha il sostegno esterno di Cesare Geronzi, presidente di Capitalia, intimo di Fazio. Dall’interno è controllato da due fondazioni vicini ai Popolari, la Cariverona, presieduta da Paolo Biasi, e la Crt (Cassa di risparmio di Torino), presieduta da Fabrizio Palenzona, in politica con i Popolari, presidente della provincia di Alessandria. Il presidente di Unicredito, Carlo Salvatori, è da sempre legato a Fazio e Geronzi”.

domenica 5 febbraio 2012

Veltroni (non) sa di non sapere

“Io so” dice Veltroni a Fazio. Al modo, specifica, di Pasolini e Sciascia: “Io so” che le stragi sono di Stato. In particolare dice “Io so” a proposito della trattativa Stato-mafia per uccidere Falcone e Borsellino, e promuovere le stragi del 1993 a Firenze e Milano. A opera, pensano gli spettatori, di Scalfaro che Veltroni ha appena celebrato, e di Ciampi? “Trattativa” che il colonnello dei carabinieri De Caprio, in arte “Ultimo”, poté dire il 26 novembre 2010 “una pagliacciata”, nella sua lite continua con la Procura di Palermo ma senza incorrere in aggravanti.
Veltroni non è Pasolini, e nemmeno Sciascia, dopo non essere stato Kennedy. È un uomo politico, ex vice capo dell’Ulivo e del governo, ed ex capo del partito Democratico. E un personaggio pirandelliano in cerca di ruolo. Ma tutto questo, l’essenziale, mostra di non saperlo.
Fazio lo ha invitato per l’“Io so”, in qualità di umile membro dell’Antimafia parlamentare. E gli ha alzato le palle concordate. Ma non ha fatto scattare i solito applausi: era una trappola? La Rai è sempre infida, come le stragi.

Secondi pensieri - (90)

zeulig

Anima – È l’esistenza, il riflesso della morte nel mutevole. E un giudizio costante, una scelta e un adattamento.
È un riflesso, attivo e passivo, e non un timone tra i vizi e le virtù.

Confessione – A proposito dei “Ricordi dal sottosuolo” di Dostoevskij (“Conversazioni annotate da Oets K. Bouswsma”), all’osservazione che nella prima parte l’autore scrive di sé, Wittgenstein osserva: “Nessuna descrizione di sé può reggere di fronte al suo (dell’autore) atteggiamento verso di essa”. L’autore forse si diverte, forse no, ma non fa verità. “Nessuno è in grado di scrivere obiettivamente di sé”, anche se ci fosse “un buon motivo” per farlo: “I motivi cambiano mentre si scrive. E le cose si complicano perché più si tende a essere «oggettivi» più ci si accorge degli svariati motivi che entrano in gioco”.
Le confessioni dei filosofi, diversamente da quelle dei letterati, hanno un percorso diverso? Impossibile.

Corpo – Del nudo classico che l’Occidente ha ereditato quello maschile è nell’arte il Cristo in croce. Più i san Sebastiani - è questo che fa la superiorità evidente delle mistiche sui mistici?

“I corpi sono fatti di cose incorporee: «ex rebus incorporalibus corpora nascuntur”: essi nascono, dice energicamente Eriugena, «ex intelligibilium coitu”»(Etienne Gilson, “La filosofia nel Medioevo”, al capitolo su Giovanni Scoto Eriugena, p. 247). In altro passo, lo stesso Scoto Eriugena, il monaco irlandese del secolo nono, ha “Sacrum, sacrum, inluminatio coitu” (cit. da Pound al Canto XXXVI).

Il corpo, nel famoso libro-atlante di Desmond Morris, è un mucchietto di ossa, 208 fra piccole e grandi, in tutto dieci-dodici chili, tanti muscoli, oltre seicento, e carnaccia grassa. Il cervello si programma, il cuore fa il lavoro di una pompa che portasse nel corso di una vita una tonnellata di sangue a 250 chilometri d’altezza, i polmoni pompano quattordici metri cubi d’aria al giorno, il sistema di scarico filtra duecento litri di fluidi, al giorno, il sistema di aerazione ha due-tre milioni di ghiandole sudorifere. Ma il tutto è un miscuglio povero, d’idrogeno, ossigeno e carbonio, un gas, ora acqua ora aria o polvere.
Ma su questo ammasso, che non ha neanche buon odore, si è costruito l’immaginario più grande, la vita, l’arte. Il corpo è il più grande sistema espressivo, o rapporto fra cosa e immagine.

Il corpo è più di quanto dice Morris, la prova è che in un miliardo di corpi non uno è uguale allo altro. Per essere l’involucro della vita. E per il potere salvifico della concupiscenza. È una forma della grazia, la God’s plenty di Dryden, dovizia divina. La “bontà di Dio” di Blake, “tutte le gioie” di Donne, che il corpo vede “pensoso”. È “il cielo” di Novalis, la poesia di Aristotele, “perfetto organismo vivente”. E per la stessa chiesa non è “l’anima la forma del corpo”? Anche se la cosa è controversa per le donne. I greci, che così bene figurarono il corpo, meglio se di donna, la donna privavano di anima.
Bataille dice di no, partendo dall’ovvio: “Nessun dubbio che lo atto sessuale è brutto, l’essenza dell’erotismo è la sozzura”. E dall’ineluttabile amore-morte, il coito assassino: dell’altro nella pornografia, di sé e dell’altro nell’erotismo, che la contemporaneità scambia per amore. Nessun dubbio, l’atto in sé induce stanchezza e disgusto, dice Paulhan giustamente a Sade. Ma la fine psicologia trascura la fenice, il mito più amato, la resurrezione costante, dell’anima col corpo.
Nietzsche, di tutto maestro, lo sa: “L’anima fa il suo corpo, e il corpo, per chi sa vederlo, la rivela”. Tertulliano, che per essere padre, sia pure della chiesa, ne sa di più, non dice il corpo “coerede dell’anima”, nella creazione e la perdizione? E l’amore, che si fa col corpo, “un dolce distillamento dell’anima”. Né si può obiettare, per il vero cristiano il corpo è tutto, Gesù stesso è venuto in veste di guaritore, itinerante: guariva lo spirito guarendo il corpo. L’anima, direbbe Cvetaeva, “per l’uomo spirituale è quasi carne”.
Si guardi Tina Modotti nuda nelle foto di Weston: giganteggia, per la luce, la grana, i vuoti, i pieni, mentre arrivava sì e no al metro e mezzo. Il corpo ha la sua vita.

