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sabato 4 agosto 2012

Il Signore degli Anelli è biblico

La trilogia ha molti stilemi, procedimenti, caratterizzazioni, perfino forme dialogiche, della Bibbia. Fino alla rassomiglianza fisica del genio del bene e del genio del male. Con angeli-eroi – elfi, gobbi, santi – che impazziscono, eventi storici sempre subiti, vittorie straordinarie, semplici citazioni per le donne, popoli vicini e insieme lontani.
Anzi, ha quasi soltanto movenze bibliche, non c’è niente di altre saghe, se non i nomi di Tolkien, e poco di favolistico. È uno schema molto semplice: ricalca il linguaggio e il mondo che lo spettatore euro-americano sa riconoscere, ha assimilato.
Peter Jackson, Il Signore degli Anelli

Secondi pensieri - 110

zeulig

Imperialismo – È la via della libertà? La libertà è la costituzione materiale dell’imperialismo del Duemila, e dell’Occidente durante la guerra e dopo. La risorsa ultima degli alleati nel punto di massima violenza fu la democrazia, la violenza indiscriminata. L’imperialismo della democrazia è la fine: difficile salvarsene, anche in ginocchio con le braccia levate.
L’opinione pubblica, nella mobilitazione totale democratica, entra in gioco non come somma delle singole volontà libere, ma come espressione piccolo borghese, cioè acritica, di ideologie e politiche di altri, che essa non genera, non controlla e di solito non capisce. Alla melassa del linguaggio socio-psicologico corrisponde del resto l’identificazione mistificata del soggetto: ceto medio, società civile, la stessa opinione o sfera pubblica. Il radicalismo rivoluzionario condivide col pacifismo questa ambiguità, sia pure col supporto di Rousseau. Che la volontà libera, singola o “generale”, e non gli Stati determinino le scelte. Gli Stati che s’intrecciano con questo o quel fulcro della volontà politica, la borghesia o i lavoratori, un tempo i soldati o i signori, e perfino i preti.
L’idea che il no, o una bomba, possano fermare la violenza è l’ultimo esito della concezione idealista del primato della politica, la stessa che risolve la politica nel voto - Marx ne riderebbe.

Internet – Lo scrittore Roberto Cotroneo ha su “Sette” Dio nella Rete. Dall’Inizio: “In principio era la parola”. Durante: “La rete è il regno delle psicologie, dei sogni, dell’anima e del divino”. Alla Fine: “L’unione dei corpi con le anime nel Giudizio Universale potrebbe essere totalmente inutile oramai. Bastano gli avatar”. Non nuovo, almeno a partire da “2001, Odissea nello spazio”, ma ben detto. Sembra una parodia e lo.

Ironia – L’ironia dissecca se non è disseccata.

Si può fare a meno di Kierkegaard? Normalmente sì. “Il fenomeno, come sempre foeminini generis, deve cedere al più forte, al cavaliere filosofo”: è l’esordio del “Concetto d’ironia”, libro di esordio di Kierkegaard, senza ironia. Mentre è il contrario.

Dice Soldati, lo scrittore: “Chi ha provato la lontananza, difficilmente ne perde il gusto”. Accade da fermi con l’ironia, la lontananza di chi è dannato a straniarsi. Chi ha provato la lontananza, in realtà, torna più volentieri. Se non che l’esilio c’è, la voglia di espellere, l’ostracismo non è trovata dei greci, e uno si ritrova spesso fuori. Senza bussola.

Storia – Il motto di Clemenceau, “nessuno aveva un’idea più vaga dell’affaire dello stesso Dreyfus”, è vero o falso? È più facile che sia vero, anche se significa che non si è autori della propria storia. E non per “sapere” o non sapere, per essere più o meno avvertiti, o potenti, decisivi, ma perché la storia va a valanga, seppure con leggi o costanti, come la fisico-chimica della valanga.

Storia fededegna è sempre quella di Erodoto, quella che si vede. E anche questo è Occidente, nel senso di concreto. Forse per dare i connotati delle persone. Ma per sapere chi erano, che pensavano, che volevano? E chi mai ha realmente visto? Perfino una bella donna è difficile da vedere tutta. O una statua. Storia vera, lo diceva già Luciano, è quando scrivo cose che non ho visto, di cui non ho avuto esperienza, neanche notizia. O Montesquieu: le storie sono fatti falsi composti su quelli veri o in occasione di quelli veri. Storia vera è Gargantua, Simplicissimus, don Chisciotte, i romanzi, che, dice Novalis, nascono dalle mancanze della storia.
È questo il verum factum di Vico, il verum fictum, la verità inventata: la storia è bella perché varia, ognuno si fa la sua. Anche se spesso uguale a un’altra, dei copisti alla Vrain-Lucas, di Curzio Inghitrami con gli etruschi, di Meegeren con Rembrandt, dei rifacitori di Shakespeare, degli inventori di Ossian e della tradizione, del banditismo di Klopstock, l’inesistente teatro dei bardi che servì ad annettere al germanesimo i cantori celti, a torto definiti impostori. Lo sapeva Tocqueville: la storia è una galleria di quadri in cui ci sono pochi originali e molte copie. La storia perfetta di Bacone, che l’umanità porta dall’infanzia antica alla maturità moderna, nasce romanzetto barocco.

“La storia, facile da pensare, è difficile da vedere per quelli che la subiscono nella propria carne”, dispone Camus da ultimo. Resta la grandezza. Sia pure, in epoca razionalista, un’arcata di venti metri per convogliare l’acqua a Ariccia, ideata da un cardinale, l’essere più inutile. Si è del resto scritto più sul rock-and-rollche sulla Rivoluzione dell’89, benché tutto a Occidente, Presley e la Rivoluzione. La storia è oziosa. Ma allora doppiamente occidentale, per l’ozio e la fede nella memoria – l’Oriente, si sa, non coltiva la memoria, l’India, la Cina, il Giappone….

