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venerdì 20 agosto 2010

Nerissima Italia unita

Si traduce tutto di Dickie, anche le ricette di cucina italiane (interpretate da un inglese… ), e la storia della mafia giornalistica, ma non questo breve e innovativo tomo di storia, pubblicato già nel 1999. Dickie si definisce nei suoi libri di mafia e cucina un giornalista scrittore, ma in questo testo di appena 220 pagine, quattro saggi (“Il brigantaggio” p. 25, dopo una lunga traduzione, “La nascita della questione meridionale”, p.53, “L’Illustrazione Italiana. Il potere del pittoresco”, p.83, “La sicilianità di Crispi” p. 121), corredato da quaranta pagine di note e venti di bibliografia, anticipa il tema del “Sud” creato artatamente con l’unità. Un tema poi sviluppato dal sociologo americano della letteratura Nelson Moe in “Un paradiso abitato da diavoli”. Dickie parte svelto con la conclusione: creare un’identità nazionale può implicare “l’uso di un «altro»”, per l’Italia unita questo “altro” è stato uno speciale Sud, fatto di violenti, briganti e ignoranti.
La ricerca è palesemente condotta in parallelo con Moe, che pubblicherà l’anno successivo. Sono troppe le cose in comune: temi, ipotesi, perfino fraseologie. Ma non sono rimandi reciproci: il ”Sud” è malattia contagiosa? O l’etica anglosassone non è diversa. L’assunto certo non è arduo, e anzi a disposizione di tutti, con un po’ di buona coscienza, se centocinquant'anni di unità non hanno nemmeno avviato la soluzione del problema Sud.
John Dickie, Darkest Italy, Palgrave Macmillan, pp. 240, $ 90

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (65)

Giuseppe Leuzzi

Spopola l’onorevole De Magistris col suo libro estivo sui giornali del Sud, napoletani, pugliesi, calabresi, che se ne servono per lavarsi le coscienze. C’è “un asse Catanzaro-Roma”, o Reggio Calabria-Roma, o Bari-Roma, dice invariabilmente l’onorevole a seconda di dove si trova, che si sta “incarnando nella P 3”. L’incarnazione, l’ex giudice sa cos’è, o il suo furfantesco editore milanese? Il Sud è una riserva di credulità.

Calabria
Nome augurale, l’abbondanza – i greci lo diedero al Salento, poi alla Calabria odierna, con la stessa natura ma molto più grande. Altri nomi sono etnici, Lombardia, Veneto, Liguria, eccetera, o geografici, Piemonte, o amministrativi, Marche. La Calabria ha un nome di fantasia.

Rosarno, teatro in inverno della “rivolta contro gli emigranti”, dopo averli sfruttati con “salari da fame”, ha una Madonna protettrice nera, Maria SS. di Patmos. È tuttora piena di africani, anche se non è la stagione della raccolta degli agrumi, per la quale gli africani affluiscono.

Sdegno nazionale l’inverno passato: gli immigrati a Rosarno venivano pagati un euro a cassetta di arance raccolta. Ma le arance venivano pagate ai produttori 4,5 centesimi al kg., quindi 90 centesimi la cassetta di venti kg.. Gi agrumicultori di Rosarno non saranno stati benefattori?

Non poteva mancare la ‘ndrangheta nell’organizzazione del lavoro nero a Rosarno – è un residuo del sovietismo italiano: nulla accade senza una “organizzazione”. Ma la foto della prima auto distrutta nel raid degli immigrati ritrae proprio il capo riconosciuto, benché non condannato, della ‘ndrangheta di Rosarno, un certo Bellocco, in fuga con un amico in cerca di riparo, dopo essere riuscito a uscire dalla macchina stessa.

Venti euro sono la paga “normale” per un africano, un asiatico, anche a Roma negli scantinati di un garage o a servire in pizzeria. Più le mance certo. Ma senza l’alloggio gratuito, sia pure in fabbricati abbandonati. Seicento euro al mese sono un reddito ragguardevole a Rosarno, per un piccolo commerciante o un manovale.

Il governo ha chiuso i vecchi fabbricati antigienici nei quali erano stipati a Rosarno i raccoglitori di agrumi. A ottobre gli immigrati africani e asiatici torneranno, ma nessun alloggio è stato approntato.

A Taurianova, grasso borgo della Piana pieno di avvocati, era sede di pretura, un paio di bar espongono la scritta: “Vietato offrire”. Succedeva che molti clienti non entravano, per il timore di vedersi coinvolti, da conoscenti e sconosciuti, in defatiganti partite di “posso offrirvi un caffè”, “un caffè per il dottore”, eccetera.

“Tre son i mali grandi della Calabria: 1) la prepotenza dei baroni; 2) la soverchia ricchezza delle mani morte; 3) la sporchezza, la miseria, la selvatichezza, la ferocia di quelle città e di que’ popolo”. Mettendoci la prepotenza dello Stato al primo posto, la ricetta sembra di oggi. È invece dell’abate Galiani, inviato in Calabria nel 1783 dal re Ferdinando I per riferire delle conseguenze del terremoto.

Giuseppe Maria Galanti, regalista, legittimista, fu in Calabria nel 1792: ciò che la Calabria ha di buono le è stato dato dalla natura, scrisse, “i suoi mali li deve a se stessa”.