Enigma – Non vuole essere sciolto. “L’enigma è perfetto soltanto \ se dietro si staglia altro velo” (Abū Nuwās). S’impone quando la filosofia arriva a marcare la ragione, per esplicitarla e delimitarla – la ragione si compiace dell’enigma (senza, è anche sterile).

Identità - Domenica il “Sole 24 ore” fa un ampio articolo su una serie regionale dell’editore Neri Pozza: “I Napoletani”, “I Torinesi”, “I Siciliani”,, le “identità locali”. Dopo aver riprodotto, nella prima pagina dello stesso supplemento culturale, la novella di Sercambi “Ganfo il pellicciaio”. Sul pellicciaio che ai Bagni di Lucca, nudo nell’acqua, teme di non identificarsi più, e si contrassegna con una croce di paglia. E quando la croce di paglia si posa sulla spalla di un altro bagnante, risolve la questione così: “Allora, tu sei me e io sono te” (nella “traduzione” di Gianni Celati). Morale della favola?

Internet – Segna l’età dell’indiscrezione, irrilevante. Dell’irrilevanza sociale, dell’indifferenza al livello più basso. Nell’esibizionismo, la sessualità pornificata, la schedatura commerciale, tra gossip e shopping, le parole chiave di un’epoca ormai lunga. Nell’ugualitarismo amorfo.
È la moderna “fattoria degli animali”. Meno per i pochi “più uguali degli altri” (Microsoft, Google, Facebook), più per l’indifferenza – livellamento, inespressività, insulsaggine, solitudine estrema (frammentaria).

Male – “Il rimedio è nel male”, dice Starobinski di Boccaccio (o altro autore). Non è proprio così (Boccaccio, per esempio. era uomo pio e di bene), ma è un’idea: se male e bene s’intrecciano, anche il bene può essere nel male. Che non è nemmeno una novità (verità), ma non se ne tiene conto.

Tempo - È la vita, anche nell’inerzia. È occasione, e azione. Concentrato su questo, anche nell’ozio.
E non è sterile: è formativo, nel gioco comparatistico della memoria e dell’anticipazione – nelle forme magari volitive, delle nostalgie, e dei desideri. È la dimensione della pedagogia (storia), ed è la pedagogia.

Il trasferimento del debito ai privati

Capaldo l’aveva annunciata un anno fa, il 26 gennaio 2011, sul “Corriere della sera”. Dopo quella sulle pensioni, e in attesa delle riforma del lavoro, la vera dura stangata di Monti arriverà con l’immobiliare: la moltiplicazione dell’Ici e il quasi raddoppio delle rendite catastali. Di che prosciugare la residua liquidità che in qualche modo tiene in vita la domanda. Ma una scelta che viene da lontano: nel dibattito un anno sulla patrimoniale, la finanza cattolica si era segnalata con la proposta di trasferire un terzo almeno del debito pubblico ai privati cittadini tassando la casa.
“Penso ad una sorta di «privatizzazione» del debito”, aveva detto Capaldo: “Se è vero, infatti, che il debito pubblico è, in ultima istanza, un debito di noi cittadini tanto vale accollarcelo, almeno in parte direttamente, alleggerendo in corrispondenza lo Stato”. Una “medicina molto amara” che però renderebbe “possibile” la guarigione. “La ripartizione si potrebbe fare in base al valore corrente del patrimonio immobiliare, dando rilievo all’epoca in cui i beni sono entrati nella disponibilità dell’attuale titolare…. Secondo dati attendibili, il debito pubblico è pari grosso modo al 25 per cento del patrimonio immobiliare italiano espresso in valori correnti. Ne deriva che per dimezzare il debito pubblico occorrerebbe che su ogni immobile venisse trasferito mediamente un debito pari al 12,5 per cento del suo valore corrente. Dico «mediamente», perché in concreto la quota trasferita su ogni immobile dipende - tra l' altro – dall’anno d’acquisto e dalla posizione soggettiva del titolare. Sulle modalità di ripartizione, fermo l’obiettivo, va lasciato, per ovvie ragioni, ampio spazio alla politica, intesa nel senso nobile della parola. È probabile comunque che la quota oscilli tra il 5 per cento e il 20 per cento del valore corrente dei singoli cespiti”.
Detto fatto: Monti è la “politica nobile” per antonomasia e ha introdotto un prelievo costante, cioè ripetibile all’infinito, del 20 per cento del valore corrente dei singoli cespiti - non la patrimoniale, molto peggio. Una scelta sostenuta da tempo dall’università del Sacro cuore e da Banca Intesa, ampiamente rappresentate nel governo con qualche laico di complemento. Pellegrino Capaldo insegna alla Sapienza, ma si è segnalato in passato per incarichi pubblici di fiducia durante l’era De Mita della Dc.