“La storia viene sopportata solo dalle personalità forti”, Nietzsche stabilisce, “quelle deboli essa le cancella immediatamente”. Col seguito famoso: “Non si creda alla storia come eterno femminino - la donna in sé, l’eternamente inavvicinabile. Al contrario, è all’eterno maschile che va paragonata. Senonché, per coloro che sono «colti in storia», è piuttosto indifferente che essa sia l’una cosa o l’altra: è una generazione di eunuchi”.
Per i neutrali la storia è “critica” - Nietzsche direbbe pettegola. La storia inoltre si fuma: “Lo storico del presente ha elaborato una tale delicatezza ed eccitabilità di sentimento che niente di umano gli resta estraneo, egli è diventato una risonanza passiva, che agisce con altre vibrazioni su altre nature passive dello stesso genere, finché l’atmosfera di un’epoca si riempie di tali delicate e affini risonanze che s’incrociano. Mi sembra tuttavia che, di ciascun suono fondamentale originale della storia, si percepiscano per così dire solo i suoni concomitanti nelle ottave superiori… É come se si fosse strumentata la sinfonia eroica per due flauti destinandola all’uso di sognanti fumatori d’oppio”. Nietzsche apprezzava Stirner, ma nessun rischio ha fatto correre a nessuno. E anzi restaurò l’arcaico, un moralista reputandosi nella tradizione aristocratica francese. Si può dire per dire.

zeulig@antiit.eu

venerdì 3 agosto 2012

Atene in culo alla crisi

La crisi presa per il verso giusto – per i fondelli, per dirla in toscano. Tra teste mozzate di banchieri. Markaris è un giallista disciplinato, il suo detective è un commissario di polizia. Ma non sa trattenersi dal beffeggiare i iugulatori presenti e passati.
La famosa equiparazione tra donne e uomini della cancelliera Merkel (introdotta in Italia da Elsa Foernero, due donne dunque) riceve un’adeguata spiegazione alla pagina 158. Anche la troika nordista che governa oggi la Grecia è scolpita, a pagina 235. Qui addirittura in una dozzina di righe, ma l’equiparazione dei sessi è insuperabile – tutta Martha Nussbaum, anzi di più, in mezza pagina.
C’è anche l’Olimpiade. Il testimone chiave è un atleta che vinceva tutte le medaglie, si è arricchito, e sta morendo di doping. Il commissario Charitos, che ha una passione purtroppo per le strade di Atene, facendoci fare lunghi tortuosi percorsi, si gode così, da “vecchio comunista” disciplinato, la nuova viabilità e la metropolitana dell’Olimpiade di Atene del 2000. Che fu la causa del disastro. Incontenibile.
Ci sono imprecisioni. “È veramente impossibile che lo stesso assassino abbia subito danni a Vaduz e New York”. Normalmente è lo stesso. Dei pii ortodossi citano il Vangelo in latino, nella versione di san Girolamo. Charitos ha lasciato la Fiat Mirafiori, vecchia di quarant’anni, per una Seat Ibiza – senza sapere che la Seat è l’odiata Volkswagen? Ma lo sberleffo è prepotente. La Seat ha il navigatore satellitare incluso in regalo, e Charitos “da vero greco” lo programma per ogni tragitto: “Visto che me l’hanno regalato, lo devo usare”. Ma alla prima indicazione, “svoltare a sinistra”, se ne infischia e va dritto. Una prima, una seconda e una terza volta. Perché questa è la funzione del navigatore satellitare: potergli disobbedire, “tira su il morale”.
Petros Markaris, Prestiti scaduti, Bompiani, pp. 383 € 10,90

Conte è una mina, da disinnescare

Da Conte a Artico, dal giudicato al giudice. Ci sono pressioni sulla Commissione Disciplinare che deve giudicare l’allenatore ora della Juventus, e vengono dagli antijuventini, le stesse forze che reggono la Figc e la Commissione.
Accettare il patteggiamento di Conte, per poi richiedere per lui una pena eccessiva, è la mossa degli stessi ambienti. Con lo scopo di portare la Disciplinare a una pena ridotta, il cosiddetto giudizio equo, che eviti lo scandalo. La mossa è del Procuratore Palazzi, ma in nome della Figc e dei suoi controllori.
L’intransigenza di Sergio Artico, l’avvocato torinese e torinista che presiede la Disciplinare, ha messo in imbarazzo questi ambienti. La protesta del presidente della Juventus, calibrata legalmente, lascia presagire la contestazione della disciplina sportiva presso la giustizia ordinaria. Che su questo aspetto non potrebbe rifiutare la competenza, essendo il fatto penale (a differenza di quanto si prospetta per gli scudetti, di cui sono reclamati i danni in sede civile). In ballo sono diritti individuali protetti costituzionalmente: alla difesa, alla parità di trattamento, eccetera.
La Figc, inoltre, potrebbe essere corresponsabile nel giudizio che gli avvocati della Juventus, De Renzis e Chiappero, vogliono promuovere contro Artico. Per atteggiamento palesemente discriminatorio, contro ogni principio di giurisprudenza, nello stesso processo. E in conflitto d’interesse, da avvocato di Torino coetaneo e concorrente di Chiappero.

Mi-To,l’economia del lager

Doveva essere un progetto, il Nord-Ovest che si rilancia, è rimasto una sigla – un mito. Che si mostra nella sua penultima appendice, l’aggressione alla Fiat di Marchionne, come uno di tanti nomi delle depredazioni di cui Milano fa costantemente oggetto Torino. L’ultima sarà, se l’operazione va a buon fine, mandare al tappeto l’ex capitale d’Italia: con una gigamulta per infrazione al patto di stabilità, in aggiunta ai debiti in essere.
Milano ha via via sfilato a Torino le assicurazioni, la Sip-Stet-Telecom, è le banche. Dopo aver demolito la Olivetti, e nella lunga gestione Romiti già una volta la stessa Fiat. Il metodo era allora la finanza distruttiva di Cuccia, o economia del lager: quanto basta per ricavarne un beneficio prima della morte. La Olivetti, che nel 1962 aveva elaborato il personal computer, costrinse a dedicarsi alle macchine per ufficio – il personal farà la fortuna della Ibm. La Fiat ereditata dall’Avvocato con Romiti era la quarta produttrice mondiale di automobili. Cuccia non c’è più ma c’è Bazoli – forse più cattivo.

giovedì 2 agosto 2012

Il mondo com'è - 104

astolfo

Capitale – È “tenace avarizia e avidità”: il Gattopardo di Lampedusa lo fissa in un’istantanea guardando il consuocero arricchito Sedara.

