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sabato 8 dicembre 2018

Tortora, cronaca di un processo annunciato


Per i novant’anni che Enzo Tortora non  ha potuto celebrare, il 30 novembre, stroncato dalla persecuzione di cui fu vittima, sui media e nei tribunali, si è fatto molto il caso dell’“errore giudiziario”. Lo ha fatto anche Sgarbi ieri intitolando a Tortora un cippo commemorativo a Sutri, dove è sindaco. Ma non fu probabilmente un errore. Anzi certamente. Perché  prima della incriminazione del Noto Presentatore si sapeva che “qualcosa” sarebbe avvenuto, cioè si preparava. Qualcosa di grave in ambito giudiziario, un processo eclatante.
Si sapeva in sala stampa a Montecitorio, dove circolano, circolavano allora, i “documenti” più ghiotti-sospetti: nastri di intercettazioni “rubate”, carte “segrete”, e molte “voci autorevoli”. Che il cronista era tenuto a segnalare al giornale, e qualche volta anche a seguire, per quanto controvoglia. Sapendo cioè di essere strumento di manovre: il dossier, dispositivo della Terza Repubblica francese a fini di diffamazione e corruttela, è vangelo e legge in Ialia, cui il cronista non può sottrarsi (“se non lo usi tu lo usano altri” è la pistola puntata).
Il dossier Tortora era annunciato. Non propriamente, nella forma allusiva tipica di queste manovre. Il caso scoppiò poi in tv, sulla Rai, con adeguato preavviso. Ma in precedenza in molti si sapeva che qualcosa “bolliva”, qualcosa di grosso. Si era pensato a un dossier contro Cefis, allora discusso presidente della Montedison (che invece resterà il vilain solo di Pasolini, “Petrolio”, avendo finito la carriera manageriale indenne), e quindi a un gesto della Procura di Milano, che allora non era ancora famosa peri dossier. O all’ennesima inchiesta clamorosa contro gli enti di Stato, l’Eni più probabilmente che non l’Iri, e quindi a Roma. Invece scoppiò a Napoli.
L’attesa, e poi l’evento, sono così narrati da Astolfo, “Vorrei andarmene ma non so dove”, in via di pubblicazione:
“Un dossier monta che potrebbe essere opera del Prefetto, sotto l’imperturbabilità. A carico si diceva in prima battuta del Dottore”, il Dottore essendo Cefis, “ora d’un celebre Presentatore ⁰o Calciatore. Un dossier napoletano, è Paolo che ne porta notizia, che a Napoli sarebbe già la nuova Smorfia. Ricco d’intercettazioni al telefono di cui i giornali sono ghiotti. Intercettazioni selezionate, in trascrizioni editate, diffuse a giorni alterni. Dove si parla di sbattimenti, è ovvio, ma per il resto il copione è diverso da quelli della Terza Repubblica francese madre del genere: non ci sono mantenute, né tangenti in appalti, c’è invece fumo e polvere, il modello dev’essere americano.
“Il Celebre Personaggio è un falso scopo, l’infamia è mirata sui suoi interlocutori, e attraverso i giudizi, le confidenze, i pettegolezzi incidentali nei colloqui, su una serie di personaggi di contorno sui quali si accende un faro ricattatorio. Il presidente d’una banca si duole di avere mancato una serata – da ballo? di chemin-de-fer? di tiro alla coca? Un ministro dell’Interno avrebbe agevolato il trasferimento di un carabiniere, potrebbe. Due generali comandanti in successione dei carabinieri litigano per questioni di corredo delle rispettive figlie. Non manca il Capo della Polizia, per equanimità, con battute da rimminchionito. Molto si parla di fumo, vizio del Celebre Personaggio, che dovrebbe essere, si fa arguire, di erba, a volte di tiro. Direttori di giornali e dirigenti Rai entrano in gioco quali possibili promotori o terminali di raccomandazioni, del Celebre Personaggio o presso di lui. Con corteo di camorristi e mafiosi, di cui però non si dà l’identità, non manca ai giudici il senso dell’opportunità.
“È un invito alla sedizione? A Napoli tutto va di corsa, quindi anche la giustizia. E non c’è tempo per riderne, ogni giorno scaccia il precedente, Napoli è troppo furba, troppo corrotta, troppo intelligente. Il dossier, si fa sapere, è di 1.400 pagine, come se fossero tante, mentre corrispondono a ventotto ore di conversazione: in un anno di registrazioni il margine di selezione è enorme. Ma l’autore del dossier è gargantuesco: col Celebre Personaggio mette insieme un candidato presidente del consiglio e un cardinale, facendoli incontrare nel santuario del popolo romano al Divino Amore, reminiscenza della Dolce vita, la miscela felliniana di sacro e profano, per una partita che si lascia presumere empia, d’affari, bisboccia, sniffamenti, se non, opinano commentatori scandalizzati, di usura, alludendo ma non dicendo, con spreco di riserve che ampliano i sospetti. È la sagra del “sedicente”. La Rai lo consacra, il sedicente spacciatore, il sedicente ricettatore, e non si sa se per sbaglio, intendendo presunto, o per sfottò – la Rai ha superiore inattaccabile anima Dc.
“Il gargantuismo è senza freni, faticoso, mostra di strapotere, nonché di spregio dei lettori. Non a torto: il dossier è un capolavoro di creazione del testo, si capisce che il Prefetto non ne disdegni l’attribuzione, a un premio di stilistica sbaraglierebbe, di creazione della realtà con meri artifici retorici. Il taglia e cuci è abile, tanto più se le telefonate daĺ sbobinare hanno preso com’è probabile quattordicimila pagine, o centoquarantamila, le battute si reggono l’un l’altra, impreziosite da accorte modulazioni dialettali, tarate sull’origine tribale dei personaggi, e pur trattando di cancri alla gola e raccomandazioni più che di pelo, si fanno leggere. Molto mcluhaniano si ha voglia di dire, altro che se il mezzo non è caldo, l’uso del telefono è diabolico se non divino, altrettanto creativo. Che gli sbirri consacra migliori semiologi e scrittori dell’Italia contemporanea.
“La miscela di magistrati d’assalto partenopei e industria ambrosiana dell’informazione è inebriante e soffocante. I benemeriti pretori, che hanno assaltato le roccaforti del potere, si soppiantano con gli arditi procuratori, il coltello fra i denti, veri fascisti benché compagni. La sostituzione non ha un solo modello e forse è facile, senza disconoscere a Milano la maestria: è facile appropriarsi i fondamentali del movimento, non è difficile se sono l’invidia e l’odio. Appropriarsene, si dice, per sterilizzarli, ma neanche questo è vero, si fanno al contrario fruttare, bei soldi – il Sessantotto a piazza Affari, bel tema”. 
Resta da spiegare cui prodest: perché polizia giudiziaria, procure, tribunali marcino a una certo punto compatti contro un personaggio. La ricerca di un marionettista non sempre è conclusiva, né prevalentemente. Nel caso di Tortora si fece pesare il professato laicismo – sono massoni, all’origine o di fatto, i fori di “giustizia giusta” che ne tengono viva la memoria. Ma anche uno dei due persecutori napoletani lo era dichiaratamente. È un modo di essere della società, l’invidia sociale, di cui i media sono il coagulante. Astolfo così conclude:
“Né c’è solo Milano, con la subordinata Napoli, affari e sregolatezza. Le indiscrezioni si connotano di verità, in una certa accezione: il popolo che si diverte, i giornali che divorano i verbali, e i commentatori prodigali che credono, per spasso e per amore della verità, più a criminali recidivi, crudeli, che si portano accusatori, che al Celebre Personaggio, al cardinale, al politico eminente. È l’effetto bombe?  Il bordello cioè”.

