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sabato 3 settembre 2016

Problemi di base - 291

spock

Si è migliori animalisti trattando gli animali come animali, oppure come ometti?

Se i cani di casa azzannano gli indifesi, non sarà che c’è una  mafia dei cani?

Ci sono più uomini o più topi, come evolve l’evoluzione?

La domesticazione non c’è in Darwin: cambierebbe l’evoluzione?

Chi ha addomesticato l’uomo?

E sempre resta il ruolo di Darwin nell’evoluzione; senza non ci sarebbe stata?

Perché i cani azzannano, se poi non mangiano – saranno a metà dell’evoluzione?

La spiritualità degli animali si celebra a Torino, a Milano degli affari, a Roma dei 5 Stelle, c’è una ratio?

spock@antiit.eu

Fisco, appalti, abusi (91)

Si fa il caso di Fabrizio Pellegrini, carcerato perché coltivava la cannabis a suo uso terapeutico, per liberalizzarne la coltivazione. Mentre quello di Pellegrini è un caso, uno dei tanti, di cattiva amministrazione: di incapacità dell’apparato repressivo, che manda in  carcere un ammalato che si cura, e in questa insipienza recidiva. La liberalizzazione non garantisce contro questa amministrazione della giustizia.

Si fa grande caso dei profitti mafiosi col contrabbando della droga per giustificare la liberalizzazione della marijuana – mentre si reprime l’uso del tabacco, ora anche all’aria aperta (bisogna avere un fumoir). Questo si fa col sostegno dell’apparato repressivo, che ogni estate ingigantisce la coltivazione illegale della marijuana, soprattutto in Calabria, per pagarsi gli straordinari, e soprattutto le ore di volo, alla scoperta di “piantagioni” a bordo torrente.

Funzione unica dei Vigili Urbani, quelli addetti al traffico, è “fare multe”. Non indirizzare la circolazione e prevenire e punire gli abusi, ma multare gli indifesi, nelle strade dove non si circola. A Monteverde a Roma, per esempio, non presidiare gli assi centrali, via Carini-Via Barrili, e via Fonteiana, dove la macchine in seconda fila, da entrambi i lati, provocano ingorghi e manovre pericolose ai due mezzi pubblici di quartiere, il 75 e il 44, ma le strade residenziali. Lo stesso è vero altrove a Roma a Prati, a viale Libia, etc.

Si “fanno multe” nelle strade residenziali calcolando minuziosamente di quanti centimetri il paraurti posteriore fa ombra sulle strisce pedonali, e se non ci sono le strisce ricorrendo comunque al divieto di parcheggio in corrispondenza di incrocio – che occorre in tutti i quartieri con le strade a intersezioni a croce.  Questo per “fare multe” da 100-200 euro, con detrazione di punti. Spesso in duplice accoppiata, l’art. 158 duplicando con l’art. 146.

Si dice vigili urbani, ma sono le vigilesse soprattutto indirizzate al traffico: inutili agli incroci, singolarmente assenti dagli assi centrali del traffico, solerti nel “fare multe” nelle strade denza circolazione. È questo il loro mestiere, nessuno gli ha insegnato cosa è o dovrebbe essere un vigile urbano? E che pensare di chi “fa multe” a cuor leggero, per nessun danno, di 100 e 200 euro? Non c’è moralità pubblica (presidiare gli assi centrali), ma nemmeno privata, personale.

Roma fa pagare la notifica di una multa stradale 14 euro. Una notifica che si riduce all’invio di una raccomandata,  a mezzo del corriere ItalPoste, che ha sede davanti all’ufficio centrale del VV.UU. all’Ostiense. Questo corriere prende 14 euro per una lettera di due o tre grammi?

La notifica della multa stradale a Roma viene solitamente retrodatata rispetto all’invio della raccomandata, normalmente con timbro oltre i 90 gg. Facendo fede una “data di spedizione” arbitraria, di cui cioè non c’è traccia in un protocollo o altro registro a uso e garanzia dell’utente.

L'Ecofabulatore, della letteratura

Eco fa il professore di se stesso. Con la consueta verve – e con un po’ di furbizia: è stato come rieditare nel 1983 il già milionario “Nome della rosa”.
Un’autocelebrazione anche – non si direbbe, ma Eco si amava: “Un autore non deve fornre interpretazioni della propria opera, altrimenti non avrebbe scritto un romanzo, che è una macchina per generare interpretazioni”. Ma. A partire dal titolo, “un titolo è purtropo già una chiave iterpretativa”, giù titoli e spiegazioni, “Adso da Melk”, “Abbazia del delitto”, etc. Ma una lezione amabile, un’ora?, per 45 pagine: la preterizione, il respiro, “chi parla”, il romanzo “come fatto cosmologco”, e “come raccontare ilpassato”: il romance, il romanzo di cappa e spada, il romanzo storico. E lo storico-sperimentale naturamente, quello suo: Eco era reduce del Gruppo 63, in realtà ’68, del postmoderno citazionista, con l’ironia, al fine ineluttabile dell’“avanguardia”. Il romance,  per ora (per allora) è tutto: il passato e l’avvenire - “molta f antasciena è romance”: basta che la storia “non si svolga ora e qui, e dell’ora e del qui non parli”.
In realtà non una lezione, non s’impara nulla, se non le nozioni eventualmente ignote: non un metodo di scrittura e nememno una traccia. Ma un altro Eco, un fabulatore della letteratura. 
Umberto Eco, Postilla a “Il nome della rosa”

venerdì 2 settembre 2016

Il falso pentito Eco

Altre divagazioni sul suo proprio lavoro, dopo la”Postilla al Nome della Rosa”, e l’enorme paratesto a “Il pendolo di Foucault”, materia a un futuro ecobiblismo. Una rilettura dei suoi romanzi, senza “Il cimitero di Praga” per fortuna, e “Numero zero”. Con riuso di molti materiali già noti e discussi. Con la curiosa dissociazione, molto echiana, della difesa della “semiosi illimitata” di Peirce e insieme della necessità di limitarla, ancorarla. Con ampie esposizioni delle due “tecniche postmoderne” di cui vanta l’uso: l’“ironia intertestuale” e il “metaracconto”, la “riflessione del testo sulla sua propria natura”. Ciò che si definisce “doppia codifica”. Cose che il lettore trova senza spiegazioni fumose in Manzoni – in Dumas, Walter Scott.
Scivoloso. Subito su scrittura creativa e scrittura scientifica: la scrittura è “creativa” tra virgolette, e il termine è “malizioso”. Da logico post-scolastico, che però, invece di iscriversi alla neo-tomistica, si è ingolfato nella semiotica. Illuminandola con l’estro e il garbo, ma smarrito. Facendosi sempre perdonare per l’indefettibile autoironia: “Una volta ho perfino scritto, con  tocco d’arroganza platonica, che consideravo i poeti e gli artisti in generale come prigionieri delle loro proprie menzogne, come degli imitatori d’imitazioni, mentre in quanto filosofo io avevo accesso al vero mondo platonico delle Idee”. Ma smarrendo il fedele lettore: a quale Eco appigliarsi?.
È un falso pentito, gli uditori cui si indirizzava configurando come un tribunale. Confessa – rivendica - “la passione per la falsificazione”. E non tutto, dice, rivela “Per scrivere un romanzo di successo, un autore deve conservare il segreto su certe ricette”. Con un ghigno? Insensato. Sofistico: di ogni scelta dà ragioni diverse, probabilistiche, teoriche, tutte vere, cioè tutte false – talvolta le “falsifica” lui stesso: il relativismo è sofistico. Non cinico. Non scettico. Stimolante, ma a nessun esito.
Dei romanzi dà i tempi di  lavorazione. Poco cerdibili – in tutto,  per i cinque romanzi di allora, fanno ventisei anni. Si vuole figurativo, e in quache modo lo è: produceva migliaia di abbozzi, schizzi, disegni di ogni perdonaggio, luogo, situazione – come Fellini, Günter Grass. E ricorda che Marco Ferreri si era proposto di fare “Il nome della rosa” al cinema perché tutto è precciso nel romanzo: “Il suo libro mi sembra concepito espressamente perché se ne faccia una sceneggiatura, i dialoghi hanno esattamente la giusta lunghezza”. Giusta, intende Eco, perché si svolgono dentro e tra ambienti da lui calcolati in minuziose topografie.
“Il nome della rosa”, primo successo planetario istantaneo, prima del “Codice da Vinci” e di “Gomorra”, finisce per non spiegare, “i lettori ingenui e di poca cultura” escludendo “da questo gioco” postmoderno “di scatole cinesi, da questa regressione delle fonti, che conferiscono alla storia un’aura di ambiguità”. Il suo obiettivo essendo “una sorta di complicità silenziosa col lettore colto”. Milioni di lettori colti? In effetti questo libro, una serie di lezioni a un pubblico colto, di un autore sui propri libri, di un semiologo sui propri segni, è eccezionale. È anche buona cosa – a parte l’effetto mercato, di convitare gli studenti americani, futuri mediatori culturali, a un incontro ravvicinato prolungato con l’Autore Celebre e il Celebre Semiologo? Poco ne resta.
Sono poche le confessioni. Forse solo una: che scrisse “Il nome della rosa” per caso. Invitato dalla redattrice sua amica di una piccola casa editrice a scrivere un breve racconto giallo, lui come altri “scienziati”, rifiutò vantando: “Se dovessi scriverne uno, lo farei di cinquecento pagine”, dopodiché la molla scattò. Si può anche credergli. Un quarto del materiale, “Autori, testi e interpreti”, è ripreso da “Interpretazione e sovrainterpretazione”, di vent’anni prima, che a sua volta si rifaceva al voluminoso trattato “I limiti dell’interpretazione”. E un altro quarto abbondante dalle “Mie liste”, di cui approntava un volume a parte – ricco, questo, di un’imponente selezione di immagini. Elenchi spenti, nulla della vertigine delle liste originarie di Rabelais. Il saggio centrale è di semiologia: il Lettore Empirico, il Lettore Modello, l’Autore Empirico. E anche il primo quarto, il più originale, “Scrivere da sinistra a destra”, è farcito di grammatologia indigesta: il condizionale controfattuale, il dispositivo, la decodifica, la doppia codifica.
Sarà questo il motivo per cui di Eco, di cui editano anche i ritagli, queste “Confessioni” non si pubblicano in italiano?
Umberto Eco, Confessions d’un jeune romancier, Livre de Poche, pp. 216 € 6,60
Confessions of a young novelist, Harvard University Press, pp. 231, ril., € 17,44

