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sabato 8 maggio 2010

Tradimenti intellettuali a perdere

Il Professore è arrabbiato, il mondo lo indigna. Ma il tentativo di Franco Cordelli di “aprire il dibattito” sul suo pamphlet, benché avviato con argomenti di peso, e sostenuto dal “Corriere della sera”, è caduto nel nulla. Il pamphlet stesso è della realtà che denuncia: la polemica vuole essere breve, ma non epidermica.
Ferroni vaga incupito, nella prima parte, a Torino tra la Fiera del Libro e piazza San Carlo, dove Maria De Filippi registra “Amici”. Trova tutto nero, non solo troppe chiacchiere ma anche troppi libri. In treno trova le conversazioni da treno. Che ci sono sempre state, almeno da quando ci sono i treni. Gli danno fastidio gli applausi ai funerali (quando c’era l’Avvocato Agnelli i giornalisti lo applaudivano sempre a Torino, quando ogni anno celebrava i successi di allora, avesse visto allora, Ferroni). Non ama i romanzi lunghi. E non sopporta “l’insopportabile arcadia del noir”. Propone allora un’ecologia delle comunicazioni, del tipo limiti allo sviluppo. Con “un’ecologia del libro, e della letteratura”. E dei battimani?
È un male comune. Altri accademici e critici militanti, da Citati a Pedullà, Ficara, Cortellessa, si sono trovati disoccupati nel Millennio. Ma ne hanno ragionato. Qui invece è come se il riservato professore, in età adulta, scoprisse il mondo. Nella seconda metà del libro non si perita infatti di salvare un centinaio di scrittori che la letto con interesse, compilandone schede lusinghiere. In particolare di racconti, le narrazioni brevi preferendo ai romanzi. La gioia, si potrebbe dire, del critico militante, che lavora sui testi e gli autori, da cui si era finora tenuto lontano, cento autori salvati in queste ultime stagioni non sono pochi. Scopre anche Arbasino, e René Girard. E dunque cosa affligge l’autore?
Ci sono un paio di modi semplici per attaccare questo nulla. Il più semplice è l’autonomia del critico. Il mercato dei libri disturba perché usa la critica a scopo promozionale; anticipazioni, sigillo d’autore, presentazioni, risvolti e quarte di copertina, recensioni, premi letterari. E la critica per ipocrisia o corruzione si presta. Le altre cose si vendono vantando doti intrinseche (qualità, solidità, durata, brillantezza). O con ausili esterni (personaggi, situazioni, dialoghi, slogan) in grado di richiamare l’attenzione. I libri si vogliono vendere con la critica, e i critici si acconciano – magari gratis.
Ferroni non ci fa caso: per lui il mercato (la contemporaneità) è brutto, e basta. Né fa caso all’altro evidente strumento di omologazone nell’indistinto: la coltre di smog che ha planato sulle lettere italiane. Dopo la lunga e sterile stagione del neo realismo obbligato. A opera dello stessa intellettualità, che, seppure perdente, resta dominante.
L’intellettualità italiana, compresa quella letteraria, è sopravvissuta al crollo dell’impalcatura che essa sosteneva, tanto invadente quanto arrugginita e soffocante. Non si è pentita (non ha fatto autocritica), come pure era abituata a fare sotto l’impalcatura per questioni anche minime, e quindi galleggia nel vuoto. Facendone colpevole il resto del mondo, e per prima ovviamente l’Italia. Da una trentina d’anni ormai. Tutto soffocando: uno scrittore nuovo, uno vero, un poeta, una poetica, un’idea? Tutta la capacità combinatoria maturata quando il Novecento era ancora in vita, di “decostruzioni, decentramenti, ricostruzioni del senso” (Ferroni) si è perduta in questa pervicace rimozione, a parte l’indignazione. Ferroni stesso, che è il migliore di questi peggiori, evidentemente ne è parte.
C’è una trahison des clercs molto palpabile nei giornali e nell’editoria, che però devono “stare nel mercato”. Quella della scuola, che manda fuori ragazzi che non sanno fare le addizioni, e dell’università, che lamenta i mezzi limitati mentre fa sprechi pazzeschi, di soldi e d’intelligenza, è solo tradimento e basta. Ferroni stesso lo dice senza volerlo chiudendo le tre pagine che dedica al romanzo di Veltroni: “Ma Berlusconi avrà bisogno di scrivere (o farsi scrivere) un romanzo?” È quello che fa la differenza (che fa vincere Berlusconi): Berlusconi non ha bisogno di menate il torrone, non si camuffa.
Giulio Ferroni, Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, Laterza, pp. 110, €9

