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sabato 21 maggio 2016

Fisco, appalti, abusi (88) – Roma

Le tasse sulla casa sono aumentate di due volte e mezza a Roma in tre anni. Più le addizionali: a Roma il gettito maggiore dell’addizionale Irpef, 153 euro pro capite – che considerato il non eccelso livello del reddito medio è doppiamente jugulatore. Per pagare un Comune inadempiente su tutti i fronti: nettezza urbana, strade, scuole? Per celebrare il sindaco? Carica a cui si candidano una dozzina di personaggi, mentre si penserebbe il contrario, che si rifuggisse la carica

Le circoscrizioni comunali a Roma hanno da un anno un sistema di prenotazione che scansiona ogni operazione in tredici minuti: un certificato – in genere la stampa di certificazioni standard, memorizzate – quasi ogni quarto d’ora, invece che uno o due minuti.

La prenotazione, obbligatoria, è stata adottata per “eliminare le code”. In effetti è precisa al secondo. L’utente viene chiamato all’ora, minto e secondo indicati nella prenotazione. Ma per eliminare la coda lo si costringe a tornare due volte allo stesso ufficio, una per fare la prenotazione.

La prenotazione si può fare online. Ma bisogna sapere l’inglese.

La prenotazione in sede si fa attraverso un totem. Sul quale bisogna fare cinque operazioni: lettura di un documento elettronico, scelta del tipo di documento richiesto, giorno, ora, stampa. Ma ci vuole un addetto.
Altri tre addetti stanno al banco Ufficio rapporti col pubblico per spiegare dove sedersi per aspettare, e distribuire il modulo per la richiesta documenti.

Le circoscrizioni di Roma, spesso situate per risparmiare in posti periferici al quartiere, non serviti dal trasporto pubblico, furono dotate venticinque anni fa, dall’ultimo centro-sinistra, di parcheggi per il pubblico. Ora i parcheggi sono riservati ai dipendenti comunali.

Lo sblocca-file-dirigente-all’incrocio c’è a Roma anche al Parco della musica, alla biglietteria. Da quando gli addetti alla biglietteria e ai servizi sono diventati, da privati in outsourcing, comunali. Da allora molte biglietterie sono chiuse o in pausa. E ci vuole un addetto per controllare la fila. 

Con la pubblicizzazione dei servizi al Parco della Musica, gli addetti al riscontro dei biglietti si sono triplicati, o quadruplicati. Per mezz’ora di lavoro al giorno. Che passano a discutere dei turni, il sabato, la domenica, il notturno etc., contro lo sfruttamento. 

Il sale della saggezza

Aneddoti sugli antichi e sui moderni. “Miniere di sale” dice queste compilazioni – exempla – Cicerone, come dire che le arguzie, oltre che saporite per sé, possono condire le riflessioni più elaborate. Molti degli aneddoti qui raccolti sono da tempo di dominio comune. Al punto che la raccolta non sembra straordinaria. Ma con sensibile retrogusto baconiano – della sapienza semplice, al punto, del visconte di Verulamio, l’avvocato di Elisabetta, la regina di Shakespeare.  
Francesco Bacone, Miniere di sale, Utet, pp. 85 € 5, e-book compreso

venerdì 20 maggio 2016

La recessione più dura, e senza fine

È stata la recessione più dura da quando se ne fa il censimento, da quasi un secolo – peggiore di quella degli anni 1930, dopo il crac del 1929. Anzi, non è stata, è la recessione più dura, perché non  è finita. Ci voleva un presidente indipendente dell’Istat per censire la realtà: “L’Italia sta finalmente uscendo da una recessione lunga e profonda senza termini di paragone nella storia di cui l’Istat è stato testimone in questi 90 anni”. C’è “un primo, importante momento di crescita persistente”, ma “a bassa intensità".  E soprattutto senza futuro.
Non c’è occupazione nuova. Il tasso cresce giusto perché le riforme pensionistiche hanno allungato la vita lavorativa di chi è già al lavoro. L’occupazione dei giovani cala “drammaticamente”.  Non ci sono le scene di panico e di disperazione degli anni 1930 perché si sono gli ammortizzatori sociali e,  soprattutto, c’è la “rendita famiglia”, ciò che le famiglie hanno risparmiato e accumulato negli anni buoni. Ma non si crea niente. I trentenni rimangono a casa dei genitori, non si formano più famiglie, non si fanno più figli. “Nel 2025 il tasso di occupazione resterà prossimo a quello del 2010”, cioè bassissimo, con l’effetto reddito correlato, “ a meno che non intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento della base produttiva". Politiche di cui non si vede nessun segnale.
La crisi drammatica del crac del 1929 comportò interventi drammatici. Oggi, le reti di protezione di cui le economie si sono dotate alimentano purtroppo l’inerzia. Soprattutto in Europa, l’unica delle grandi aree economiche che si dibatte ancora nella crisi, e non se ne rende nemmeno conto.