Roma delle signora mia

Sarebbe Aristofane, se non ci fosse di mezzo Roma, e anche il governo, e quindi l’Italia. E poi con Grillo non si può: il nuovo che avanza è imponente, benché di “zeppole”, aria fritta gonfiata. Tra fascisti ri-ri-riciclati (Fini-Alemano\Polverini-Grillo) e tutte le “signora mia” della sparsa periferia, che dopo “Forum” e “La vita in diretta”, insieme con i “venditori di polizze” e quelli del “non si trova lavoro”, sono partite alla conquista del potere. Spalleggiati da una stampa assurda, se non altro perché questi non leggono, solo i loro tweet, e spesso neanche.
È finita a commedia da tempo. Con Berlusconi – Grillo non fa ridere, piuttosto fa paura. Quando Berlusconi fece votare Grillo, per farlo più forte di se stesso – Aristofane non ci aveva pensato. Ma non c’è stato tempo di accorgersene, per lo sbalordimento. E ora non si ride: per paura di Grillo? Tanta stupidità sconcerta.
:"Times New Roman"; mso-hansi-font-family:"Times New Roman";mso-bidi-font-family:"Times New Roman"'>È come togliere l’anima alle città. Ma non è argomento per la borghesia avida della rendita urbana, che evidentemente è forte con Grillo. La specificità dell’Italia, che Roma ha saputo difendere malgrado i tanti attacchi ormai da mezzo secolo a questa parte, è la continuità dei luoghi, vissuti senza interruzione. 

Roma città aperta, alla piccola speculazione

Non è vero che si avviasse ai cento giorni senza nulla in mano: Raggi un’idea ce l’aveva, e l’ha disposta, all’insaputa di tutti: pedonalizzare il centro dei quartieri. Via gli artigiani e le botteghe storiche, che non fanno girare abbastanza i soldi, spazio alle jeanseri-con-scarperie e ai tavolini a gogò, pizze, gelati, birre, e microonde (pizze, piatti e stuzzichini). Si parte da Monti, la sindaca ha già deciso, bypassando la circoscrizione, che eccezionalmente a Roma, tutta grillina, è Pd.  
Le pedonalizzazioni, è notorio, si camuffano di verde, ma sono la speculazione dei fondaci. Per liberare i piani terra e gli scantinati dagli affitti storici e di lungo periodo e portarli alle stelle - a beneficio i più di anonime in paradisi fiscali.
È come togliere l’anima alle città. Ma non è argomento per la borghesia avida della rendita urbana, che evidentemente è forte con Grillo. La specificità dell’Italia, che Roma ha saputo difendere malgrado i tanti attacchi ormai da mezzo secolo a questa parte, è la continuità dei luoghi, vissuti senza interruzione.

Cercasi Berlusconi a Roma

Parisi non trova interlocutori a Roma. Nemmeno contestatori, come a Milano Salvini. Non trova niente a Roma dei popolo berlusconiano.
L’incredibile Berlusconi, che ha escluso Giorgia Meloni - la candidata “bella e giovane” che il suo stesso decalogo politico richiedeva – dal ballottaggio con buone possibilità di vittoria, ha lasciato i suoi elettori divisi e intontiti. Intontiti soprattutto: non si rendono ancora conto come abbiano potuto votare Raggi e dare una così grande vittoria a Grillo, farne la  seconda potenza politica e il nuovo sfidante del Pd.
Gli emissari di Parisi sono scesi ad assicurare il sostegno della loro Milano alla candidatura romana all’Olimpiade. Ma questo non è argomento che ecciti i romani. Neanche gli ultimi due giorni, di passione per  i 5 Stelle, hanno smosso i vecchi berlusconiani.

giovedì 1 settembre 2016

Quattro selfie milanesi a Roma

Appena nominati, i tre big milanesi dell’amministrazione romana 5 Stelle lasciano l’incarico: il capo di gabinetto Raineri, l’assessore al Bilancio Minenna, e Solidoro, l’amministratore unico di Ama, l’azienda dei rifiuti, presidente dei commercialisti milanesi, uomo di Minenna. Quattro con l’ing. Rettighieri, portato all’Atac, l’azienda dei trasporti, dal commissario Tronca, prefetto di Milano.

È la capitale infetta? Non l’hanno detto. Il programma della neo sindaca Raggi non li convince? Quale programma? E poi perché hanno accettato prima? È la superficialità tutta milanese: immagine e chiacchiere. È anche la politica dei “nuovi”, i nuovi arrivati: non sanno nemmeno cos’è, l’amministrazione pubblica, e non gli interessa, passato l’effetto selfie

Ombre - 331

Non passa settimana che Renzi non vada a colloquio con Merkel. Ma che avranno da dirsi, che poi non dicono niente?
Questa settimana Merkel è andata a Maranello. Questo si capisce di più, all’autoscontro.

Il governo ha impegnato l’Istat a rivedere di qualche decimale domani la stima del pil. L’Istat non sa che fare, e si aggrappa ai servizi, che contrariamente alla produzione – e all’occupazione complessiva – è un settore in crescita di qualche decimale. È quasi commovente.

Che ne diremmo se ci appioppassero oggi una tassa megagalattica per un investimento di tredici ani fa? Questa è l’Unione Europea, scorretta, inaffidabile, e mafiosa.
Dice: ma la tassa è una multa, è l’esito di un accertamento legale. Durato tredici anni? E perché concluso oggi e non ieri, o domani?

Zuckerberg va alla Luiss a parlare agli studenti e parla di Virgilio. In latino. Sconcerto. Qualcuno sussurra che si tratta di Enea. Ma anche questo nome dice poco.

Laude
Il politico consumato
Dormiva della grossa
E pesci non pigliava
Eppure peccava

Se solo come un cane
Zuppo come il pulcino
Di buon viso s’arrendeva
A cattiva sorte

La polemica deflagra,
Il caos scoppia
(Non era già scoppiato?)
E i remi si tirano
In barca

Il rischio è sempre quello
Dello astensionismo
della società civile
che più non sa
(pigliare i pesci)

Quattro inviati, due per giornale, due pagine, di “Repubbblica” e “Corriere della sera” alla festa romana del “Fatto Quotidiano” al Testaccio in onore delle “sindache”, cioè di Appendino e Raggi. Senza dire che erano in quattro. Non proprio quattro, una quarantina, non di più occupavano le sedie. Il tipo candidati – soprattutto candidate – senatore o assessore.

“Chi ha ucciso Hande (Hande Kader, l’attivista transessuale turca), n.d.r.) dorme nel nostro letto”, intima il questore Saviano dall’ “Espresso”. Forse nel suo? Anzi sicuramente: c’è una perversione, non tanto oscura, nel masochismo, quando si induce in altri.

La passerella di Christo sul lago, un regalo al pubblico, è costata 33 milioni. Di cui la metà a carico del pubblico. Specie di quello che non ha potuto o voluto nemmeno camminare sulle acque.