Che superbi letterati, i russi

Libro specialistico sulla prima poesia russa dell’Ottocento – il tema principale è “Gli arcaisti e Puškin”. Testimonianza di una superba civiltà letteraria, senza paragoni (una questione della lingua di questa intesità non c'è in nessuna epoca in Inghilterra o Francia o Germania, solo in Italia, ma meno insistita e condivisa, meno colta anche). All’epoca di riferimento e ancora un secolo dopo, con la geniale scuola critica.
Jurij N. Tynjanov, Formalismo e storia letteraria

Bertolaso mette la giudiziaria allo specchio

Un viso solare da una parte, visi torvi dall’altra, un po’ sporchetti. Non è piaciuta ai cronisti giudiziari, costretti alla messa in pagina delle “intercettazioni” dall’altra parte della storia, l’autodifesa di Bertolaso a palazzo Chigi. Nello speciale più seguito e più visto di Sky Tg, benché lungo un’ora e mezza. Perché il sottosegretario li ha presi al loro gioco: ha inscenato lui il processo nel quale i cronisti giudiziari lo costringono da tre o quattro mesi. Una mossa geniale. Partita palesemente da quella che è la “verità” della televisione: non conta quello che dico, conta come appaio. Che potrebbe aprire una nuova stagione della controinformazione, anche nei talk show, il computer consentendo di ripristinare dal vivo, con l’immagine, le superchierie della giudiziaria.
La cronaca giudiziaria, che domina il giornalismo italiano dal 1992, era la parte nascosta del giornale: un giornalismo viscido, dove circolano molti dossier, e informazioni pilotate di parte. E tale è rimasta, anche se fa le prime pagine e i quattro quinti del giornalismo. Al vecchio praticone delle questure e dei tribunali è succeduta la signorina laureata in legge, ma l’animo è sempre lo stesso: accusare. Senza scrupolo di verità, senza sensibilità, e senza nemmeno coerenza (si può dire oggi il contrario di ieri). Se non c’è scandalo non c’è giornalismo, per questi cronisti. Il tutto sempre nell’ombra, senza mai dichiarare la fonte, o l’interesse che si sta servendo, economico o politico che sia.
Il lato oscuro della cronaca giudiziaria è anzi, se possibile, peggiorato. Per due aspetti non secondari. Il primo, e più importante, è che il cronista giudiziario fa ora parte di un’associazione a delinquere - ora cioè col moltiplicarsi dell’indiscrezione. La guerra tra Sarzanini e D’Avanzo a chi arriva prima sullo scandalo potrebbe essere epica, se non fosse squallida. Il giudiziario non può avere le necessarie indiscrezioni (anticipazioni, intercettazioni, voci) se non in un sistema di scambio con procuratori, avvocati, mediatori, e funzionari pubblici infedeli, nella magistratura e nella polizia giudiziaria, che trafficano le informazioni riservate. Alcune volte per soldi. Altre volte per favorire un concorrente contro l’altro. Più spesso per il mercato delle influenze: il sostegno per la carriera amministrativa, politica, di pentito, di mercato.

Il non governo è di sinistra?