Inimmaginabile è il deserto culturale in Calabria. Nessuno legge, nessuno compra libri, nessun libraio paga il distributore. Nella proliferazione dei premi: si danno più premi di quanti libri si vendano..
Non c’è paese o comune che non abbia premi, targhe, menzioni, ricordini, anche due o tre: a luglio, agosto e settembre le cronache locali dei giornali locali invece che di nera sono pieni di premi letterari, artistici, etici.

“D’una storia\ tessuta di silenzi e civiltà” parla propriamente lo scrittore di memorie locali nell’Aspromonte Pasqualino Marcianò. Ma in un quadro improprio. I due versi intieri vorrebbero infatti: “Della mia gente fiera d’una storia\ tessuta di silenzi e civiltà”. Mentre la gente non vi “ha” storia, e quindi non può esserne fiera.

Le narrazioni locali sono di preferenza narrazioni dell’infanzia. Nostalgiche (il tempo che fu), e tuttavia non amabili, condiscendenti. Alle zie e alle compagne verginelle si accenna di sfuggita, si predilige il racconto violento.
Dei bambini si sa che possono essere crudeli. Ma il narratore locale in tarda età non sa raccontare – apprezzare – altro che le bravate incoscienti, perfino assassine.

Nella vita quotidiana, invece, le narrazioni-conversazioni sono diversificative: si parte da una disgrazia, anche minima, “eh, piove”, e la si moltiplica. Ributtando sull’ascoltatore-interlocutore una sorta di barricata di disgrazie, grandi e minime, vere e presunte. È una forma apotropaica di difesa, uno scongiuro. Non contro l’interlocutore, che per solito è innocente, contro il mondo. È segno di depressione, ma non per gli psichiatri: una sorta di depressione locale, sociale.

Sudismi\sadismi. Giuseppe Arnone, candidato sindaco più volte sfortunato ad Agrigento, nemico politico del ministro Alfano, ne dice sul suo sito Sicilia24h.it il suo commissario all’Organismo indipendente di valutazione della perfomance (sic!, non si può dire che i ministeri italiani non siano up-to-date) al ministero della Giustizia, Calogero “Lello” Ceresa, un suonatore di zufolo, poiché si diletta dello strumento. Calogero Ceresa è anche un giurista.
Nella polemica politica ci sta che un nemico sia detto “friscalettu” – e si capisce anche che Arnone non sia mai eletto sindaco. . Ma al “Corriere della sera” non pare vero di buttarsi sulla cosa per farne l’ennesima storiaccia di questo Sud incorreggibile, che vuol far giudicare l’efficienza dei giudici da un suonatore di Zufolo.

La creazione del Sud
Lorenzo Calogero, di cui si torna a parlare nel centenario della nascita, è poeta di Melicucco (Reggio C.), medico, morto suicida a 51 anni, dopo varie vicissitudini psichiatriche. Le sue “Opere poetiche” furono pubblicate con largo successo di stima nel 1962, un anno dopo la morte, da Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi. La sua “è la storia”, scrisse Tedeschi, “dei nuclei familiari delle nostre regioni emridion ali, con tutto il portato delle ambizioni, delle repressioni, dei sacrifici, delle velleità, delle fuughe, dei fallimenti, delle acquiescenze, delle rare riuscite”.Ma nei nuclei familiari meridionali c’è anche capacità di amare, e di compatire, sicurezza, certezza, anche troppa. Come in ogni nuleo familiare.

La mancanza di lavoro. È un falso dell’epoca cominformista che fa ancora testo in epoca globale e privatizzata, perpetuato dalla koiné meridionale. S’intende la mancanza di lavoro per colpa o volontà dello Stato e dell’economia capitalista. Che invece hanno tutto l’interesse a “crearlo”. Nessuno spiega che il lavoro non “c’è” ma si crea. E che non si crea al Sud perché la mafia non lo consente, la prevaricazione privatissima, l’abuso personale.
Si vitupera la mafia come si vitupera la mancanza di lavoro. Di entrambe facendo colpa allo Stato. Che non è sbagliato. Anche se si dovrebbe dire che è la mafia a impedire la creazione del lavoro, e che lo Stato è colpevole in seconda battuta, in quanto non scompagina e dissolve la mafia. Ma il problema è di tutti, ed è che non si combatte né si disintegra la mafia. La si denuncia e basta: i cominformisti per la loro logica “contro il sistema”, i belli-e-buoni della Repubblica per ripulirsi le ghette, e farci un qualche guadagno (associazione, onlus, cooperativa, funzioni, carriere).

