Cerca nel blog

mercoledì 6 agosto 2008

Quanta bella storia in America

Una raccolta di recensioni che finisce per essere, per la ricchezza delle argomentazioni, per la padronanza dei molteplici metodi, una rappresentazione dell’arte storica. La raccolta si apre con cifre fosche sugli studi di storia negli Usa. Nei quindici anni dopo il 1970 i diplomi di storia si sono ridotti di due terzi, da 44.663 a 16.413. Ma testimonia nella ricerca e anche nell’editoria (Wood raccoglie qui le venti recensioni pubblicate sulla “New York Review of Books” dal 1981 al 2007) un’eccezionale effervescenza tra le scienze umanistiche.
Il 1970 dev’essere stato un anno infausto. Wood ricorda che veniva dopo la pubblicazione, nel 1969, della “Death of the Past”, la morte del passato, di J.H.Plumb, maestro di molti storici, sotto i colpi della storia analitica o critica. “La vera storia è distruttiva”, argomentava Plumb: distrugge le menzogne e i miti di cui la memoria si compiace. Questo “Senso del passato” finisce per esserne il rovescio.
Molte pubblicazioni recensite sono su temi di storia americana. Ma pur con questo limite, per un non americano non americanista, l’interesse è generale nelle recensioni di Wood poiché ogni argomento è rivisto dal punto di vista metodologico. La raccolta finisce per essere una reportage incredibilmente vivido della “scienza” della storia di questo dopoguerra, anche negli Stati Uniti. Dove peraltro gli studi di storia all’università sono in netta ripresa: le scienze storiche e sociali venivano al secondo posto per numero di diplomati nel 2005, con 157 mila su un milione 439 mila, il dodici per cento. Nel 2006 i diplomi in storia erano 33.153, i master 2.992, i dottorati 852, più di quelli in economia, e in sociologia, poco sotto quelli in scienze politiche e amministrative. L’eclisse è stata di breve durata. Dal 1996 al 2001 i diplomi si erano ridotti del 3,5 per cento, i master del 18,4. Ma con un incremento sostanzioso, il 15,7 per cento, dei dottorati. Segno che la storia è più coltivata come disciplina scientifica, molti più ricercatori vi si dedicano. Nel quinquennio successivo anche i diplomi e i master hanno avuto un balzo, del 32 e del 26,5 per cento.
I giudizi di Wood sono precisi pro e contro. Di più contro: il nientismo postmoderno, l’atteggiamento scettico o decostruttivo postnietzscheano. Wood registra la storia lunga delle Annales, zavorrata di epidemiologie, serie storiche, continuità. La microstoria che gli italiani hanno inventato in reazione. La storia fiction, romanzata. Specie in tv, la faction (fatto e fiction) e il docudrama sugli eventi e i personaggi storici: “La confusione di fatto e finzione è parte del clima intellettuale del nostro tempo postmoderno, dominato com’è da venti di scetticismo epistemologico e negazioni nietzscheane della possibilità dell’oggettività che dilagano in ogni disciplina umanistica, talvolta con ciclonica ferocia”. E poi il genere, l’etno-antropologia, la storia sociale o critica, la storia culturale, a partire da Gramsci (perché non dallo stesso Marx?). Leggendo Wood si vedeva chiaro vent’anni fa che il decostruzionismo, che si propone di disarticolare l’ipocrita potere, elabora un linguaggio criptico.
Gordon S.Wood, The Purpose of the Past, Penguin, pp. 323, $ 25.95