Nuovi beniamini della sinistra postcomunista, dopo Moretti, Di Pietro e Grillo, sono quelli dello sfascio, Casini e Fini. I due eterni giovani, che non sanno quello che vogliono, ma lo vogliono subito. Mentre subito il lavoro di gran lena riprende, dopo lo choc delle elezioni regionali, per azzoppare il governo, impedirgli di governare. Con l’“assoluzione” di Marrazzo, povera stella – e la giunta che si vorrebbe subito sciolta della Polverini. La condanna di Storace, per sentito dire. La condanna di Verdini, anche se ancora deve essere sentito dai giudici. L’anticipazione che e tre o quattro ministri, fra i tanti ascoltati (intercettati), promettono di nutrire grassi dossier. E ancora manca la Sicilia, che sempre è piena di sorprese. Sotto gli scandali, lo scandalo è il moralismo
Questo Berlusconi non finisce mai di riempire la cronaca nera. Ma nessuno più ci crede: siamo al punto che se un Berlusconi vero, non il sosia che dice le barzellette, scendesse a Largo Chigi, accompagnato dai suoi guardioni, e pugnalasse il primo che passa, la gente direbbe che se lo sono inventato i giornali. Perché il punto è, la gente non lo sa ma lo “sa”, lo fiuta, che Berlusconi sarà pure un lestofante, ma l’interesse di chi ce lo ha buttato e ce lo butta addosso è di impedirgli di governare, se gliene venisse l’uzzolo, dato che nei prossimi tre anni non avrà nient’altro da fare.
Che i giudici siano antiberlusconiani, o solo nemici di qualsiasi politico che tenti di farli lavorare, questo è irrilevante: nessun giudice fa opinione in Italia. Mentre la gente sa che “i giornali”, cioè i padroni dei giornali, e alcuni giornalisti pieni di se stessi, vedono come il fumo negli occhi che un governo, qualsiasi governo, governi. Perché questa sinistra tiene loro bordone?

giovedì 6 maggio 2010

Il “genere” della nuova umanità

Un pamphlet sconveniente, che la storica cattolica, già edita dal Mulino e da Laterza, deve pubblicare in casa, con l’editrice della omonima associazione di spiritualità di diritto pontificio. È uno svelto uppercut al “genere”, la nuova ideologia (ma non è una filosofia?) dell’essere umano indistinto sessualmente, clone della nuova umanità. Umberto Veronesi ne ha annunciato un paio d’anni fa l’avvento: “L’umanità sarà bisessuale”, perpetuamente transgender cioè, separando la sessualità dalla procreazione, che si farà in provetta. Un esito dell’eugenetica che neanche il dottor Mengele avrebbe saputo concepire, auspicato con la sovrana indifferenza del monumento sopravvissuto a se stesso: l’“uomo nuovo”, senza Dio e senza natura.
Il genere non è nuovo: si ipotizzava già a fine Settecento, nella civiltà degli automi, con le “Misantrofile” e altri manichini. Un secolo dopo era materia di sperimentazione scientifica, con i soldi dei Krupp e di Theodor Roosevelt, in Germania e negli Usa, nell’ambito dell’eugenetica. Un secolo dopo è vangelo all’Onu, e all’Unione europea, facendo leva non più sulla licenza ma sull’igiene e l’uguaglianza. La progressione è impressionante. Fra il 2000 e il 2006 l’Ue ha speso tre miliardi e mezzo di euro, attraverso il Fondo sociale, per finanziare il genere – un quarto dei quali nella sola Italia. La cifra non è plausibile, anche perché gli anni sono quelli della Ue dei cattolici Prodi e Barroso. E tuttavia un decimo dei tre miliardi e mezzo sarebbe già tanto, considerata la tirchieria del Fondo Sociale Europeo in altri campi. Ma forse non tutto è perduto, l’umanità deve pur sopravvivere anche al genere della “nuova umanità”, che è suicidario.
Giulia Galeotti, Gender-Genere, Viverein, pp.101, € 5

