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sabato 11 gennaio 2014

L’Italia unita dalla corruzione

Pasolini non ne aveva buona opinione nel 1973, quando Chelli fu riproposto da Calvino nella sua collana “Centopagine”. Ridusse il romanzo (si può rileggere in “Descrizioni di descrizioni”) a “saggio sceneggiato” contro “la qualità abietta della piccola borghesia italiana”, vista “senza alcun amore”. È il romanzo “del «possesso»”, dice Pasolini. E non “del «possesso» verghiano”, che questo “Ferramonti” peraltro anticipa, “reso epico dal suo fondo popolare e contadino: si tratta di un «possesso» la cui unica epicità consiste nel Male, perseguito senza tentennamenti faustiani”, per l’inconsistenza morale della piccola borghesia. Una lettura monotematica, da realismo socialista, ma anche una pietra tombale. E invece rieccolo – una prima ripresa si era avuta quindici anni fa.
Il tema è in effetti la “roba”. Ma anche il suo contrario: ogni altra aspettativa conculcata dai soldi, la vitalità sopraffatta dalla mediocrità, e l’idiozia. Può anche leggersi come una storia d’amore sopraffatto. Dall’adulterio, seppure non consenziente nelle sue pratiche di letto, e quasi dall’incesto. Può essere – è – una “Bovary” antemarcia, anche per la misoginia flaubertiana dell’ignoto Chelli, che è poi misantropia. Di una Emma-Irene con più spessore, riformatrice e non rassegnata, che invece di suicidarsi per i debiti si inventa una seconda o terza vita, su sfondo balzacchiano. I personaggi sono ambigui, compreso lo stesso capofamiglia “borghese” eponimo, che ha porti passioni, meno però l’avidità.
La collana “Centopagine”, che Pasolini deride nella recensione come “kitsch intelligente” di Fine Secolo, Calvino di proposito avva creato per liberare la scena dal neo realismo, di storie contadine, di borgata, di personale, privata, Resistenza – non abbiamo un’epica della Resistenza.
Il romanzo in realtà aveva infettato Pasolini, che ne scrisse a quasi un anno dalla ripubblicazione. Con un’analisi partecipata, a partire dal titolo, “Dopo Verga e prima di Svevo”. E una disamina acuta del discorso indiretto, la geniale “enfasi sdrucciola propria di quegli anni” - e purtroppo anche dei successivi, di fremiti, palpiti, spasimi, terribili, pallidi, trepidi, fino a lui stesso, il Pasolini narratore oggi indigesto: il discorso che, mentre rappresenta, censura. “Questo Chelli” è quindi in quale modo lui stesso, gli urtava un nervo sensibile.
Resta da dire dell’autore. E della corruzione, che seguì l’unità d’Italia. Il filone è consistente dei romanzi della corruzione e della concussione, in Pirandello, Rovetta, De Roberto. Si cominciò presto con gli scandali, con la Regìa Tabacchi nel 1869, e anzi con le stesse guerre di indipendenza. Il politico moralista “aveva guadagnato molto danaro” in questo romanzo “colle susssistenze militari, nelle guerre di Lombardia”.
L’autore, impiegato a Roma ai tabacchi, era reduce da una piccola attività pubblicistica nella sua città, Massa, di cui aveva redatto per un decennio l’avvisatore commerciale, “L’Apuano”. Nel quale pubblicò a puntate due racconti, e l’inizio di un terzo. Che ripubblicati da Paolo Giannotti nel 2003 in “Racconti dell’Apuano”, Edizioni Publieti, fanno luce sulle fonti. Chelli è stato indirizzato alla riedizione nel 1972 (Calvino, Pasolini) su Verga, quello “francese” (frivolo) di Firenze e quello poi verista. Giannotti trova invece, col metodo dell’acqua calda o delle date, che entrambi, sia Verga che Chelli, ripetono cliché del tempo. A proposito del Verga fiorentino citando Petronio: le fonti sono, “in Italia, la Percoto, Salvatore Farina, e tanti che noi oggi non leggiamo più”. I temi dei racconti sono in effetti, più di questo “Ferramonti”, quelli della letteratura di Fine Secolo: morire d’amore, nella cupa avidità, un orizzonte grigio.
Gaetano Carlo Chelli, L’eredità Feramonti, Elliot, pp. 250 € 18,50 

L’autoaffondamento del governo

Gli aiuti alle famiglie si riducono al secondo nome all’anagrafe. C’era una riduzione del cuneo fiscale per aumentare il netto in busta paga: sparito. L’Imu prima casa, cancellata ritorna come Tasi, che poi sarà Trise, e poi ancora Iuc. Quattro nomi in pochi mesi, e tante aliquote. Più onerose di prima quando era stata annunciata la cancellazione. Per l’industria e il commercio (capannoni, magazzini) anzi raddoppiate. Senza contare la mini-Imu, una complicazione inverosimile prima che un imbroglio. Mentre gli insegnanti devono rimborsare gli scatti di anzianità, e poi non più. E se il governo, dopo tanti voti di fiducia, annunciasse la sua cancellazione? Letta va da Napolitano e gli dice: “Presidente, gli italiani è meglio che si governino da soli”.
L’utopia è, non da ora, da quando lo Stato è nato, la cessazione dello Stato, la cancellazione: gli uomini si autogovernano, leali e rispettosi. Il governo Letta l’ha realizzata.
Non c’è legge o decisione che prenda che non sia insostenibile, inutile, annullata. Dal governo naturalmente, ma più della Funzione Pubblica. Che è il vero Stato, la continuità. Che fa, e subito dopo disfa. Il più grosso risparmio sarebbe liquidare questo Stato, tre milioni e più d’incapaci.

Italia sovietica - 17

Prima dell’intervista con Marchionne, Repubblica.it offriva ieri due video e una dichiarazione di Landini, Fiom-Cgil: “Marchionne è bravo solo  garantire le rendite degli Agnelli”, “Le auto di lusso non garantiscono l’occupazione”, “Fabbriche fantasma”. E una dichiarazione di “Marchionne non dà garanzie”. Tutto gratis. L’intervista è in abbonamento.
Le auto di lusso sono belle e buone se sono Audi, Bmw e Mercedes. Che garantiscono l’occupazione in Germania, e soprattutto si vendono – si continuano a vendere.
Della Fiat si dice anche che non produce più auto in Italia. Come se si castrasse volontariamente, per crudeltà. Non si dice che non le produce perché costano di più, e perché i clienti Fiat, quelli delle Panda e le Punto, non possono più comprarsi una macchina nuova. Il ceto medio decimato dalla crisi: questo sarebbe un argomento, ma si tace.
Crolla Sorgenia, la società elettrica di De Benedetti, forte solo delle centrali prese all’Enel a prezzo di saldo, e per i resto piena di debiti, soprattutto col Monte dei Paschi, e di passivi, nel 2013 per 430 milioni, abbandonata dal socio industriale, l’austriaca Verbund. Ma non se ne ha notizia.
Il Piano del lavoro di Renzi, dice oggi a Claudio Cerasa, sul “Foglio”, Davide Faraone, l’uomo di Renzi, evita volutamente di menzionare l’articolo 18 “per evitare di innescare una reazione ideologica nei nostri Non ne tiene conto, ma non si può dire.