Ventotene, nome evocativo, portaerei, decoro importante, e i tre maggiori capi di governo dell’Europa, Merkel, Hollande e Renzi. Che però non hanno saputo dirsi e dire nulla. È l’Europa delle figurine, peraltro non belle?

Quella tarantella è un rito

“U sonu”, o “sonu a ballu”, sta per tarantella. Per la tarantella dell’Aspromonte, del sud dell’Aspromonte, dell’area grecanica. Castagna parte da una curiosa inversione, di un ballo sicuramente popolare e di gruppo, sociale (ritmo, stumenti, ruota, maestro da ballo, mimica e significati del ballo), ingentilito nel primo Ottocento nella musica colta e borghese, come allora usava di tutti gli usi popolari, che sarebbe ritonato come ballo gentilizio, finto popolare: “L'invenzone della tarantella” è il capitolo iniziale.
Il musicologo sostiene l’assurdo: che la tarantella sia quella di Chopin, Rossini, Liszt, Bizet, Mendelssohn, e i tanti altri compositori del filone romantico, fino a Ciaikovskij - dopo le “pastorellerie”? Dopodiché dice inventata la tarantella come ballo popolare. A opera dei gruppi folkloristici in voga tra le due guerre. E del fascismo? Ma certo, Castagna non se lo lascia scappare. E dunque la tarantella è ballo alto, e fascista. E di più quella aspromontana, un posto che non ha né nobiltà né musica colta, e i cui intellettuali ne rifuggivano fino a poco fa con disprezzo.
Subito dopo peraltro richiamando le “pastorellerie” sei-settecentesche, col Re Sole che si fa ritrarre con la cornamusa in mano: la musica colta ha le mode, come i potenti. E facendo differenza tra la Scozia, dove la cornamusa diventa “simbolo nazionale”, e il Sud Italia, dove resta strumento di pastori e cafoni – così come l’organetto, e il tamburello, e la chitarra battente.
Passato il furore iconoclasta, il “suono” però si ricompone: è un monumento che Castaga erige ai suonatori di Cardeto, alla zampogna. Alla loro musica coreutica, sonu a ballu: se non si balla, “si perdi u sonu”. A un sentimento e un bisogno che vengono da lontano. La danza, “deposito sedimentato”, e quindi il “sonu a ballu”, insomma la tarantella, ha “una spiccata caratterizzazione in senso rituale”.
Il ballo (“u sonu”) in piazza, col maestro da ballo, la ruota, la coppia, che si forma e si riforma, a intervalli brevi, di un minuto, un minuto e mezzo, per consentire la partecipazione singola di tutti i convenuti, non è uno spettacolo. È un rito. Civile, in casa, per una ricorrenza, sia pure un invito agli amici – Castagna attesta che a Cardeto era costume fino a qualche anno fa, e tuttora non infrequente, essere invitati a ballare dopo il pranzo di cui si è stati ospiti. È una danza rituale nel senso religioso, davanti al tempio: “Fra gli elementi di arcaicità che legano u sonu dell’Aspromonte sincronicamente ad altre danze del Sud Italia e diacronicamente alle danze sacre dell’antichità greco-romana vi è l’aspetto devozionale. Infatti la rota si carica di ulteriore senso sacralizzante nel caso del ballo votivo. Si balla alle principali feste religiose, si balla fuori dai santuari”.
Si può aggiungere per esperienza che a Polsi si ballava anche dentro il tempio, almeno fino a qualche anno fa, allo stesso modo come si ballava nel recinto sacro nelle cerimonie religiose dell’antica Grecia – una persistenza come quella della vittima, una giovenca, da immolare, infiorettata di nastri. E che si ballava in campagna, al suono della zampogna, l’inverno, finita alle quatttro la giornata di lavoro.
Con un nutrito inserto fotografico, di contadini e montanari, suonatori e danzatori.
Ettore Castagna, U sonu. La danza nella Calabria Greca, Squilibri, pp. 181, ill., con cd € 18

mercoledì 31 agosto 2016

Letture - 272

letterautore

Camilleri – Ha il culto del padre, in tutte le prose memorialistiche, e ininterrottamente nel lunghissimo “La linea della palma”. Che dice sempre la parola giusta. A caccia col padre è “un mondo magico”. E anche a pesca. Anche in Montalbano: “Attraverso Montalbano sto cercando di fare il ritratto di mio padre”. Che, squadrista della prima ora, è il miglior (intelligente) padre del mondo. Uno che ha amici che erano  restano fascisti e altri che saranno democristiani, ma tutti buoni. Così sarà del figlio, che è comunista da quando non lo sa nemmeno lui (glielo rivela il vescovo, che frequentava da chierichetto – altro padre?).

Céline – Perché fu antisemita è questione ricorrente, di molta trattatistica. Non essendolo per formazione culturale né ideologica. Né per prevenzione personale: le “Lettere alle amiche” documentano relazioni prolungate con donne ebree, intellettuali e non, e di queste donne con lui. Anche dopo il 1937 e i libelli antisemiti. Tra i tanti motivi per cui maltratta il padre in “Morte a credito”, 1936, c’è il suo antisemitismo. Fu anche uno dei pochi intellettuali, forse l’unico, che a Parigi criticava Maurras.
Céline non fu nazista, nemmeno sotto l’Occupazione, quando scriveva per la stampa collaborazionista: ha sempre odiato e disprezzato il tedesco, anche nella narrazione sarcasticamente cupa di “Rigodon”, il rigodone della sua fuga in Germania, col governo vichysta a Siegmaringen. E non fu fascista: è l’unico intellettuale europeo ch non abbia mai un cenno, neppure distratto, a Mussolini e alla cose italiane, la guerra di Spagna, l’impero, le sanzioni, l’asse - nemmeno un cenno mai del resto, per uno scrittor francese inconcepibile, all’Italia: aveva studiato tedesco e inglese e guardava al Nord..
La ragione più convincente dei libelli è la guerra, l’odio e la paura della guerra, esito di un’epoca materialista. I due motivi che costituiscono tutta l’“opera” di Céline, e fanno l’attrattiva del “Viaggio”, e delle tante narrative dopoguerra. Il presupposto è che il sovietismo era “ebraico”, nozione corrente tra le due guerre, e che il sovietismo divide l’Europa e apre la porta alla guerra, per la paura del comunismo e per il disarmo morale con cui infetta l’Europa attraverso il materialismo. I libelli partono dal “Mea culpa”, di ritorno dal viaggio in Unione Sovietica, dove Céline non è colpito dallo stalinismo, con le purghe generalizzate di quell’anno 1936, ma dal materialismo gretto. Prodromo di guerra, l’annusa, la sente, la sa, anche nella data, 1939. La guerra che sarà bestiale e apocalittica, anche questo sa, che tutti temono ma non si può scongiurare: è il tema di tutti i libelli.
Del resto, si trascura bizzarramente che, se Hitler poté fare la guerra, e vincerla fino al 1942, fu in virtù del trattato con Stalin, per la non ingerenza e la divisione del bottino.

Monogamia – È più appassionante indubbiamente del’adulterio: enigmatica e improbabile sotto il velo della normalità, che è puramente normativo. Ma non suscita interesse: neppure un romanzo sulla monogamia, contro i tanti sull’adulterio, tema romanzesco anzi preferito a ogni altro.

Norvegia – Ricorre in Enzensberger (“Tumulto”, 75) che ci ha vissuto, con la prima moglie, Dagrun e la figlia Tanaquil, a Tjøme, un’isola sul fiordo di Tønsberg e di Oslo, come in Hamsun. In “una piccola casa bianca di un capitano con grande giardino”, dove poetava:
“Calme le sere nordiche a giugno
Spensierato l’orologio d’ottone batteva sull’isola,
senza memoria stava la casa di legno, pacificata
in cui non diventava buio,
calma, calma stava la barca ormeggiata al pontile,
come se fosse felicità, calmi
stavano i libri, le rocce, sul davanzale
stava l’acquavite chiara.”
Non granché, ma il tempo è sospeso lo stesso.

Padre – “Per un bambino suo padre sarà sempre di gran lunga meno interessante di un cavallo”, Henri Michaux, “Le disavventure del signor Plume”.