venerdì 7 dicembre 2018

Ritorno alla patria, preoccupato

Una celebrazione. Su un’opera non celebre, benché dignitosa. Della patria, e forse della dignità, perduta. Gli interpreti eccezionali, oltre alla concertazione di Chailly, hanno contribuito: il portentoso basso russo Ildar Abdrazakov, un baskir, uno di quelli del Volga al seguito di Attila, col quale fecero ritorno in patria, e la soprano Saioa Hernández dall’estensione interminata, entrambi su un registro sempre normale, senza forzature. Ma il successo è politico.
Verdi è stato ripescato al suo meglio (ma ci aveva già ripensato due anni fa La Fenice, che l’opera aveva commissionato al giovane Verdi - nonché Muti in più occasioni, anche al Met di New York), malgrado la regia confusa di Livermore, di moderno e antico - e l’equivoco di Salò, che dopo Pasolini affascina il mondo gay. Ma più dell’opera, del ripescaggio, dell’esecuzione, ha impressionato il paratesto. Il canto dell’inno di Mameli in sala. Dopo l’applauso intenzionale e non rituale, insistito, a Mattarella, unico argine al disgoverno. E il quarto d’ora di applausi, al termine dell’opera patriottica. Come se il pubblico della Scala, dopo averci imposto Salvini, con i siculo-campani di Grillo, si fosse pentito.
“Wodan non falla, ecco il Walhalla”, intonava subito minaccioso il rude libretto di Temistocle Solera in apertura. Su una sorta di day after: “Or macerie, deserto e ruina\ su cui regna miseria e squalor”.
Giuseppe Verdi, Attila, Teatro alla Scala

Secondi pensieri - 369

zeulig


Classico – È tribale. È sinonimo di universale, ma è il fondamento del tribalismo: della tradizione, il più possibile legate al luogo, alla comunità. Per questo la cultura classica ha bisogno di poco: ha l’ascendente dei vecchi miti e dei riti tribali. E si esercita etnicamente, l’identificazione su cui fa aggio è di tipo parentale, sanguigno – da qui la cultura dei primati, da Gioberti a Heidegger, che a prima vista è balzana.

Io - L’Io non è nella fisica. Ed è, risalendo a Rimbaud e anzi a Nerval, prima che a Heidegger, sorpassato. L’estraneità è invece un fatto fisico. Non c’è la freccia del tempo, come Mach ha intuito e Zermelo dimostra, ci sono stati disordinati, l’equilibrio si riforma continuamente – situazioni che si ripropongono, eterni ritorni. Le semplici osservazioni di Zermelo sui gas mostrano che l’entropia e il disordine non crescono col tempo, ma semmai con le dimensioni.
Boltzmann già aveva associato entropia e disordine, ma li vedeva crescere col tempo. Una veduta conservatrice della natura e della storia o, chissà, rivoluzionaria. Non era vero, e Zermelo lo dimostrò. Se è un fatto di dimensione, l’Io sarebbe dunque una persona robusta. Ma chi è Zermelo? Ha rivoluzionato la termodinamica, ma non è don Abbondio, è peggio, nessuno lo ricorda. La sua eliminazione della freccia del tempo, che doveva migliorare la costruzione di Boltzmann, portò invece quest’ultimo, il miglior fisico dell’epoca, al suicidio.

È vero però che la prima persona al presente storico è ingombrante, una rappresentazione doppia - del soggetto che rappresentando se stesso si situa e si capisce. Per questo è faticosa. Inevitabile, l’autore è un personaggio della propria narrazione. Non necessariamente l’agente primo, ma sempre prim’attore. In Aristotele il personaggio è al plurale – è più d’uno. E si chiama “agente”. Non di polizia, ma quello che agisce, fa la realtà.
L’autore è uno stratega. In primo luogo di se stesso: distaccato, misurato. Bene. Basta allora rettificare la postura, tenersi eretti? Non piegare il collo, il vizio che si prende leggendo è dannoso, non solo alla cer-vicale. Si vede guardando avanti. Sapendo che non si compete con chi ti vuol male, i carabinieri hanno ragione.

Meraviglia – Prima che in Jeanne Hersch, quale motore della conoscenza, era in Vico, “La Scienza Nuova”, Laterza, 1967, p. 200, “la naturale curiosità, ch'è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce, nell'aprire che fa della mente dell'uomo, la meraviglia…”

Spirituale – Ha molto di materiale. Non maturano solo i prodotti naturali e i processi produttivi, di più maturano e anzi induriscono le ideologie, e si dovrebbe dire le psicologie. Anche il sociale è un po’ minerale: in una società integrata, che viene da lontano, i rapporti si legano per molti fili, culturali, storici, tribali. Anche le egemonie e le sudditanze, per quanto risentite o protestate.

Storia – “Lo storico è, per professione, un falsificatore della storia”, M. Heidegger, “Note I” (“Note I-V”, p. 122): “Lo storico è la personificata negazione della storia”. O anche, p. 123: “La storiografia è la psicologia della storia oggettivata” – e “la psicologia è la storiografia dell’ “inconsapevole”, del “profondo”, dell’ “originariamente tipico”.

Tribù – Residua o riemerge con la globalizzazione. Contro le emigrazioni e la misgenation da una parte, o come fondamento religioso o culturale, di divisione e contrapposizione. Riemerge col fenomeno politico confuso che si labella genericamente come “populismo”. Tribalismo sarebbe più corretto: la “razza” rivendicata da chi ha meno da rivendicare, dal punto di vista del potere, del reddito, e anche tribale in senso proprio.
A lungo atteso come insorgenza nazionalistica, delle piccola patrie, l’inevitabile movimento di bascula contro la globalizzazione si orienta invece verso un tribalismo vecchia maniera. Poco definibile (circoscrivibile) ma acuto.  