Il controllo del territorio
Sarà l’estate dei controlli a tappeto sulle spiagge, promette la Guardia di finanza, e guai a chi si trova in mano un ghiacciolo senza lo scontrino fiscale. Sarà in questa lotta a oltranza all’evasione fiscale che i militi arrivano sgommando su due macchine, al comando di un tenente. Tre guardie in divisa si appostano col mitra puntato ai tre posti strategici, lato strada e alle due ali del bagno, il tenente, anche lui in divisa, entra nel bagno, chiede a voce alta e severa del titolare, non mette mano alla pistola ma ce la tiene sopra. Il bagno è un bagno di mare. È il 14 agosto e il bagno è quindi pieno. Sono le tredici, e i bagnanti quindi affollano l’edificio: la terrazza, il bar, la tavola calda. Sono famiglie calabresi, quindi piene di bambini. Compresi l’ufficiale dei CC che regge la locale tenenza, e la sua consorte, che dirige il locale commissariato di Ps, che passano il Ferragosto in spiaggia con i figli.
Il turista, forestiero, cittadino, fatica a riprendersi. Non è sorpreso invece il titolare, che un po’ dice, un po’ fa capire, che non c’è nulla di straordinario. Non sembrano del resto sorprese, all’apparenza e nel complesso, neppure le famiglie: più che intimorite sembrano godersi uno spettacolo. Guardano di sguincio come di una qualsiasi curiosità, ma si propongono di non fare commenti, e in uno-due minuti sono giù tutti al mare o sotto l’ombrellone, l’edificio è vuoto.
Non succede infatti nulla, il bagno resta aperto, e dopo una mezz’ora la Guardia di finanza se ne va. Non sgommando. È un controllo di routine? Magari dello scontrino fiscale? È un segno ai cittadini che le forze dell’ordine vigilano? Soprattutto i giorni di festa. Rassicurante? È una giustificazione dello straordinario festivo?
La spiaggia essendo le Pietre Nere di Palmi, e Palmi essendo al centro della “plaga mafiosa”, come la definì un suo famoso Procuratore Capo, viene da pensare che la Guardia cercasse al bagno la prova di un crimine, o un’arma, o un latitante nascosto. Su denuncia di un confidente. Che così si acquistava libertà di manovra, a quell’ora a quel giorno, per i suoi traffici sporchi. Ma non a insaputa allora del tenente, o di chi ce l’aveva mandato. Che non ha controllato nessuno dei bagnanti, né si è fatto aprire le cabine, i gabinetti, le docce. O, più probabile, che la denuncia sia venuta dal bagno accanto, che ha posizione più favorevole tra gli scogli ma gli ombrelloni vuoti, essendo mal gestito o mal frequentato. Un sospetto che più s’accorda con la confidenza, o la denuncia. Ma denuncia di che?
Fantasie da giallo, naturalmente. Ma non meno sciocche dell’irruzione: possibile che la Guardia di finanza, nella “plaga mafiosa”, non sappia fare altro che occupare manu militari un bagno di mare, la vigilia di Ferragosto, alle ore tredici, in tenuta da guerra? Quanto sarà costato far lavare le uniformi sudate?

leuzzi@antiit.eu

giovedì 19 agosto 2010

Alvaro minimalista

Incredibile l’abilità a tenere su il racconto con nulla. Col virtuosismo della parola, fattrice e figlia d’immaginazione. Con una tecnica di montaggio minimalista, alla Carver.
Ma gli short-cuts sono anonimi, e “L’amata” è spenta. Il fascino del minimalismo, se ne conserverà, è la datazione, l’ossessività storica, etnica, linguistica. Nell’“Amata” invece Alvaro, che altrove se ne è liberato con mestiere, sfiora il bozzettismo italiano, senza tempo – dopo quello di Virgilio.
Corrado Alvaro, L’amata alla finestra

L'amore impossibile per la Francia

Un romanzo d’amore come non si scrivono più: un inno alle donne, alla donna – “il paradiso non sarebbe che una natura morta senza le sue urì”. In un’Algeria dove si è cattolici, ebrei e mussulmani senza insulti, o francesi, spagnoli e arabi, e si può fare l’elogio del colonialismo come fattore di modernizzazione, quindi di unione e di progresso. Una metafora del matrimonio tra europei e algerini che si sarebbe potuto fare, che il Sud Africa di Mandela sta tentando, e che invece finisce in tragedia – da cui l’Algeria non è si ripresa, dopo cinquant’anni.
Una storia d’amore rifiutato, benché il fascino sia durato una vita. Per un destino, una condanna senza colpa. Il rifiuto si estende anche all’amata e protettiva madre adottiva: “La donna che era stata tutto per me – mia madre, la mia buona fata, mia sorella, la mia complice, la mia confidente e amica – non vedeva più in me che un estraneo”. L’amore impossibile come metafora del legame impossibile tra l’Algeria e la Francia.
Scrittore di un’Algeri gialla che da solo ha rinnovato i fasti della città, e dei migliori racconti di questo Medio Oriente indiavolato, la Palestina, Baghdad, Kabul, lo scrittore algerino di lingua francese ripercorre la sua autobiografia intellettuale, il destino impossibile dell’Algeria francese. Sotto forma di una storia d’amore anch’essa impossibile, per un impedimento che è forse un pretesto, un incidente del caso, un mektub (gli amanti si pacificheranno in morte, ultrasettantenni). Un "Via col vento" ideologizzato: l'autore non ha vissuto il colonialismo, si vede da come ne parla, e vi radica una possibile convivenza all'insegna del reciproco miglioramento, e perfino nella gioia di vivere - un manifesto da indulgere sullo sfondo del fondamentalismo islamico che ributta ogni arabo nella violenza e l'oscurantismo.
Un Grande Romanzo non registrato, non messo a punto, come le altre narrazione di Khadra: sentimentalismi e argomentazioni sproporzionate, con strane rimozioni (del padre naturale, della madre). È il giallo il genere dominante perché ha maturato una scrittura equilibrata e efficiente? O le redazioni editoriali lo curano meglio, perché è genere vincente, lasciando i “grandi romanzi” intoccati, e forse non letti?
Yasmina Khadra, Quello che il giorno deve alla notte, Mondadori, pp. 382, € 18