La storia vera dell'Eni, e dell'Italia

Colitti parte ricordando i geloni: i bambini ancora nel dopoguerra d’inverno avevano i geloni. È un avvio che più di qualsiasi storia o sociologia connota la parabola dell’Italia, e con essa dell’Eni. Il suo libro è modesto, quasi una testimonianza personale, e invece è importante. Per alcuni aspetti spiega, per altri lascia capire che, con quella dell’Eni, tutta la storia dell’Italia repubblicana è da rifare, del Sud e del Nord, dei carrozzoni e delle imprese, dell’onestà e della corruzione. Una storia non sempre onorevole, ma da rifare. Superando i pregiudizi che la sommergono, le ideologie, i poteri, dichiarati e occulti, i pettegolezzi, le chiacchiere, le infamie anche, e le frasi fatte che in Italia suppliscono all’opinione pubblica. La storia economica della Repubblica, posto che Ernesto Rossi e Eugenio Scalfari non ci hanno visto bene, o fossero a vario motivo di parte, è ancora tutta da fare: la memorialistica, come questa di Colitti, è necessaria, anche per il necessario confronto, ed è solo la benvenuta.
Colitti rivaluta Giorgio Bo, ministro dell’industria pubblica fino al 1968-69, all’acquisto di Montedison, e Cefis, che è molto migliore di chi l’ha svilito. Il terzomondismo di Mattei Colitti attribuisce a ragion veduta a Bo e Boldrini, il professore che fungeva da presidente dell’Eni. Cefis salvò l’Eni e ne fece il nocciolo di quello attuale. E aveva un progetto anche per Montedison, che non poté attuare perché Cuccia lo strangolò, il cane da guardia della vera razza padrona, le grandi famiglie che mai hanno cacciato un soldo d’investimento. Singolare il rovesciamento del giudizio tra i due: le frontiere della moralità sono mobili per l’imprenditore, il cui compito è assumersi dei rischi, in zone evidentemente non troppo comode, e il giudizio si basa sul coraggio e sui risultati. Notevolissima la chiave d’approccio a Mattei, personaggio che la morte improvvisa nel 1962 ha fissato a monumento di se stesso. Mattei, spiega Colitti, era un insofferente, un ribelle, “come tutti gli emigranti”.
Il racconto di Colitti si fa in larga parte da un posto d’osservazione eminente, a capo delle relazioni pubbliche dell’Ente negli anni Sessanta, erede di Giorgio Fuà e Giorgio Ruffolo. Un servizio che curiosamente ebbe una funzione centrale nell’Eni di Cefis, uomo alieno da qualsiasi politica dell’immagine, fungendo pure da antenna dell’Ente, da ufficio studi politico. Colitti ricorda pertinente il trascurato dossier pluriennale “Stampa e oro nero”, la raccolta imponente dei giornali italiani contro l’Eni (superò i venti volumi) – la teoria che Mattei fu ucciso dai francesi si basa sui virulenti articoli filofrancesi di Montanelli che ne precedettero la morte. Ma le relazioni pubbliche ebbero un ruolo centrale anche nell’orientare l’opinione sull’Eni proprio nei tempi difficili dopo la morte improvvisa di Mattei. Come su varie decisioni strategiche, fortunate e non. Sulla chimica, e quindi sulla Montedson. E nella scelta del gas, prateria aperta, in Russia prima e poi in Algeria, senza trascurare la Libia, l’Olanda e, senza successo, la Norvegia. Inoltre, portarono l’Eni in quegli anni a partner privilegiato dell’Opec nell’area sensibile degli studi e la programmazione - prima che gli Usa lanciassero, nel 1971-72, la campagna per l’aumento incontrollato dei prezzi, che poi avvenne a cavaliere della guerra arabo-israeliana del 1973.
C’è, vissuto e narrato in prima persona, il grande fallimento di Gela. Prefigurazione del fallimento più generale degli investimenti al Sud. E soprattutto di quello che sarebbe diventato quindici anni più tardi l’assetto della politica nazionale. Che nell’impresa pubblica vedrà solo il pubblico e niente dell’impresa. Non è il solo fallimento. C’è anche quello dell’approvvigionamento dell’Europa centrale, Austria, Svizzera e Baviera, cui troppe resistenze furono opposte da invidie nazionali locali. E naturalmente il disastro della chimica. C’è qualche conclusione. “Il capitalismo concorrenziale è un’invenzione degli economisti” – non per altro, è invenzione comoda per la pigrizia. O: “I borghesi non hanno altra fede se non nel danaro”. C’è l’incredibile superficialità di Donat Cattin, il ministro della crisi energetica e del piano nucleare. Fino allo scioglimento in tronco, un lunedì mattina, di tutto il servizio dello stesso Colitti, che in realtà era una direzione e qualcosa di più, centocinquanta funzionari e dirigenti, e altrettanto personale esecutivo. La vita delle aziende è fatta di cambiamenti, e l’Eni, intende dire Colitti, era ai tempi un’azienda, benché pubblica.