Il complotto è infettivo

Il Priorato di Sion esiste. È un’associazione di inquilini di case popolari costituita nel 1956 nell’Alta Savoia francese, presso la sottoprefettura di Saint-Julien-en-Genevois. Un letterato senza fortuna, Pierre Plantard, fece del nome un ordine cavalleresco segreto, nominandosene Gran Priore, l’ultimo di una serie di uomini eccellenti. Un ordine creato nel 1099 da Goffredo di Buglione, a protezione dei re francesi. Che disse progenie delle nozze segrete di Gesù con Maria Maddalena, di cui da una diecina d’anni s’era avuta “notizia” nel vangelo apocrifo di Filippo, emerso a Nag Hammadi in Egitto. Dopo un'altra diecina d’anni, con l’aiuto di altri due letterati fantasisti, Philipp de Chérisey e Gérard de Sède, il neo Gran Priore compilò dei “Dossier segreti” sul Priorato e li depositò alla Bibliothèque Nationale.
Dan Brown non è il primo che ha fatto tesoro del Priorato. Tutto il “Codice Da Vinci” è contenuto in “Il Santo Graal. Una catena di misteri lunga duemila anni”, un best-seller costruito da tre giornalisti inglesi nel 1982, Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln. E non è il solo, altri se ne sono avvalsi. Compresi i tanti “studiosi” che si sono offerti di analizzare gli errori e i falsi del “Codice da Vinci”, per beneficiare del business (dopo il “Codice da Vinci” Mondadori ha rilanciato anche “Il Santo Graal” dell’‘82): Dan Brown ha solo sostituito il complotto cattolico a quello giudeo-massonico.
Si legge il libro con divertimento, è un saggio-antologia. Una sintesi degli studi in più volumi dello stesso autore sulla cospirologia: Taguieff è uno storico filo-israeliano, quindi per metà libro rifà la vicenda dei “Protocolli di Sion”, con lunghe cronache di cosa pensa Ahmadinejad e cosa dice Chavez. Ma ha un ampio spettro di interessi e una incredibile documentazione da far godere. Sono tre secoli che i complotti contrapposti animano la storia europea. Anzi quattro, se il prototipo si considera i “Monita privata” dei gesuiti, o “Monita secreta”, compilato nel 1612 da un gesuita polacco, Hieronim Jawroswski, spretato l’anno prima. Una storia di cui il succo è il tormento di un antigesuita degli anni 1930, André Lorulot: “Il loro solo scopo (dei gesuiti) è il dominio universale… Si fiutano dappertutto, non si trovano in nessun posto. Come colpirli? Sono inafferrabili? Come difendersi?” Impossibile.
Si legge perciò questo “Imaginaire” anche con inquietudine: con la stessa credulità incredula con cui si leggono i complotti – a parte la noia del “Codice da Vinci”. Lo spirito del complotto è tale che si finisce inevitabilmente vittime della furbata di Dan Brown, la mezza pagina iniziale in cui promette l’accertamento della verità. Nel mentre che dice due enormi castronerie. Ma il lettore non lo sa e s’inoltra nella sconclusionata lettura. È l’ultima trovata di marketing del genere, dice Taguieff: presentarsi come solida verità contro la deriva cospirazione, come decodifica e demistificazione. Il complotto del complotto. O viceversa, perché no? Il complotto del non complotto, oppure il complotto del complotto reale - la paranoia, come si suol dire, non esclude che un complotto ci sia.
Si può ipotizzare che il libro più venduto – il “Codice da Vinci” ha venduto quaranta milioni di copie - possa essere il meno letto, tanto va sotto le attese? Ma allora è tanto più inquietante: il complotto è una forma di droga, inutile farci la tara. Il complotto è ordinario, la Rai ne è piena, e la politica italiana. Se è vero che Cavour, Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, i padri della patria, erano tutti spiritisti... Sono alla pagina 534 del volume 25 della “Storia d'Italia Einaudi”, dedicato all’esoterismo - o anche la “Storia d'Italia Einaudi”...
Pierre-André Taguieff, L’imaginaire du complot mondial, Mille-et-une-nuits, pp.215, € 3