Il suo meccanismo è forse impensabile per essere semplice: accumulare spendendo. Creare ricchezza dissipandola. Già dal tempo di Crasso e i pubblicani. I quali erano capaci, dalla Spagna alla Licia, quando arrivava l’imperatore, di erigergli un tempio, un teatro, una biblioteca, un ginnasio, un arco di trionfo. Veri, di pietra e marmo e non di cartapesta. Ben più cari di una Carnegie Hall, che poi è un investimento e non un monumento. Facendo tutti contenti, l’imperatore, i cavatori, i sacerdoti nei templi e le vestali, nonché i costruttori edili. E questo per le virtù moltiplicative del denaro, che non è il nummus e non è l’oro o l’argento del conio, né il biglietto di banca, il certificato del governatore dell’istituto d’emissione, ma un principio attivo. Che la penuria rende produttiva, di reddito e ingegno applicato, di tecniche, salute, piaceri.
Per il resto si scimmiotta la religione del capitale: Lafargue, il genero ozioso di Marx, il Tirteo francese Rouget de Lisle, il conte Saint-Simon. Che Büchner trovò all’osteria a Strasburgo, accanto al Duomo, in testa un berretto rosso, al collo una sciarpa di cashemere, in giubba corta tedesca e pantaloni aderenti, sul panciotto un Rousseau ricamato. Non il conte, un suo seguace: i sansimonisti, avendo avuto nel conte il père, spiega Büchner ai suoi, erano alla ricerca della mère, nella forma più generica di femme, e per essa s’addobbavano. Anche nella femme, luogo laico, c’è una forte origine del capitale.

Imperialismo – L’antimperialismo di Lenin è il manuale del governo borghese, gli ricorda che l’uomo d’affari tende a mettersi il mercato sotto i piedi.

Il più vasto è sicuramente quello odierno, della libertà. L’America ha un’idea forte del mercato, della propria libertà, che scuote Hobson e il vecchio imperialismo. A meno di non tornare al dibattito che si fece in Atene su Atene, se la democrazia era imperialista su spinta dei ricchi oppure del popolo. Bisognerebbe dire del popolo, e non ha senso. L’America è piena di radici, ecco che, benché trascuri la genealogia. Per la cittadinanza. Anche i poveri si sentono protetti. Forse, dice Arendt, per non avere mai vissuto il totalitarismo e il terrore.
Gli Usa esercitano l’imperialismo, e l’antimperialismo. Con più intelligenza che altrove, romantici con più sentimento, violenti senza pari terribili. Il tutto è antico romano, benché il posto sia di libertà recente - sotto le chiappe della Libertà era la dogana carceraria degli immigrati. Bisogna tornarci su: la nazione più solida è quella più composita, l’America, malgrado l’eccidio degli indiani, il razzismo impunito, l’imperialismo compulsivo. Nel segno della libertà.
L’America ha fatto della libertà strumento di espansione, come i romani antichi, che anche loro fingevano di non avere abbandonato la libertà nell’impero. A spese dell’Europa imperiale e coloniale dapprima. Ora a spese degli stessi liberati, un terzomondista questo lo vede in ogni canto ogni giorno. Qui si parla della libertà moderna ovviamente, l’Ottantanove, il suffragio universale, i diritti dell’uomo eccetera. La libertà della Rivoluzione la Francia ridusse a piccola cosa, a fronte della libertà di tutti gli altri paesi, la Germania compresa, e l’Italia, la cui indipendenza, se non la libertà, pure la Francia direttamente aiutò. Il miracolo francese al Congresso di Vienna fu di diventarvi il lievito dell’Europa tutta, più che di uscirne intatta e prospera malgrado la sconfitta. Ma durò poco: la libertà dei popoli europei si trasformò in nazionalismo, esclusivo, feroce, all’insegna dei primati, morali, civili, eccetera. Con la libertà gli Usa hanno slombato nelle due guerre metà Europa, compresa la diplomazia palese, e nel ‘56 le alleate Francia e Gran Bretagna in Africa e in Asia.

Opinione pubblica – Quando un atleta non vince all’Olimpiade i giornalisti gliene fanno una colpa – sempre i giornalisti fanno una colpa all’atleta, alla squadra, alla bellezza, al genio, ma all’Olimpiade si nota di più, perché è in diretta, a caldo. Come se l’atleta avesse voluto perdere, non si fosse impegnato al meglio, non avesse lavorato per settimane e mesi alla gara. Come se l’atleta fosse stato solo con se stesso invece che in gara con altri altrettanto agguerriti atleti.
È un vizio non soltanto italiano – l’Olimpiade consente anche questo, di sintonizzarsi sullo stesso evento su altre lingue di altri paesi. Come se il giornalismo avesse vocazione censoria invece che rappresentativa. È il virus dell’“opinione pubblica”. L’infezione viene non dalla proprietà o dagli interessi nascosti, dall’a chi giova, dallo schieramento, che comunque è palese, ma da una funzione giudicatoria che persone senza alcun titolo si danno. Nel nome della libertà di opinione e informazione. Uno, non il solo, effetto perverso della libertà: l’opinione pubblica vi si radica e la tradisce.

Si legge il giornale con apprensione. È l’effetto che il dandy Baudelaire avvertiva cupo, senza spiegarselo: “Stamattina ho avuto l’imprudenza di leggere alcuni giornali. Improvvisamente, un’indolenza del peso di venti atmosfere si è abbattuta su di me, e mi sono fermato davanti alla spaventosa inutilità di spiegare una qualsiasi cosa a chiunque”.

Rivoluzione – La cultura è la sola rivoluzione del Settecento che sia sopravvissuta, all’industria, al capitale, alla patria, al razzismo, all’imperialismo, pure negli Usa. “Il pensiero di quel che sarebbe l’America\Se i classici avessero larga diffusione\ Mi toglie il sonno”, scrisse Pound al giudice che condannò l’Ulisse per oscenità.

Socialismo Usa - L’America avrebbe fatto felice Marx: non c’è legge o etica che il ruolo non determini, cioè il denaro. A lungo, a fine Ottocento, si sono anche ipotizzati gli Usa come terreno privilegiato per il socialismo. L’America socialista Bellamy l’ha pure scritta. Ma non è fantasia, il paese è maturo. Oggettivamente. Altrimenti salta Marx: vi si può vivere liberi, schiavi, e perfino contenti. A meno dell’imperialismo, che degli Usa un imprinting – vocazione, identità, fede.
A meno dell’imperialismo, Tocqueville dovrebbe riscriversi: l’America ha tutto per essere socialista, forza, ingenuità, indifferenza, seppellisce i morti a beneficio dei vivi, abbatte le case ogni pochi anni, e si taglia i ponti, nomi, origini, parentela, senza accumulo. Sono uguali pure le facce: taglia, prognato, sorriso, linguaggio paiono fatti con lo stampo. Poi c’è il bombardiere, parte dell’imperialismo ma anch’esso livellatore: la storia dell’impero Usa, che sarà stata la cosa migliore del terrificante Novecento, se è vero che difende la libertà, e comunque non ha gulag, si fa col bom-bardiere. Il taglio è netto con l’imperialismo britannico, che si voleva localistico, utilizzatore e anzi difensore delle varietà. Ora si punta alla distruzione delle differenze. La pizza è subito americana, e il vino, e sono uniformi, non buoni né cattivi, ma non altrimenti definibili o conformabili. Mentre i film stranieri, in quella patria del cinema, non si vedono, se non si rifanno americani.
L’omogeneità, riflesso della merce di massa e quindi del gusto, che è l’ordito culturale del monopolismo, obbedisce a tutti gli effetti ai canoni di Marx, ed è a tutti gli effetti egualitaria. Monopolio e impero si affermano attraverso l’uguaglianza, e non per beffa, è un progetto politico - che Tocqueville già ai suoi tempi trovò intollerabile: voleva addolcirlo con la democrazia greca, dei belli-e-buoni di spirito.