“Noi”, insiste Faraone, “siamo intenzionati a smontare un vecchio modello impostato sulla triade scuola-lavoro-pensioni”. Lo dice al “Foglio” come al confessore, in segreto. 







Il segreto è francese

In prima linea contro lo “spionaggio” Usa, la Francia è anche in prima linea per la riservatezza in casa. Lo scandalo dea relazione scandalosa del presidente con un’attrice è lo scandalo stesso. La Francia sì’è costtuita attorno ai re, fin dal tempo dei Merovingi, e non s’è mai perdonata la decapitazione  del 1792. Benché in defettibilmente repubblicana dopo d’allora, ha sempre cercato un presidente-re. De Gaulle ha realizzato da ultimo ancora una volta questo sogno, e la Francia fa finta che si sia nuovamente avverato, anche se dopo il Generale più che altro avrà mezze calzette: le difende ugualmente. Giscard usciva di notte, ma non si diceva. Una notte ebbe un incidente d’auto insieme con Sylvie Kristel, l’eroina di “Emmanuelle”., e niente. Mitterrand arrivò alla presidenza nel 1981 malato di tumore e bigamo, ma per quattordici anni non si disse. Sarkozy, abbandonato dalla moglie Cécile, fece con lei un “patto del ritorno” per la campagna presidenziale del 2008, dopodiché si divorziarono. Tutto normale. Il Dc-9 Itavia fu abbattuto a Ustica da un caccia francese, e per questo non possiamo sapere la verità.

venerdì 10 gennaio 2014

Letteratura piatta della Nuova Italia

Quattro racconti ripescati vent’anni fa da Biagio Prezioso, a conferma che della “letteratura della Nuova Italia” (Croce) non si salva nulla.
Edmondo De Amicis, Cinematografo cerebrale

Un po’ di bombe, per il petrolio a $100

Una dozzina d’anni di guerre per montare gli slavi del Sud (Jugoslavia) contro la Russia. Un’altra dozzina per  tenere il petrolio a 100 dollari (109, 93 per l’esattezza per l’Italia nel 2013), con guerre ovunque nel Medio Oriente e in Nord Africa. Non c’è altra storia nella storia di questo quarto di secolo dopo la caduta del Muro, e del sovietismo. Si dicono, ci diciamo, guerre umanitarie le prime, e di liberazione le seconde. Ma ognuno vede che sono affarismo, all’insegna dei monopoli, dell’energia e della finanza, che ci tengono in soggezione attraverso la crisi - la crisi in realtà è un succedersi di crisi, dell’occupazione, della finanza, della capacità produttiva (credito, investimenti, produttività) e di reddito, al coperto delle guerre. Doveva essere un mondo libero, è un mondo sotto padrone – non si parla più di Occidente, per la vergogna?
In Siria e in Irak, come già in Libia, Al Qaeda si manifesta per quello che è: non una formazione terroristica clandestina ma una forza militare, organizzata e approvvigionata, con logistica, commissariato e armamento in scala. La terribile Al Qaeda, nemica degli Stati Uniti e di ogni uomo di buona volontà, è sostenuta e finanziata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati del Golfo, che è quanto dire dagli stessi Stati Uniti. E la benzina non ha nessuna ragione di costare due euro al litro, o poco meno. Se non per queste guerre continue che gli Usa ci impongono, in Afghanistan, Iraq, Egitto, Libia, Siria. La volevano fare perfino all’Iran, per incendiare il Golfo Persico. Il barile di petrolio non ha nessuna ragione di valere 100 dollari, dopo essere arrivato a 140,  se non per il principio della scarsità. La Cina, che ci portano a pretesto, c’era già quando bastavano 20 dollari. La scarsità si crea con le crisi – le guerre, il terrorismo, etc. Non valeva più di 15 dollari vent’anni fa, e 10 sarebbero bastati – si arrivava a 15 per tenere sul mercato il petrolio “marginale”, del Mare de Nord, dell’Alaska, a elevate profondità.
Ci sono realtà complottistiche che sfuggono a ogni ipotesi di complotto, talmente sono evidenti. Le compagnie petrolifere rigurgitano di utili – l’Eni fa utili, sul petrolio greggio e il gas, ogni anno fra 7 e 10 miliardi, cifre paperoniane. 

giovedì 9 gennaio 2014

Ombre - 204

In Siria e in Irak, come già in Libia, Al Qaeda si manifesta per quello che è: non una formazione terrorista clandestina ma una forza militare, organizzata e approvvigionata, con logistica, commissariato e armamento da esercito combattente.

L’Occidente combatte Assad, come già Gheddafi, con Al Qaeda e altri gruppi che dice terroristici. Che l’Occidente stesso arma. Gratuitamente?

L’Imu sulla prima casa, abolita, in realtà è solo ribattezzata Tasi. E raddoppiata, dallo 0,4 allo 0,8 per mille. Non per scherzo.

Letta dice che le tasse diminuiscono, mentre le aumenta. Non le aumento, dice, le aumento perché poi si possano fare sgravi a favore dei poveri – i quali intanto, ammesso che un giorno avranno qualche sgravio, hanno già pagato le nuove tasse. Coma fa Letta a pensare che tutti siano stupidi? È il presidente del consiglio.

“Renzi è disposto a vedere tutti, anche il leader forzista”, annuncia “Repubblica”. Siamo all’Innominato.
O “Repubblica” comunica in codice coi suoi lettori? Si capisce che si vadano stancando.

Roberto Riga, vicesindaco dell’Aquila, Giuseppe Caporale di “Repubbica” lo dice “in quota centrosinistra”, “eletto nel centrosinistra”, al più “di centrosinistra”. Magari Riga è un innocente calunniato, ma quanta omertà.

Scandalo nella stampa romana per le bancarelle ai Fori imperiali. “Fori pedonali pieni di abusivi”, lamentano. Mentre gli ambulanti non sono abusivi.

I fautori delle isole pedonali non sanno che le isole pedonali si fanno per il commercio? Si vuole Roma turistica e non si vogliono le noccioline?

Contro gli ambulanti ai Fori Imperiali Paolo Conti e Ester Palma invocano sul “Corriere della sera-Roma” la polizia. Perché lo sbirro dovrebbe restituire decoro ai Fori Imperiali? 
Perché il giornalista si vuole sbirro?

Dunque, la Svizzera si offre di finanziare il “breve” tratto italiano della sua Alta Velocità ferroviaria fino ai terminali container liguri. Dopo aver bucato per 50 km. il massiccio del San Gottardo. La No Tav è solo in Val di Susa, sul Lago Maggiore no? Cioè, la Tav non c’entra.

Juventus-Roma è stata una bellissima partita, almeno un tempo. Bella a vedere. Ma nessuno se n’è accorto, nelle domeniche sportive e il giorno dopo: tutti a discutere su chi aveva vinto e cosa. Il giornalismo è un’altra realtà. Aliena?

“Liberare” l’Irak dopo l’11 settembre, per consegnarlo a Al Qaeda. Senza battere ciglio. Poi dice il complotto.