Roma – È una città con il centro, che si vive dall’interno. È qui il suo charme, che fa l’invidia delle altre capitali? Emilio Cecchi in “Pesci rossi” scopre che la città si capisce e si gusta dall’esterno. E raffronta Roma a Londra, a favore d Londra: “Roma è monotona e annoiata soltanto perché gli abitanti di Roma si ostinano ad abitare a Roma e diventano insensibili alle mostre dei negozi e a tutte le bellezze di Roma”. Mentre Londra è una metropoli “mitologica e smagliante soltanto perché i suoi abitanti, per nove decimi, sono abitanti suburbani”. Ma ci vuole spessore e “corpo” per essere sensibili. E questo ha Roma.
Roma non è monotona – dove? E se è annoiata è che i romani, essendo vetusti di millenni, vivono a ritmo blando, fingendo di annoiarsi. Non insensibili alle bellezze della città, com’è possibile, poiché ci crescono dentro, con inevitabili e ottime, positive, ricadute pedagogiche. Vissute e non dette, non insegnate, ma per questo più intime. Una pedagogia che finora l’ha tenuta fuori dalla pratica d’immolare il suo centro, una città, all’“isola pedonale”, secondo la convitano i “giornali stranieri”, e i giornali tout court, magari nemmeno pagati – centro pedonale è un eufemismo per centro commerciale.

Scrivere – Senza leggere? È quello che insegnano le scuole di scrittura. Ma come si fa? Si scrive perché?
La scuola, anche se di scrittura, è sempre quella: insiste sull’alfabetizzazione.

Socrate – Un Costanzo? Un Santoro, un Floris? Enzensberger, “Considerazioni del signor Zeta”, lo rappresenta persuasivo che tiene il suo “talk-show” in piazza: “Socrate era probabilmente il più noto conduttore di Atene”.

Viaggio – I Greci, gradi viaggiatori, erano dell’opinione che l’uomo fuori casa è un povero disgraziato – Socrate preferì la morte all’esilio. Qualcosa di simile dice Pascal: “Ogni disgrazia viene dal non saper stare in una camera”.

letterautore@antiit.eu

Stupidario sismico

“Il terremoto non uccide, uccide piuttosto l’opera dell’uomo”, dice il vescovo alla messa a Amatrice. Che consolazione è ? E che teologia? Si vede che il vescovo non si è mai trovato dentro il terremoto, ma questa non è ragione valida.

Si pensava la soperchieria culminata quattro anni fa col giudice Marco Billi dell’Aquil, quello che condannò geologi e vulcanologi per non aver previsto il terremoto. Ma non c’è limite al peggio. Il vescovo ha un suo paradiso, dove occorre diffamare? Si vuole candidare, a sindaco, a onorevole, a un talk show?

In tono con l’eulogio francescano in auge della bellezza del creato, il vescovo loda i terremoti che hanno creato le montagne. E se ne creassero altre?

Dice anche il vescovo: “Dio non  è il capro espiatorio delle nostre disgrazie”. No, e chi altro?
Al vescovo piacerà il Dio dei terremoti, è possibile, ma non a molti.

Ci sono morti romani nel terremoto, casi anche pietosi, e numerosi funerali a Roma, ma nessuno si è fatto vedere. Invece per la diretta di Amatrice la sindaca Raggi è in  prima fila. Tallonata da Zingaretti, il “governatore” della Regione. Una televisionata non si perde, a costo di perderci una giornata.

Zingaretti non si è voluto candidare a sindaco, rischiava. Ma ora non si perde Raggi, in qualsiasi occasione, è l’ombra del sindaco. Si vede anche che non ha molto da fare, buon per lui.

Trecento morti per il terremoto, non meno di trecento responsabili del terremoto stesso: geometri, imprenditori edili, parroci, vescovi, assessori, sindaci, vigili….Non c’è giornalista che non ne scovi uno. Fa più morti la stampa che il sisma?

Bisognerebbe mettere i giornalisti in un terremoto. Anche i vescovi e gli altri uomini della provvidenza, civile e non.

Eco trinariciuto

Duecento delle 350 pagine sono su Berlusconi, perché (non) è quello che è. Con corredo dei “giornali stranieri” - pure Eco, che ne sa più di ogni altro (ma allora è ipocrisia?).
È l’ultima delle raccolte periodiche delle “bustine di Minerva” sull’“Espresso” – la penultima, ora c’è la postuma “Pape Satàn Aleppe” – con qualche articolo per altri giornali, e il solito Eco non manca, sorridente, garbato, accurato. Ricco di idee brillanti. La Neo Guerra. La “Summa” e la New Age, della chiesa incluso. Lo squallore del giornalismo. La scintillante retorica della prevaricazione, che in poche pagine, per lo più occupate da Tucidide, fa la tara di tutti i Berlusconi - compreso quello dello stesso Eco.
C’è pure qualche spessore politico. La percezione, quindici anni fa, della fine dell’Europa: senza politica estera e di difesa è probabile la balcanizzazione, lo sbriciolamento cioè in staterelli sudditi di questo o quel grande interesse. E della islamizzazione inevitabile dell’Europa, per effetto della demografia. La tragicommedia delle elezioni Usa, per quqalche evrso sempre aristofanesche: ora lo scandalo è sui fondi della campagna elettorale, neri o bianchi, allora sull’adulterio. Si dice per la correttezza o lealtà che impronta la politica Usa, una favola: il motivo è il ricatto, esteso. Il che potrebbe voler dire, di nuovo, che è forte negli Usa il senso morale, il rispetto della famiglia eccetera, ma non è vero, quasi sempre no. Quasi sempre ci sono schiere di avvocati a percentuale che montano le donne extraconiugali, segretarie, fidanzate, puttane, per i numerosi benefici legati alla “denuncia”: memorie, interviste, passaggi in tv, servizi fotografici, e la moltiplicazione delle tariffe per le professioniste – i giudici condannano negli ultimi casi un risarcimento legale triplo di quello alle vittime.
Ma soprattutto c’è il pettegolezzo, nobilitato in gossip, che ha soppiantato dalla rete ogni altra forma di comunicazione. Eco ne tentava una prima semiologia. Ora “è la vittima che spettegola di sé”, parlando delle proprie vicende in pubblico. Una volta l'eroe era segreto, e lasciava intendere gesta spettacolari, impossibili. Oggi fa la coda alle emittenti tv, per mostrare il culo, tutto quello che gli lasciano mostrare, non si pone limiti.
Ma, poi, Eco non si esime dalla “politica”, passione dominante – cioè dal pettegolezzo politico. Su Berlusconi non solo, fa anche di peggio, con insistenza. Sguazzando, tra “Repubblica” e “L'Espresso”, in quel mondo, elzevirista, irrealista, della bella scrittura, che lui stesso ridicolizza e i due giornali erano nati per cancellare. Dicendo cose come: “Il vero elettorato di un partito che si vuole riformista non è un fatto di masse popolari bensì di ceti emergenti”, cioè quello che diceva, trent’anni prima, il “cinghialone” Craxi. O: “Quella grande e benedetta pace del primo mondo che si chiamava Guerra Fredda e che tutti rimpiangiamo”. Che non è una battuta, è il nocciolo della questione: Eco la rimpiange, insospettatamente trinariuciuto.
Riletto a distanza, c'è in questa raccolta visibile il vizio della sinistra politica dopo la caduta del Muro, che ha finito per interiorizzare il residuo più velenoso del Pci dopo Togliatti, il berlinguerismo. Di quelli che non sono nulla, e rubano pure, ma “per il Partito”, ovvio, e si dicono popolo eletto. Si resta sbalorditi di fronte alla sicumera con cui uno studioso fra i più accurati della comunicazione, sensibile, ironico, dissacratore, distribuisce scemenze, e perfino falsità. Sul terrorismo, per esempio. O sul globalismo - ma, mi raccomando, niente Pericolo Giallo: il no global è per lui la coscienza del mondo – dell’Ottocento, del nazionalismo, dei primati? Come se si compiacesse di fare lui il passo del gambero.
Umberto Eco, A passo di gambero, Corriere della sera, pp. 349 € 9,90

martedì 30 agosto 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (299)

Giuseppe Leuzzi

“Domandi dov’è il Nord?”, si chiede Alexander Pope nella seconda delle quattro “epistole” in versi con cui ha composto il “Saggio sull’uomo”, 1730-32, che lo rese celebre in Europa: “A York è sul Tweed.\  Sul Tweed è nelle Orcadi, e lassù\ è in Groenlandia, a Zembla, o Dio sa dove”.
C’è sempre un Nord più a Nord. 

Mafie\antimafie
Le banche vivevano, quando avevano una funzione monetaria, di interessi: ora vivono delle commissioni che le leggi impongono a ogni cittadino, obbligandolo a far passare in banca anche la pensione sociale, con la scusa di impedire il riciclaggio. Il riciclaggio di che? Un pizzo anti-pizzo.