astolfo@antiit.eu

La giustizia graziosa, tra Borrelli e Tabucchi

È il libro-intervista col Procuratore Capo di Milano all’epoca di Mani Pulite, un progetto editoriale poi ridimensionato e pubblicato su “MicroMega” a fine 2001. Di incredibile fiacchezza.
Borrelli vi dice, obliquamente come suole, varie verità. Che Di Pietro non è di sinistra, ma un “cristiano-democratico” di campagna. Che Di Pietro non voleva essere affiancato da magistrati del Pci. E che in Sicilia la mafia sembra scomparsa perché c’è la pax mafiosa - s’intende tra capimafia, ma forse Borrelli intendeva altro. Qualificandosi sempre opportunista, ma da solo, non incalzato dallo scrittore. A Di Pietro ricorda infatti d’aver affiancato due del Pci, vuole che si sappia. Ma Colombo lo fa un chierichetto, “intriso di cultura cattolica”, Francesco Greco uno specialista di fallimenti (di D’Ambrosio, poi senatore del Partito, non c’è traccia). Non richiesto, dice anche che la sua Procura non ha graziato il Pci: cita Greganti, Stefanini, Cervetti, Barbara Pollastrini – le indagini più fiacche. Fa una citazione impropria di Santi Romano, della pluralità degli ordinamenti giuridici, o della non esclusività delle leggi dello Stato, e la estende alla mafia. Tabucchi non obietta.
Tabucchi lamenta “l’arretratezza civile dell’Italia”, per la mancata Riforma e la mancata Rivoluzione borghese “come la Francia e l’Inghilterra”. Borrelli condivide. Il discorso di Craxi alla Camera sulla corruzione politica Tabucchi riduce a una chiamata di correo. Borrelli condivide. Sulla confusione dei ruoli tra pubblici ministeri e giudici, Borrelli concede: “Il pubblico ministero che va a trovare i colleghi in camera di consiglio prima dell’inizio dell’udienza, per esempio, era una brutta abitudine, perché, anche se andava a parlare della partita di calcio della sera prima, dava l’impressione che coltivasse contatti anche al di fuori del contraddittorio”. Tabucchi condivide: “Insomma non era elegante”. E Borrelli: “Certo, non era elegante”.
Sofri merita una segnalazione a parte. Tabucchi lamenta che, condannato senza colpa, resta detenuto, mentre condanne incontestate a vari ergastoli sono state scontate con pochi anni di carcere. Borrelli risponde che Sofri è condannato per omicidio. Tabucchi: “Se lei potesse, se ne avesse la facoltà, gliela darebbe la grazia a Sofri?”. Borrelli: “La mia risposta è sì”. Tabucchi: “Bene, la ringrazio”. Borrelli è all’origine della condanna di Sofri, senza colpa?
Antonio Tabucchi, a cura di, Sulla giustizia e dintorni. Intervista con Francesco Saverio borrelli, “MicroMega” 5\2012, pp.9-68 € 14

La giustizia scassatrice

Il partito dei giudici si sfalda, i sottopartiti dei giudici pure. Tutti nel partito di Di Pietro contestano Di Pietro, tutti nel sottopartito di De Magistris contestano De Magistris. I giudici, e anche i laici: l’illustre procuratore Narducci, vero autore di “Gomorra”, un amministratore delegato sceso da Torino, e l’assessore al bilancio, napoletano ma rigido. Il sindaco che ha avvinto i napoletani al grido “amm’a scassa’”, ha scassato i più compassati tra i collaboratori che ha scelto.
I lodatori appaiano De Magistris, che se ne compiace, a Masaniello. Ma allora a uno molto notabilare - “figlio di magistrati, nipote di magistrati”, così si complimentava con Santoro sulla Rai. Che a Catanzaro s’inventava i processi per farsi cacciare dalla cittadina e poter tornare a Napoli. In uno s’inventò Romano Prodi a capo di una cupola massonica a San Marino, con l’inevitabile Mastella braccio destro. In un altro, “Why Not”, che martedì si è chiuso in primo grado dopo sei anni, in tempo cioè per mettere da parte numerosi prescritti, si sono potute dare condanne, miti, ad alcuni faccendieri della “industria della formazione”, assolvendo i nove politici coinvolti. I giudici volevano condannare la superteste di De Magistris, Caterina Merante, anche’essa imprenditrice della formazione, ma, disgrazia, era prescritta anche lei. Il commento di De Magistris: “La sentenza dimostra che c’era qualcosa”.

mercoledì 1 agosto 2012

La giustizia quando è sportiva

Si può dire giustizia sportiva poiché si vince e si perde. A prescindere dai meriti e dalle colpe – la palla è tonda, eccetera. Così il Siena, che ha la colpa perlomeno “oggettiva” degli illeciti che si imputano alla squadra, è ammesso al patteggiamento. L’allenatore invece, incolpato di un reato meno grave, no. L’allenatore della Juventus, naturalmenre e non del Siena, col suo vice: tutti gli altri ammessi al patteggiamento, loro due no.
Si può aggiungere che la Juventus ha avvocati incapaci, e anche questo è parte dello “sport”. L’avevano voluta condannata alla serie B, e oggi ne fanno condannare l’allenatore, con disdoro. È una partita che Torino perde regolarmente, le hanno preso Telecom e le banche, le stanno prendendo la Fiat, a pezzi, e non sa nemmeno di essere in gara.
Ma l’ipotesi del patteggiamento non era piaciuta a Milano, e questo è meno sportivo. “Vincono Conte e la Juve”, aveva decretato Milano in un singolare articolo-commento del “Corriere della sera” sulla vicenda dell’allenatore. Che Battista nello stesso giornale aveva detto condannato benché non colpevole, ma Battista non fa testo, è un accessorio benché illustre.
Resta da sapere con chi le squadre milanesi si giocheranno il campionato. Chi resta da tifare, la Roma, il Napoli? Sempre meno roba.