Napolitano “impicciato” dai tecnici

Si può discutere se Saccomanni ci è o ci fa. Ma è indubbio che i tecnici, Saccomanni come i suoi predecessori del governo Monti, hanno un alto concetto di sé. Come migliori dei politici, come anzi i belli-e-buoni della nazione, intelligenti, intemerati e innocenti – il tecnico si vuole “in”. È la peggiore delle storture della pretesa Seconda Repubblica, questo ventennio che sarà il più inglorioso e anzi dannoso della storia d’Italia: di fronte alle manchevolezze dei tecnici - compresa la burocrazia di Stato, e in specie delle Finanze - quelle dei politici, corruzione compresa, sono minori.
Inutile fare l’elenco delle stupidaggini. Bisognerebbe, perché i grandi giornali, i giornali dei grandi interessi, sorvolano, ma ognuno le sa. Le leggi fiscali retroattive, gli esodati, i qui lo dico e qui lo nego, le leggi raffazzonate che neanche loro sanno cosa ci hanno scritto, e la pretesa di dire bugie impunemente (che c’è la ripresa, che le tasse calano, che la busta paga aumenta). Ma un punto bisogna dire: che mai erano stati privilegiati come ora che accumulano le stupidaggini.
È questa la debolezza – l’“impiccio” reale, non quello 5 Stelle - di Napolitano, che pure è un politico navigato: la sua arrendevolezza di fronte al partito dei tecnici. Che si dice di “Repubblica” o di Scalfari, al cui abbraccio mortale Napolitano non sa resistere, ma è dei mestatori: avventurieri, banchieri, finanzieri, gente di portafoglio. Quello dei “tecnici” è un equivoco che ha accompagnato la Repubblica - il primo libro di Scalfari in argomento è del 1956. Napolitano dovrebbe saperlo, che ne è stato sempre avversato.  

Il mondo com'è (159)

astolfo

Carlo Magno, premio – È un premio tedesco all’europeismo. Ha insignito numerose personalità italiane, da ultimo Ciampi – e ha tra candidati Napolitano e Monti. Ma non Romano Prodi, che dei viventi è il politico italiano che più ha operato in Europa e per l’Europa.

5 + 1 – La formula dei Cinque Grandi (i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con diritto di veto) più la Germania è stata adottata per superare il no alla Germania – e all’India - come sesto “Grande” del mondo, orchestrato dall’Italia quindici anni fa contro la candidatura della stessa Germania in quanto rappresentante dell’Europa unita. Si spiegano anche su questo sfondo diplomatico i problemi dell’Italia con la Germania – e con l’India.
L’allora ambasciatore italiano all’Onu, Francesco paolo Fulci, siciliana di Messina, di una famiglia di diplomatici e politici, coalizzò tutto l’ex Terzo mondo contro l’allargamento del numero di membri stabili del Consiglio di sicurezza dell’Onu a paesi scelti. Fulci agì in accordo con gli ambasciatori di Egitto, Messico e Pakistan, che a loro volta mobilitarono le aree di appartenenza, riuniti in un “Coffee Club”. Il Club non è più attivo, dopo il pensionamento di Fulci, ma l’Italia è sempre impegnata all’Onu, d’intesa con il Pakistan, per la democratizzazione delle decisioni dell’organizzazione, contro  la pretesa di Giappone e Brasile, ora, in aggiunta a India e Germania, di allargare il direttorio esclusivo del Consiglio di sicurezza con diritto di veto.

DC – Si può dire il potere che si nega. In quante storie del dopoguerra c’è la Dc? In quanti romanzi c’è una eroina Dc? Questo potere ha anzi fatto della debolezza apparente la sua forza. È la lezione del Tiberio di Tacito, se è l’onorevole Moro. Andreotti beffardo l’ha teorizzato, nel “governo attraverso la crisi”.
I fasti maggiori li registrò nel 1968 e nel 1975-1976, quando, perdente, risuscitò con l’onorevole Moro. Con la teoria che il governo doveva essere “monocolore e Dc”, cioè moderato, ma non “monocolore Dc”. Per: 1) imbarcare i perplessi; 2) dire che il grande partito si sacrifica a governare per il bene della nazione ma senza averne l’ambizione

Galileo – È vittima del laicismo più che della chiesa. Che lo ha ridotto alla questione dell’abiura. Mentre fu un grande studioso applicato. In grado di capire Archimede e provarlo. Attraverso lunghe, lentissime sperimentazioni. Approssimate. In giornate per sei mesi brevi. Con lenti sfocate. Strumenti artigianali, di suo proprio conio. Misurazioni approssimate. Nonché scrittore esimio: semplice, arguto, attraente – anche questo frutto di esercizio.

Genere – S’intendono gli studi di genere femminile. Si sono affermati negli anni 1960, ma da qualche tempo li oscurano gli studi del terzo genere. Il movimento gay avendo preso il relais del movimento femminista. E più in generale delle minoranze sessuali, transgender, etc. Che i diritti di genere confinano alla procreazione. Ai confini cioè che gli studi di genere volevano superare-abbattere.

Islam – A Londra e a Parigi, come al Cairo e a Teheran, sono le donne all’avanguardia in piazza per l’islam. Anche per il velo e la proibizione degli alcoolici. Ciò non avviane in Germania, dove la minoranza islamica è più forte, né negli Usa, dove gli islamici sono numerosi. È un segno di forza  o di debolezza, di Londra e Parigi? 

Non c’è la donna nell’apparato religioso islamico. C’è nei cortei e le piazze. Per un gesto di libertà, di rivolta? Su consiglio di Madison Avenue, l’industria del consenso? 

Opinione pubblica – È pubblica opinione anche in inglese, ma per Walter Lippmann, che era tedesco. È public mind correttamente in inglese. È Öffentlichkeit in tedesco, ciò che si dice, si può (lascia) sapere.

Politica - Diceva Sciascia la politica attività mediocre riservata ai mediocri. Si dice anche sui treni. Ma la politica gira attorno alla sacralità del capo: dal capo, per il capo, con il capo, è esercizio di comando prima che di controllo. Quella americana più della cinese. Nel Pci, storicamente, più che nella Dc, anche se della Democrazia Cristiana i capi erano, e sono, numerosi. Quando si pensa alle notti fumose trascorse a menare il torrone, nelle sezioni o i circoli di partito e sindacali, le cellule, i gruppi, i consigli comunali, provinciali, regionali, i comitati, le anticamere, tutto ciò ha un senso nella sacralità dell’esito: diventare capo. Arricchirsi si fa più proficuamente in altri modi, la politica si ama perché dà un’autorità.
Un gioco narcisista, caduco, eunuco. Inspiegabile: di mediocri spesso, più delle masse che in essi si specchiano. Ma i potenti e gli aspiranti richiamano a grappoli i ragazzi ambiziosi - e le ragazze. Anche se per parata, chi ha le chiavi dell’amore già comanda. È per questo la politica un esercizio attraente, per la vergogna della razionalità, Max Weber si arrampica sugli specchi. In Africa si vede, dove il potere è dappertutto transitorio, ma il suo fascino continua intatto.