mercoledì 18 agosto 2010

Muoiono con Cossiga i segreti delle bombe

Con Cossiga è morta un’altra parte dei segreti della stagione delle bombe, della destabilizzazione dell’Italia. È l’aspetto più trascurato nei ricordi e le celebrazioni dell’ex presidente della Repubblica, e tuttavia è uno dei (pochi) fatti della sua vita: sempre Cossiga ha voluto “fare” la democrazia, la libertà, a suo modo. Della stagione delle bombe, un migliaio gli attentati e alcune centinaia i morti, il segreto, e la responsabilità, stanno in parti eguali con Rumor e il suo ministro dell’Interno Restivo (o forse col suo segretario Giuseppe Insalaco, “Peppuccio”, poi sindaco meteora di Palermo, per tre mesi, infine assassinato da ignoti), con Cossiga appunto, e con Andreotti, i due uomini politici più vicini ai servizi segreti politici - l'ex presidente anche come capo di strutture segrete.
Si può dire il primo terrorismo di Stato, secondo il noto titolo. Le bombe non sono scoppiate per caso. Richiedevano un’organizzazione, e hanno avuto una copertura, decisiva. Dai processi impossibili per piazza Fontana a quello di piazza della Loggia, che si trascina stancamente dopo trentasei anni, la strage che chiuse il ciclo. A meno di non includervi la strage di Bologna nel 1980, per la quale sono stati condannati due che non c’entrano. E il processo Sofri, forse, incluso. Le bombe sono state un fatto e non il solito ipotetico complotto. Lo Stato ci ha bombardato. Feltrinelli sarà pure morto per imperizia e non per uno scherzo, ma allora tanto più è da credere alle altre bombe, che sono state migliaia: chi da esperto le confezionava, chi le distribuiva, chi le collocava, chi le innescava. E chi decideva di farle confezionare, di che potenza, e quando e dove farle esplodere. Nonché chi e come riusciva a deviare le indagini, sempre, su piste che non portavano in nessun posto – le forme del contenuto, direbbe Umberto Eco.
Càpita di leggere in queste ore la raccolta che Zola fece dei suoi scritti sullo scandalo Dreyfus, “La verità in marcia”, tra essi il celebre “J’accuse..!”, per i quali fu condannato a un anno, e dovette scappare a Londra per evitare il carcere. Lo scandalo si cita per l’antisemitismo, passione certo ignota in Italia ottant’anni dopo. Ma lo scandalo che lo scrittore metteva sotto accusa e provava era l’impegno dello Stato francese nelle coperture, questo è il nucleo dell’affaire, magistratura compresa. Dello Stato Maggiore della difesa, con costanza per cinque anni malgrado gli avvicendamenti, di due presidenti della repubblica, di tre governi e tre ministri della Guerra. Mentre i giudici militari e civili sempre emettevano i verdetti richiesti dallo Stato. Sempre, a tutti gli stadi della vicenda, si mobilitavano giornali e folle contro lo scrittore, si producevano impunemente carte false, si montavano testimoni. E se andava male – il caso di un comandante Esterhazy veramente in contatto con la nemica Germania – i giudici in ogni caso condannavano Dreyfus e Zola. Da Valpreda e il tassista Rolandi in poi le coincidenze sono troppe per ripercorrerle qui. Dreyfus e Zola se la cavarono perché uno degli autori materiali delle false carte, il colonnello Henry, a un certo punto confessò – e si uccise. L’unica differenza con l’Italia delle bombe è che non abbiamo un pentito, sia pure non suicida.

La sicilianità stanca

È un libro di colore, senza freni. Bozzettismo puro. Nell’aneddotica e, di più, nel linguaggio. Salvatore S. Nigro lo vanta come il Grande Romanzo, accanto alla “Cronica” romana, al “Cunto di li Cunti”… Il dialetto è superusato, senza essere realista alla Berni né denotativo alla Gadda – è l’italiano dialettizzato dei galantuomini, con parole di puro vernacolo rispiegate, un dialetto piccolo borghese: tutti dicono banalità, proprio da un punto di vista dialettale, e le dicono con voluttà, acuendo l’effetto di vuoto. La sicilianità (similitudine?) è del resto tutta bozzettismo, e la letteratura isolana è volentieri sicula – Verga, Brancati e Sciascia stessi sono spesso bozzettisti - e “Il Gattopardo”?
Un pastiche alla fine, un po’ tirato. Molti richiami letterari, a D’Annunzio, a Manzoni, e a san Juan de la Cruz (che un tempo di traduceva molto) erotizzato. In una lingua secentesca inventata, non “vissuta” come quella di Gadda, che era uno col suo linguaggio, né burlesca, per antifrasi, ma è “creata”. Con vari registri, plebea all’inizio, poi pretenziosa, come il personaggio che si crede. Con spasso dell’autore, evidentemente, ma artificiosa - Camilleri dice che se l’è inventata, una lingua siciliana del Seicento, ma non si può.
Andrea Camilleri, Il re di Girgenti