Problemi di base - 110

spock

È meglio amare o essere amati?

E chi si ama se non si è riamati?

È meglio vivere o essere vissuti, magari dalla filosofia?

Il poeta profetizza, anche nostalgico, il pensatore pure, il politico pure, non sarà il presente (eterno) divenire?

Se non ci sono fatti, solo teorie, perché la teoria è sempre fallace?

Perché Nietzsche, antimoralista polemico, moraleggia?

Perché la filosofia, che non crede, vuole convincere?

spock@antiit.eu

“Lolita” raccontata da Lolita

“Lolita”, scritta da Lolita.
Marguerite Duras, L’amante

martedì 31 luglio 2012

Perché il “Corriere” tifa Vw contro Fiat

È una partita di potere. Di Intesa-San Paolo contro Marchionne. Che ha dato troppa indipendenza finanziaria alla Fiat, già mucca da latte per il gruppo bancario. È la sola spiegazione che viene data al pressing del “Corriere della sera” contro il gruppo torinese e Marchionne in particolare. Con l’incongrua sponsorizzazione della Fiom-Cgil, e l’altrettanto incongruo patrocinio della Volkswagen.
Il “carattere” di Mucchetti, che ha aperto le ostilità, non c’entra – il giornalista è solitamente posato e argomentato. Il direttore de Bortoli, d’altra parte, non è un antipatizzante Fiat. L’attacco a tutto tondo da una settimana contro Torino, sui modelli, la politica sindacale, la politica industriale e perfino la Juventus, trova spiegazione solo riconducendolo alla proprietà, occulta ma non tanto, del gruppo editoriale milanese.
Contro Marchionne, che ha criticato la politica dei prezzi Volkswagen (con i suoi amrchi Seat e Skoda), il giornale ha preso posizione, senza argomenti, per la casa tedesca. Chiedendo anzi che l’Alfa Romeo venga ceduta alla Volkswagen. Che è una richiesta tedesca, ma vecchia, non convinta e non rinnovata. Il cui effetto sarebbe peraltro di accrescere la capacità produttiva Volkswagen, e ridurre di un quarto quella Fiat in Italia, nel momento in cui si tenta di coordinare un riduzione pro quota delle capacità europee.

Odiare per sentirsi vivi

Notevole idea, tutta d’un pezzo. Olindo Guerrini s’inventa un’identità, Lorenzo Stecchetti, che fa morire di tisi, con tutti i particolari della lunga agonia, compreso il viaggio a Napoli, inutile perché Napoli è la città dove piove di più. Lo fa morire a trent’anni, l’età in cui pubblicava le sue poesie, intitolate “Postume”. Con successo garantito, per il noto “muore giovane chi è caro agli dei”. La letteratura è folle, talvolta anche in forme folli.
Lorenzo Stecchetti, Il canto dell’odio

Letture - 104

letterautore

Celtismo – Nella trasposizione cinematografica “Il signore degli anelli” è tutto Bibbia.
Sono i miti e riti celtici del “celtismo” anch’essi biblici? In Tolkien la Bibbia non c’è, in nessun modo, ma ancora non c’era il celtismo – e lui non mitizzava il ceppo celtico dei suoi bonari sassoni.

Dante – È un ulisside, un ricercatore sperimentale. Maria Corti, studiosa di Dante (il suo ultimo libro, uscito postumo nel 2002, è “Scritti su Cavalcanti e Dante”, il penultimo è “Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante”, 1993) era anche appassionata di Ulisse, in tutti gli aspetti del personaggio, imbroglione o navigatore della verità, in tutte le proprie capacità espressive, di filologa e di romanziera. Nel saggio “La «favola» di Ulisse: invenzione dantesca?” (in “Percorsi dell’invenzione”, in altri scritti, e in una lunga intervista a Rai Educational (4 aprile 2000), si compiace molto di aver saputo collegare il naufragio di Ulisse al canto XXVI dell’ “Inferno” , che ritiene non un’invenzione di Dante ma un fatto provato, e la torre di Babele che lo stesso Dante critica – ma ne è affascinato - nel “De Vulgari Eloquentia”. È il fascino, argomenta la studiosa, che esercitavano gli aristotelici radicali o averroisti, per ciò stesso in odore di eresia, quali Boezio di Dacia e Gentile da Cingoli, analisti logici dei “modi di significare”, e cioè della creatività infinita del linguaggio.
Un accostamento che così spiega nell’intervista: “Questo naufragio è anche servito a Dante perché ricalca un po’ la metafora del naufragio descritto da sant’Agostino, che è il naufragio dei filosofi che non cercano la verità, cercano degli errori e naufragano, prima di raggiungere il porto della verità. Ecco, noi sappiamo che Ulisse rappresenta qui quei filosofi…, i filosofi dell’aristotelismo radicale, che Dante usa. Non solo, per un certo periodo, ha aderito a loro, ma poi avendoli abbandonati, ha fatto naufragare il personaggio che li rappresenta. Ulisse nell’inferno usa un’espressione di Boezio di Dacia: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”. É quello che Ulisse disse ai suoi compagni di viaggio, che è una frase scritta nel “De Summo Bono” di Boezio di Dacia”.

Giallo - È solo in Italia ormai che i gialli si svolgono attorno a un detective, un commissario, un giornalista, uno “fissato” (il nonno, la pensionata, la casalinga) e la giustizia trionfa. Il paese dove invece non c’è giustizia, se non per caso. È solo in Italia che c’è il giallo, a enigma (soluzione), mentre altrove c’è, da quasi un secolo ormai, il noir, tutti assassini.

Ironia – Ha l’irritante cadenza del falsetto. Fra ironici si sta in guardia, non c’è da fidarsi, neppure di se stessi. Anche se il lettore non lo è, l’ironico sta sempre in guardia, un lettore ironico capiterà.

È una narrazione il cui oggetto è la narrazione – non inevitabile.