La memoria finisce con l’Eni tra i dossier che hanno corroso l’Italia, Ersatz della politica, della politica d’impresa, e della giustizia, dell’onestà, della moralità. Il capolavoro dell’Eni, l’accordo del 1978 con l’Arabia Saudita, a opera di Giorgio Mazzanti, che Colitti non ama, e di Carlo Sarchi, segna l’inizio della fine. L’Arabia Saudita dava il greggio a due dollari di meno del prezzo di mercato del greggio, uno sconto del 10 per cento, e ne assicurava la fornitura in anni di approvvigionamento difficile. In cambio di niente (in realtà di un sostegno diplomatico alla costruzione della moschea a Roma, che poi si fece, e mantiene i sauditi sempre ben disposti verso l’Italia). La lunga agonia durerà vent’anni: l’Eni è ridotto a recipiente per il malaffare politico, i salvataggi, la corruzione negli affari, l’ingestibile Egam, tutto insolvenze e corruzione, che la sinistra buttò sull’Eni, l’ingestibile Montedison. Fino alla resurrezione come star di Borsa, segno che i geni sono rimasti vivi.
Colitti parla di cose viste. Ricorda personaggi di valore che hanno lavorato con lui, Carlo Robustelli e Manlio Magini. Un giovane Enzo Scotti collaboratore di Giulio di Pastore. C’è Moro, ministro degli Esteri, completamente assente alla conferenza per l’energia di Washington del 1974, per la quale tante energie, è proprio il caso di dire, l’Eni aveva profuse. Le cronache delle assemblee Montedison danno una rappresentazione realistica della gaddiana “rendita ambrosiana”. Cuccia è liquidato per “la sua altezzosità e il suo stile mafioso”, e questo è parte del trionfalismo Eni, che resta forte anche nella disgrazia.
Il piglio narrativo è gradevole, e anche veritiero. “Eni” si legge come un giallo, come da copertina, e da insegna dell’Ente. È un viaggio zingaresco attraverso quarant’anni, dello stesso Ente e dell’Italia, con animo sgombro, con risultati incontestabili. È una “storia vera” nel senso di Luciano, dell’aneddoto contestualizzato e significante. In letteratura sarebbe un viaggio picaresco, ma il termine implica una giovane età che per molti non c’è più. O Colitti può sempre dirsi un giovane “settantino”, nella lingua di Camilleri. Di più e più interessante si dovrebbe poter leggere, in riedizione o in un sequel, dei convegni del “Mondo” sull’energia pubblica, e sulla chimica pubblica. Cui forse l’Eni non era estraneo. O sul progetto congiunto col gruppo “l’Espresso” nel 1971 per una catena di giornali locali, che poi sarà Finegil.
Qualche ritratto, qui prevenuto o non documentato, potrebbe aprire nuove vedute. Quello di Cuccia per esempio, che pure ben sapeva chi erano le famiglie che lui proteggeva. Un’altra curiosità è che, mettendo in fila gli scandali di cui l’Eni sarà protagonista, lo Scandalo petroli, l’Eni-Petromin e l’Enimont col “tangentone”, si trova sempre un possibile beneficiario, Andreotti, che finisce invece vendicatore. E comunque uno dei pochi – da Mani Pulite il solo – a uscirne indenne.
Su alcuni grandi temi di cui è stato protagonista Colitti, tutto sommato, trasvola - e già solo questo meriterebbe una continuazione. Uno è proprio la chimica: come e perché l’Italia ne è uscita, pur avendovi l’Eni profuso, attraverso Montedison, una notevole dose di capitale – un calcolo approssimativo dà nei venticinque anni a partire dal 1968 ventimila miliardi, ai valori del 1993, tra acquisti di quote, ricapitalizzazioni, acquisti onerosi di cespiti, fideiussioni e garanzie varie. È un settore di cui Colitti è stato, tra l’altro, protagonista in prima persona, da presidente di Ecofuel e Enichimica, e per gli accordi industriali con i sauditi. L’altra reticenza è sull’ecologia. Sul clamoroso fallimento dell’Eni (il progetto Tecneco), a fronte del partito degli assessori, e del partito degli ingegneri e architetti. Improvvisati cultori della materia, quando l’ambiente divenne la stella del sottogoverno, che sono riusciti a lasciare l’Italia dopo spese da capogiro senza acqua potabile, e con acque sporche ovunque, nei fiumi, nei laghi e nei mari, per non dire dell’aria. Mentre l’Europa, dalla Baviera alla Bretagna, si lustrava tutta, effettivamente “da bere”.
Marcello Colitti, Eni. Cronache dall’interno di un’azienda, Egea, pp. 270, €14