Schiena - È il punto debole di una popolazione fino a ieri contadina, che della schiena faceva il suo punto forte. La fisioterapia è il mestiere che più prolifica, e non ce n’è mai abbastanza. Non si solleva più nemmeno la sacca della spesa, o con difficoltà. Si parcheggia a pettine per evitare le retromarcia, o in doppia fila, o altrimenti col sensore della retromarcia. Aveva senso figurato, la schiena dritta, che ora non c’è più.

astolfo@antiit.eu


Amico Heidegger

Heidegger familiare, vicino di casa. Una lettura come una visita, da un conoscente un po’ misterioso ma non sfuggente. Il viaggio interiore, che accomuna Heidegger a Hebel, il provinciale, Heidegger e Hannah Arendt, l’amore impossibile, la viltà, l’impostura, e il linguaggio naturalmente. Una lettura apparentemente semplice, che invece immerge nei temi veri, di Heidegger, e della filosofia.
Splendori e miserie della filosofia italiana, sarebbe il blurb di questa piccola antologia: studiosa perugina, la giovane filosofa è accademica a Sidney – a Sidney West. O delle miserie (splendori) della  globalizzazione.
Francesca Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, pp. 160 € 10

mercoledì 8 gennaio 2014

Heidegger inedito, e santo

Si pensava di sapere tutto di Heidegger, le opere superano i cento volumi, e invece no: in attesa dei taccuini inediti e neri, ecco le conferenze inedite - consumate le virgole, siamo ora ai punti di sospensione di Heidegger. François Jaran, studioso francese ora all’università di Valencia, aveva dedicato allo Heidegger metafisico la tesi di dottorato, basandosi sul corso dell’inverno 1926-27, appena completato “Essere e tempo”, “Storia della filosofia da Tommaso d’Aquino a Kant”, e sul corso del semestre estivo 1928 consacrato a Leibniz. Ci ritorna su con più enfasi per averne trovato dichiarate tracce in quattro conferenze successive, 1929-1930, “il «culmine» del periodo metafisico di Heidegger”. Dopo le quali ci fu il rifiuto e la “svolta”.
Non potendo riprodurre i testi, di cui gli editori delle opere mantengono l’esclusiva per il vol. 80, in uscita nel 2015, Jaran ne propone delle parafrasi. Come dire che lo Heidegger inedito rimane inedito. Ma compila un volumetto ugualmente utile agli affezionati. Per i quadri  d’epoca che ricostruisce, sui luoghi e i tempi delle conferenze stesse. Heidegger al convento benedettino di Beuron, Heidegger “richiamato” da Marbach a Friburgo da Husserl. Il famoso incontro con Cassirer a Davos. La nomina all’università di Berlino e il rifiuto. Sorprendente, ma non troppo, un ritratto litografico di Heidegger nel 1930, realizzato da August Rumm, in cui il filosofo è coronato dal nimbo.
Questi i titoli delle conferenze: “Antropologia filosofica e metafisica del Dasein”, alla Kantgesellschaft di Francoforte sul Meno, 24 gennaio, “Hegel e il problema della metafisica”, a Amsterdam il 22 marzo 1930, “Considerazione di sant’Agostino sul tempo. «Confessioni», L. XI”, a Beuron, 5 dicembre 1930, “”Filosofare e credere. L’essenza della verità”, a Marburgo, 5 dicembre 1930.
Resta da perlustrare lo Heidegger scolastico, da chierichetto quale fu.
François Jaran, Heidegger inédit 1929-1930, Vrin, pp.177 € 12

Anche i tedeschi erano buoni

L’ultimo dei “gialli militari”, specialità della scrittrice. Attorno al maggiore Martin Bora, detective controvoglia nella seconda guerra mondiale, che si vuole modellato su Claus von Stauffenberg, l’attentatore di Hitler, e dotato di uno specialissimo pedigree, avoli scozzesi (ragionativi) per parte di madre, e di padre su fino a Katahrina von Bora, la moglie di Lutero. Ma non sono storie scherzose: Ben Pastor, al secolo Maria Verbena Volpi Pastor, romana emigrata negli Usa e scrittrice in inglese (i suoi libri sono tradotti), le vuole “storiche”. Anche a costo di rischiare.
Bora sta per il lato buono della Germania. Qui è a Verona dopo l’8 settembre. Dove perde una mano in un attentato partigiano. Comanda la polizia militare tedesca. Scorta convogli di ebrei al lager. E di notte va a caccia di partigiani. Risolvendo nel tempo libero il caso del federale repubblichino assassinato.
Ben Pastor è scrittrice prolifica di gialli storici, dell’Ottocento, dell’impero romano. Nonché, forse più apprezzata, di ghost stories. Sempre al posto giusto, dal lato dei buoni. Ma non nei “gialli militari”. Di storie e su tele di fondo coraggiose: la Germania è, alla somma, il paese dove la Resistenza è stata più diffusa e più perseguitata, anche se non la celebra (la serie di Bora non è pubblicata in Germania: la scrittrice ha in tedesco solo due libri di ghost stories, tradotti peraltro dall'italiano, cioè puntati sulla italianità, che sempre fa premio in Germania malgrado la guerra dello spread). Che però vengono annegate, dissolte, nello psicologismo. Ambiguo, se non opportunista.
Questa “Luna bugiarda” è una storia fredda, attorno a un personaggio freddo. Oggi. Ma nell’alveo revisionista in agguato, che anche i tedeschi erano buoni, che oggi non si può dire, non ancora – si comincia andando a caccia di partigiani. Soli brutti sono i fascisti residui di Mussolini. E stupidi: sotto occupazione e sotto il tiro dei partigiani, solo si occupano di scopare, donne stupide.
Ben Pastor, Luna bugiarda, Sellerio, pp. 259 € 14

Secondi pensieri - 161

zeulig

Amore - Per i classici (Aristotele, Platone, Cicerone, Seneca), non c’è a distanza, ha bisogno di contiguità, di fisicità – come l’amicizia. Per sant’Agostino, invece, l’amore è, come l’amicizia, diffusivum sui, una sorgente che zampilla.
Il problema è posto nelle “Confessioni”, 4, 14, 21-23, a proposito del primo trattato del santo ancora manicheo, “La bellezza e la convenienza”, da lui dedicato a un personaggio che non conosceva, l’oratore (siriaco, greco, latino) Gerio, per l’attrazione che le lodi di cui era circonfuso esercitavano.

Autofiction –  È un’automutilazione: non si fa a meno impunemente dell’intimità, del riserbo, della sobrietà.
È un forma di mutismo, seppure logorroica: chiude e non esalta l’introspezione. I suoi limiti sono quelli ormai scontati della “piazza” internettiana, della tribunetta face book, dei selfie lusinghieri, del twitter-pensiero, istantaneo, aforistico.

È il segno del tempo: pensiero, immagine, narrazione, epica.
Orwell ipotizzava la Neo Lingua come quella in grado di “restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero” L’autofiction ne è una, sotto il segno della messa in libertà, dai tabù, i pregiudizi, le omissioni.

Civiltà – È diventata un modo di essere, un altro, uno dei tanti. Mobile, solo caratterizzato, eventualmente, dalla novità, dal mutamento. Reca implicito il segno del progresso, ma non più di agente attivo - l’innovazione non è più progressiva, benefica, democratica. Non è più sentita né costruita come tale.
L’elettricità si legava  fine Ottocento con la fiducia e l’entusiasmo, “Excelsior”. Internet e la telematica sono dopo un  secolo, benché formidabili innovazioni, disgiunte da energia e entusiasmo: non si crea nulla, non si pensa di creare nulla con questi nuovi strumenti. Non è vero, perché il mezzo è già la cosa, ma così sono intesi: l’innovazione si vuole priva di capacità ricostitutiva.