Marker, Chris – Si può serre stati autori di cinema-cinema, artisti dell’immagine, il movimento, le luci, e non essere stati. Coautori di Alain Resnais, ispiratori di Lyng, Gilliam, e altri autori di successo. Perché è il mercato che fa il reale, nel cinema e non solo. È così che Marker muore ignoto, per essersi dedicato al cinema da uomo di cinema.
Era ancora pieno di progetti e entusiasmo al festival del cinema di Teheran. Ce n’è stato uno, nel 1975, voluto dallo scià per progettare film che portassero il paese agli onori degli Oscar. Con partecipazione affollata, senza scandalo politico. Con i goscisti del mondo intero, un invito dello scià era irresistibile. Con Orson Welles, che progettava una scuola di cinema, che lo scià av rebbe potuto finanziare. Ospite d’onore Moravia, che avrebbe dovuto portare alle produzioni iraniane i Fellini, con le Mangano, le Sophie Loren e i Mastroianni. Hans-Jürgen Syberberg ci presentava la conclusione della trilogia sulla Germania privata, la proiezione delle private fantasie dei tedeschi, con “Hitler”, che sancisce il nazismo quale spettacolo – non per idioti: la trilogia è lunga una diecina d’ore, più di Wagner, celebrazione che Syberberg anticipava con un documentario su Winifred Wagner. Chris Marker si esaltava al “Trionfo della libertà”, alla scena in cui Leni Riefenstahl fa vedere il punto di vista del cinema: la torre con rotaia, da cui la cinepresa inerpicandosi darà le panoramiche. Magnifica prova, diceva, di straniamento, lo smontaggio del meccanismo della narrazione che sarebbe la migliore narrazione.
Marker era Christian François Bouche-Villeneuve, nobiluomo impegnato. Con Resnais aveva aperto alla negritudine il cinema, “Anche le statue muoiono”, altro filone di novità. Un rivoluzionario. Rivoluzionaria in un senso l’arte del cinema lo è, come Benjamin ha scoperto: è utopica. Specie all’incontro con la forza della città, con la velocità. Ma ottimo cinema si fa pure col tempo lento agreste, perfino col tempo non tempo. Che Marker poteva trovare in Persia anche al tempo dello scià modernizzatore – ora è più rara, nel regime tradizionalistico: la poesia che sa far parlare il tempo, la vecchia e la nuova, sa far parlare la pausa, tra il vino e i piaceri.

Pound – “Pound, che biograficamente era fascista, scrisse un tipo di poesia che Hitler, se l’avese conosciuta, non avrebbe potuto fare a meno di bruciare”, U.Eco, prefazione alla riedizione de “Il costume di casa”, luglio 2012.

Traduzione – Si esercita soprattutto su Joyce, la parte di Joyce intraducibile, l’“Ulisse” e “Finnegan’s Wake”. La traduzione è una sfida? Di “Ulisse” Celati prepara ora la quarta traduzione del dopoguerra, dopo quella ancora canonica di De Angelis (Mondadori), di Bona Flecchia nel 1995, alla scadenza dei diritti d’autore (Shakespeare and Company), e di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi l’anno scorso (Newon Compton). Celati scegli un criterio che vuole essere filologico e non lo è: “Joyce non riesce a pensare una frase che non sia un fatto musicale”, dice. E su questa traccia lavora: la frase deve “suonare” bene.
Una chiave “filologica” che apre tutte le porte – non c’è ormai scrittore o poeta che non si voglia musicale. Ma congruente. La musica è intraducibile. Tuttavia, la musica delle parole no: la parola è traducibile anche quando è musicale, musicalmente significante.
La questione è peraltro niente al confronto con la collazione del “vero” Joyce – il Joyce dell’“Ulisse”. Una questione di pelo così caprino che è perfino puzzolente.

letterautore@antiit.eu

lunedì 30 luglio 2012

Gli amori di Elsa, immaginari e ultimativi

Parla, perché non rispondi? Luchino Visconti, una delle vittime, si deve sorbire un lungo richiamo in forma di poema, “Avventura”. All’amore di Elsa, come sempre ultimativo. E così è pensabile gli altri reagenti, tutti amori totali e definitivi, a parte i gatti Minna e Alvaro. Ma Visconti di più, tra bagliori e sfavillii, di diamanti e stelle, pomi (qui arance) e elisir – il genere “l’amore è un fuoco ardente”.
Per i cento anni della nascita di Elsa Morante si riedita la plaquette, già uscita nel 2004, con una dozzina di poesie d’amore. Una raccolta messa insieme dalla scrittrice nel 1958 per “gioco…per semplice piacere della musica”. Ripresa poi da Cesare Garboli nel 1988, e qui arricchita da un “Quaderno inedito di Narciso” e da una prefazione dello stesso Garboli, già curatore del primo volume delle opere della scrittrice nei “Meridiani”. Che sapiente ne ricostruisce i linguaggi. Attorno al fulcro imprescindibile: le irruenze di Elsa. Una forma di adolescenza attardata, sottolineata dal radicamento delle poesie negli appunti del “Quaderno inedito” di quando era ragazza trentenne. Garboli parla di Narciso, con l’ausilio della stessa scrittrice. Che al più parla con Eco.
Incredibilmente onesto e preciso il blurb editoriale: “Le poesie d’amore, immaginario o reale, trattato e vissuto come un male, di una delle più singolari scrittrici italiane”.
Elsa Morante, Alibi, Einaudi, pp. 95 €8,50

Italia sovietica – 8

Le recensioni si accumulano, ormai da cinque anni, a Simone Weil “antipolitica”, “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”, senza mai menzionare che il libello è contro i partiti comunisti, macchine del consenso.

Elena Aga Rossi scrive a Sergio Romano per lamentare la mancanza di una legge sulla trasparenza degli atti della Pubblica Amministrazione. Romano le risponde ricordando la rivoluzione e il fallimento di Gorbaciov con la glasnost, la trasparenza: “L’Italia non è l’Unione Sovietica, ma le burocrazie hanno tratti comuni”.

Una legge sulla trasparenza della P.A. c’è, è del 1990, la 241, seppure limitata agli atti di interesse personale del richiedente. Ma i lavoratori della P.A.,col sostegno dei sindacati, ne hanno limitato la vigenza agli intermediari di ogni atto: associazioni di categoria, sindacati, commercialisti, etc. Per uno scrupolo di efficienza: per non perdere tempo con i cittadini.

Giuseppe Tornatore lamenta sul “Corriere della sera” tre anni di odio e angherie per aver fatto il kolossal “Baarìa” con la Medusa, una società di Berlusconi: recensioni pregiudicate (“può essere Kubrick, lo faccio a pezzi”), mai un premio, solo uno per Morricone, lettere anonime, minacce, denunce, blocco della candidatura all’Oscar. Tutto corale all’unisono, senza una faglia.