Mogul mongoli dei media

Sì incensano Freccero e Campo Dall'Orto supremi manager e filosofi di tv e new media. Si ascoltano quindi con curiosità. Ma non dicono ai più qualcosa di intelligente. Sono incomprensibili ma non sono Heidegger: anche a un secondo ascolto o a una rilettura non dicono niente.
Ma è vero che non sono nessuno, sono la Rai: sono l’informazione, l’intrattenimento, e anche il cinema degli italiani. In America si direbbero i media mogul. Non parleranno mongolo, come dovevano parlare i veri mogul? O non sanno quello che dicono? Forse non hanno nulla da dire, ma comandano.
Sono solo lo specchio della confusione del Paese, o non confondono il Paese con la loro confusione? La seconda sembra più vera. Non si spiega altrimenti tanta untuosità dei media nei loro confronti. È vero che gestiscono un patrimonio di appalti e consulenze milionario – miliardario? - ma una critica? una riserva? una scenetta comica? Giusto Crozza, ci ha tentato e oggi non l’hanno fatto più vedere.

Il mondo com'è (262)

astolfo

Big Game – Ritorna il Big Game di fine Ottocento, di “Kim”. Non più in Afghanistan, con le tribù di frontiera, tra la Persia e il Punjab, oggi Pakistan, zone impervie, allora come oggi, ma considerate snodo nella contesa imperiale russo-britannica, avamposto per fermare la discesa degli zar sull’oceano Indiano. La Russia muove coi missili e l’atomica. In Iran, in Siria, e prossimamente, per il petrolio, in Arabia Saudita. In Crimea e mezza Ucraina sul mar Nero – in attesa di regolare i conti con la Turchia, o di farne il suo emporio naturale. E si allarga in Asia, non c’è argine ex britannico (occidentale) possibile.
Più nuova, anzi singolare, è l’inerzia dell’Europa. Londra compresa, che il Big Game storico invece menava, ogni mossa dell’Orso Russo, anche solo immaginata, contrastando. Non se ne parla nemmeno. Con la geografia si è persa anche la storia.