La barbarie è per De Sanctis in Calabria

Francesco De Santis passò quindici mesi in volontario esilio a Cosenza, ospite del barone Guzolini (o non Cozzolino?), dopo il fallimento dei moti del ’48 e il licenziamento alla Nunziatella, dove insegnava stipendiato. Dall’ottobre 1849 al Natale 1850. Alla vigilia di Natale fu arrestato, tradotto a Napoli, e recluso per quasi tre anni al castel dell’Ovo. A Cosenza, benché riverito, non si sente a suo agio: nelle lettere ad amici e allievi, che Croce ha raccolto in questa brochure, ne parla come di “ultimo angolo della bassezza e della barbarie”, e di “barbari luoghi”, sempre fisso su Napoli (“ho un paradiso innanzi agli occhi”). Se si considera l’apertura di De Sanctis, si capisce quale abisso separava Napoli dai territori del Regno. Forse di cultura (ma Cosenza non era indietro negli studi), sicuramente di indifferenza e disprezzo: Napoli non è stata una capitale.
Recluso senza processo, De Sanctis era stato arrestato su delazione di un pentito. Un preteso mazziniano che nessuno conosceva. Anche in questo la vicenda è molto “contemporanea”. Le feste per centocinquantenario dovrebbero farsi carico di queste persistenze, sono parte della storia e del carattere nazionale.
Benedetto Croce, Il soggiorno in Calabra, l’arresto e la prigionia di Francesco De Sanctis

martedì 4 maggio 2010

Perde le foglie Dc il carciofo berlusconiano

Perde le foglie, il carciofone berlusconiano. È anche naturale: è troppo gonfio, e comincia ad andare fuori stagione. Il carciofo d’altra parte è fatto così, che le foglie esterne, indurite, insapori, stanno lì per proteggere il cuore interno ed essere via via buttate. Ma c’è un fatto specifico, in questo assottigliamento: le foglie esterne, che s’induriscono e si perdono, sono sempre democristiane. Sono Casini, Mastella, Lombardo, la Dc di Pizza, e i sempiterni Pisanu e Scajola. Con Fini, che non è nato democristiano, ma è come se.
Un’altra caratteristica è che queste foglie vanno e vengono: un’elezione di qua, una di là. Amano e odiano Berlsuconi, e la ragione è nota: lo ritengono un usurpatore, uno che deve “restituire” i voti. Questa è una pretesa all’apparenza peregrina, che però potrebbe essere veritiera, e pure giusta: Si provi a immaginare il partito di Berlusconi senza Berlusconi, che ne è l’anima e il corpo. L’unica forma che prende è quella di una formazione liberalsocialista, quale è stata in questo governo, prima della ormai lunghissima pausa. Laica ma con una forte presenza dei democristiani liberali e liberisti, gli ex giovani di Comunione e Liberazione.

Letture - 31

letterautore

Alvaro – I libri di viaggio, in Turchia, in Russia, nelle Paludi Pontine, ancora leggibili, le corrispondenze da Parigi e Berlino, dove vede, annota, segnala tutto ciò che popolerà quegli anni, da Proust a Grosz, Piscator e Benjamin, fanno di Alvaro uno degli scrittori più colti del suo tempo, in grado di sapere cosa stava succedendo nel mondo. Remo Ceserani lo ritiene “molto più colto e informato di gran parte degli scrittori italiani dei suoi anni e consapevole degli esperimenti e problemi affrontati dalla contemporanea letteratura europea, compresa quella russa”. Ma si vuole nei racconti, in troppi racconti, diverso: un meridionale. Benché incongruo (insignificante), l’aggettivo è in lui ricorrente – nel racconto “Mezzogiorno” lo collega addirittura alla fame, giocando sul doppio significato del termine. Alvaro più di tutti, più forse di Verga, ha fissato (cristallizzato) il meridionale. Che qualche volta vive la natura, ma quasi sempre è triste, sfuggente, inaffidabile, collerico, violento. Gianfranco Contini ha potuto così delineare un tema caratteristico, se non centrale, di Alvaro: “Che cos’è un uomo, un meridionale, di fronte alla donna”. Una donna che invece è instancabilmente nordica.
In “Nasce un villaggio”, uno degli abbozzi raccolti da Ceserani in “La signora dell’isola”, c’è tra i tanti meridionali di Alvaro anche un settentrionale: “Un tipo di settentrionale piccolo e gramo”. L’odio-di-sé-meridionale, che nella stessa raccolta ritorna nel racconto “Mezzogiorno”, l’unico concluso, è insomma temperato insomma da un residuo di orgoglio. Perché è, al fondo, un disadattamento: con se stessi e con il resto – il Nord: che nasce dalla delusione, dall’identificazione impossibile con il Nord, in quel quadro unitario che il Nord ha imposto senza crederci.