Sul “Corriere della sera” Pierluigi Battista critica giustamente il patteggiamento che l’allenatore della Juventus Conte chiede per l’“omessa denuncia” d’un tentativo di corruzione. È come dichiararsi colpevole, argomenta Battista, “di fronte a una quasi certa ingiustizia annunciata”. Ma poteva dire di più.
Nel processo sportivo non ci si può difendere, come nei processi staliniani, solo mitigare la pena ammettendo la colpa. E chi è il Procuratore di questi “processi”? Uno messo lì dalla Lega, cioè da Galliani, cioè da Milano.

La mafia di Stato

Non c’è la mafia nel “Gattopardo”, cioè in Sicilia, e a Palermo in particolare, nel 1860 – c’è l’ “uomo d’onore”, ma è una sorta di bestia: “Uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage”, i Brusca e gli Spatuzza del coltello.
L’origine della mafia è nell’origine dell’Italia, del governo italiano in Sicilia, anzi a Palermo, dopo l’annessione. Il nome e il fatto. La mafia si può dunque dire di Stato, ma nella storia, non nei teoremi volenterosi dei pentiti. Anche se di storici recenti. Anzi di una storica, Lucy Riall, irlandese – ci vuole un doppio outsider per sapere la verità (un filone di studi realistico, almeno finora, e non revisionista, opportunistico, si deve a storici non italiani, Nelson Moe, Marta Petrusewicz, Lucy Riall)? Riall l’ha detta in “La Sicilia e l’unificazione italiana”, tradotto nel 2004 e subito scomparso. Salvatore Lupo la risuscita in “L’unificazione italiana”, col crisma dunque del maggiore storico della mafia.
Lo Stato italiano creò e utilizzò la mafia per combattere ogni antagonista politico, reale o presunto: vecchi rivoluzionari, garibaldini, crispini, liberali moderati. La luogotenenza a Palermo fu affidata il primo anno a due civili, il marchese piemontese Massimo Cordero di Montezemolo e il fuoriuscito messinese Giuseppe La Farina. Fedeli di Cavour, vedevano nemici acerrimi nei garibaldini, nei repubblicani e nei municipalisti o autonomisti, i vecchi liberali che diffidavano di Napoli, categorie di politici che il conte scriveva di contrastare con “mezzi estremi”. La luogotenenza non aveva truppe: i due dovettero fare affidamento sulla Guardia Nazionale, di cui si fidavano poco, e la rimpolparono con uomini di mano nei quartieri. Uno di questi, Antonino Giammona, sarà il primo condannato di mafia, capocosca dell’Uditore arricchitosi con la manomorta.
Un anno dopo, fallito il ritorno di Garibaldi all’Aspromonte, arriva con lo stato d’assedio un generale con l’esercito, Giuseppe Govone. Con l’incarico di fare piazza pulita dei briganti, che però in Sicilia non c’erano, dei renitenti, che erano moltissimi, e degli oppositori politici. Un’esibizione di autorità, in una città e un’area dove incubava una seconda rivoluzione, che segnò, nota Lucy Riall, “un crollo dell’autorità”. Da cui l’isola non si è ripresa. Rendendo la rivoluzione inevitabile e impossibile. Finendo quindi per non credere né alla rivoluzione né allo Stato.
Contro i renitenti alla leva obbligatoria Govone occupò militarmente centocinquanta comuni, sospendendo l’erogazione dell’acqua e arrestando i parenti dei giovani. Ma l’occupazione militare non dissuase i garibaldini moderati (Crispi), quelli radicali (Corrao), e i liberali (autonomisti). Furono allora messi in azione “accoltellatori” e elementi “popolari”. La notte dell’1 ottobre furono pugnalate tredici persone, senza motivo. Responsabile si confessò prontamente un informatore della polizia borbonica, e i mandanti vennero indicati in Crispi, Corrao e i liberali. Contro Corrao si distinse un fiduciario della prefettura, Salvatore La Licata, che sarà il secondo capomafia emerso alle cronache giudiziarie.
Pochi mesi dopo, il 3 agosto 1863, Corrao fu ucciso con una scarica di pallettoni. I killer non furono cercati. Ma furono indicati nei fedeli di Corrao. Contro i quali venne aperta la caccia. In particolare contro due rivoluzionari del ’48, volontari del ’59, del ’60 e del ‘62, gli ufficiali garibaldini Giuseppe Badia e Francesco Bonafede. Fu contro di loro che nel 1865 il prefetto Filippo Gualterio coniò la parola e l’accusa di “mafia”, una “setta malandrinesca”, scriveva al ministro, a capo della quale c’era stato Corrao, e ora c’erano Badia e Bonafede.
Gualterio inaugurò, con la mafia di Stato, anche i pentiti. Nella caccia ai due si distinse il giudice Giovanni Interdonato, già repubblicano. Badia fu scovato e arrestato da Carlo Trasselli, garibaldino con lui al Volturno e sull’Aspromonte. Govone era stato sostituito da Giacomo Medici, generale già di Garibaldi.
Si arriva così all’ultima rivoluzione siciliana, quella del 15 settembre 1866, contro lo Stato italiano. Che segnò, con la sconfitta, la rassegnazione dell’isola. La città fu occupata dagli insorti, spalleggiati da squadre confluite da tutta la provincia, per una settimana. L’esercito, passato intanto nelle mani del generale Cadorna (Carlo, il fratello maggiore), e i gruppi “popolari” di La Farina, in particolare le squadre di Giammona e La Licata, ne fecero liberamente strage una volta rioccupata la città. Prima che Cadorna imponesse la legge marziale. Dopo la quale furono giustiziati solo due rivoltosi, ma si aprì la caccia a ogni personalità o gruppo politico non controllati. Accusandoli di essere criminali o legati alla criminalità, e anzi alla “mafia”, intesa setta segreta. Ma, nota Riall, nei sette giorni e mezzo dell’insurrezione non c’erano stati né sciacallaggi né altri delitti comuni. E gli arrestati di Cadorna erano in gran parte artigiani, onesti. Venne accusato e arrestato perfino il vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto, colpevole di essere un intellettuale, a ottant’anni.

domenica 29 luglio 2012

Ombre - 140

“Le aziende pagano il conto dello spread”: se ne accorge infine “Il Sole 24 Ore”, titolando “La sfida impossibile fra Italia e Germania”. Un esempio: Enel e Rwe, il colosso elettrico tedesco, hanno lo stesso rating, ma le obbligazioni del gruppo italiano scontano tassi nove vote superiori a quelli del gruppo tedesco.