Il Sud è femmina
Nella gentile, malinconica “Idea of North” di Peter Davidson irrompe a sorpresa, tra scandalo e divertimento dello studioso, la ferocia leghista: “In nessun altro paese è il «nord un descrittore più instabile, mutevole e guizzante, definito e ridefinito minutamente, quasi chilometro per chilometro, per tutta la penisola. A Lucca, in Toscana, si riferiscono alle periferie del Nord come «Germania», e a quelle meridionali come «Africa»”. Lo stesso, in parte, in Germania – dove però i ruoli in rapporto alla ricchezza sono rovesciati.
Anche in forma di contagio: per un italiano del nord “il sud è il posto del bisogno, percepito dagli estremisti del nord come arido, fuorilegge, irretito nel passato. Mentre le percezioni meridionali italiane del nord vedrebbero la Lombardia e il Veneto come il bordo meridionale del mondo germanico, poco o punto italiano”.
Ancora Davidson: “Dire «partiamo per il nord questa notte» porta pensieri immediati di un posto duro, un posto di privazioni: montagne, tempo avverso, remoto dai centri urbani”. Mentre “dire «partiamo questa notte per il sud» porta associazioni di viaggi di piacere…, di clima benevolo, piacere e riposo – limoni, fontane, soffitti affrescati”. Senza pregiudizio. Ma “il Sud è femmina, il nord è maschio”.
Nel repertorio di Davidson, molto effuso sul nord come luogo dello spirito, manca una considerazione semplice: che è un’idea europea. Quella del Nord e quella del Sud, in antitesi e in concorrenza.  Di un pezzettino del modo, limitato. Di una parte di questo pezzetto, nomade e tribale, che mal si è riconciliata all’incontro con la civiltà. Che era al Sud, stanziale e matriarcale, domestica.

Milano über alles
Un inno, un peana, un trionfo la Milano del Procuratore Capo Greco al “Corriere della sera” ieri:
Nell’area metropolitana operano ben 123 imprese che hanno un fatturato superiore al miliardo di euro. Per fare un paio di esempi, sono solo 61 a Monaco di Baviera e 25 a Barcellona. Prevale l’industria, con un peso del 51 per cento del fatturato totale delle grandi imprese. Qui hanno sede 3.100 multinazionali estere, che sono un terzo di tutte quelle presenti in Italia. Nel raggio di 60 chilometri si realizza un quarto del valore aggiunto manifatturiero e dell’export italiano. In Lombardia, solo negli ultimi sette anni, sono nate 12.000 start-up knowledge intensive. Infine, vi risiedono oltre 200.000 studenti, di cui 13.000 stranieri”.
Il napoletano a Milano è miscela irresistibile.

Il buco è dei cervelli
Si può anche dire, è vero, con gli economisti leghisti (Luca Ricolfi, per esempio, quello del “Sacco del Nord”, a opera del Sud, che ogni anno gli sottrae 50 miliardi…) che il Sud è un pozzo senza fondo: i soldi vi si spendono, molti o pochi, ma il divario aumenta invece di diminuire. Il divario di produzione e reddito col resto d’Italia e del mondo. Un caso unico più che raro – la Germania orientale, che veniva da cinquant’anni di privazioni, si è rimessa in sesto in una generazione: non proprio alla pari, ma ci va sempre più vicino. E la ragione è forse solo una: che dal Sud se ne vanno i cervelli. 
Si direbbe, polemicamente, che la moneta cattiva scaccia la buona. Ma, senza dare giudizi su chi parte e chi resta, e senza fare paragoni, il Sud s’impoverisce invece di arricchirsi perché forma e poi espelle i suoi cervelli. La statistica del fenomeno non si tiene, ma è all’evidenza.
Il fenomeno  stato studiato per le economie in via di sviluppo, ex Terzo mondo, ma è altrettanto consistente e influente al Sud.
Il tema si può anche vedere come quello della classe dirigente, di cui ogni comunità si dota. La fuga dei cervelli, figli di padri di iniziativa, impone praticamente a ogni generazione un mutamento di classe dirigente. Per esperienza si può testimoniare un passaggio del testimone tre volte in tre generazioni. Dai proprietari terrieri e artigiani di qualità, con figli professionisti, liberali, ordinati, ai democristiani popolari, alcuni veramente poveri, tutti arruffoni. Da questi, dal free for all, testimoniato dai paesi incompiuti - dell’abusivismo finito nelle fauci delle banche -, ala generazione attuale, che non si occupa più della comunità, ma ha i suoi (piccoli) impieghi fuori, alla Regione, alla Provincia, all’Asl, alla Comunità montana, negli ospedali e dintorni, con al tredicesima e anche la quattordicesima, e “vive” letteralmente fuori – fa anche la spesa fuori.
È un modo radicale per sabotare il futuro. Certo, a differenza della mafia, non fa vittime. Ma non accumula e anzi disperde

Calabria
Caccuri è un piccolo paese di mille e poco più abitanti, arroccato nel cosentino, con un castello, nei secoli intitolato alle famiglie proprietarie, dotato di un premio letterario, quest’anno alla quinta edizione. Opera dell’associazione Amici dei Caccuriani, presidente Giordano Bruno Guerri. E quest’anno ha premiato Gianluigi Nuzzi, Pierluigi Battista, Edoardo Boncinelli, Elena Stancanelli, Valerio Massimo Manfredi, Vittorio Sgarbi e Ferruccio de Brttoli, in una kermesse di tre giorni.
Caccuri è famoso perché vi nacque Cicco Simonetta, il cancelliere di Francesco Sforza. Al quale portò in moglie Polissena Ruffo, castellana pro tempore del suo paese. Col premio, il paesino mantiene alta la vocazione settentrionale. Si è italiani, ferventemente, solo al Sud.

Si diventa “infante” – erede al trono – nel Regno delle Due Sicilie assumendo il titolo di Duca di Calabria. Dagli Aragonesi in poi l’erede al trono di Napoli è Duca di Calabria. Alfonso d’Aragona è duca di Calabria quando sposa Ippolita Sforza nel 1465. Maria Carolina, duchessa di Palermo, deve così diventare duchessa di Calabria. Ma il titolo le viene contestato dai parenti a Madrid. Una storia – ancora – per ridere.

“La pianificazione fisica del turismo in provincia di Reggio Calabria” è uno studio, corredato di cartine  grafici, tabelle, più alquante carte di dettaglio ripiegate fuori testo, commissionato a una società di urbanistica a Napoli nel 1964. I turisti devono ancora arrivare, dopo mezzo secolo. Anche se poi ci sono stati i Bronzi, etc.

Anna Maria Ortese, “Il cardillo addolorato”, p. 17, ha “la dolcezza stordente di una marina jonica nel mese di maggio”.

È “materia” attorno all’Aspromonte il pus, la purulenza. C’è da farne una filosofia? La montagna della ‘ndrangheta disincarnata? Non si può. Ma era la montagna sacra. Fino a “La prevalenza del cretino” – Fruttero e Lucentini: “Quanto sarà grande questo terribile Aspromonte”, il “Luogo dell’Inaccessibile”, l’“ultimo, romantico baluardo dell’’Ignoto”? “Mah, più  meno come le Langhe, come la Brianza, come il Friuli, ci risponde chi lo conosce, giusto per darci un’idea. A sorvolarlo in elicottero ci si mette di meno che ad attraversare Milano o Roma in automobile. Beh, ma allora?”

L’Aspromonte apre il best-seller newyorchese di Luca Di Fulvio, “La gang dei sogni”, come un luogo remoto, di povertà, stupidità, sporcizia, sopraffazione. Dove il padrone è “biondo” - un “padrone” nell’Aspromonte? il romano Di Fulvio ce ne mette tre, anzi quattro, e tutti fanno figli, di stupro, biondi… Mentre è una montagna gentile, aperta da tutti i fianchi alla luce, al mare.