martedì 17 agosto 2010

Napolitano e il golpe continuo

Finirà Napolitano come Cossiga, assediato dai suoi? Per fortuna no: non ha misteri, non del tipo di quelli che l’ex presidente si sta portando nella tomba. E, soprattutto, i suoi più non esistono – chi è Di Pietro? L’escamotage di dare addosso violento a un piccolo deputato berlusconiano, che tra l’altro mostra grande fiuto politico, non ha illuso nessuno nemmeno un minuto, neanche tra gli antiberlusconiani più professionali: il presidente della Repubblica sa il senso e lo scopo dell’assedio, dei giornali e dei loro padroni, di questa quindicina del governo “tecnico”, che dovrebbe assegnare a Montezemolo, oppure a Draghi, oppure a un altro fannullone – dopo la quindicina di passione per il Grande Centro. Né ha scheletri nell’armadio. Napolitano dunque non sarà un altro Cossiga.
Si può anche pensare l’aria del Quirinale infetta. Ci sono luoghi infetti, è notorio. Il Quirinale poi dev’essere pieno di lettori di giornali. Non di quinte colonne, non necessariamente, ma sì di gente la cui massima ambizione, come in un famoso racconto di Gogol’, è di raccontarsi sul giornale, sia pure turpemente. Ma Napolitano viene da lontano, e ha maturato gli anticorpi necessari.
Resta il dubbio se anche questo Parlamento, come ormai sembra certo, sarà messo nell’impossibilità di fare le leggi correttive del golpismo continuo che tiene sotto la sua ferula l’Italia ormai da un ventennio. Con Cossiga, si ricorderà, i golpisti misero in atto una strategia alternativa, aspettare il successore Scalfaro. Ma allora si trattava di avviare il golpe. Oggi solo di non allentarne la morsa. Avrà la forza Napolitano di scardinarlo? Questo è dubbio.

Letture - 37

letterautore

Borghese – La letteratura non è borghese, la poesia, la lettura sì. Borghese è ciò che produce. Anche lo svago in certe forme. E anche la letteratura, senza residui – indizi, tracce, ombre, anche solo linguistiche.
Thomas Mann è quello che vuole dare corpo letterario – poesia – alla borghesia. Con la prudenza, l’accortezza. Anche Proust. Al rovescio di Balzac, che invece la borghesia notariava (inventariava), per come è.

Dante - Molte figure rimandano al “Libro delle figure” di Gioacchino da Fiore.

Decostruzione – È al potere ormai da due generazioni. Ha prodotto solo macerie. Quanto può durare?
È europea. Gli altri, Fukuyama, Sen, le University Press americane, se ne giovano – alla toscana: le incoraggiano ma se ne guardano. È un jeu de dupes, a chi fa fesso chi?
È la globalizzazione europea, francese. Un calarsi le brache, per esibizionismo. Un vizio intellettuale. Si capisce che il mondo, la poesia compresa, sia amerikano.

Editoria – Boicotta la letteratura che dice di servire (in base al principio che la moneta cattiva scaccia la buona). E se ne serve.
Quando è al meglio, segue il mercato – il direttore di collana non legge i libri che pubblica, e propaganda. Né c’è un editore che abbia “fatto” un autore o un’opera.
Anche la morale pratica è per l’editore di mercato, contano i soldi. Garzanti è diventato primario editore comprando nel 1938 Hoepli a prezzi di saldo, grazie alle leggi razziali. Bompiani è cresciuto pubblicando “Mein Kampf” in italiano, un successone.

Ermeneutica – Il ritorno della filologia, sottoprodotto nobilitato dal crollo del Diamat, l’ineffabile purismo sovietico. Si torna a prima della “Nascita della tragedia greca”, 1872.

Kafka – Ernst Bloch (“Thomas Münzer teologo della rivoluzione”, p. 163) lo dice calvinista. Avveniva nel 1921, data di uscita del “Münzer”, prima quindi dell’avocazione di Kafka all’ebraismo, ma non è male: “I romanzi di Kafka avvengono al margine di una trascendenza di cui non si può saper niente se non che viene tenuto un libro e sarà emesso un giudizio; a loro appartiene, lungo un sentiero costantemente presente e costantemente impraticabile che conduce a Dio, tutta la paura delle predestinazione calvinista”. Lo stesso, continua Bloch (p.165), che la “dipendenza” di Kierkegaard quando dice: “L’edificante del pensiero è che di fronte a Dio abbiamo sempre torto”.

D.H.Lawrence – Non è vero che le gentildonne lo fanno meglio col guardiacaccia - se lo fanno, è per distruggersi (colpevolizzarsi). Il sesso lo fanno dall’alto in basso solo gli uomini: per questo la prostituzione, anche maschile, si vuole femminile.

Manzoni - Al romanzo mancano le donne.
Anche gli uomini, per la verità: o caricature, o chiachiella. O pervertiti, fra’ Cristoforo compreso.

Neorealismo - È la piccola borghesia all’assalto: i mezzi sentimenti, le false innocenze, l’ipocrisia costante che dominano la scuola, le arti, le lettere, l’opinione pubblica, e dopo Mani Pulite anche la scaltra politica. Cui si abbarbica la borghesia che si nega, fingendosi povera, di denari oltre che di spirito, ignorante, lacrimosa, tignosa sotto il verbo solidaristico, avida di soldi pubblici, anche pochi, e sempre ben vestita, ben bevuta, ben mangiata. Altrove – in Europa anche a sinistra, e nella sinistra la stessa Cuba – si fanno film, canzoni, balli, sceneggiati, romanzi, su tutti i sentimenti e su tutte le couches sociali, con i personaggi più diversi, i visi, le espressioni, l’abbigliamento, le maniere, l’eloquio, le attese. Qui è da sessant’anni la stessa trama, di smorfiose smunte che si mangiano le parole mentre s’immaginano di suscitare colossali erezioni – lo spettatore dovrebbe immaginare molto – e di uomini brutti che guardano di tre quarti, un po’ affannati anche se non hanno corso, per darsi consistenza retro. Lo stesso nelle cronache: va in scena solo il risentimento, o invidia sociale, camuffato da buon sentimento, il riscatto dell’umanità, della fame nel mondo, dei bambini abbandonati, dei cani.
Da qui anche l’opprimente antiamericanismo, l’opprimente antimagia, l’opprimente anticristianesimo. Perfino l’antiberlusconismo è opprimente, a parte le furbate della politica. La piccola borghesia prospera delle cause perse. In cui cioè essa vince, con l’America, la mafia, i preti, e perfino con Berlusconi, ma può lamentarsene. Poi si dice perché non c’è il socialismo. Perché non c’è, non c’è più, e non dalla caduta del Muro e da Mani Pulite, un partito del lavoro o dei poveri – in questo Berlusconi è un reagente rivelatore: il fronte dei suoi nemici è pieno di vermi, basta passare alla libreria Feltrinelli durante una qualsiasi campagna elettorale, dove costituisce settore a parte, forte di una cinquantina di titoli, se non di un centinaio.