domenica 3 agosto 2008

Berlusconi scopofilo - 1

Dunque non sono le donne di famiglia a imporgli di raccomandare le attricette, per loro c’è un pomeriggio in agenda, una dietro l’altra, a palazzo Chigi. Nell’agenda affollata che Berlusconi ha con cura preparato ed esibito ai fotografi della sua giornata strapiena di cose da fare, ben tre ore sono prese nel pomeriggio da tre belle donne in cerca di ruolo. Se è l’agenda tipo, il capo del governo italiano rischia di emulare i presidenti francesi della Quarta Repubblica, che anch’essi non avevano null’altro da fare, e uno anzi sarebbe morto in piedi.
O forse vuole dare ragione alla Guzzanti. Ma lì non c’è gara: non c’è nella destra di Berlusconi, che anzi l’ha disinnescata, un centesimo della violenza di Sabrina Guzzanti, il comico Grillo e il bieco Di Pietro a piazza Navona (c’era anche Nanni Moretti?). Un ludibrio, soprattutto sessista. Guzzanti  non deve avere tute le rotelle a posto, ma – come di dice – gli opposti si tengono.
Berlusconi imprenditore, come ama ricordarsi, si sarebbe licenziato, avrebbe licenziato il presidente del consiglio che riceve le signorine in ufficio. È vero che dalle finestre dell’ufficio ha la visione a ogni ora del giorno della colonna Traiana, potente erezione. Ma l’orario di lavoro prevede solo piccole pause, per il caffé e la sigaretta. E palazzo Chigi ha anche belle finestre sul cortile interno.
D’altra parte Berlusconi è “settantino”, direbbe Camilleri, è uomo d’esperienza, e palesemente esce indenne da queste giornate massacranti. L’ipotesi che si fa è dunque che ognuna delle attrici sia specializzata in ruoli differenti. Non necessariamente drammatici, con catarsi finale. O che l’illustre uomo di Stato sia uno scopofilo. Uno che ama guardare, naturalmente il bello. E che dopo una giornata di Scajola, Mauro Masi, Bossi, Ghedini e Previti, si rifaccia l’occhio. Anche per non passare la notte con gli incubi.

Tre Stati palestinesi?