Umorismo – “Una fioritura silenziosa della libertà”, il severo Heidegger si diverte per una volta in poche righe dei suoi fitti quaderni neri, “Note I-IV”, p. 243. C’è chi ne manca, “allora è un povero babbeo”. Però, questo caso può essere dell’“umorismo vero”: “Può anche significare che l’umorismo non si mostra immediatamente”, che “resta trattenuto nell’atteggiamento del pensiero”.
È una riflessione occasionale, sperduta. Ma il filosofo mostra di saperne di più, sulla qualità dell’umorismo, e sul rapporto dell’umorista stesso con l’umorismo, col suo bisogno di fare umorismo: “Forse questo buon umore, quello inappariscente, è il solo genuino. Laddove l’umorismo si fa chiassoso, si tradisce facilmente come scappatoia e velamento di una profonda insicurezza”, cui magari il soggetto pensa di “essere sfuggito”. Mentre, al contrario, “l’umorismo invisibile non va affatto a parare nell’insicuro e nel forzato perché è una fioritura silenziosa della libertà. Per questo resta raro. Ancora più raramente esso viene riconosciuto”.
L’appunto termina con l’usuale rapporto tra umorismo e malinconia: “Che l’umorismo possa essere lo stesso di una sana malinconia sarà comprensibile solo a pochi uomini. L’umorista, generalmente, ha in misura minima buon umore”.

zeulig@antiit.eu

Alla scoperta dell’Iran, che esisteva prima di noi

Panahí al meglio, pur in una trama drammatica. Con la lentezza, e la radicata fermezza, paciosa anche nel dramma, dell’antica civiltà nella quale si muove. Un viaggio in questa civiltà, nella sua parte più remota, perfino desolata, e tuttavia ricostituente.
Il regista interpreta se stesso. Impedito di espatrio dagli ayatollah, può tuttavia viaggiare per il paese. Si fa quindi protagonista, per accompagnare col suo suv una famosa attrice in pensiero per una ragazzina di un ignoto villaggio dell’Iran profondo che le ha mandato un video del suo suicidio, da aspirante attrice che i i suoi genitori coartano. Il pretesto non è credibile: Panahí, regista celebrato tourné autista lo spiega alla nevrotica attrice. È un video professionale, sarà uno scherzo. Ma presto sono in un altro mondo: minuto, parlato, lento, limitato, che però è, sarà, il loro mondo, preciso, chiaro, garbato, e sempre intelligente.   che ha impellente bisogno di ritrovare una ragazza Agli arresti domiciliari da dodici anni perché non piace agli ayatollah, può assentarsene per accompagnare come autista in un remoto paese a mezza giornata da Teheran un’amica attrice in angoscia. Una ragazza del paese sua ammiratrice, che vuole fare l’attrice, le ha mandato un video in cui sceneggia la propria impiccagione perché i genitori non glielo consentono.  
La storia ha un po’ di senso politico, ma non tanto - e poi non è lo scopo di Panahi, quali che siano i suoi rapporti col regime khomeinista, che comunque gli consente di girare film. Il senso dei film di Panahi, come di Kiarostami e altri cineasti iraniani, è il linguaggio: semplice, posato, radicato. Le immagini si dipanano e non si accavallano, lente e semplificate come le parole. E il senso di comunità nel linguaggio, anche con gli umili e gli abbandonati.
Una festa identitaria, nel senso buono, della convivenza felice e non del tribalismo chiuso. Pacificata e pacificante. Di un senso unitario, quasi di pace, profondo, inalterabile.  Anche se ci sono ferite. Attori famosi di prima della rivoluzione sono introdotti nella storia, lui impedito di rientro, lei, Shahnaz, impedita di lavorare, che anch’essa vive nel villaggio, dove passa le giornate dipingendo. L’attrice impedita, l’attrice in voga e l’aspirante attrice passeranno la notte insieme, a ciacolare e fare teatro, in immagini fuggevoli, di ombre cinesi: sono i tre volti del titolo – ma della vecchia Shahnaz non lo vedremo, del codice comune fa parte anche il rispetto.
Ci sono molto Orienti Medi, e l’Iran esiste da molto prima di noi - anche se il “Corriere della sera” riesce a mortificare Panahí in Pahani. Anche questo è un film di viaggio, come i tanti della cinematografia iraniana, in un paese da scoprire benché, perché, vecchio, vecchissimo. 

Jafar Panahí, Tre volti

giovedì 6 dicembre 2018

Il governo delle lobbies

Pioggia di contributi per l’auto elettrica, seimila euro, cifra paperoniana. E tasse, di 1.000-1.400 euro, per chi compra una piccola cilindrata. Sembra di sognare ma è il progetto del governo: finanziare chi può spendere i restanti 20 mila euro per l’auto elettrica, e punire chi, magari stringendo la cinghia, arriva a una da 8 mila. Un governo furbo oltre che cattivo. Che la spara volutamente grossa, per poi arrivare a quello che le lobbies vogliono, che lo Stato, cioè noi, paghi l’auto elettrica a chi può permettersi di pagare la differenza – pagare 15-20 mila euro, e avere un garage, attrezzato. La tassa sulle piccole cilindrate si minaccia per poi arrivare al “compromesso”, al contributo per i ricchi senza discussioni. Tipica tattica da lobbies: puntare (distrarre) su un falso scopo per centrare l’obiettivo. 
Il governo non solo fa quello che le lobbies dicono, e quella dell’auto elettrica, che non vende, ha mezzi straordinari, quelli nippo-coreani, notoriamente facili, e quelli di mezza Europa. Ma lo fa con sapienza: ne ha esperienza. Grillo è da poco al governo, ma ha molto esperienza di politica lobbistica. Attraverso il suo sito. E in politica già con l’Olimpiade: l’Olimpiade no, lo stadio della Roma sì. Non a un evento che non sarebbe costato e avrebbe portato a Roma e in Italia alcuni miliardi delle organizzazioni olimpiche, ma non appoggiato da una lobby, non da una convincente. Lo stadio della Roma invece sì, che è una speculazione edilizia, dichiarata: trattata da avvocati d’affari, messa in opera da speculatori sotto processo. Per la quale il Comune di Roma di Grillo fa spendere allo Stato, cioè a noi, 180 milioni solo per costruire il ponte di accesso – ce ne vorranno altri 300 per urbanizzare, urbanizzare una zona altrimenti incostruibile.
Prepotente e senza vergogna è la marcia di Grillo al carro delle lobbies, che assicurano anche la buona stampa. I seimila euro alle lobbies dell’elettrico giustifica con l’ecosostenibilità. Nel mentre che si fa portare, da anni, dalla lobby del trasporto su gomma, nemico acerrimo del trasporto ferroviario, delle gallerie e di qualsiasi altro progetto alternativo ai tir che possa salvare l’aria.    

Il mondo com'è (361)

astolfo


Antisemitismo – Va molto con l’anti-cristianesimo. Quello culturale, per esempio di Heidegger, e non razziale. Col rifiuto della religiosità giudeo-cristiana, del Dio Unico eccetera. Che si viene a giudicare, in termini politici, dottrina di potere e liberticida.

Di padre in figlio – È pratica oggi sospetta, perché applicata alle professioni, e al mercato delle influenze – medico il padre medico il figlio, professore il padre professore il figlio. Ma è l’esito della pratica artigianale, compresa quella artistica. Si impara, si imparava, il mestiere di padre in figlio – oppure a bottega da un maestro che aveva anche la funzione di padre.
Questo era vero pure in campo artistico, per generazioni di musicisti e di attori, e anche qualche pittore. Fino a recente il familismo era valutato positivamente pure in campo professionale. Ma essendo molte di queste professioni di natura pubblica, come la giurisdzione o l’insegnamento, o diventate pubbliche, come l’esercizio della medicina, il tramandarsi della professione “di padre in figlio” è sospetto di favoritismo.