Prefazione – A se stessi è un gesto di disprezzo: se, dopo aver scritto trecento pagine, se ne aggiungono dieci per spiegare cosa si è voluto dire. Per aggiornare il lavoro, certo, ma a questo basterebbe una nota editoriale.

Quella a se stessi nasce da una singolare indigenza della filosofia, che la verità stia in qualche parte. Dietro la parvenza di ricostruite il proprio percorso “spirituale”, o di spiegarlo, di storicizzare, la prefazione a se stessi è in realtà attorno a ciò che è “ancora” vero (vivo, buono) di quanto s’è ponzato e scritto. In rispetto a una Verità Ultima che è invece quella del momento, come guardarsi allo specchio.
Gli editori la vogliono perché “attualizza” il testo, lo fa buono da vendere a ogni stagione. Ma che l’autore vi faccia l’esame di coscienza, questo è ridicolo. È incolto, o infantile: il volersi perfetti.

Parole – Non tradiscono mai, sempre dicono.

Romanzo - È forma democratica: si fa con la vicenda, ogni personaggio è quello che vuole essere, libero di scartare a ogni riga, a ogni parola.
Se è forma borghese, è la borghesia forma democratica?

Scrittore – Lo scrittore scrive, senza residui. Altri devono allargarsi prima di operare, curare, ostruire, insegnare, dopo avere elaborato una serie di conoscenze tecniche specifiche, non necessariamente legate all’attività che vanno a esercitare. Altri fanno molte cose: l’ingegnere progetta, costruisce, controlla, gestisce, il giurisperito accusa, difende, giudica, indaga. Lo scrittore scrive, senz’altro – farà pure i gesti cui Barthes lo confina, ma a scopo apotropaico. L’artigiano si esprime – si qualifica – ricorrendo a diversi qualificativi: il falegname taglia, intaglia, lucida, squadra, eccetera, il meccanico ripara, sostituisce, controlla, prova. La scrittura trova la sua chiave in sé.

Shakespeare – A leggerlo, a volte è astruso, e anche irritante – per le agudezas, i marinismi, l’eccesso (barocchismi). Ma a teatro, coi tempi della dizione e dei movimenti di scena, funziona sempre.

Tolstòj - Appassionato pedagogo, non era buon padre. Come Rousseau, altro pedagogo appassionato. La pedagogia supplisce dunque la paternità?
Il conte, che ne fece tanti, i figli lamentava che lo rendessero “più vulnerabile”. Non lo rafforzavano, lo indebolivano: perché non poteva essere più figlio, monopolizzare l’attenzione, all’amplesso dare il senso dell’incesto?

letterautore@antiit.eu

lunedì 16 agosto 2010

L’Eroe anticomunista di Campanile

Dunque, Campanile, che tre anni prima aveva avuto il premio Viareggio, praticamente da Botteghe Oscure, pubblica nel 1976 una novelletta anticomunista. Dunque si poteva? O non deve Campanile a questo suo penchant politico la marginalizzazione, malgrado il Viareggio? Per ripresentarla nella Bur, nei tardi anni Novanta, Cordelli deve dire antifascista la narrazione. Ma l’utensileria messa in ridicolo è comunista: doppiezza, militarizzazione, artificiosità. È anche detto: si parla di rivoluzionari, compagni, Occhio di Mosca, e materialismo. Ci sono le impiccagioni in Cecoslovacchia. E i servizi segreti dei servizi segreti. Grande sarà stato il divertimento di Campanile a essere premiato come antifascista.
Il segreto è forse, al Viareggio e dopo, arruolare i nemici, senza fare autocritica. Ma Campanile è pervicace. Irride De Gaulle – salva Pétain – e Churchill. Anche se porta a livelli inafferrabili il gioco dell’essere-non-essere, sotto la specie dell’agente segreto – è il 1976: un vero romanzo d’epoca anche – un’epoca lunga: il romanzo era stato abbozzato vent’anni prima.
Achille Campanile, L’eroe

Secondi pensieri (49)

zeulig

Casa – Nietzsche la voleva “sotto il vulcano”, perché la odiava.
È il nostro vestito, dice Jünger, ci prende la forma. No, è il vestito della moglie, o della mamma. È semmai il primo possesso, la prima individualità. O la famiglia patriarcale – la famiglia carnale. Di cui è lecito avere nostalgia, essendo la procreazione spenta.

Corruzione – La corruzione corrompe: si combatte con la corruzione.
La corruzione dei giudici è la corruzione dell’idea, il male che si installa sul bene.