Si voleva uno Stato palestinese, ce ne saranno due, uno in Ciosgiordania (Fatah) e uno a Gaza (Hamas) – più quello dei profughi in libano, ora concentrati nel Libano Sud, il vecchio progetto di una fascia demilitarizzata tra Israele e la Siria. Se uno Stato palestinese ci dev’essere, non potrà mai più essere unitario, benché frastagliato tra le colonie israeliani: due partiti, due gruppi di potere, due tribù si dividono quella che, sotto l’impero ottomano, era il popolo più moderno del Medio Oriente, e più pluralista, in religione e nella politica. Né c’è composizione possibile: il passaggio di Abu Mazen e dei suoi fedeli di Al Fatah da nemici acerrimi a protetti Israele, al punto di farsene scudo contro l’espulsione e lo sterminio, non lascia possibilità di ritorno. Il passaggio è ora fisico, di uomini e famiglie da un territorio all’altro.
Per Israele è un dato di fatto. Ci sono vantaggi e svantaggi, nella divisione palestinese, ma Israele non può impedire la guerra civile. In linea generale, si rafforza lo stato d’incertezza nel quale Israele ha vissuto nei suoi primi sessant’anni, ma anche questo non si è ancora deciso se va contro i suoi interessi o a favore.
La divisione palestinese dovrebbe però favorire il negoziato con la Siria. Nel quale, comunque vada, Israele non potrà non restituire il Golan. A questo punto, con i palestinesi divisi, potrebbe riprendere piede il vecchio progetto di una fascia demilitarizzata al confine nord di Israele, col Libano e il Golan. Se non addirittura di un’Autorità palestinese di frontiera, col Sud del Libano nella funzione che è ora della striscia ex egiziana di Gaza, di un’area di profughi elevata ad autorità statale.

Si rompe il fronte Usa-Pakistan

È presto per dirlo, per ora si espone solo la Cia. Ma il Pakistan non è più l’alleato fidato degli Stati Uniti nel centro Asia, qual è stato per sessant’anni, e più negli ultimi trentacinque, da Zia ul Haq in poi. Potrebbe anzi essere il vero nemico, benché non dichiarato. La guerra dei nervi tra la Cia e i servizi pakistani, con la false notizie su Osama e Zawahiri, di ritrovamenti, nascondigli improbabili (sul K 2…), malattie invalidanti, è da qualche tempo ostilità scoperta. La Cia ha fatto sospettare i servizi pakistani dell’assassinio di Benazir Bhutto, e ora li accusa di fomentare i kamikaze islamici contro le minoranze etniche e religiose in Pakistan.
L’uscita di scena di Musharraf ha probabilmente lasciato gli Usa senza un punto sicuro di riferimento. O l’America ha deciso di rivedere la politica filoislamica, che ha porta più benefici. Né nella lotta al terrorismo né nella pacificazione di Afghanistan e Iraq. La revisione potrebbe essere in linea con l’uscita di scena di Bush, che ha sempre protetto la relazione speciale con l’Arabia Saudita e col variegato fronte islamico. È anche un dato di fatto che l’India è ora parte stabile della globalizzazione o pax americana, dopo essere stata negli anni 1950-1960 un paese ostile, più vicino a Mosca, anche nella sua politica anticinese, che a Washington, che per questo aveva sviluppato relazioni strette col Pakistan.

Il mondo com'è (11)