Millennio – Non l’ha accompagnato la psicosi da fine del mondo dell’anno Mille, ma il terrore ugualmente ritorna, come a uno sguardo retroattivo. Di un “angelo dell’avvenire” voltato all’indietro. O di chi fosse in barca nel nuovo Millennio su natante inadeguato, da profugo nel barcone.
Il denaro essendosi sostituito alla fede, il Millennio è stato superato in pompa e gala grazie al never had it so good delle presidenze clintoniane post-Tienanmen, del dodicennio di ipermercato sino-americano. Poi è venuto l’11 settembre. La storia è così semplice. E di guerra in guerra il business si è rivelato inerziale, e anche truffaldino. Che lo fosse si sapeva, e che era necessario governarlo. Non si è fatto, non si fa, è la presidenza inutile di Obama, e l’effetto è la crisi, permanente effettiva.
Entrambi i fenomeni, la crisi in agguato e gli incerti rimedi, sono in una pagina dell’ultimo Kant, “La fine di tutte le cose”: “I segni che annunciano il Giorno del Giudizio (quando mai, infatti, un’immaginazione eccitata da grandi aspettative  si farà mancare segni e prodigi?) sono tutti di natura terrificante. Alcuni li scorgono nel dilagare dell’ingiustizia, nell’oppressione dei poveri a causa della smodata tracotanza dei ricchi e nella generale perdita di lealtà e fiducia; oppure nelle guerre sanguinose che divampano a ogni angolo della terra, e così via: in una parola, nella decadenza morale e nella crescente diffusione di tutti i vizi assieme ai mali che li accompagnano, quali, a detta loro, mai si erano visti nei tempi passati. Altri, invece, li intravedono in mutamenti naturali eccezionali, come nei terremoti, negli uragani e nelle alluvioni, oppure nelle comete e nelle meteore”. Nel riscaldamento globale, e l’Ebola dopo l’Aids, oltre che nelle alluvioni autunnali.
I rimedi sono incerti perché sono – dovrebbero essere – morali: “Non è immotivata la percezione che gli uomini hanno del fardello della propria esistenza, per quanto ne siano essi stessi la causa”. Per questa semplice ragione: “Accade naturalmente che i progressi del genere umano nel coltivare il talento, l’abilità e il gusto (con ciò che ne consegue: l’opulenza eccessiva) sopravanzino lo sviluppo della moralità, e tale condizione è appunto la più gravosa e la più pericolosa sia per la moralità sia per il benessere fisico. I bisogni, infatti, crescono con forza assai maggiore dei mezzi per soddisfarli”.
Kant è ottimista, ma per una petizione di principio: “L’inclinazione morale dell’umanità, tuttavia, che, alla stregua dell’oraziana «pena, col suo piede zoppo», sempre arranca loro dietro, giungerà un giorno a superarli (come è lecito sperare che avvenga sotto al guida di un saggio reggitore universale)”, a superare i bisogni, “poiché nella loro corsa precipitosa essi si ostacolano  e spesso inciampano”. Il che è vero, ma succede come in una corsa ciclistica, che molti corridori cadono insieme (nel gruppo), ma la corsa continua senza fine, senza soluzione di continuità, per quanto perversa.
Realpolitik – Incarnata in Bismarck, per il quale uno scrittore non eccelso, Ludwig von Rochau, la coniò, prendeva a modello Cavour. Come azione politica duttile o dei fatti concreti, che cerca di trarre un utile da ogni situazione, e essenzialmente diplomatica, non bellicosa – quale Bismarck invece prediligeva e attuò, in almeno tre guerre più o meno preventive. E come politica appunto realistica,  malleabile, in contrapposizione alle visioni ideali o di principio, e alle progettazioni, che sono rigide.

Suffragio universale – Ricelebrato di recente per i settant’anni del voto alle donne, è scontato come completamento, e anzi arma definitiva, della democrazia. Ma a lungo fu contestato su basi democratiche. Quando Bismarck lo adottò, per primo, nel 1867, per vincere le resistenze degli ambienti conservatori e legare la monarchia al popolo, fu accusato di cesarismo. Dagli stessi liberali. È Bismarck che lo definisce nelle “Memorie” “la più forte delle armi democratiche”. Il politologo liberale Hermann Baumgarten, che orientava all’epoca l’opinione pubblica tedesca,  in una “Autocritica” (“Der deutsche Liberalismus. Eine Selbstkritik”) parlò di “demagogia cesaristica”, che “mina l’autonomia delle istituzioni”.”. E ancora: “Le suffrage universel minaccia “non solo lo Stato”, minaccia anche “tutta la Kulture”, portando al potere i crudi incontrollabili istinti delle masse.
È una critica che Max Weber farà propria, il suffragio universale del 1867 definendo un mezzo per imporre “il cesarismo a una borghesia allora indocile”. Bismarck stesso, a giugno del 1865, nel corso in un Consiglio della Corona, nel quale aveva prospettato l’adesione popolare indispensabile per il confronto che preparava con l’Austria, si era espresso così: “Considero le elezioni dirette e il diritto universale di voto un grande garanzia per una politica conservatrice, maggiore che una qualunque legge elettorale in qualche modo artificiale, calcolata per il raggiungimento di maggioranze prefabbricate”. Per un calcolo preciso: “In un paese con tradizioni monarchiche e senso di lealtà, il diritto universale di voto, vincendo l’influenza delle cassi borghesi, conduce a elezioni monarchiche”.
Nella stessa occasione prospettò il suffragio universale come lo strumento migliore per ristabilire il contatto diretto tra la monarchia e “gli elementi sani che costituiscono il nucleo e la massa del popolo – contatto impedito dal sistema elettorale per classi”.
Si era in un sistema costituzionale, peraltro, in cui la consituency del presidente del consiglio prussiano era il re e non il Parlamento.