leuzzi@antiit.eu

In vacanza premio da Hitler sotto le bombe

“Addio Berlino. Sventrata, piegata, annientata, punita. Addio, ricordi di incubi, di incredibili attese, di notti insonni. Fame, sete, sporcizia, buio, terrore, puzzo, cimici, solitudine”. Alla fine, dopo i terribili anni della guerra, rintanati nella cantina con gli altri coinquilini, Helga, la matrigna e il fratellino lasciano Berlino, per l’Austria del padre. In lacrime: “Lascio una città che mi ha rifiutato tutto”, constata la scrittrice, e si chiede: “Una città che mi ha dato solo dolore, privazion, terrore, solitudine, tristezza, angoscia e disperazione. Perché piango?”
Helga Schneider ha avuto il tempo di scrivere “I miei vent’anni oltre «Il rogo di Berlino»”, ma questo lascia senza fiato. Lei stessa, a metà narrazione, se lo dice: “Il mondo non ha più nulla da offrirmi perché mi ha già preso tutto: l’infanzia, mia madre, mio padre, la nonna, mio fratello. Cosa mi resta? La fame, la sete, la paura, il freddo, la solitudine”. La sporcizia, il puzzo, le incontinenze, i ratti che si gonfiano di cadaveri, i cadaveri mutilati, senza testa, senza gambe, dissotterrati, nel cortile, la paura, delle SS, dei russi.
Una storia di privazioni. Degli affetti: di una madre fervida nazista che si arruola nelle Ss – e anche dopo, a guerra finita, oppone Hitler alla figlia – e di un padre mobilitato assente, di un fratellino capriccioso. Del cibo, dei giochi, dell’aria, della pulizia, della decenza. Fino alla liberazione, a opera di russi ladri e stupratori. Magistrale nel suo genere: la scrittrice, naturalizzata nel frattempo italiana, inaugurava vent’anni fa con successo il filone del racconto di disgrazie, a ogni pagina evidentemente più dure e gravose. Insostenibile - si continua a leggere giusto perché è raccontato in prima persona, e dunque una sopravvivenza è da aspettarsi.
In filigrana, indirette, molte notazioni di spessore storico. Il mammismo del maschio, che si pretende mediterraneo mentre è invece fortissimo – qui lo è – nelle tribù da poco sedentarizzate. Il mercato nero, che domina a Berlino ancora per un paio d’anni dopo la guerra. Il mercato nero durante la guerra, con le SS che pure controllano il respiro. La caccia pubblica all’ebreo, sistematica, ancora con i russi alla porta del Brandeburgo – non c’è tedesco che non abbia avuto un vicino o conoscente ebreo deportato. La follia, o stupidità: l’“armata del generale Wenck” sempre in arrivo per vincere la guerra, i ragazzi arruolati a combattere i carri armati in città con le bottiglie incendiarie, i bambini portati sotto le bombe in vacanza premio nel bunker di Hitler.
Helga Schneider, Il rogo di Berlino, Adelphi, pp. 228 € 11

lunedì 29 agosto 2016

Il mondo com'è (274)

astolfo

Burkini  - È una sfida. Così come il velo, il cui uso in Europa è in realtà un riuso, e un gesto quasi politico – unA sfida.  
In Francia, in Germania, in Inghilterra, in Olanda, in Belgio, dove le comunità islamiche sono da tempo installate, da due e anche tre generazioni, e in Italia fino a qualche anno fa, il velo era dismesso. Ora è esibito, più spesso a iniziativa della donna, e non ha altro senso che di sfida, l’uso essendo poco pratico e anzi punitivo..
Due generazioni fa nel quartiere tunisino di Marsala le donne si aggiravano liberamente - in genere sempre in strada o sui gradini di casa a chiacchierare, mentre i mariti lavoravano in mare. Dopo due generazioni, e una modernizzazione forzata, forzatissima, ora in tutta la Sicilia le musulmane esibiscono complesse velature, anche con il caldo asfissiante. Né si tratta d un abbigliamento “tradizionale”: è un abbigliamento restrittivo copiato al alcune pasionarie islamiche, che non ha riscontro nelle collezioni di costumi tradizionali.
Storicamente, si sa che la velatura delle donne è entrata nell’islam per influenze cristiane orientali. Il “Corano” prescrive in più occasioni (preghiera, pellegrinaggio, fidanzamento) l’obbligo per la donna di mostrarsi non velata. Ed elenca una serie di parenti mahram, cioè congiunti con i quali il matrimonio è interdetto,  con i quali convivere senza velo: suocera, nuora, figlia, figliastra, nipote e altre ascendenti e discendenti.

Le interdizioni islamiche in genere sono variabili. Con alcune costanti: cibarsi del maiale, o di animali non macellati ritualmente, riprodurre, detenere, usare immagini. Altre sono variabili, anche la proibizione dell’alcol – il “Corano” considera il vino “un buon alimento”, che poi proibisce per evitare l’ubriachezza alla preghiera. Variabili sono le proibizioni dell’argenteria – nonché dei gioielli indossati da uomini. Del gioco d’azzardo. Del prestito a interesse. Della musica, canto e danza. Dei “santi”. Dell’abbigliamento non c’è verbo.

Giornalismo – Si vogliono i fatti separati dalle opinioni, secondo precetto nobile, si dice, anglosassone. Come se il fatto, la “notizia”, non fosse un’opinione nel taglio, la tempestività (il tempo), la posizione. Del resto, altra massima anglosassone non è che “notizia mangia notizia”? Si può governarle come si vuole, non è difficile: le agenzie di pr e immagine prosperano su questo: dare notizia è raccontare, lo storytelling in voga. Non solo le notizie  della politica o degli affari: le indiscrezioni, interviste, anticipazioni, spiegazioni (negare per confermare…). O del privato. Del gossip o pettegolezzo. C’è notizia e notizia, il fatto non è lo stesso. Anche la notizia del terremoto, per dire: già la sola presentazione (corpo e carattere del titolo, ampiezza, posizione…) ne muta la natura – muta il fatto.

Guerra fredda – Se ne diffonde la nostalgia, come di un cinquantennio di stabilità. Mentre fu un cinquantennio di guerre e disordini gravi. Due grandi guerre , in Corea e nel Vietnam. Invasioni disastrose, di Berlino,  l’Ungheria, la Cecoslovacchia, Cuba, di repressioni in Polonia e altrove, molti golpe sanguinosi in Sud America. Di stabilità nel senso che fu evitata la guerra nucleare, ma al costo di una spesa in armamenti spropositata.
Poligamia – È sfruttamento; chiunque lo vede in Italia, dove si pratica di fatto a spese delle donne che lavorano, badanti o aiuto domestico, a opera di oziosi e traffichini – somali, eritrei, nigeriani, senegalesi. Contro il “Corano”, che fa obbligo al marito di pagare una dote alla moglie e di provvedere ai suoi bisogni, ma tant’è.

Populismo – È forte e persistente soprattutto nella protesta. Violento anche, fino al terrorismo. Contro l’alta velocità, contro l’autostrada, contro l’aeroporto, contro la globalizzazione, contro la legge finanziaria. Dario Fo, che riassume tute le proteste, lo rivendica sull’“Espresso”, in risposta al sociologo della letteratura Marco Belpoliti: “Il letterato impiega il termine «populista » nell’accezione in voga da qualche anno in Italia, cioè quella di considerare il populismo una sorta di pretestuoso espediente per imbonire furbescamente una comunità di semplici creduloni facili ad essere gestiti con qualsiasi argomento”. Bene, il populismo lo rivendica: è la democrazia, dice Fo, la rivoluzione frncese – “un’ideologia caratteristica di movimento politico o artistico che vede nel popolo un modello etico e sociale e il rispetto di ogni individuo che faccia parte di una comunità civile”. Civile è la spia del populismo.

Quantitative easing – Ha funzionato negli Usa e in Gran Bretagna: la creazione di moneta ha assorbito rapidamente lo shock della crisi finanziaria del 2007, facilitando il recupero del crac per le due economie e una pronta ripresa. In Giappone l’effetto non è stato percepibile, in parte per il peso elevato del debito, il 230 per cento del pil, e in parte  perché è l’ultimo di una serie ormai ventennale di stimoli, che non  smuovono la stagnazione dell’economia. In Europa ha disinnescato la crisi del debito, che minacciava l’Italia, ma non ha avuto alcun effetto sull’economia produttiva – investimenti, produzione, consumi.

Era la politica monetaria di Silvio Gesell, economista dilettante ed eterodosso dei primi decenni del Novecento  – che l’eterodosso Pound, economista dilettante, naturalmente privilegiava: “La circolazione accelerata della moneta, quando tutti hanno qualcosa, significa un benessere maggiore che nella situazione costipata in cui molti non hanno nulla” (“L’ABC dell’economia”, a cura di G.Leuzzi, p. 79).
Gesell (1862-1930), che Pound dice sudamericano, è nato a Sankt Vith in Belgio e morto in Germania. Dove è stato ministro delle Finanze nei sette giorni di vita della Repubblica dei Consiglio di Monaco di Baviera nel 1919 - processato per alto tradimento, fu assolto perché nessuno lo prendeva sul serio. Se ne andò indignato in Argentina, dove continuò inascoltato la sua predicazione, e tornò in Europa quando il suo verbo trovò qualche eco nel Tirolo. La sua ricetta monetaria era, nell’essenza, spendere e non risparmiare, tesaurizzare, la moneta non spesa volendo tassata. Una velocità di circolazione proponeva della moneta senza limiti, senza privilegi o vincoli rispetto alle altre merci: “Quando regna la mancanza d denaro, basta un torchio per moltiplicarlo, e se ce n’è troppo, una stufa per bruciarlo”.
Con una base filosofica non peregrina: i debiti si dissolvono, i crediti pure – si guadagna nei passaggi intermedi, sapendoli giocare. Il risparmio viene in ogni circostanza sottilizzato, e non solo se investito, come è uso per la maggiore quantità, in titoli di Stato: qualsiasi forma prenda. Il quantitative easing non allevia direttamente il debitore-creditore, ma sì attraverso le banche, che vivono di questo, di intermediare la creazione di moneta – vivevano, quando avevano una funzione monetaria: ora vivono delle commissioni che le leggi impongono a ogni cittadino, con la scusa di impedire il riciclaggio (di che?).