Best-seller - Capita spesso d’imbattersi in best-seller, ma senza mai una rivelazione. Si è diffusa da alcuni anni la pratica di offrire il primo capitolo di molti best-seller in lettura gratuita. Sulla rete, o spillati con i settimanali. La curiosità c’è sempre di vedere cose dicono. Anche perché la primizia è sempre presentata da due o tre persone autorevoli, della televisione, dei giornali, in termini estremamente invitanti. Si sa anche che il primo capitolo è fatto apposta per invitare alla lettura. Ma di nessuno ancora è successo. Non sarà best-seller un bestseller? Cioè, bestseller si nasce: c’è un’eugenetica del libro.

Dialetto – In uno scritto del 1945 sul “Ponte” Giani Stuparich rievoca le ore passate al caffè Garibaldi, poi al caffè Nazionale, a Trieste, con gli amici artisti, e Umberto Saba, “Bobi” Bazlen, Giorgio Fano e altri letterati meno noti. Il dominus della compagnia era Vigilio Giotti, scrive Stuparich, il poeta dialettale, che conosceva la città e i suoi aneddoti e sapeva raccontarli: “Era come se disegnasse e dipingesse, e tutti l’ascoltavano e «vedevano». Gustosissimo narratore questo poeta”. Ma, “più strano”, scrive ancora Stuparich, è che “mentre nei suoi versi adopera il dialetto, parlando s’esprime in lingua: il poeta «dialettale» (tanto poco dialettale nel senso comune della parola) era il solo che in messo a noi parlasse in lingua, una sobria lingua toscana, rimastagli dal suo lungo soggiorno tra Firenze e Pisa”. Tanto più strano in quanto di nome tedesco, all’anagrafe Giotti faceva Schönbeck: “La madre di Giotti era d’origine veneta e il padre, un curioso tipo di mistico svedenborghiano, figlio d’un ufficiale austriaco e d’una mantovana, era venuto a Trieste dalla Boemia”. Prima della prima guerra, Giotti aveva completato la sua educazione italiana in Toscana.
Stuparich ipostatizza in breve la “questione del dialetto”. Che non può essere il bilinguismo forzoso che la Lega introduce dove amministra, specialmente ridicolo in Veneto, dove la toponomastica italiana viene doppiata da una pronuncia dialettale. Il dialetto è la lingua identitaria di una città, Trieste. Mentre l’identità di Giotti era italiana, e non poteva che esserlo.

Giallo – In”Raffles e Miss Blandish” Orwell, sopraffatto dall’abilità di James Hadley Chase, ne fa un caso di letteratura di borgata: “L’emancipazione è completata, Freud e Machiavelli hanno raggiunto le periferie”. Quel libro “è puro fascismo” si è fatto dire da un amico di “Niente orchidee per Miss Blandish”. Una storiaccia in cui ha contato otto assassinii, un numero incalcolabile di assassinii e e ferimenti casuali, la flagellazione ripetuta di Miss Blandish per eccitare il suo violentatore, una tortura con sigarette incandescenti, un’esumazione, un orgasmo da accoltellamento, l’identificazione della vittima col suo violentatore.
Roba di repertorio sadomasochista e una storia implausibile prima che orrenda. Che Hadley Chase riesce a farci leggere, e questo non sarebbe da sottovalutare. Ma che c’entrano le borgate? Il giallo non è letteratura popolare. Hadley Chase si sarebbe sorpreso di fare letteratura popolare, un inglese che sa così bene far parlare gli slang americani.