Internet - È un linguaggio in codice, sotto l’apparenza ugualitaria, se non libertaria. Quindi un linguaggio governato. Come tutti i linguaggi, ma di più. Per la stessa pretesa alla libertà e alla democrazia.
È degenerativo per la memoria, secondo il filone di studi consolidato sulla “demenza digitale”. Il motore di ricerca più che un sussidio è un sostituto. Della memorizzazione e dell’esercizio critico – peggio quando internet, come è ora la tendenza didattica, si sostituisce all’apprendimento – ricerca, discussione, confronto. L’esperienza è comune: il multitasking, o task switching, è servizievole, ma distorsivo: forma poco e distrae molto.

Lingua – È un orizzonte. Familiare, tribale, comunitario (religioso, settario, politico, professionale), nazionale, cosmopolita. Una diversa risposta per ogni orizzonte. Ma sempre storicizzato. Nella breve storia europea postbellica c’è stata una stagione cosmopolita, fortemente individuata. E da un quarantennio, con l’allontanamento della guerra e la fine della guerra fredda, un’introversione. Un ritorno fortemente locale, entro un orizzonte.

La natura della lingua, e il suo canone, si possono argomentare con l’esempio dell’emigrato di ritorno. L’emigrato che resta incistato nel dialetto dei suoi anni, di quando è partito, mentre nella comunità di origine la lingua (parole, significati, pronuncia) è mutata, questa è la chiave: la lingua, dialetto, compreso, vive. Nel suo terreno di cultura, naturalmente. L’emigrato invece la mantiene ben conservata ma morta – folklorica – mentre fuori casa egli stesso si trapianta, o ambisce a farlo, seppure in terreno ostile o estraneo.
Lo stesso per le necessarie parentele. Benvenuto Terracini ha la lingua “centripeta”, che si rinnova con gli apporti dalla periferia al centro, dai dialetti. Sciascia pretende ch il dialetto sia “la cosa”, il fatto in sé. Forse per un misoneismo passatista – è vero che il dialetto “dice” di più, ma come ogni lingua materna, dell’infanzia. Più in generale, il dialetto è una conformazione di una lingua – un adattamento, fonetico, glottologico, morfologico, la diversificazione della lingua stessa. Ma è anche un fatto di aspettative deluse. Un colpo al sentimento innato dell’immodificabilità della lingua. La delusione dell’emigrato di ritorno è l’esito delle aspettative, il loro rovesciamento. Ed è vissuta come un tradimento:  l’emigrato di ritorno soffre l’innovazione come una sorta di tradimento dell’identità.

La lingua per natura non isola. Più spesso l’apporto dell’immigrato – invertendo la direzioni di marcia, rispetto all’emigrato, cioè - è vissuto come un’innovazione, linguistica oltre che di costume, mentalità, e pratica (culinaria, religiosa).

Malattia – È la condizione normale. L’esere-per-la-morte si è trasformato in vivere-per-morire. Con una sorta di voluttà. Grazie anche alla diffusione della malattia mentale, bacino inesauribile di morbilità. Il Diagnostic and Statistical Manual, la bibbia del settore, ne repertoria periodicamente novità a decine. Specie da ultimo, con le sindromi adolescenziali e infantili. Ben oltre la “medicalizzazione” della società – l’industria della salute che il filosofo-economista di Mitterrand, Jacques Attali, profetizzava quarant’anni fa come industria del futuro. Come se l’essere umano non fosse fatto per vivere (crescere, riprodursi, produrre) ma per spegnersi. È una finalizzazione della vita al rovescio. della professione

È un rovesciamento storico. Di cui non s’indaga la ragione, se non l’origine o la “causa”. In parallelo on la desacralizzazione del mondo e quindi della vita, o in rapporto di causa ed effetto? Ma non si può non legare, se non per la contemporaneità, (anche) alla repletudine, come una sorta di nausea, di rigetto fisiologico. L’istinto vitale vive, per l’individuo e nella società (storia), finché il bisogno vitale (minimo vitale) rimane vivo – finché ce n’è bisogno. Si spegne, paradossalmente, quando non ce n’è bisogno. Nella vita come in ogni altro spazio

Niente – È la cosa stessa. Contestato come impossibilità logica, è l’inafferrabilità del reale. È parola (concetto) non affermativa ma autodenegante. una parola che è la negazione di se stessa. Un segno che è il suo contrario.

Suicidio - Dickens pare abbia detto: “La vita ci è stata data a patto di difenderla con coraggio fino all’ultimo respiro”. Che sembra sentenza di significato univoco e profondo e invece è vaga. Sempre, beninteso, è questione di vita e di morte. Il padre di Šklovskij, ebreo battezzato, che la moglie abbandonò col primo figlio, si trafisse da parte a parte con una daga, sopravvisse, si risposò, ebbe Viktor, e dopo una trentina d’anni s’accorse, insieme con la seconda moglie, che si amavano. Un’altra legge di Enrico Morselli lega i suicidi alle nascite: tanto più crescono quelli, tanto più si moltiplicano queste. Ma un’unica legge o causa non c’è. Secondo la Duras gli uomini hanno inventato il suicidio come il canto e la divinità, contro la vita, per tedio. Non tutti quindi, solo chi non ha altro da fare.
Oppure, si dice, la vita può essere tolta agli uomini malgrado tutto, giacché viene loro data. Ma che c’è la vita? Che non pone domande. Sì, chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo, ma questo è stimolo nervoso, o un passatempo.

zeulig@antiit.eu

martedì 7 gennaio 2014

Letture - 158

letterautore

Italo Calvino – Adopera nelle “Fiabe popolari italiane”, 1956, la lingua di legno che paventa dieci anni dopo nell’articolo-saggio “L’antilingua”, sul “Giorno” del 3 febbraio 1965 (ora in “Una pietra sopra): la lingua “falsa”, della burocrazia, della tecnica, della specialistica, compreso il purismo linguistico: “Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell'antilingua. Caratteristica principale dell'antilingua è quella che definirei il «terrore semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se «fiasco» «stufa» «carbone» fossero parole oscene, come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi” – si riferisce a un verbale in commissariato in cui il brigadiere s’è fatto scrupolo di evitare tutte le parole dirette. Le sue fiabe, trascrizioni o traduzioni, hano oggi un sapore remoto perché Calvino usa parole artificiose, e quindi desuete: “viso” per “faccia”, “egli”, “ella”, per “lui”, “lei”, “nocque” per danneggiò”, “propizio” per “favorevole”, etc. Volva imitare il dettato fiabesco? Non ottiene quell’effetto.

Camilleri – “Tengo sempre a dichiararmi uno scrittore italiano nato in Sicilia”, dichiara Camilleri spesso, da ultimo in “La lingua batte dove il dente duole”, “e quando leggo scrittore siciliano mi arrabbio un poco, perché io sono uno scrittore italiano che fa uso di un dialetto che è compreso dalla nazione italiana”. Non è vero. Cioè sì, il siciliano è un dialetto italiano. Ma la “lingua” di Camilleri è ostica all’italiano non siciliano (o calabrese): parenti, amici, conoscenti, grandi lettori, rifiutano in massa Camilleri, specie se meridionali (non calabro-siculi). Lo hanno rifiutato dopo un paio di tentativi di leggerlo, attratti dalle grandi vendite e dai film di Alberto Sironi - un milanese.
Camilleri commercialmente non può essere “siciliano”, l’isola è la regione d’Italia dove si legge meno – e le poche librerie vanno chiudendo. E tuttavia lo è: è fenomeno “siciliani nel mondo”, che sono una grande, numerosa, nazione. E attraversato lo Stretto leggono, per sensi di colpa se non per nostalgia, sapendo di non voler tornare.