Europa - Nell’ideologia tedesca del “tramonto” Heidegger si segnala. Di cui un passo del “quaderno nero” “Note IV”, probabilmente del 1948, fa la summa – a p. 486 dell’edizione Bompiani: “Questo zampettio di smidollati, per salvare un’Europa che non è nemmeno capace di tramontare. Essi continuano a non notare che è giunto il tempo di preparare ancora gli ultimi che siano capaci del tramonto. Gli indugianti sono già al lavoro; nel frattempo si è interposto  l’“Occidente cristiano” – a che scopo? affinché tutto ciò che è fragile si perpetui?
“Certo il tramonto non è la fine e ancor meno esso è il nulla – una cosa del genere sembra essere il tramonto solo per gli occhi di quelli che restano attaccati a quanto è invalso finora. Se dovessero perdere questo, per loro tutto sarebbe perduto. Ma forse così tutto sarebbe invece guadagnato”.
Un’argomentazione che sembra senza senso e invece ce l’ha. Del tipo “muoia Sansone con tutti i filistei”.

Opinione pubblica – L’informazione non può essere neutra. I fatti separati dalle opinioni, divisa attribuita in Italia al giornalismo anglosassone, è falsa perché quel giornalismo si vuole orientato, e anche spregiudicato, ma è soprattutto impossibile. Di questa impossibilità Heidegger in uno dei suoi “quaderni neri”, il “Note II2, a p. 185, dà un altro paletto, sotto forma di dubbio: “In che modo la dittatura dell’opinione pubblica, attraverso il dominio del «giornale», rende impossibile il leggere dietro l’apparenza di formare dei «lettori»?”. Il “leggere” come esercizio critico.

Del giornalismo il filosofo si fa successivamente opinione riduttiva, quale strumento di propaganda, di organizzazione del consenso – p. 195: “Esso appartiene alla tecnica. È l’organizzazione tecnica delle illusioni necessarie per la pubblicità, in base alle quali il «popolo», vale a dire la massa, si immagina di determinare se stessa e di dominare”.
Tradotta come pubblicità, la Öffentlichkeit è in realtà in tedesco l’opinione pubblica.

Populismo – Sfugge alle definizioni. Se non, genericamente, come passione politica non riflessa, non mediata da convinzioni ideali, o politiche o sociali - convinzioni salde comunque, la convinzione si vuole “salda”. Il populismo sarebbe la politica della “pancia”, della reazione istintiva.
Ma la passione politica è prevalente anche in ambiti che si dichiarano non populisti. Per esempio su Trump. E non tanto sul personaggio, certo outsider, quanto sul suo fondo elettorale. Il successo elettorale di Trump viene contestato sulla base di false comunicazioni – di fake news di origine russa, tipo guerra fredda, e di altre manipolazioni online. E, al rinnovo parziale del Congresso un mese, fa con innumerevoli riconteggi. Non con analisi, e conseguenti decisioni, politiche, ma col pregiudizio. Che è la terra di coltura del populismo.  

La contestazione di Trump rafforza in America Trump. Questo può voler dire che “populismo chiama populismo”, o il populismo rafforza il populismo, seppure di segno contrario, in una sorta di avvinghiamento elicoidale.

Il rifiuto del presidente – la mancata accettazione del voto – in America non è nuovo, determinato dal personaggio Trump. I necrologi per il 41mo presidente George Bush sono unanimi nel dirlo l’ultimo presidente accettato, non rifiutato cioè dagli oppositori. Dopo Bush padre ci sarà solo l’esercizio irriflesso della passione politica, da destra e da sinistra, contro Clinton, Bush jr., Obama, Trump.

Sondaggi – Regolano la vita politica nel mentre che la certificano-rilevano statisticamente. O pretendono di regolarla, nell’alveo di una considerazione razionalista del voto – della propensione di voto, della scelta. E così sembra: influenzano le propensioni di voto, tra gli indecisi e anche, in rilevante misura, tra chi ha un’opinione o ha già fatto una scelta. Pur essendo rilevazioni “orientate”, necessariamente, in base ai criteri e alle metodologie di rilevazione, pur pretendendo al’oggettività, senza finalità o pregiudizio. Ma non regolano la politica, che resta il fatto di passioni e rimozioni, anche violente e immediate, non riflesse. Il voto americano per Trump non viene assimilato anche per questa ragione: è stato, nel 2016 e a inizio novembre, un voto passionale, “di pancia” si dice, che ha rovesciato tutti i sondaggi. Due anni fa, alle presidenziali, tutti i maggiori sondaggisti erano certi al 100 per cento della nessuna possibilità di vittoria per Trump. I sondaggi delle legislative di novembre si volevano cauti, ma a fini di scongiuro, di fatto prevedevano concordi  un Congresso a maggioranza anti-Trump, mentre questo è avvenuto solo per la Camera dei Rappresentanti.


Tramonto – Dell’Europa, dell’Occidente,del mondo, è fantasia tipicamente tedesca, da Wagner e Nietzsche a Spengler, a Heidegger e alle tante prefiche della crisi – per l’aria, per l’acqua, per la Cina. Per nessun altro motivo che l’impossibilità per la Germania di accedere al ruolo imperiale cui si voleva destinata dopo la ricostituzione dell’impero nel Reich, con incoronazione di rara sensibilità a Versailles. Immemore per questo perfino del Sacro Romano Impero – il “Reich” si voleva un’altra cosa, né romano né sacro.  

astolfo@antiit.eu

Mozart inutile in patria

Mozart vive, musica e muore per amore. Una lettura che sembra strana, e invece poi convince. Elias lo dice subito, partendo dalla morte di Mozart: non ne fa il solito giallo, su chi e come potrebbe averlo voluto morto, ma la fine dice segnata dall’abbandono. Per un sorta di svuotamento dall’interno, avendo perduto i suoi due motive di vita, “l’amore di una donna cui affidarsi e l’amore del pubblico viennese per la sua musica”. Ma prima di questa “fine all’inizio”, Mozart muore di trentacinque anni, cioè dopo di essa, Elias fa di più: il genio rappresenta non inspiegabile e avulso dal mondo ma ad esso legato, storicamente, socialmente. Di questa sorta di dislessia del genio facendo una colpa all’Europa, al vezzo romantico di santificare vita e morte dei grandi uomini, dopo aver separato l’artista dal genio, come un fiore senza radici e senza humus – “espressione di una disumanità fortemente radicata nel pensiero europeo, di un problema di civilizzazione non superato”.
Non è lettura scorrevole, è anzi puntigliosa – Elias è un pur sempre un sociologo, “Sociologia di un genio” è il sottotitolo. Ma con numerosi punti di riferimento. “Nella Germania della seconda metà del secolo XVIIImo era possible affrancarsi dal canone di gusto aristocratico-cortese”, c’era già un pubblico borghese abbastanza ampio, di gusto anche non tradizionalista, ma solo per la scrittura, “nei campi della filosofia e della letteratura”. Ancora in Goethe, al libro V de “Gli anni di spprendistato”, solo il  nobile può pretendere l’armonico perfezionamento della propria natura, il borghese non è e non dà nulla.
Il musicista, “se sentiva la vocazione a prestazioni di altissimo livello, come esecutore o come compositore”, doveva cercarsi la protezione di una corte – se protestante poteva accontentarsi di un posto di organista, o maestro di coro. Mozart, un piccolo borghese che a un certo punto vuole emanciparsi dalle protezioni aristocratiche, e vivere a Vienna del proprio lavoro, come bene o male farà Beethoven una generazione dopo, non ce la farà. È già finito quando muore. Il successo in Italia lo aveva convinto che ce l’avrebbe fatta da solo – aveva avuto successo come un interprete oggi, magari solo di musica pop, può averlo in una tournée. Ma in Germania, “a paragone con quello letterario, lo sviluppo musicale era arretrato. La decisione di Mozart di farsi «libero artista» cadde in un’epoca in cui, per la struttura della società, non esisteva di fatto alcuno spazio del genere per musicisti di altissimo livello”.
Giorgio Pestelli, che introduce il saggio, non è d’accordo. Già a metà Settecento, dopo lo scossone della Guerra dei Sette anni , 1756-63, che aveva lasciato indebitate le corti, Londra e Paigi avevano maturato un vivace mercato delle arti, avviando un sensibile movimento migratorio e di affrancamento per musicisti tedeschi e boemi: “Già Händel si può considerare emancipato dala condizione servile del musicista settecentesco”. Anche Haydn, continua Pestelli, finisce la carriera da libero professionista, dopo il 1790 – ma il 1790 non è un po’ tardi, Mozart morirà poco dopo, e già agitato dalla rivoluzione francese? E prima di loro i figli di Bach. E tuttavia la vita di Mozart è quella, di musicista di corte, amato e maltrattato a piacimento, dal vescovo di Salisburgo come dalla imperatrice Maria Teresa. E quando tenta da solo, a Mannheim e a Parigi, patisce il freddo e la fame, con la morte della mamma, che era al suo seguito, probabilmente di stenti. 