Dio – In quanto Cristo, il nostro Dio, è concepito. È l parola giusta per la sua stessa creazione: Dio è concepito.
L’uomo se ne è allontanato per essersi smarrito negli spazi che egli stesso ha aperto, dei quali però non ha la bussola – le “dimensioni” di Gödel ne sono una piccola parte. Un nuovo Dio dev’essere concepito, come del resto si fa incessantemente.
A meno che i nuovi spazi non siano in realtà illusori, l’effetto di una corsa che non ha meta e non si sa regolare. Come un picco che si può solo ascendere, fino alla caduta inevitabile. Fino alla vertigine e alla catastrofe. Ci sono presagi. L’eugenetica, delle nascite, delle morti. O sull’arco storico visibile la Bomba, l’avvelenamento dell’aria, il mutamento climatico, è già avvenuto, una stella abitata, da gente intelligente.

Non c’è più in vecchiaia e nella malattia, malgrado le giaculatorie. Non si concilia col deperimento fisico. Dio è progresso e razionalità, il Dio-giudeo cristiano che è la Legge e fa il Bene

Senza, è la noia totale. Senza la creazione è la ripetizione. E anche con quella…

Esoterismo - Nasconde invece di svelare, come promette. L’esoterismo nasconde sempre qualcosa. La disperde nella vaghezza, non potendola chiamare sacro.

Femminismo - È il rifiuto dell’amore? Le donne, ricolmate d’amore, lo rifiutano, in quanto possesso, dominazione, soggezione e altri termini vaghi e repulsivi. Venendo infine a capo di nulla. Se non talvolta possesso puro, ricercato. Una lettura è questa.

Fisica – L’invarianza si riproduce attraverso l’atipico: ogni fenomeno è riconducibile a un altro, ma è diverso da ogni altro. Anche nel rapporto causa-effetto, il più ripetitivo che si possa immaginare. La benzina bruciata, per esempio, nel motore a pistoni. Cosa caratterizza di più la natura, l’invarianza o la variazione? Si dice che l’invarianza si forma attraverso la variazione, ma non può essere. In realtà in natura nulla è simile a null’altro, e lo stesso soggetto-oggetto a se stesso un attimo prima o un attimo dopo. Da qui il carattere vero\falso delle leggi fisiche: può essere vero (ripetibile all’infinito) il rapporto, non sono ricorrenti gli eventi.

Infinito – Il concetto d’infinito ci viene naturale, al contrario del finito – del finito come concetto, quando non voglia indicare questo o quell’evento, oggetto o persona.

Ipocrisia – Una forma d’ipocrisia è connaturata (necessaria) all’esistenza. Fa parte del gioco selettivo della memoria, mediante il quale l’esistenza si declina.
È bizzarra: l’adeguamento alla verità non sarebbe peggio, né probabilmente meglio, non toglierebbe nulla. Oppure non lo è?

Una forma d’ipocrisia è connaturata (necessaria) all’esistenza. Fa parte del gioco selettivo della memoria, mediante il quale l’esistenza si declina.
È bizzarra: l’adeguamento alla verità non sarebbe peggio, né probabilmente meglio, non toglierebbe nulla. Oppure non lo è?

Lavoro - È più intenso e continuo nell’immobilità. Il tempo di lavoro più produttivo è la riflessione, e perfino la contemplazione.
Chi non lavora è triste perché non pensa, non ha materia.

Legge – Ci sono leggi anche per anarchici. Come ce le hanno le mafie, durissime.
È obbligo e divieto, finché ha forza, è cioè giuridica. Filosoficamente non è – e può non essere etica, e nemmeno politica: non c’è una legge dell’uomo, ogni uomo (l’uomo?) può avere leggi.

Il diritto vuole prove, la legge requisiti formali. La legge vuole pretesti. La legge – i carabinieri, i giudici – è politica.

Libertà – È (come) l’essere, è l’esistenza: bisogna essere liberi per poterlo diventare.
È qui il born free, tutti leoni.

Si assicura (crea, garantisce) liberandosi, basta cominciare. È una tela di Penelope. Ma alcuni sono più liberi.

Marginale – È la vita contemporanea,e l’unica possibile: girare torno torno al nucleo della vita quotidiana. Lavoro-città-carriera-tempo libero. Un nucleo inattaccabile senza resistenza possibile, perché è il riflesso d’interessi ormai stabilmente consolidati, e peraltro diffusi. Ma esso lascia vivere, la sua chiave di dominio è questa, non esigere un sacrificio totale. Si può oziare, ritrovare in montagna le sorgenti, curare i fiori, leggere, scrivere anche, cercare mari puliti e civiltà antiche. Di questi margini si può fare un’arte, se non una vita, una che incida nella storia.
La marginalità non protesta, l’impegno è inutile.

Nichilismo – Quello d’autore suona falso, tanta applicazione richiede l’authorship, senza pause, con ingegno, con impegno, per la creazione, la redazione precisa, leggibile, la pubblicazione, la diffusione, l’interpretazione, non è roba per uomini stanchi o depressi. Il problema è del pulpito e della predica. Un autore universitario, un moderno filosofo per esempio, ha impegni giornalieri di applicazione doppi.

E se fosse noia? Noia immensa, inconsistente.
Il nientismo annienta, il pensiero per primo.