Viperino “Corriere della sera” contro la Fiat. La Volkswagen ha ragione, Marchionne è un furfante, la Volkswagen, affettuosamente VW, “ha buoni modelli e forti polmoni finanziari”, la Fiat ha chiuso l’ufficio progetti (sic!), Vw lavora col sindacato, la Fiat “spezza le reni al sindacato”. Con avvertimenti stile “papello”: Monti prenda nota, “chiamarsi fuori come Ponzio Pilato non è possibile”. È l’ultimo tocco alla distruzione ambrosiana dell’Italia?
Un solo particolare è omesso: che questa VW è Da Silva, un designer che ha fatto carriera in Germania dopo essere maturato all’Alfa, che ora sogna tutta sua.

Per i funerali di Loris D’Ambrosio a Santa Susanna, il cappellano cita Matteo: “Beati i perseguitati per causa della giustizia”. D’Ambrosio ne sarebbe contento, lui che aveva progettato e scritto il 41 bis?

“Una campagna violenta” denuncia Napolitano per iscritto, nel necrologio di D’Ambrosio. Come non detto. Il capo dello Stato denuncia un’aggressione, nessuna Procura indaga.

“Si respira un clima di linciaggio senza precedenti”, rincara il ministro Gnudi. A opera d’ignoti?

“Silenzio” su D’Ambrosio impone invece il “Corriere della sera”, col suo costituzionalista Ainis buono a tutto. Niente killer né mandanti.
La “colpa” di D’Ambrosio sarà stato l’atto gratuito di Gide – Ainis da ultimo è autore di un romanzo di fantasmi?
Si capisce anche che la Costituzione funzioni poco, con questi guardiani.

“Difenderemo l’euro” è il messaggio che Merkel e Hollande, riuniti, ci mandano. Come se potessero dire altro. Grandezza della mediocrità – media inclusi, che li beatificano.

Il corrispondente della Rai da Nairobi, riferendo del rapimento di due tecnici petroliferi italiani in Nigeria (Nigeria e Kenya, come si sa, uno sono, lì nell’Africa), dice che i guerriglieri combattono le compagnie petrolifere perché “inquinano e predano risorse”. Il vecchio verbo rivoluzionario, aggiornato con l’ecologia. Di guerriglieri che invece tutti sanno essere banditi di passo, in cerca di riscatti.
È delle rivoluzioni fallite finire in mano ai banditi. Ma la Rai, che rivoluzione ha fatto per averla fallita?

Trentamila giornalisti a Londra per diecimila atleti all’Olimpiade.

La Procura di Cremona si era scordata la Juventus e il Procuratore Palazzi solerte, nemmeno sollecitato dai suoi padroni Milan e Inter, ha provveduto a metterla al centro dello scandalo. Poi si dice che Napoli non è efficiente: è l’anema e il core del capitalismo.

“La giustizia italiana ci ha abituati a molte inchieste e poche condanne”, scrive bene Polito sul “Corriere della sera” della mafia elevata a Stato. Ma dopo aver detto che niente è più democratico che “intercettare il capo dello Stato, e anche motivare pubblicamente l’ispirazione politica della sua azione”. Nelle democrazie popolari? In uno stato di diritto la giustizia politica non c’è.

Solo martedì 24 luglio Alessandro Merli ha l’opportunità di dire sul “Sole 24 ore” che la Germania contiene il debito addossandone un terzo, 500 miliardi, al famoso Kreditanstalt. Che è una sorta di Spa ma pubblica al cento per cento e a tutti gli effetti. Può dirlo però in breve, e senza scandalo. Per non indebolire la politica dei tagli? Meglio l’ideologia che la sopravvivenza.

La Consob ha sospeso le vendite allo scoperto, short selling, su banche e assicurazioni. Che dunque non erano sospese. Sì immagina la speculazione opera di quattro o cinque colossi segreti, mentre è una miriade di piccoli e piccolissimi operatori.
Le ha sospese per una settimana. Di quale mercato è protezione la Consob?
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Non ci sono che europeisti nei giornali italiani. Non ci sono mai stati tanti europeisti a prescindere quanti ora che l’Europa non esiste. Effetto del disarmo vaticano (post-Woytiła) e sovietico.

Favoloso Vaticano nella ricostruzione di Marco Ansaldo su “Repubblica” lunedì: gli spioni degli atti riservati del papa erano i suoi intimi. Oltre il suo cameriere privato, la governante traduttrice, il ghostwriter fedele di decenni e l’ex segretario. Tutti diffondevano i suoi appunti non per soldi ma per amore del papa. Una storia di ordinaria follia, puro Ottocento.

Il mare lava, anche le coscienze

Sul mare è un’altra vita, anche se in barca. La bonaccia è minacciosa, il vecchio può ringiovanire, male e bene si decompongono, si vive con gli elementi più che di parole. Andrea Cappai, velista e curioso di cose nautiche, lo dice in aneddoti: una spedizione delle Br al largo di Creta per un carico di armi, i “renaioli” di Firenze che tante vite salvarono durante l’alluvione con le loro barchette, l’affondamento del “Rainbow Warrior” di Greenpeace in Nuova Zelanda da parte di un commando francese, comprese due (belle) donne, una promossa ammiraglio da Mitterrand riconoscente, e la prima uscita di Giulio Bollati, l’editore che gli autori rimpiangono, da ragazzo sul lago di Como.
Una lettura filante, con più di una sorpresa. La più curiosa è che il capo delle Br, Moretti, non voleva tirare ai delfini, come invece si è letto su tanti augusti giornali. Ma questa è un’altra storia – sul mare la (dis)informazione non incide.
Andrea Cappai, Papago. Barche che hanno incontrato la storia, Nutrimenti, pp.96 € 14

Giornalismo a lutto, senza strage di Stato

Martedì il “Corriere della sera”, non avendo avuto il solito input contro Dell’Utri, ha rimediato con una fotina in cui Cuffaro lo bacia. Una manifestazione consolante di sottigliezza culturale, per l’uso suggestivo della proprietà transitiva o sillogistica: siccome Cuffaro è condannato per mafia, Dell’Utri è mafioso.
Mercoledì ha avuto Marina Berlusconi. Magra.
Giovedì il giudice Di Maggio. Che è morto e non si può più dire. Ma che i Procuratori di Palermo vogliono uomo dei servizi segreti, e quindi della “strage di Stato”, e insieme fautore del carcere duro contro i mafiosi.
Da venerdì più nulla, sul “Corriere della sera” e anche altrove, essendo morto D’Ambrosio. Che ne sarà ora del giornalismo italiano?