Alla geografia di Pestelli anche l’Italia va aggiunta: le “piazze” di Milano, benché asburgica, e Napoli, e quelle papaline di Bologna e Roma (il papa vi fece cavaliere il ragazzetto Mozart), costituirono un “mercato” sostanzioso, anche prima di Londra, per “Giovannino” Bach come per Mozart. C’era di che, se uno voleva emanciparsi. In più occasioni, documenta lo stesso Elias, a Mozart quindici-sedicenne il padre Leopold ha cercato un impiego in Italia, a Milano, a Firenze, dove i rapporti non erano feudali. 
Il problema di Mozart era l’Austria: Salisburgo e Vienna, il conte-vescovo Colloredo e l’imperatrice Maria Teresa, come pure il progressista Giuseppe II. E questo nella sociologia di Elias vistosamente manca, curiosamente – non gli se ne può fare colpa: il saggio è stato compilato da Michael Schrōter, come tante altre pubblicazioni del tardo Elias, che era molto restio a pubblicare, sulla base di appunti e testi non definitivi da lui redatti per un progetto che non realizzerà, benché l’editore Suhrkamp lo avesse annunciato in una sua collana, “L’artista borghese nella società di corte”.
Un aneddoto basti, in aggiunta alla documentazione analizzata da Elias, a definire il suolo sociale di paria dei Mozart. Il giovanissimo Wolfgang era felice a Milano, dove era celebrato per il geniaccio e  gli furono commissionate varie opere, una delle quali, il fastoso “Ascanio in Alba”, “feste e serenata”, su libretto di Parini, nel 1771, Mozart ha quindici anni, il governatore austriaco conte Firmian volle dedicata all’arciduca Ferdinando. Che la madre imperatrice, Maria Teresa, metterà sull’avviso in questi termini: “Mi chiedi di assumere al tuo servizio il giovane di Salisburgo. Non so perché, non credo tu abbia bisogno di gente inutile. Se ti fa piacere, non voglio impedirti di farlo. Quello che voglio dire è di non caricarti di gente inutile”. Interrompendo d’autorità la carriera che il padre Leopold già divisava per lui dopo la trionfale accoglienza cisalpine – il papa lo aveva fatto cavaliere, a dodici o tredici anni, a Napoli “si diceva che nessuno suonava” come lui, attesta lui stesso in una lettera.  
Elias propende a farlo vittima dell’epoca - di Maria Teresa preferendo l’aneddoto che inviò a Mozart bambino prodigio e alla sorella “gli abiti eleganti e luccicanti che erano appartenuti precedentemente a giovani membri della sua famiglia”. L’arte è stata sempre sociale, di consumo – di mercato. Solo ultimamente si teorizza l’arte per l’arte, il mezzo o linguaggio autoreferente. E questo vale anche per la musica, alta o altissima. Ma “i codici sociali e i metodi, attraverso i quali gli uomini erigono nella vita di comunità dei controlli alle pulsioni, non nascono secondo un piano, si sviluppano nel lungo periodo, ciecamente ed in modo non programmato”.
A un certo punto, a metà saggio, anche Elias situa la questione in Austria correttamente, rilevando “la contraddizione tra la fama crescente dei Mozart in tutto il mondo e la loro posizione inferiore  nella propria città” – inferiore cioè servile, e a Salisburgo come a Vienna. Ma un po’ più di storia non avrebbe guastato, su Vienna e i suoi principi, che pure si vogliono gloriosi e felici.

Norbert Elias, Mozart, Il Mulino, pp. 162 € 12

mercoledì 5 dicembre 2018

Problemi di base politici - 460

spock


Perché la politica arriva alla pagina 14 del giornale se non è successo nulla?

E al minuto quattordicesimo del tg, che ne ha al massimo trenta, ogni giorno, a ogni tg?

Oggi dice che il padre di Di Battista critica il governo, e chi è Di Battista, non stava in Guatemala?

E il padre di Di Battista?

Dice che il portavoce del governo era un Grande Fratello: il Grande Fratello a palazzo Chigi? e quando li eliminano?

Perché ci ammanniscono sempre Varufakis, e anche Tsipras: ci vogliono morti?

Laura Castelli, again, ci fa o ci  è?

Mattarella “protegge” il risparmio, pure lui?

spock@antiit.eu

Anche i geometri vedono la Madonna

La geometra Rohrwacher, una dei “quaranta geometri sfigati” del paese, sta per “svoltare”, con una mappatura addomesticata per un progetto immobiliare, ma la Madonna non vuole, e appare alla geometra. Il progetto salterà, nel vero senso della parola, e il “paesaggio dell’anima”, le crete del basso senese, resterà inalterato.
La commedia all’italiana ringiovanita, con un pizzico di demenziale. Una prova di divertimento, e di bravura, per gli interpreti: un Germano nuovamente sorprendente, Alba Rohrwacher, Carlotta Natoli, Battiston, la Madonna israeliana Hadas Yaron. O della coscienza dei geometri.
Gianni Zanasi, Troppa grazia

martedì 4 dicembre 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (382)

Giuseppe Leuzzi


“Rispunta la Banca del Sud”, si congratula Alessandra Puato su “L’Economia”: “Voluto da Tremonti e ceduto da Caio a Invitalia, l’Istituto del Mezzogiorno viene battezzato per la sesta volta”. Ideato da Tremonti – “un gigante con 7 mila sportelli” – a fine 2009 con la legge 191, “per finanziare la nascita di nuove imprese e rilanciare l’occupazione”, naturalmente, grazie alla “presenza diffusa nel territorio” di Poste Italiane, prese due anni solo per mettersi in marcia giuridicamente. Con un investimento da 350 milioni. Dei quai 136 per rilevare Mediocredito Centrale da Un icredit Banca di Roma, e 200 per “dare corpo e cassa” a una struttura di 200 dipendenti. Dislocati in 50 dei tanti uffici postali, 18 in Campania, 13 in Puglia, 10 in Sicilia, 3 in Sardegna, altrettanti in Abruzzo, e 1 a testa in Molise, Basilicata, Calabria. Che sarebbero diventati 250 con lo sviluppo dell’attività. La quale però non partì.
Ci vollero due anni per vedere la Banca del Mezzogiorno operativa (“Banca del Sud”, il nome attuale, era allora di un istituto fondato a Napoli nel 2006). Ma il progetto fu abbandonato dal Governo Monti-Passera quando doveva partire. Le Poste (Caio) se ne liberarono, cedendola a Invitalia, un carrozzone inerte di iniziative fallimentari.