Samoiedi – Nell’antichità di Alessandro Magno erano i popoli al di là delle Porte di Ferro – gli Urali – che morivano ogni inverno ghiacciati in trance, e resuscitavano il 24 aprile, col ritorno del sole. Hanno mutato di poco collocazione nei secoli.
La parola significa “quelli che si mangiano tra di loro” secondo Corrado Alvaro, “I maestri del diluvio”, 1934, e per questo sono stati ribattezzati yakuti. Un’etimologia probabilmente sbagliata, anche se per il resto Alvaro è esatto. Ma è vero che vivono in Europa, insomma in Siberia, tribù primitive con questo nome. Ancora a fine anni 1960, attesta Enzensberger (“Tumulto”) per bocca di un ingegnere di Bakù sposato a una osseta, “tra i samoiedi ci sono ancora gli sciamani”. La Treccani attesta l’uso tra essi della caccia con arco e coltelli,e presso ogni tribù la presenza di un “tatibé”, uno stregone o sciamano. Anche se, dice, “gli sciaitàn, gl’idoli indigeni che accompagnavano i Samoiedi su piccole slitte anche nella loro peregrinazione o venivano piantati presso le tombe o sui luoghi dei sacrifici, sono probabilmente tutti nei musei”. Così come l’uso di uccidere le renne destinare all’alimentazione mediante strangolamento e poi sgozzamento, “probabilmente per motivi magici”. E di castrare i vitelli a morsi.
Fino a recente abbandonavano nella tundra i morti, senza sepoltura – un uso, dice l’Enciclopedia, dei climi freddi.

astolfo@antiit.eu

La colpa del fatalismo è di Platone

Un’aurea trattazione, che dice tutto dell’islam come lo conosciamo alla prima pagina, benché risalga al 1980: “In un’era come la presente, nella quale il sentimento religioso sembra in molte parti del mondo affievolirsi notevolmente, l’Islam è fra le religioni una delle più attive e vitali”. Ma dire l’islam una religione è improprio: “Dīn “(che usualmente si traduce poco esattamente come «religione» nelle lingue occidentali) è qualcosa che abbraccia sia la nostra religione sia la nostra politica, è regola di vita, legge, mentre le mancano le connotazioni sacerdotali-ritualistiche”.
Dice anche, sempre nell’introduzione, come avrebbe potuto, potrebbe, essere un altro islam: “L’islam ha subito fin dalla seconda metà dell’Ottocento una profonda rielaborazione ad opera di quel «modernismo» che, al contrario del movimento cattolico dallo stesso nome, non presenta, dal punto di vista islamico, caratteri di vera e propria «eresia» ed è andato sempre più conquistando ampi strati – anche popolari – di musulmani”. Del “nuovo” islam trattando all’ultimo capitolo, sulla contemporaneità, ma il libro è del 1980. Due ispiratori enucleando, Mohammed Iqbal e Moahmmed Abduh, poi annegati dall’onda fondamentalista del khomeinismo – e dalla rincorsa antisciita, antiraniana, del wahabismo in funzione pilota dei sunniti. Che sono, dice subito Busani, il 90 per cento dei musulmani. E non sono anti-occidentali, si può aggiungere, ma sì per battere il khomeinismo anche su questo terreno. Prorio mentre il khomeinismo si accorda con l’Occidente… - non bisogna divagare, la levantinizzazione è sempre in agguato nel mondo islamico prossimo.
In sei capitoli vengono esposte e comentate la teologia, la legge, la mistica, le comunità non sunnite, specie lo sciismo, la storia, la modernizzzione.Con un’utile guida alle trascrizioni fonetiche. Un’appendice dello stesso Bausani sul movimento Bahai, derivato dell’islam, cui lui stesso apparteneva. E due aggiornamenti a cura di Stefano Allievi, al 1998: la bibliografia disponibile e “L’islam nel mondo”, un atlante ragionato.
Alcune notazioni si segnalano ancora oggi come “nuove”. Partendo dai fondamentali. “Caratteristica dell’islam” è “l’assorbimento della teologia nella legge”: “Chiamare la legge religiosa dell’Islam, la šarī’a, «diritto musulmano» o «dirito canonico» è piuttosto equivoco”, e limitatvo, la šarī’a si occupa di tutto, dalle decime alle pulizie corporali, nonché del culto e della preghiera. Sunna è propriamente “modo di fare” e “modo di vita”, ed è “l’insieme del «contegno del Profeta» espresso con detti e fatti tramandati dalla tradizione”, compresi “i silenzi del Profeta”.
Che altro? Gli studi islamici di astronomia erano esatti e avanzati nel modo arabo e islamico fino al XIImo secolo. Omar Khayyam era un matematico e astrologo. Il poeta pakistano Mohammed Iqbal, capofila della scuola modernizzatrice del sub-continente indiano, auspicava, prima del diluvio khomeinista e integralista, un “ritorno” del mondo islamico alle radici razionaliste e attivistiche delle origini, il fatalismo e la rassegnazione imputando agli influssi “greci”, alla penetrazione profonda, nell’islam del X-XI secolo, del neo platonismo.
Su questo punto, però, la tesi del poeta confligge con la storia. La cosa è notoria, e lo stesso Bausani precedentemente la spiega, documentando “l’introduzione nel mondo islamico della filosofia e della terminologia greche, attraverso il grande flusso di traduzioni” in arabo, “opera per lo più di cristiani, che va dall’VIII al X secolo”. E attraverso i Sabei di Harran, Alta Mesopotamia, comunità ellenistica che combina l’antica religione astrale babilonese con la gnosi: parlavano arabo, e traducevano dal greco e dal siriaco – era Sabeo il grande astronomo Al Battani (m.929). Ma è vero che la tradizione greca che veicolavano era platonizzante.
L’islam è in sé meno fanatico degli altri monoteismi. La teologia, pur ovviamente trascendentista, non è irrazionalista. Le stesse leggi e il “messaggio del Profeta”, che ne sono l’ossatura e vanno credute per fede nelle questioni escatologiche, di vita o di morte, debbono essere credute se e finché non ripugnano alla ragione. Sono pratiche e non sacramenti i suoi cinque pilastri: la professione di fede, la preghiera, l’elemosina rituale, il pellegrinaggio e il digiuno – la professione di fede è come il giuramento in tribunale, e basta per entrare nella “comunità”.
Giusta anche la valutazione storica del’islam, la cui espansione Bausani presenta come miracolosa: “Un espandersi che in pochi anni (632-650) causò il crollo di una delle due maggiori potenze mondiali di allora, l’Impero Persiano, e sconfitte e perdite territoriali enormi all’altra, l’Impero Bizantino (paradossalmente è come se oggi l’Albania sconfiggesse la Cina e l’Unione Sovietica!)”.
La condizione odierna della donna è invece sicuramente oppressiva. Il velo non è precetto, è notorio, né nel “Corano” né altrove. Anzi la donna deve avere il volto scoperto nella preghiera, nel pellegrinaggio, e davanti al futuro marito. Bausani, si spinge a dire che “l’Islam è, in genere, antifemminista come il Cristianesimo”. Ma la donna non è nel cristianesimo, nemmeno nel diritto canonico, “oggetto” di diritto.
Alessandro Bausani, L’islam, Garzanti, pp.223 € 13

domenica 28 agosto 2016

Secondi pensieri - 275

zeulig

Capitalismo – Si radica nella teologia? Terminologicamente sì, anzi vi sprofonda. “Speculari” è “osservare, esplorare, sorvegliare”, dice il Mariotti. “Speculare” è nella mistica medievale “sprofondare nella contemplazione religiosa, fino all’estasi”.  La banca centrale “crea” la moneta. La moneta “crea” la ricchezza. L’impresa “crea” posti di lavoro, e li “salva”. Il credito si lega alla fede. Debito in tedesco è legato anche alla colpa. desco anche .
Si radica anche nella pastorizia, certo, sempre terminologicamente (logicamente): vengono dalla pastorizia stock e pecunia, e il pound-sterlina.
Il capitale è brutta bestia, è materia in azione. Talora si dichiara, con le sorprendenti definizioni del denaro, sempre s’infiltra con inarrestabile magnetismo. Lievita pervasivo sul pecus inerte, della materia dei fantasmi ma solido. È aggressiva manifestazione del diavolo - la lussuria è al confronto piccola cosa, se non per la sua forza angelica? Max Weber avrà avuto il merito, con Gotheim e Sombart, di studiare i fattori religiosi, oltre che sociali, del capitalismo – e Fanfani dopo di loro, il senatore, i cui tomi gli Usa studiano più di Weber.