Dante – L’autorevolezza rinascente si lega alla complessità, che l’ermeneutica volentieri erige a oscurità. “Rocciosa” dice la sua lingua Camilleri, in “La lingua batte”, “difficile e piena di significati, di sotto-significati, di allusioni, di rimandi”. Come se fosse impossibile, eccezionale, avere un poeta colto e impegnato in politica.
Lo stesso Camilleri trova invece l’ “Orlando Furioso” uno story-board, una serie di magnifiche carrellate al cinema, O non già in Dante?

“L’Indovina Commedia”, un gioco con venti quiz sulla “Divina Commedia” proposta dal “Sole 24 Ore” l’antivigilia di Natale, su quesiti di cui non c’erano le risposte già pronte in rete, a cura di Anna Li Vigni, Davide Tortorella e Francesca Bertani, ha ottenuto ben 839 risposte giuste. “Un risultato eccezionale”, commenta il giornale, “che dimostra quanto sia diffusa la cultura nel nostro Paese e la conoscenza reale della «Divina Comedia»”.

Incipit - Era Manzoni hegeliano, per la storia della Provvidenza, ma incerto. “La Storia si può veramente chiamare una guerra illustre contro la Morte”, o “una guerra meravigliosa contro la Morte”, o “una guerra illustre contro il Tempo”, sono tre incipit di Manzoni, per “Fermo e Lucia” e poi “I promessi sposi”. Cosa cambia? Niente – a parte prospettare un Manzoni hegeliano, per la storia della Provvidenza, ma incerto.
Discutono su “Lettura” domenica i direttori editoriali della narrativa Rizzoli, sul “mestiere dell’esordiente”, il cui destino viene spesso deciso dalle sue prime righe. Michele Rossi, che cura la narrativa italiana, si cimenta per scherzo con alcuni incipit diversi di testi famosi. Che però, letti a confronto con gli originali, difficilmente avrebbero fatto di anonimi “Malaparte”, “Morante”, “Berto”, “Volponi” delle prime scelte editoriali. Neanche gli originali, per la verità. E allora? Il redattore-editore si protegge, è giusto, leggere “manoscritti”, tre-quattro al giorno, è una grande fatica. Ma quello degli incipit, che fa testo da qualche anno, è solo un palliativo, se non è un gioco.

Lettura – Si fa a cannocchiale, snodabile. Lenta, svagata, saltibeccante, con rarissime eccezioni, e limitate, quella filosofica: non si perde nulla, l’argomentazione si vuole prolissa e ripetitiva, si ritrova sempre il filo, e a ogni inciampo lo si riprende agevolmente. Deve essere invece lineare, parola per parola, in poesia. E si vuole attenta, senza sgarrare, e anzi parola per parola, nelle narrazioni, siano pure svagate o inverosimili. Anche nella storia, quando non sia semplificativa - fonti, elenchi, comparazioni, deduzioni. Nelle trattazioni scientifiche è inutile, bastano le formule.
Si vuole totalitaria pure nell’informazione. Ma superficiale, da dimenticare quasi sempre nella fattispecie, si memorizza per accumulo..

Internet - È un linguaggio in codice, beckettiano. La parte viva, nuova, della rete – wikipedia è tradizionale, perfino  “troppo seria”. In genere sui toni dell’irrisione – la frase breve vi si presta.

Realismo – Scriveva Ford Madox Ford a Conrad, che concordava entusiasta: “Il romanzo è la vita vista come uno schema: il realismo è la vita vista senza uno schema”. Sembra barocco, ma non lo è. è eventuale (evenemenziale), per esempio una partita di calcio. Ma allora è un realismo postmoderno? Cioè, il postmoderno è un realismo.

Successo – Le prime cento pagine de “Il Rosso e il Nero” ci vuole molta ingordigia per avallarle. Le parti di monsignor Del Dongo nella “Certosa di Parma” pure. Le narrazioni “intime” dello stesso Stendhal dovette invece attendere mezzo secolo per essere pubblicate, e al culmine di un revival, “Henry Brulard” , del 1836, nel 1890, i “Ricordi di egotismo”, del 1832, nel 1893. Il successo viene col tema contemporaneo, sentito – con l’opinione, l’attualità. E con almeno un paio di sponsor forti, Merimée, Balzac.   

Suicidio - Celan non ha retto all’impossibilità di essere ebreo e tedesco, prigioniero della lingua madre. Quando tentò il ritorno, nel 1952, il Gruppo 47, Grass e Bachmann inclusi, lo disse patetico - anche se Bachmann poi se ne innamorò. Solo Heidegger lo riconobbe, di cui non poteva fidarsi.

letterautore@antiit.eu

S.Agostino prima di Chomsky

Curioso dialogo, riproposto da tempo come trattatello di pedagogia. La stessa Adele Canilli, che cura questa edizione con una lunga introduzione, molte note e la traduzione, con originale latino, lo conferma, pur proponendosi di leggere il dialogo non come opera pedagogica ma come “un’autentica filosofia del linguaggio, eminentemente compiuta”. Agostino, spiega, è uno che la “vita beata” concepisce in gruppo, “come un fatto sociale” – è uno che non vuole (non sa?) stare solo. Per “la piena identificazione di insegnare e di parlare”. Cioè, la parola è per sé pedagogia. In altri termini: “Il parlare” di Agostino “è un fare, una azione e, in quanto tale, dettata da un moto consapevole della volontà radiato in credenze e convinzioni”.
Resta invece rispettabile il proposito della curatrice: “Il mio intento è di attirare sul dialogo l’attenzione dei linguisti e dei filosofi del linguaggio”. Ma questo Adele Canili scriveva in testa alla prima riedizione del dialogo, già vent’anni fa, e ancora aspetta. Per un motivo. La studiosa s’indirizzava “in specie a coloro che militano sotto l’egida del razionalismo e dell’innatismo”, e “per esempio” a Chomsky. Ma qui il santo è un caso esemplare della curiosa circolarità della semiologia, quando non è divertito esercizio sofistico: segni con segni, segni con parole, e nomi, segno unico.. Per arrivare alla consapevolezza che “o i segni si mostrano con segni, o con segni altre cose che segni non sono”. E finire a “quel settore dei segni in cui con segni non si indicano altri segni, ma le cose che chiamiamo significabili”. Una semiologia dei limiti, della linguistica e della semiologia stessa: la cosa si può indicare senza segno, senza parola, senza suono.  
Agostino comincia a costruire la semiologia su un verso dell’“Eneide”, e con essa anche il vocabolario, e la linguistica: “Si nihil ex tanta  Superis placet urbe relinqui”, II, 659. Ma si ferma a ex, dopo aver “dimostrato” l’impossibilità logica del “nihil”, niente – affronterà i Superis avrebbe riportato il discorso agli dei (“Se agli dei piace che nulla sia lasciato di sì grande città”, Troia). Molto più vivace e à point, sagace, anche nel non detto, dei moderni voluminosi trattati di linguistica - che si vogliono prolissi per non aver nulla da dire?
Aurelio Agostino, Il maestro, Mursia, pp. 151 € 7,30
free online http://www.augustinus.it/italiano/maestro/maestro.htm