La storia omerica
 Il Comune di Amendolara prova a mantenere alta l’attenzione sulla Secca, potenziale isola Ogigia in attesa della definitiva consacrazione” – paese24.it. Non è un caso isolato. Gioia Tauro vuole Oreste rifugiato da ultimo e rinsavito grazie alle acque del Metauro, “il fiume formato da sette sorgenti” dell’oracolo di Delfi, che oggi si fatica a rilevare sul terreno - così lo vuole il sito del Comune di Gioia, molto ben tenuto, benché il Comune venga dopo ogni elezione sciolto per mafia: “Appena si immerse nelle acque del Metauro, Oreste riacquistò il senno”. Non perse l’impulso omicida, ma “al ritorno” in Grecia “ad Oreste spettò il trono di Micene ed Argo (dopo avere ucciso il fratellastro Alete) e alla morte di Menelao anche quello di Sparta”.
Tiriolo, un paese appollaiato in alto, a cavaliere di quella sorta di istmo che la penisola forma tra i golfi di Squillace e Lamezia, al centro della Calabria, si vuole Scheria, la terra amena dei Feaci. Che però erano un popolo di navigatori, “i navigatori gloriosi Feaci”, e avevano nomi di mare, a cominciare da Nausicaa, sotto il patronaggio di Poseidone (Poseidone Enosictono, dio dei terremoti):  Nausítoo, il re eponimo dei Feaci, che guidò per mare a  Scheria in fuga dai Ciclopi, nonno di Nausicaa, la stessa Nausicaa, Pontònoo, e “i giovani, molti e valenti” del libro Ottavo,  Nautèo, Proreo, Ponteo, Toonte, e anche Euríalo, “il Naubolide, ch’era il più bello per aspetto e per corpo di tutti i Feaci”. Ma non c’è luogo in Calabria che non si voglia omerico.
Si direbbero vecchie fantasie di vecchi solitari professori di liceo. E forse lo sono, anzi sicuramente, chi altro ha la passione di Omero, anzi lo conosce minimamente? Benché: “Ulisse in Italia. Calabria e Sicilia negli occhi di Omero” è opera di Armin Wolf, medievista a Heidelberg e ricercatore del Max Planck Institut, che ha scoperto Copanello, la Portofino (allora, oggi non è balneabile) di Catanzaro, nel 1966, e ha decretato la Calabria la terra dei Feaci, “quella che dava frutti tutto l’anno, la prima Italia”. È a lui che Tiriolo deve la sua consacrazione, a mezzo tra i due golfi, di Lamezia e di Squillace, che lo studioso tedesco fa assolutamente attraversare a Ulisse – per via di terra? Ma è l’unica forma storica di molti luoghi in Calabra, vuota.
Amendolara ha molte altre attrattive, per esempio una gestione amministrativa oculata, nell’edilizia, nella nettezza urbana, nella posizione, ma non se ne cura.

La servitù delle anime nere
“L’amica geniale”, che è una memoria grata dell’autrice, “Elena Ferrante”, sorpresa e sorprendente, amorevole, anche gioiosa, Saverio Costanzo rende su Rai 1 grigia e piatta. Cattiva al più, mai gradevole, giocosa, quale è nel primo libro della serie. In altri film Costanzo sa raccontare a più dimensioni - seppure nella stessa cifra, secca, “rosselliniana”- e senza monotonia: in “Private”, perfino nel claustrale “In memoria di me”. Napoli invece vuole ripetitiva, ingrigita, appena ombreggiata nella cupezza – Napoli… per quanto di periferia. Una cupezza che il dialetto stretto incatena: i sottotitoli in lingua creano una distanza siderale nel vero senso della parola.
Immagini “geniale”, si direbbe, che però non fanno bene alla visione. È l’ideologia Rai che le impone? Ma probabilmente non c’è altra immagine del Sud: anche quando non è “Gomorra”, è sempre livido.

In Calabria non si sa ancora come Calopresti farà il film che annuncia, tratto, alla lontana, da “Via dall’Aspromonte” di Pietro Criaco. Il film è in lavorazione. Ma la presentazione sui giornali locali a inizio mese era del genere “anime nere”, la solfa di Africo – o dei Criaco.

In Calabria, sulla scia fortunata di Corrado Alvaro, “Gente in Aspromonte”, e in Sardegna, su quella di Gavino Ledda, l’aria si vuole irrespirabile. Pregna di violenza, tanto più per essere cieca, di pulsioni elementari. Saverio Strati, che pure è narratore curioso, disimpegnato, ed è stato emigrante, in mondi e occupazioni diverse prima di fare lo scrittore, nei primi racconti di “Gente in viaggio” fa del paese, “l’origine” direbbe Heidegger, in Calabria, un mondo senza luce. Pur in ambiente naturale luminosissimo: un mondo cupo, ripetitivo, desolato. Sul mare, tra fiori e profumi di bergamotti, gelsomini, liquirizia profumate stendendo il canovaccio tetro, umido, muto, della servitù della gleba delle remote marcite russe. 

Non c’è altro racconto del Sud, da Napoli alla Sicilia, dei Rea come di Alvaro, sulla scia di Verga. Il Pirandello di Sicilia che non lo pratica, e anzi ride (Pirandello al Sud ride), è detto minore. Il “Gattopardo” fu rifiutato perché non rispondeva al canone.
Si narra il Sud come in un film di Abel Ferrara, di luci che sono ombre. Che non è vero, ma è quello che si vuole, perché si vende, quello che si  vuole sentire raccontare: le “anime nere” sono invenzione mercantile, giacché e finché si vendono. Innumerevole è diventata in trent’anni la pubblicistica sulle mafie, che nobilitano le mafie pretestando il contrario: non solo racconti, pullulano storie, sociologie, coloriture (personaggi, dinastie, saghe), e statuti – in attesa dei codici? Storie nel senso della storia - storia della mafia? che storia? e che mafia?
Quello editoriale è un commercio legittimo, benché di consumo. Brutto è il commercio che diventa realtà psichica e quasi fede, o comunque professione, si direbbe istintiva. Non c’è odio del Sud tanto quanto nei meridionali. 