Manzoni - Il suo catalogo è impressionante: mafia, stupro, aborto, anche in convento, gli sciacalli nella peste, la corruzione della giustizia e della religione, morte, puzza, idiozia. Non c’è altro romanzo, gotico, nero, che accumuli così tanta turpitudine. Tanto più per un’anima pia, che si assolve nella Provvidenza, e proprio perché si assolve. Pretendendo che Dio lo ascolti e lo aiuti.
In un luogo non evocativo, come sono Otranto o Saragozza, ma reale, storico, normale, Milano e dintorni.

Proust – Gli album Proust sono atroci. È goffo lui in ogni situazione, che si faceva beffe di tutti. Sono impresentabili le donne, le grandi dame come le ragazze, ordinarie e più spesso brutte – di un brutto non bello. Solo gli uomini sono bellissimi, ma allora di un genere non proustiano, molto romantici, e con lo sguardo assente e vuoto. L’opera è un miracolo a parte. Ma nel caso di Proust non si fare a meno del vissuto, ogni lettura ne è bacata, tanto è forte il “marcellismo”, come dice Barthes.

Scrivere – Oggi si scrive troppo, si dice: scrivono tutti. Si scrive molto perché si legge molto. Insoddisfatti. Robetta, che il lettore pensa di poter scrivere meglio. È vero che il lettore è un po’ partecipe dell’opera. Ma quando c’erano gli scrittori, il lettore non si avventurava nella scrittura, si accontentava d’interpretare (leggere) ciò che leggeva.

letterautore@antiit.eu

lunedì 3 maggio 2010

Voglia d'inflazione controllata - 3

La proposta di Olivier Blanchard, il direttore Ricerche del Fondo monetario internazionale, di riassorbire un po’ del nuovo debito raddoppiando il tasso-obiettivo dell’inflazione, dal 2 al 4 per cento, è stata contrastata dalla Banca centrale europea, e dopo un paio di mesi è stata ridimensionata dal direttore generale del Fondo, Strauss-Kahn. Ma resta sul campo. In Germania, dove l’idea più ha suscitato critiche, si dà peraltro per scontato che con la crisi dei “debiti sovrani”, dei debiti pubblici, dopo quella finanziaria e quella economica, un certo ritorno d’inflazione sarà nei fatti. Il ristagno non sarà altrimenti evitato per un lungo periodo di tempo. Troppo per l’Europa, che al termine della stagflazione potrebbe essere fuori dalla ristrutturazione mondiale. Come riconosce il rappresentante tedesco alla Bce, Jürgen Stark, seppure stigmatizzandola, è normale “la tentazione dei governi di ricorrere e un’inflazione più elevata per monetizzare parzialmente la drammatica crescita del debito pubblico”.
Il debito dopo la crisi è comunque insostenibile, non più solo per pochi e isolati paesi, il Giappone o l’Italia. Posto che gli standard di sostenibilità del debito restino quelli in vigore, il 60 per cento del pil per le economie mature e il 40 per cento per quelle emergenti, tutti i paesi industriali ne sono abbondantemente fuori, con l’eccezione della Cina. Per paesi emergenti si intendono i paesi europei di nuova affluenza, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, e anche la Turchia: tutti questi paesi hanno un debito già superiore al 60 per cento del pil, invece che sotto il 40.
In alternativa all’inflazione altre forme di consolidamento vanno attivate, coattive. Il debito alle dimensioni cui è esploso, non sarebbe altrimenti riassorbibile, e cioè continuerà a crescere su base esponenziale. Se non a costi suicidari. Uno studio della Deutsche Bank sull’avanzo primario necessario per i quaranta paesi industriali a rientrare negli standard di sostenibilità dà azioni insostenibili, per almeno dieci anni. Il Giappone dovrebbe ogni anno stringere la cinghia (realizzare un bilancio pubblico in attivo, al netto degli interessi sul debito) di ben 13 punti di pil. L’Italia di 8,2 punti, come la Grecia. Gli Usa di 3,6 punti annui, la Francia di 3,5, la Germania di 3,2, la Gran Bretagna di 3.