Si è portato nell’apologetica sinonimo di Proteo, ma finisce per esserlo. Poiché prospera – ha prosperato – con ogni regime: dittature, militari e non, totalitarismi (comunismo, nazismo), mafie, apartheid, lo stato islamico, lo stato ebraico, la democrazia.

Coscienza – È pre-scientifica, e sempre in alterità alla scienza. Sempre in ritardo sulla capacità di astrazione, O non interessata, implicando l’astrazione un calcolo combinatorio. Prescinde dalla matematica, si compiace del pregiudizio (nazionale, politico, culturale, tribale, anche d’interesse: l’ideologia), e delle volizioni (ambizione, amicizia, sopravvivenza\sopraffazione). Fermi autorizza la costruzione della bomba atomica, Fermat non l’avrebbe fatto?
Si può dire – i matematici lo dicono – che la coscienza ha un’impronta pre-scientifica. Ma è indomabile. Uno dei pochi – l’unico? – domini inaccessibili al calcolo. E dunque? La razionalità del calcolo (scienza) è limitata.

Decostruzione – È la rovinificazione (Zerstorung) di Walter Benjamin. Che Benjamin trovò in Schlegel: “L’opera d’arte si completa solo col critico che anticipa anche i suoi successivi, fino a scoprirne il suo «intimo segreto»”.

Dio – Non ha paragone con gli ateisti, che sono dogmatici indefettibili. Al punto di negare la possibilità di un’intelligenza superiore alla loro. Superbi quindi, anche.
Nulla  invece di più controvertibile delle Sacre Scritture, quali che esse siano, storicamente, logicamente e perfino grammaticalmente, scombinate e anche confuse – la parola di Dio non può essere confusa. Compilation più speso di storie, stili, costrutti diversi nello stesso capoverso.

In Grecia rideva anche degli uomini: sottraeva loro tutti gli spazi, anche il riso che si vorrebbe esclusivamente umano.

Ironia – È la forma conoscitiva dell’incredulità.

Nazionalismo – Entra massiccio nel pensiero con la filosofia tedesca, dal Settecento alle guerre mondiali, metà Novecento, infettando l’identità nazionale (i “caratteri originari”) e per conseguenza l’azione politica, spesso sovrastata dalle identità bellicose. Nella dottrina del Volk, che non è tanto popolo o comunità popolare, ma comunità di spirito e di “sangue” (storia, tradizione, usi, mentalità, e quindi privilegi). Da Herder, o meglio da Fichte, a Heidegger, e al nazismo - Herder usa Volk in posizione aggettivale, il suo soggetto è il Geist, spirito (spirito del popolo, spirito della nazione, spirito nazionale, e genio del popolo, o carattere nazionale), ma delinea la cosa. Compreso Hegel, e quindi i tanti hegeliani, che ancora dominano il pensiero centro-europeo. La questione hanno posto del compimento della storia, nel primato. Ovviamente razziale, anche se non dichiaratamente. E dell’origine (del primato) della lingua. Il disadattamento di Nietzsche sarà alla tradizione cristiana, e all’ideologia della filosofia tedesca, compreso l’ario-germanesimo.
Fichte e Hegel reagivano all’occupazione francese, ma accidentalmente. Dapprima peraltro – dichiaratamente in Fichte – in reazione alla rivoluzione francese. Che per la Germania significò guerra e conquista, ma questo è vero anche per l’Italia e altri paesi europei, che invece se ne avvalsero. Poi in senso anche reazionario, o della rivoluzione conservatrice, come usa dire.
Il Volksgeist, lo spirito del popolo, viene attribuito a Hegel 1801, “La costituzione della Germania” – ma era già in uso in Herder. Che lo definisce in questi termini: “È un soggetto di natura universale, ma determinato: è un popolo”.

Viene nella filosofia tedesca col romanticismo. E poi con l’ideologia della Grande Germania. Ma ha terreno fertile nella Riforma, nell’Io e il mio Dio. La correlazione non è necessaria, ma così è stato – e torna a essere. Volk è più pregnante di popolo, già con Herder che pure non ne fa molto uso: implica una sorta di “essenza”, un estratto, razziale e linguistico, mitologico, ed è una comune linfa in una comunità nazionale, la “comunità di destino” o “di spirito”. Se popolo è legato alla futura “classe”, Volk ne è antitesi, è il minimo comune denominatore – non tanto minimo, occorrendo in un’ideologia nazionalistica, primatista ,  imperialista. In questo senso è patrimonio di quella che si è convenuto chiamare in Germania “rivoluzione conservatrice”, da Cantimori fascista in poi, volendo  bene alla Germania, e altrove è la reazione – che è pur sempre distruttiva (rivoluzionaria).
Volk è nel Novecento anche di più: è esclusivo, contro gli ebrei e ogni altro inquinante, i latini, gli slavi, etc. Ed è il calderone di una “spiritualità superiore” – senza più: non c’è altro spirito all’infuori di quello tedesco (nessun filosofo tedesco studia – riconosce - filosofia fuori dai confini dopo Cartesio). Una stupidaggine, ma così è – si perdona molto alla Germania: perché, se non di altro, è feconda di cattedre?

Novità – È circonfusa di nimbo positivo. Gli spagnoli invece a lungo hanno usato come saluto: “Que no haya novedad!”. Gli eventi totalmente negativi sono sempre una novità, il terremoto (maremoto, tifone), la morte spesso, e l’incidente ovviamente.

Potere – Quello perfetto appare una distopia, perturbante per lo stesso potere, il controllo totale.
Lo assimila, nota Enzensberger, “Tumulto”, 82. “al famoso paradosso della carta geografica”: “Una planimetria perfettamente uguale a ciò che rappresenta raddoppierebbe la realtà e sarebbe superflua”.
Il potere è “perfetto” se elastico. Adattabile, estessibile, e soprattutto esercitabile. È un esercizio in furberia, anche in senso buono, di sopraffazione e coercizione che non può privarsi dell’ “oggetto”. Non “controlla tutto” per poter esercitare il controllo – il dittatore totale si farebbe una rivoluzione, per evitare la noia.
È plastico, e meglio si esercita indirettamente, e non completamente – dopo non avrebbe più senso.

Ruminazione – È il solo veicolo di novità, che è il motore della durata: la rimasticatura. O l’eterno ritorno dell’uguale. In politica, dalle guerre ai consigli dei ministri, è sempre l’“Iliade”. O la cultura, a maggior ragione, con l’interpretazione, l’ermeneutica motore della storia.

Selezione - È reazionaria – non si può non dire: è evidente. “Un antico, per riconoscersi più uomo, si confrontava, umiliandosi e annullandosi, agli dei. Un moderno, per riconoscersi più uomo, si confronta, applaudendosi e congratulandosi, alle bestie. Uno guardava avanti, quest’altro è voltato indietro. Uno sentiva di avere ancora da attuarsi…” – Emilio Cecchi, “Le bestie sacre” (in “Pesci rossi). Uno inventava san Pietro, il moderno lo zoo.

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Le migrazioni del Terzo Millennio

Cinque saggi, compresi “Il fascismo eterno”, “Sulla stampa”, e “Migrazoni, tolleranza e intollerabile”. Con le attese punte di arguzia. “Solo le parole contano, il resto sono chiacchiere”. Negli anni di McCarthy si era sospettati negli Usa per essere stati “antifascisti prematuri”: gli americani dovevano esserlo, antifascisti, ma dopo il 1941, esserlo stati nella guerra di Spagna era una colpa. “Ilfascismo italiano fu il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire  - ruscendo ad avere all’estero più successo di Armani, Benetton e Versace”.
Il “fascismo eterno” è invece sistematico, troppo. Cioè asisteantico: che vuol dire “tutto è fascsimo” – per di più senza gravitas, Eco non riunicia alal battuta? Un modello in 14 punti su cui chiunque,  compreso il fascista in petto, può costruire il mostro.
Sull’immigrazione invece, scrivendone vent’anni fa, si può dire profetico – il contributo intitola “Le migrazioni del Terzo Millennio”. L’intolleranza pericolosa è quella facinorosa, ignorante: “Trovo più pericolsa l’intolleranza della Lega italiana che quella del Front National di Le Pen. Le Pen ha ancora dietro di sé dei chierici che hanno tradito, mentre Bossi non ha nulla, salvo pulsioni selvagge” – e poi Bossi è risultato un moderato tra i suoi…
Umberto Eco, Cinque scritti morali, Corriere della sera, pp. 128 € 9,90