L’universale è locale
“Le ‘scienze’ sono, come la tecnica e in quanto tecniche, necessariamente internazionali.  Un pensiero internazionale non c’è, bensì c’è solo il pensiero universale”:  è tema di riflessione per Heidegger nei “quaderni neri” del dopoguerra (“Note I-V”, p. 81), della sconfitta del nazionalismo. Ma l’universalismo il filosofo oppone all’internazionalismo. Anzi, l’universale dice locale: può essere, solo è, locale. Un identificarsi nell’origine e un limitarsi per poter essere universale: “È necessariamente un abitare nel luogo natio, unico, e nell’unico popolo di origine, in modo tale che il pensiero non abbia scopo nazionalistico”.
Il “luogo natio… è il radicamento che solo garantisce la crescita del’universale. Diversamente, il pensare e il poetare restano, tecnica priva di suolo, un’impresa di carattere letterario. Anche la poesia universale nella sua intraducibilità: il letteratume” invece “è internazionale”.
L’emigrazione è comunque sradicamento. Ma il legame “natio” può alleviarlo.


leuzzi@antiit.eu

L’amore in mostra al tempo dell’inappetenza


Una mostra su un poeta. Eppure regge. È una mostra sull’amore, essendo Ovidio il poeta dell’amore, nel mito, nella statuaria, nella pittura. E più nella figurazione classica, buona parte della mostra si regge sull’Archeologico di Napoli, con poche incursioni nel Seicento. Dell’amore o della metamorfosi, che forse è l’Ovidio più in palla oggi.
Fa in effetti un po’ senso ripercorrere tanti amori nei due piani della mostra gigante, felici e infelici, Bacco e Arianna, Teseo e Arianna, Piramo e Tisbe, Venere e Adone, Salmacide e Ermafrodito, e trasvolate, anche queste felici e infelici, di Ganimede, Dedalo, Icaro, in un’epoca inappetente quale stiamno vivendo, o volutamente, anche, frigida. Ma, poi, Ovidio è pure il poeta delle metamorfosi – tema anch’esso usuale in antico, ma con esiti che si amano meglio che non quelli di Apuleio o di Liberale. Il poeta per questo da ultimo di Calvino, delle “Lezioni americane”, per la leggerezza – ritmo, precisione, rapidità: un narratore conciso e immaginifico.
Indirettamente, la mostra romana si colloca nel neo-sensismo, che recupera fino il paganesimo, nella mitologia e nella fisica – Ovidio si appaia a Lucrezio. La mostra lo documenta indirettamente. Con i tanti Ovidio “moralizzati”, così attestano i frontespizi, manoscritti dei secoli XII-XV, e poi anche a stampa. Una mostra nella mostra, per l’eleganza e la nitidezza dei caratteri amanuensi. La chiesa non ne tollerava la licenziosità - come già probabilmemte l’imperatore Augusto, che il poeta suo diplomatico d’improvviso, mentre era in missione in Germania, confinò sul mar Nero – ma non voleva rinunciare al suo nome.  
Francesca Ghedini (a cura di), Ovidio, Scuderie del Quirinale


lunedì 3 dicembre 2018

Ombre - 442

Pirlo mai, nemmeno alla lontana, Modric, un Pirlo modesto, sì, in un anno in cui non ha vinto nulla – o sì, la Champions, ma con quarti, semifinale e finale addomesticate dagli arbitri. Dopo un build-up specialmente scoperto del suo club, il Real Madrid, al mondiale di Russia in estate. L’undicesimo pallone d’oro “spagnolo”  di fila. Non c’è altro calcio, i 173 giornalisti che lo decretano sanno come muoversi – Moggi, che ha fatto vincere Cannavaro e Nedved, lo sapeva anche lui? Non si è Pallone d’oro per aver giocato meglio. 

Sergio Fabbrini documenta sul “Sole 24 Ore” lo strano sovranismo nei confronti dell’Unione Europea: chi ne esce, come la Gran Bretagna, o chi ne sta fuori, come la Norvegia, la Svizzera, la Turchia, l’Islanda, deve adottare le regolamentazioni europee, senza poter concorrere a definirle. E in alcuni casi, Gran Bretagna, Norvegia, Islanda, deve concorrere al bilancio europeo, senza ricadute. Si può dire la Ue una catastrofe ineluttabile, per fare umorismo. Ma forse bisogna ripensare il sovranismo.

“I record del doping all’italiana: oltre 400 condannati, processi di 14 minuti” – “Corriere della sera”. Gli accusati ne avrebbero diritto, ma i giudici sportivi non consentono al difesa. Sono giudici ordinari in pensione o in comando: la funzione del giudice è condannare.
Per doping non c’è il carcere ma c’è di peggio: la fine di una vita.

“Il mastodontico apparato di controlli e poi di ricontrollo dei controlli” rende il lavoro impossibile a Roberta Cocco, top manager di Microsoft che ha voluto tentare l’esperienza di assessore alla digitalizzazione dei servizi civici a Milano. Con effetti deleteri pure sulla corruzione che i controlli dovrebbero prevenire:”Il paradosso  è che una tale sovrastruttura”, spiega a Paola Centomo su “Io Donna”, “impedisce poi che l’eventuale colpevole  possa essere individuato”. Ma non è un paradosso. Bisognava svilire la Funzione Pubblica, in regime di mercato, e che di meglio dell’anticorruzione?. 

Alla Regione Lazio tredici consiglieri del centrodestra presentano una mozione di sfiducia contro il presidente eletto Zingaretti e la sua giunta. Poi, quando rischiano di farcela, alcuni 5 Stelle non gradendo il vassallaggio del gruppo al presidente dem, si sfilano. Quando cioè si profila la possibilità di decadenza del consiglio e di nuove elezioni. I capi di Forza Italia, il partito che aveva avviato la mozione, la dicono inutile.

Prima che i capi di Forza Italia ritirassero la mozione anti-Zingaretti, un leghista, Cavallari, ex assessore di Alemanno,e un forzista, Cangemi, avevano già sottoscritto un patto per consentire la maggioranza a Zingaretti. Si dice trasformismo ma è solo furbizia, della politica come mestiere, cioè occupazione, reddito.

Dunque, il reddito di cittadinanza è la social card di Tremonti, 2008. Si può fare una campagna elettorale su un beneficio, modesto, per gli “incapienti” – allora era d’obbligo chiamarli cosi? E vincerla? Per essere democratici dobbiamo essere antidemocratici?

“Il Parlamento europeo vota contro il fiscal compact”, contro la politica di austerità – vota contro la proposta della Commissione di Bruxelles di farne un testo di legge. È la posizione dell’Italia. Il cui avallo da parte del Parlamento di Strasburgo però non interessa nessuno. Nessuno ne parla o scrive. Silenzio totale. Non ne parlano nemmeno Salvini e Di Maio, o qualcuno nel loro governo, che pure è nato contro il fiscal compact. Non è distrazione, è insipienza.

Silenzi pure sul rallentamento, se non è crisi, della produzione in Germania. Per il secondo trimestre consecutivo, quindi per almeno metà 2018, la produzione  in Germania è in calo. Il rallentamento tedesco è al’origine del rallentamento italiano, che lo riflette a ruota, nel trimestre successivo – la Germania è il partner più importante dell’Italia, Lombardia e Veneto fanno una sola unità economica con Baviera e Svezia. Silenzio. Qui è Berlino che non vuole che se ne parli.

Non si potevano chiamare zingari, nemmeno tzigani, nomi pure onorati, solo rom. Ora non sono più rom, sono romeni, moldavi, ucraini. La protezione delle minoranze è doverosa, ma dei ladri, borseggiatori (borseggiatrici), posteggiatori?