astolfo

Anglofonia – L’epoca è ovviamente anglofona, nella lingua e nella letteratura (nei modelli, le strutture narrative, i generi, e nella produzione, l’immagine, le tecniche di vendita), nel linguaggio e negli stili di vita, nella pubblicità, nel cinema, nella musica. Lo è anche quando si vuole il suo contrario, no global. Lo è in qualsiasi espressione anglofona, dagli Usa alla Cina di Hong Kong, Singapore e Londra, all’India, e anche allofona.
La globalizzazione linguistica è pro tempore, parte delle oscillazioni del gusto? Già pregiudicata dal rifiuto no global? No, l’opposizione integra in questo caso il dominio – è un no che la stessa globalizzazione si costruisce. Il dominio è lì per durare, poiché fissa un’epoca radicalmente diversa, in cui l’Europa, che faceva la storia, d’improvviso si eclissa.
È la liberazione dalla teutonicità, febbrile quanto inconcludente, che fu l’acme, per quanto prolungato, del nazionalismo, dell’ideologia dei primati nazionali, nel disegno vittoriano prima, e poi tedesco. Brillante nelle soluzioni tecniche, la Germania si è perduta – e ci ha perduto – nella coscienza politica, la coscienza di sé. Dietro una serie d’invenzioni assurde. Per ultimo si è persa nell’“impolititicità”, l’assurdo odio contro l’“anglosassone”. Che, per quanto anch’esso inventato, si è rivelato ben più consistente dell’“ariano”. Il senso acuto di debolezza e inconsistenza dell’Europa deriva da questo ritardo, a riprendere, dopo due secoli e mezzo di vaniloqui, la sua ultima filosofia. Che fu scozzese.
.
Borghesia – È elusiva. Si è difesa, bene, grazie a Marx che l’ha messa in guardia (ma i sovietici erano proprio bestie), ma è sempre stata inconsistente. Come “valori”, come blocco politico, come opinione pubblica.
Marx l’ha compattata e magnificata, come sempre fanno gli agenti provocatori, ingigantire il nemico, e questo è tutta la storia. Che, se è finita, è perché è la fine della borghesia.
Che cosa sarebbe la borghesia? Il profitto? La peggiore – la più dura – borghesia è dove non c’è profitto. Nemmeno l’avidità la connota, il colonialismo lavorava in perdita netta. Nessuno dei valori che s’è inventati e nei quali si crogiola è consistente: il sacrificio, l’applicazione, l’onore, l’innovazione.

Femminismo – C’è più donna nella letteratura maschile, anche in quella frivola di Fine Secolo (Ottocento), sulla sua psicologia, le attitudini, i languori, la procreazione, la famiglia, l’avventura, la stessa liberazione, che in quella femminile e femminista odierna. Dove anzi c’è una sola donna, nevrotica. Che la sua nevrosi coltiva, figurativamente ed effettualmente, attorno alla sua differenza, che uso farne.

Francia – La stabilità del francese è eccezionale: si scrive oggi come si scriveva nel Settecento – si scriveva nel Settecento come si scrive oggi. Immutabile è allora, con i suoi linguaggi, anche la società in questi tre secoli. Malgrado le guerre e le rivoluzioni.
La stabilità non può essere sociale. Ma certo è intellettuale. Un’eccezionalità, quindi, da fare paura, l’immobilità