Il nulla cozza con l’infinito, e per questo è incommestibile. Come il finito, è concetto arduo da digerire – tra i tanti filosofi del nulla, antichi e contemporanei, nessuno è in pace.
Difficile da digerire – il finito, il nulla – logicamente, non sentimentalmente. Sentimentalmente, cioè da delusi, da arrabbiati, siamo per il nulla, e per il finito.

Il nulla che viene dalla fine della storia (la fine del mondo, la resurrezione dei corpi, il giudizio universale) oppone un mito e una parabola a una realtà che è invece incancellabile.
Oppure s può dire così: la fine di questo mondo non è la fine del mondo.

Passepartout – Si moltiplicano con l’informazione, invece di ridursi per la crescita della capacità definitoria e dell’approfondimento analitico, i concetti, i ruoli, e i canoni critici onnicomprensivi e generici. Ruoli ammiccanti, titillanti anche, ma insulsi e alla fine insignificanti. Tutto è segreto certo, tutto è ambiguo, perché no, e ambivalente, tutto è contraddittorio – eccetto quello che non lo è, ma compresa questa maniera di leggere la realtà – e tutto è niente. Come uno che dicesse: “Sono confuso”, un filosofo stanco.

zeulig@antiit.eu

domenica 15 agosto 2010

Come si (Draghi) costruisce il mostro

“Dove sono finiti Verdini e Bertolaso” s’interrogava questo sito alcuni giorni fa. Ed ecco pronta la risposta: “La Banca d’Italia accusa Verdini” campeggia sui giornali. La vigilia di Ferragosto. Con le bankitaliste nei giornali pronte ai loro scranni – richiamate dalle ferie? preavvisate? Sulla base di un rapporto vecchio di un mese.
Naturalmente non è così. Naturalmente nessuno legge questo sito, o se ne preoccupa. Naturalmente l’urgenza è un’altra, e la vedremo - è per un altro motivo che la Banca d’Italia s’accorge ora di poter accusare Verdini, alla vigilia di Ferragosto. Per ora è utile analizzare come nasce una notizia, un processo che non si può dire altro che truffaldino, e che conferma come la vera questione morale si configuri nell’intreccio accusatori-giornali: la vera questione morale è la questione morale stessa.
Basta utilizzare la “decostruzione” del messaggio della Banca d’Italia che “Il Messaggero” fa involontariamente in un suo specchietto, uno dei giornali Grandi Accusatori.
La Banca d’Italia dice “potenziale” il conflitto d’interessi, che cioè Verdini si sia accreditati finanziamenti della sua banca. Potenziale, non in atto. Nemmeno probabile. Solo possibile. Come è possibile che tutti domani muoriamo. O che il governatore della Banca d’Italia Draghi diventi ministro del Tesoro, anzi presidente del consiglio – che non sarebbe male, un gesuita a palazzo Chigi. Ma nei giornali, in tutti i giornali a partire dall’Ansa, il “potenziale” cade: “Bankitalia accusa Verdini”, è il lapidario titolo.
E così via: Draghi accusa ritirando la mano, i giornali accusano e basta. Il livello di rischio, denuncia Draghi, è “crescente”. Perché, nelle altre banche non lo è? In materia di antiriciclaggio, le procedure corrette sono state avviate “agli inizi del 2010”. Senza dire che la normativa “corretta” risale al 31 dicembre 2009. E ci sono “estesi profili” di prestiti di favore, a parenti e amici, che non vuole dire nulla. Dopo tutte le “catastrofi” denunciate, il patrimonio della banca di Verdini è giudicato “sufficiente e garantire i requisiti prudenziali minimi”. È del resto una banca cooperativa, i cui soci non mostrano di preoccuparsi.
Questo per il giornalismo. Un killeraggio che trova giustificazione solo a riprova dell’assunto del blog “Il re dei media ha i media contro” del 13 agosto. La vera notizia è l’urgenza della denuncia ferragostana: è l’urgenza di Mario Draghi, che ha sentito odore di governo tecnico, senza che nessuno lo candidasse. Un anno fa, nell’estate delle escort, Draghi si era fatto candidare da un gruppo di parlamentari vicini a Casini, ma senza successo, non avevano raccolto venti firme. Ora il governatore, allievo dei gesuiti e quindi poco autocritico, ha sentito parlare di Tremonti e Montezemolo, e si è rimesso in pista, da solo.

La Calabria greca senza storia

Non si ristampa più (l’ultima edizione è del 1981), né si approfondisce, si precisa, si contestualizza, questa opera modesta e capitale del parroco di un paesino grecanico della Calabria meridionale ionica. Un repertorio tra l’altro di grande umanità, nel senso dell’umanesimo classico. Specie sull’onnipresenza femminile, di una Madonna che è Theotòkos e Odighitria, madre di Dio e guida, ma anche Glikofilusa, dolce bacio, Everghetissa, benefattrice, Galaktotrefusa, allattante, Platytera, più grande dei cieli, Omilusa, che ha compassione del popolo, eccetera. Nel quadro di una religiosità primaria costante nei secoli, di una fede che con la santità privilegia il suo carattere di soggettivismo, o anarchismo, esasperato.
Millecinquecento monasteri greci del regno di Napoli, di cui non meno di quattrocento solo in Calabria, e non una storia. Un tentativo di farne la storia, Tutta la bibliografia di Ferrante è straniera. L’unità d’Italia, che non ha apportato un sano laicismo, ha cancellato del Sud e la Calabria anche la religiosità.
Nicola Ferrante, I santi italo-greci