La bambinaia capolavoro

Un film per critici – premiato a Venezia a settembre, è piaciuto a tutti i critici, non c’è un parere negativo, neanche moderato. Ma con scene forti anche per lo spettatore:  la strage di piazza delle Tre Culture a Città del Messico il 3 ottobre 1968, il parto traumatico della bambinaia tuttofare Cleo con la nascitura morta soffocata dallo shock, la festa di Capodanno dei ricchi, gli amori delle serve nella mezza giornata di riposo, i cari randagi in ogni scena, il ritorno di Cleo nella povertà acquitrinosa del paese, il salvataggio dei bambini nell’oceano. Con richiami al già visto: Fellini nella festa, e nel richiamo “amarcord” del film, Bunuel di “Los olvidados”, e il ritmo neo realista, non affettato, del filo conduttore, la vita di un famiglia medio borghese, nel quartiere Colonia Roma di Città del Messico.
Un omaggio a Libo, la propria bambinaia di Cuarόn, qui nominata Cleode-qualcosa,“Manita”, da Flor de Manita, il lussureggiante convolvolo rosso che Humboldt classificò. “Il film che ho sempre sognato di fare” di Cuarόn. Tornato per questo in Messico, dopo Hollywood, e l’Oscar alla regia del 2014 per “Gravity”: “Tornare al mio paese con questo specifico progetto è stato qualcosa di molto personale. Abbiamo fatto un film degli anni 1970, con molti elementi e esperienze della mia infanzia”.  
Un racconto molto latino: donne tutte eccezionali, le serve, la madre, la nonna, la dottoressa in ospedale, uomini sciocchi sciupafemmine. In un mondo di violenza – la presentazione del film ricorda che la stessa troupe ne è stata oggetto durante le riprese, picchiata e derubata di tutto. Ma anche di creatività, specialmente al cinema nelle ultime stagioni.
Cuarόn, scrittore e regista, ne è l’autore a parte intera, soggettista, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore. Una piccola produzione, ora distribuita da Netflix, in sala solo per un paio di giorni, per pochi spettatori – solo 50 copie ne sono state stampate. Al cinema, diversamente che nella scrittura, è ancora possibile fare opera d’arte, tra i congegni del mercato.

Alfonso Cuarόn, Roma

domenica 2 dicembre 2018

Appalti, fisco, abusi (133)

“La stangata sugli Npl: il 50 per cento della torta ai big dei fondi esteri” - inchiesta del “Sole 24 Ore”: “La vendita dei non performing loans (Npl) da parte delle banche italiane, dietro il pressing della Bce, si è rivelata un affare per i grandi investitori”. Ma non è una novità, non c’era dubbio sul pressing della Bce. I non-performing loans sono i crediti incagliati. Che si possono disincagliare in vari modi, ma la Bce ha imposto la svendita subito. Ufficialmente per migliorare l’attivo delle banche, di fatto per indebolirlo.

Proteggere il risparmio, dopo avere avallato la mascalzonata del bail-in nella versione Bce? Una regola illegale – alla Corte Costituzionale verrebbe rigettata. Avallata dalla Banca d'Italia, che pure sapeva e sa di che si tratta. Ignari risparmiatori, truffati dalle banche, sono equiparati ai gestori truffaldini. Con le obbligazioni spazzatura. Con almeno due aumenti miliardari di capitale Monte dei paschi finiti a fondo perduto, avallati da autorevoli banche promotrici e dal Tesoro.

“Tutelare il risparmio”? Il presidente della Repubblica non perde occasione per ricordarlo – è nella costituzione – ma solo per un gioco politico: per spingere il governo verso Bruxelles. Il presidente della Repubblica potrebbe però fare pure qualcosa, sempre a nessun costo. Non ha poteri sulle banche ma sì sulle autorità di controllo, la Banca d’Italia e l’Ivass, sulle banche e le assicurazioni – la bancassicurazione è una furfanteria, al meglio un monte di incompetenze. 

Il presidente del consiglio Conte, Carneade della politica, acquistò immediato spessore tra i due rocamboleschi incarichi per la formazione del governo occupandosi dei risparmiatori truffati dalle banche: la prima cosa che fece, subito dopo il primo incarico, fu di ascoltarli. La novità, la discontinuità, eccetera. Poi, una volta a palazzo Chigi, se ne è dimenticato.

Conte se ne è dimenticato, i suoi vice non l’hanno mai considerato. Né a Salvini né a Di Maio, agli “animali politici”, il risparmio interessa, il risparmiatore non fa massa al voto, le banche contano di più. Con il consolidamento del governo è anzi tornata fuori la saggezza del “parlar male delle banche è troppo facile”.

Non c’è difesa in realtà per il risparmio in Italia, paese che fino a qualche anno fa aveva il record mondiale del risparmio, insieme col Giappone, un comportamento considerato virtuoso. La stampa d’informazione economica è fatta dalle banche d’affari, cioè dai “topi nel formaggio” delle fregature. Le Autorità di controllo sono dalla parte delle controllate – si scambiano anche il personale. I Tribunali sono inavvicinabili – a Milano si valuta che non convenga fare causa per meno di 200 mila euro, per meno va tutto in spese e parcelle, oltre al tempo perso, anni.

La scrittura è postuma

È una delle operette morali, che meriterebbe un ripescaggio autonomo, ora che scrivere è diventato una professione, di ampia applicazione, anche se è professione non riconosciuta, non ha un ordine professionale  – ci sono più scrittori che giornalisti. In dodici capitoli, sotto forma di lettera a Parini, come all’ultimo dei poeti italiani, Leopardi nel 1824 immagina un giovane autore chiedersi a che pro, se ne vale la pena, e come.
“Il” Parini, “uno dei pochissimi Italiani che all’eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri”, venuto alla fine di un percorso “di singolare innocenza, pietà verso gl’infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d’animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall’oscurità”, anche lui insomma postumo, prende a spiegare a un giovane allievo la sostanza del suo e nostro mestiere. La conclusione “del” Parini è mesta: “Gli altri attendono a operare, per quanto concedono i tempi, e a godere, quanto comporta questa condizione mortale. Gli scrittori grandi, incapaci, per natura o per abito, di molti piaceri umani; privi di altri molti per volontà; non di rado negletti nel consorzio degli uomini, se non forse dai pochi che seguono i medesimi studi; hanno per destino di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l’ottengono, dopo sepolti”. Tutti insomma D.O.A., dead on arrival, morti al traguardo. Ma con un ultimo colpo di coda: “Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù, e di quelli che ti somigliano”. Scrivere è azione virtuosa? Sì, poiché è un’impresa a ostacoli – “il” Parini ne elenca cinque.
La “lettera” riprende Tim Parks, sintetizzandola, sulla “New York Review of Books”. Con l’aggiunta di un sesto ostacolo, o settimo o ottavo, con le strategie di marketing e promozione, fino alle tecniche di pubblicazione globale, le scuole di scrittura, il politicamente corretto. Dacché Victor Hugo, nel 1862, dopo aver incassato uno dei maggiori anticipi della storia dell’editoria per “I miserabili”, pretese di curarne il lancio: traduzioni immediate per la pubblicazione simultanea in molti paesi, e una campagna di manifesti aggressivi nelle maggiori città, con la “difesa dei poveri” e il “bene morale”.
Giacomo Leopardi, Il Parini ovvero della gloria
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