Finisce con Monti l’Italia dei borghi

“Addio monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che l’aspetto de’ suoi familiari; torrenti, de’ quali si distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio!  Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza”. Non grande prosa, ma è Manzoni, il cap. VIII.
Gennaio è mite a Roma. Dopo l’ennesima manifestazione oceanica, Grillo sale a San Giovanni sul palco, si toglie la maschera, e dice infine una cosa:
“Sarà presto finita l’Italia dei borghi, del risparmio, dell’operosità. È la fine dell’Italia che Monti ha decretato, che era rinata prospera nella modernità senza abbandonare le arti e i mestieri, il territorio, le vecchie case sulle creste, i colli, i cretti, facendone anzi tesoro. L’insolente e non molto brillante banchiere milanese insieme con Befera & Co. Una burocrazia fiscale tanto arcigna quanto stolida, orrida metastasi di quello che fu il corpo migliore dello Stato.
“Si è decretata la fine dell’Italia contro la più semplice delle logiche: non è possibile ammazzare la gallina per fare le uova. Troncando una pluridecennale discussione sulla convenienza, oltre che sul merito, di tassare la casa. La casa è cespite facile di introiti, più dell’automobile, e dunque giù mazzate: Imu, Tasi, Tares, Irpef, addizionali, Imposta sui servizi indivisibili, e la tassa sulle tasse per i consumi domestici irrinunciabili. Chi non ha intelligenza, nonché fantasia, va per frasi fatte, e parola d’ordine irresistibile.
“La tassa sulle tasse, nella patria del diritto, altro fronte sarebbe da aprire. Licenziando perlomeno i soloni della Corte Costituzionale che ogni scempio tollerano. Se non chiedendo loro restituzione e danni per le immonde rendite di cui gratificano.Partendo dalla revisione dei loro titoli: saranno perlomeno laureati? Ritardati, se non sono filibustieri. Che ora sanciscono, dopo la retroattività delle legge penale, anche quella delle leggi fiscali: un obbrobrio impensabile se i marpioni non fossero lì, in toga, con l’autista e l’auto blu, e l’agente di scorta, per la bella figura coi vicini di casa, al centro del potere, davanti al Quirinale, ad avallare ogni abuso.  
“L’Italia laboriosa, sparagnina, stabile malgrado la mobilità, che si è fatta bella e ricca, non ci sarà più. Perché non c’è più da risparmiare, lo Stato ci ha preso tutto e ora bisogna intaccare la rendita. E se anche fosse possibile risparmiare non si può in azioni e obbligazioni, è passare i risparmi alle banche e le assicurazioni. Si dice, i Befera dicono, che l’Italia deve rinnovarsi, seguire il modello Usa, ma provatevi a fare una rendita in Italia per i figli a diciott’anni, raccoglierete pochi spicci. La gestione italiana delle indennità di liquidazione in questi dodici anni avrebbe condotto negli Usa tutti i gestori in carcere, all’ergastolo. È tutta qui la scienza delle finanze residua di Befera & Co.. Di una tale bestialità che sarebbe difficile perfino immaginarla, se non fosse la realtà dell’Italia”.
“Finisce con ciò anche la famiglia. Tre quarti di essa: il patrimonio, l’eredità, la cura dei figli. Di cui i presti, si scopre, sono i peggiori nemici. Ma di ciò non ci lamenteremo.
“L’Italia ha un debito esagerato. Che però non si riduce, malgrado i tagli da dieci anni in qua, ogni anno, alla spesa virtuosa, per la sanità, la scuola, la ricerca, gli investimenti. Il debito anzi aumenta, ogni anno di cifre iperboliche. La corruzione è incontrollabile. Lo Stato è inetto o malvagio, politici, burocrati, giudici, forze dell’ordine. L’evasione fiscale al 90 per cento è dell’Iva, ma non si può non praticarla. Perché pagare una tassa esorbitante, il 22 per cento, per un incidente o un danno che si è subito e bisogna fronteggiare con grosse spese, all’automobile, lo scarico, la conduttura elettrica, la finestra, la porta, la caldaia, la tegola. Manterremo, forse, la seconda casa al mare, ma anche quella, con quanto si paga ogni anno di tasse, possiamo sostituirla con una bella vacanza tutto compreso alle Seycheles”.
Cioè, questo è il discorso che Grillo non fece, la manifestazione oceanica l’aveva convocata per impicciare Napolitano, lacchè dei monopoli – lui Grillo, lacchè furbo.

lunedì 6 gennaio 2014

Problemi di base - 164

spock

Liberare Falluja per liberare Al Qaeda?

Meglio un cristiano o un barile di petrolio?

E cosa fa il papa, quando non telefona?

Non sarà il papa fautore del collegio unico (faso tuto mì)?

Il papa al telefono è più moderno di Berlusconi in tv?

È vero che Renzi libera la Rai?

Per questo alla Rai sono tutti per lui?

O Renzi è il beniamino di Murdoch? Fa vendere di più?

spock@antiit.eu

Dc laica, laici confessionali

Giovanni Reale, 82 anni, ha osato (finalmente) dire la verità sul “Corriere della sera” l’altro giorno, e oggi la sancisce: un filosofo di solida consistenza, e rinomanza, come lui è stato boicottato e anche minacciato dall’università per un trentennio buono perché non in linea, essendo cattolico. Una polemica personale (Reale si difende con Raissa Gorbaciova e il ministro della Pubblica Istruzione del Kazakistan), che però epitomizza la storia culturale della Repubblica.
Reale non dice da chi è stato vessato. Cioè, dice il Pci. Ma si sa – lo dice anche lui – che il Pci contava poco. In realtà l’establishment culturale dell’Italia repubblicana è stato laico-comunista. Non di classe. Ovvero sì, ma borghese. Occhiuto, molto fazioso: le risposte che l’accusa di Reale ha indotto sullo stesso giornale lo confermano, di indigenza morale prima che culturale e politica, da piccolo gruppo, controassicurato.
Ci sono state due politiche culturali nella Repubblica. Anche la Democrazia Cristiana ne ha avuto una: la scuola, università esclusa, la ricerca scientifica, la Rai, le grandi aziende pubbliche, Iri, Eni, Enel, e le banche. La politica culturale cattolica però non è stata settaria: i democristiani hanno sempre lasciato le briciole ai poveri. Il “Pci” di Reale invece no, con la scusa che possedeva la verità – l’etablishment dell’università, l’editoria, il cinema, i media (Rai esclusa). Nelle idee e, soprattutto, nei posti. 

Moravia, Pitigrilli e D’Annunzio

A venticinque anni dalla redazione, su commessa dell’Azienda Turistica del Trentino per “L’Espresso”, questo racconto lungo trascurato dalle bibliografie è tutto Moravia. Il tema è l’adolescente, scrittore di tragedie, turbato dalla milanese quarantenne, svagata e forse sofferente, in albergo d’estate sulle Dolomiti di Brenta. La scrittura è a mezzo tra D’Annunzio e “Dolicocefala bionda”.
Moravia era un altro, nei suoi ultimi come nei suoi primi anni, non un farfallone come il Vate o Pitigrilli, ma la cifra e l’occupazione sono le stesse.
Alberto Moravia, Il vassoio davanti alla porta

Il peso della ragione

Tutto è ora divenuto altro,
il cielo caduto, l’abisso colmato,
ricoperto dalla ragione,
le lance della fede acuminate
cancellate, e l’amore,
cui Karoline sacrificò
l’ardore, la bellezza e la vita,
residuo stinto nella vanità.
(d’après Karoline v. Günderode, “Tempo antico, e tempo nuovo”)


L’amore è della bellezza

Dalla Bellezza la Vita è partorita,
Come la dea dalla testa del padre,
Del cui desiderio poi si alimenta
La pianta che quieta va in cerca
del sole, perché l’amore è voto,
una reminiscenza della felicità.