La Cina non intercetta

Bo Xilai è l’astro nascente della nomenclatura cinese. Figlio di Bo Yibo, uno degli “otto immortali” di Mao, alla pari di Deng Xiaoping, che poi sostenne vigorosamente, è recente cooptazione del Politburo, e sarà uno dei suoi nove membri permanenti al congresso del Partito fra due anni, quando sette degli attuali nove capi dovranno lasciare. Deve la sua ascesa, oltre che al nome, alla campagna anticorruzione condotta a Chongqing dove è segretario del Partito, con più di tremila arresti in soli nove mesi, 87 funzionari accusati di collusione con la mafia, incluso l’ex capo della Polizia e Procuratore Capo Wen Quiang, e nove condanne a morte. Chongqing è la Detroit cinese, città siderurgica e metalmeccanica, uno dei quattro grandi centri dell’industria automobilistica, metropoli della Cina Gialla, avamposto della corsa all’Ovest.
“Asia Times” Bo Xilai ha presentato l’altro mese come la vedette del Congresso del Popolo: a sessant’anni, “l’alto, telegenico Bo Xilai ha personalità, charme e carisma”, un po’ populista, il giusto, e “molto popolare”, soprattutto fra i “netizen”, il pubblico della rete, anche per i suoi richiami a Mao, all’epigrammatica e alla sloganistica del Grande Timoniere. Non altrettanto popolare è però Bo, dice il giornale, fra i maggiorenti del Partito, che pure, normalmente, dovrebbero farsi una bandiera della lotta ala corruzione. È che la legge e l’ordine di Bo è andata troppo oltre, anche per gli standard cinesi.
Qualche giorno dopo l’elogio di “Asia Times”, l’ufficioso “China Daily” ha spiegato in un editoriale perché. Dopo aver riconosciuto l’urgenza della lotta alla criminalità, “China Daily” spiega ripetutamente con chiarezza che essa non può svolgersi fuori della Costituzione, e della protezione che la Costituzione dà alla corrispondenza privata, seppure con “lettera aperta”, telefonate al cellulare e posta elettronica: “La nuova politica della polizia villa il diritto costituzionale alla libertà di comunicazione. Le lettere inviate per posta a casa sono protette dalla legge penale, chi apre le lettere senza il nostro permesso può essere perseguito. I messaggi che mandiamo e riceviamo via personal computer e telefono cellulare sono, benché non tangibili in carta, comunicazioni private, a uso esclusivo di chi li manda e li riceve. Sono sotto lo stesso grado di protezione della Costituzione.” L’editoriale si conclude con un ammonimento alle ambizioni personali di Bo: “Oltretutto, abbiamo già detto che tutta la storia è uno spreco di risorse pubbliche”?

Il personaggio, schiavo infedele

Andrea Camilleri incontinente confida a Fazio cosa pensa di Montalbano: “Se voglio ti uccido”. Ma due anni fa allo stesso Fazio aveva spiegato che l’autore che uccide un personaggio con cui ha avuto tante storie è uno che “è morto dentro”. Dei personaggi Sylvie Germain fa dei “supplici muti” che perseguitano lo scrittore per farli nascere. Dei persecutori, anche, schiavi in cuor loro sempre ribelli. O dei fantasmi che invece scappano sempre. Dei profeti, intermediari del verbo, Giovanni di Patmos, Ezechiele. E sdoppiamenti dell’autore naturalmente. Ma qui solo in idea: il teatrino dei personaggi non fa rivivere Pirandello. Germain, romanziera premiata a ogni sua pubblicazione, coltiva la scrittura: i personaggi infine vede come la sacca pedente sotto san Batolomeo alla Cappella Sistina, la pelle dello scuoiato.
Sylvie Germain, Les Personnages, Folio, pp. 121, € 4,20