Medio Oriente – È doppio e triplo. Per natura? Per convenienza? Per pigrizia?
Israele s’intende con Hamas. E perché non dovrebbe? S’è intesa anche con Arafat. Ci sono dei dati di fatto anche nel Medio Oriente, e uno di questi è dare un qualche posto ai palestinesi, non si possono cacciare e via.
Ma è vero che l’invenzione supera sempre la realtà, e che quindi quell’area va guardata a distanza. Il che non vuol dire con minore preoccupazione, ma anzi, se possibile, con più preoccupazione. Perché, senza scadere nel complottismo, davvero parecchi punti stonano.
Così c’è il re di Bahrein che manda ambasciatore all’Onu una signora ebrea. Che era anzi deputata, per la minoranza ebraica, al suo Parlamento. E che l’emiro si è andata a cercare, non c’è minoranza ebraica in Bahrein.
Re del Bahrein suona bene. È un titolo nuovo, e non da poco: nella penisola arabica solo i discendenti di Saud sono stati re finora, gli altri erano emiri. Quello di Bahrein è riuscito nell’impresa perché deve guardarsi dalle pretese degli ayatollah: Teheran ha scoperto che una volta Bahrein era soggetta al suo scià. E anche il filosemitismo fa parte della stessa strategia di difesa - la diplomazia nel mondo islamico è sempre molto complessa.
Il Qatar ha una bellissima, colta e intelligente emira. Un personaggio amato da Milano, che essa ama, per gli stilisti e l’opera. Suo marito ha fatto un golpe contro il proprio padre per aprire nell’emirato una base americana, la più grande. Poi ha aperto pure Al Jazeera, una televisione che più antiamericana non si può. Dove arrivano invariabilmente a cadenza, in esclusiva, i video di Osama. Dato per rifugiato ultimamente sul K 2 - dunque i video arrivano nel Qatar con gli sherpa.
E chi sono gli hezbollah libanesi? Sono armati dalla Siria, e finanziati dall’Iran? E combattono Israele o il Libano? Israele ora protegge Fatah, gli ex di Arafat, contro Hamas: li aiuta a trasmigrare in Cisgiordania. Si voleva uno Stato palestinese, ce ne saranno ben due. Com’è vero che non c’è peggior nemico degli arabi che gli arabi stessi. Erano i palestinesi il popolo più moderno dell’impero ottomano, per cultura, sensibilità, pluralità religiosa e sociale.
A Teheran gli ayatollah fanno mancare ogni giorno la luce. Per due ore ogni giorno, ma anche per sei e per otto. È estate, e non ci sono picchi nei consumi. Semplicemente, dicono i preti, non possiamo avere l’elettricità di cui abbiamo bisogno perché ci impediscono di farci le centrali nucleari. Uno. E due: è l’effetto dell’embargo che l’America ci ha imposto. Gli iraniani naturalmente non ci credono. Il paese ha il petrolio e il gas (non sfruttato, nel Golfo) per costruirsi tutte le centrali di cui ha bisogno. Ma la prendono con filosofia: già una volta hanno protestato, contro lo scià, e sono finiti nelle braccia degli ayatollah.

Multiculturalismo – È etnico: è occidentale.
È propositivo e non difensivo, come può sembrare. Così è risentito dalle altre culture cui l’Occidente lo propone, insieme con i discorsi unitari, e gli obblighi civili e sociali: le culture asiatiche, le islamiche, perfino le indigeniste dell’America. Per un pregiudizio politico ma anche per la sua specifità: è un secondo grado dell’assimilazione. L’assimilazione è stata rigettata da ebrei e arabi, e dagli iraniani, gli stessi turchi, in quanto comporta la perdita dell’identità, ma anche il multiculturalismo comporta una perdita dell’identità.
È offerta generosa nelle intenzioni ma confusa. Vuole superare lo sviluppo separato, essendosi questo imbucato nell’apartheid razzista. Ma provoca il contrario di ciò che si propone. Per esempio nella Chiesa, che fa di tutto per far dimenticare chi è: adotta gestualità africane, letture protestanti, e i miti pagani, della luce, il sangue, la numerologia.

Occidente – Ha creato il primo standard mondiale nella storia in fatto di attitudini mentali, valori sociali e stili di vita. In una fase calante, o per la prima volta non aggressiva, della sua storia.
È poco, è molto? È il sistema dell’arricchimento mediante la produzione e la vendita allargate, e dello sviluppo materiale delle condizioni di vita, del capitalismo.

Sinistra-destra – È la sinistra che fa la destra, moralista, decadente, ipocrita. La sinistra è tale se è vera, giusta, progettuale.
L’avvento della destra in Europa è conseguente al crollo del sovietismo, la menzogna suprema. Ma prospera perché quella malattia si riproduce, seppure in forme meno acute.
Una di esse è la certezza di possedere il potere e insieme la verità, per l’illusione dell’egemonia culturale. Un’illusione che se fa sorridere negli storici, che il mestiere stesso vuole incartapecoriti invece che stimolanti (critici), sorprende negli economisti e i sociologi. Il conformismo del nulla. Perché le novità degli ultimi trent’anni – la cultura viva, il riformismo – sono liberali, individualistiche, e quindi di destra.