Interminata è la trama del bello
La brama d’amore interminabile.
(d’après Karoline v. Günderode, “Amore e Bellezza”)

domenica 5 gennaio 2014

Furioso Novello

Le donne, i cavallier, larme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto
che furo al tempo che i Renzi venner
di Firenze, e in Italia nocquer tanto
seguendo l’ire e i giovenil furori
(Ariosto, a.k.a.,“Furioso Novello”)


Risparmiamoci le Autorità

C’è l’Autorità di controllo sulle autostrade. L’ha creata l’ultimo governo Prodi a luglio del 2007, sottosegretario alla presidenza l’onorevole Enrico Letta. “Con competenze di regolazione economica, in materia di tariffe, prezzi, standard qualitativi, condizioni di accesso alle infrastrutture”. Ma i concessionari possono fare la tariffe a piacimento. Non è il solo caso. Sono ormai una dozzina le Autorità di controllo di questo o quel settore, create a pioggia negli ultimi trent’anni. A protezione degli utenti nel mercato libero. Che costano alcuni miliardi – una vera spending review, che cominciasse da quei faraonici organismi (fanno pure le “inaugurazioni” ogni anno, in polpe), ci risparmierebbe molte tasse, per costi diretti e indiretti, di funzionamento cioè e di corruzione. E non proteggono proprio nulla, a meno che non siano i venditori, i fornitori di servizi, i concessionari.
Prodi lo disse quando le divisò, dopo il 1996, e l’ha ribadito nel 2007. Il disegno era di avere “Autorità indipendenti di regolazione, vigilanza e garanzia dei mercati, con l’obiettivo di tutelare al massimo grado diritti e interessi fondamentali dei cittadini sanciti dalla Costituzione e dai Trattati europei, di contribuire ad accrescere la trasparenza e la regolazione dei mercati garantendo un più ampio regime di concorrenza”. E invece ha solo creato dei robusti organismi di sottogoverno. Che avallano le peggiori barbarie. Economiche e di libertà. Per primo il monopolismo, altro che liberalizzazione. Ma, soprattutto, sono Autorità di Censura e Aggravio per gli Utenti.
Monopolismo
Queste Autorità, ognuno lo vede ogni giorno, non controllano il mercato per gli utenti, che pagano sempre di tutto e di più. Non hanno mai ridotto nessuna tariffa: la liberalizzazione non ha portato mai alcun beneficio ai consumatori. Il mercato controllano evidentemente con solerzia e efficacia a fini di potere. Essendo una delle strutture recondite più efficaci del potere dell’inefficienza, degli amici inamovibili degli amici. Con scelta di potere sapiente all’origine: invece di una grande autorità, con risparmio di spesa enorme, e forse con reale autonomia, con poteri reali di controllo contro gli abusi, tante piccole Autorità, tutte costosissime.
Per gli utenti solo nefandezze. Bastino per tutte quelle del Garante della privacy, che si impone a ogni contratto, sia pure del valore di pochi euro, di riempire decine di fogli di tre e quattro firme, in calce a intieri vocabolari a corpo 6, che serviranno a qualche avvocaticchio ma dopo aver sprecato tanta carta, inchiostri di stampanti, elettricità, e tempo di lavoro. Le bollette sono diventate illeggibili, sotto l’occhiuta gestione di queste Autorità. E non c’è bisogno di chiedersi il perché.
Specialmente odiose le bollette dell’Autorità per l’Energia, luce e gas – nei telefoni forse c’è un  po’ di concorrenza, comunque non ci sono abusi evidenti. Su un consumo di luce per 166 kWh nel bimestre, per un costo di € 15,27, si paga una bolletta di € 58,85. Il “resto” è a pagamento della “commercializzazione”, del “dispacciamento”, dell’Iva e anche di una “perdita di rete”. Per renderle più illeggibili, le bollette sono di due tipi, che si alternano. Il bimestre successivo si paga, e basta, su voci arcane - non c’è più la commercializzazione, il dispacciamento, etc. Il bimestre dopo, ci sono di nuovo – i casi sono del fornitore Eni Gas & Power.

C’è del metodo, nella schizofrenia

È la cronaca di un rimorso. Malinconica, irritante elaborazione del lutto (il risvolto lo dice una “vendetta”, ma è un “mea culpa”, perfino mieloso) per la lunga agonia della madre. Il senso di colpa è triplice. Alla deiezioni del cancro si aggiunge la ludopatia. Che vuol dire buttare via il modesto vitalizio mensile dell’odiato Stato all’autore per “incapacità mentale dall’infanzia”.
Nulla di più. Ma l’autore è archetipo della letteratura escretoria, ed è celebrato in Francia, un caso che fa “discutere” da decenni - ma solo in Francia, con questa coda italiana, in inglese non è pubblicato. Tra le avversioni dello psicopatico scrittore - compagno di licero di Doctorow (“Ragtime”) - c’è infatti quella per la lingua “madre”, l’inglese. Per cui imparò, da autodidatta, il francese, il tedesco, lo spagnolo e perfino il russo, e scelse di scrivere in francese. La Francia lo aveva imposto peraltro nel 1970, quando Deleuze trovò la sua prima testimonianza, “Le schizo et les langues”, appassionante e la fece editare da Gallimard. È quindi lettura obbligata. Ma il racconto è molto di testa. Flebile anche, a distanza – dopo tutto quello che il “genere” ha proposto.
Lo schizofrenico è preciso, e Wolfson, una volta partito, non concede pause, non alza nemmeno gli occhi: è ripetitivo. Un po’ troppo paranoico, anzi: è metodico. Controlla le sue e le altrui tirature, nel vasto mercato americano, e i propri e gli altrui diritti pagati. Sa come promuovere i suoi scritti, a chi chiedere le “presentazioni” e come. Il titolo redige con una lunga allitterazione, quindici parole. La ludopatia estende ai contratti derivati sui mercati a termine di Chicago (merci) e New York (tioli), le combinazioni finanziarie più complicate.
Wolfson è uno che ha sempre “il bisogno di essere molto paranoico”. Ma il caso “caso umano” stinge, il “franco narratore” sa di artefatto, insistito. È un racconto del 1984, questa è una riedizione, sia pure largamente riveduta. Il tutto sapendo che il pazzo autore è ora ricco ottuagenario al tepore del Portorico, tra i disprezzati mezzosangue, dove si gode due milioni vinti alla lotteria. E che soprattutto, più che con la madre, è fissato con la scrittura. Nell’originale francese il testo è molto curato, troppo: la ricerca della musicalità, la cura dell’instabilità della frase, l’effetto sorpresa costante, con l’uso perfetto della sintassi, piena di congiuntivi e periodi ipotetici, e la sapiente costruzione di neologismi, forse sono l’esito della psicopatia ma allora di una “superiore” scienza.
Louis Wolfson, Mia madre musicista è morta di malattia maligna, Einaudi, pp. 287 € 18