Triplice Orientale – Accanto alla triplice Alleanza, con Austria-Ungheria e Italia, Bismarck immaginò e in parte dispose anche una Triplice Orientale. In due versioni, dell’asse Germania-Austria con la Russia, o Accordo dei Tre imperatori, e dell’Austria-Ungheria con l’Italia e la Gran Bretagna, per controllare il Mediterraneo – in funzione antirussa. Pensò di avere realizzato. Le alleanze orientali infatti non furono attive, e anzi oggetto di intese e non di trattati, tutte peraltro bilaterali e non collettive. L’Accordo dei Tre imperatori fu in crisi già nel 1985, nella crisi bulgara.
La Triplice Orientale propriamente detta o mediterranea non fu mai attiva. Fu sviluppata e negoziata dal conte di Robilant, che da ambasciatore aveva firmato la Triplice a Berlino, quando nel 1886 divenne ministro degli Esteri. Al rinnovo del trattato della Triplice, con Germania e Austria-Ungheria, aggiunse un trattato italo-tedesco che riconosceva all’Italia interessi preminenti nell’Africa settentrionale, e un tratato italo-austriaco che garantiva all’Italia compensazioni nel caso di un allargamento dell’Austria-Ungheria nei Balcani. In parallelo, negoziò e concluse un trattato anglo-italiano, al quale poi aderì l’Austria, venendo incontro alla politica britannica di bilanciamento dell’espansione francese nel Nord Africa e russa nel Medio Oriente. L’accordo fu possibile anche perché i rapporti della Gran Bretagna con la Germania di Bismarck erano in quella fase ottimi. Ma non ebbe applicazione. Analogamente per un accordo parallelo che il conte sottoscrisse con la Spagna, con l’adesione successiva dell’Austria-Ungheria, sempre per lo statu quo nel Mediterraneo e nell’Africa Settentrionale.

Era una possibilità, come sviluppo della guerra d Crimea, sempre per il contenimento della spinta russa verso il Mediterraneo. Cui però il Piemonte di Cavour aveva partecipato, futuri imperi centrali no, l’Austria e la Prussia. L’obiettivo era lo stesso: tenere la Russia fuori dagli Stretti, dai Dardanelli. Ma, già allora, la Prussia-Germania e l’Austria non si ritenevano interessate, “mediterranee”. I cicli storici ritornano, se ancorati alla geopolitica – o: la geopolitica è un fatto, si vede anche nella politica putiniana.

Per molti aspetti la recente contesa russo-turca, e la discesa della Russia in Iran e in Siria, con aperture alla penisola arabica, sono un remake della politica degli zar. I bombardamenti concorrenziali in Siria e altrove, Usa-Francia-Uk da una parte e Russia dall’atra, un remake del Grande Gioco, oggi come allora su terreni infidi, non leali..

astolfo@antiit.eu

Problemi di base romaneschi - 276

spock

Perché chiunque può candidarsi a sindaco di Roma e per fare l’impiegato del Comune ci vuole la laurea?

Che colpa abbiamo noi, che ancora compriamo il giornale, per avere inflitto Salvini un giorno sì e l’altro pure?

Quanti voti ha Salvini a Roma? Salvini, lo spregiatore di Roma

Perché non si potrebbe immaginare un romano verace, Storace per esempio, che va a Milano a dire come devono votare?

L’unico non candidato a Roma è Totti, che vincerebbe a man bassa: lui è più intelligente, che non si candida?

Ma, a Roma, la colpa è della città, oppure delle cronache romane?

E perché la città è affezionata a Mussolini, che l’ha sventrata? (è l’ultimo che le ha fatto qualcosa: la disattenzione offende)

spock@antiit.eu 

Rommel senza cervello, Roma non romana

“Anche adesso giurerei che Rommel sia stato proprio il miglior generale del mondo. Non è vero che egli avesse l’intelligenza di un sergente furiere, come qualcuno ha voluto dire più tardi. Probabilmente non ebbe mai neanche quella”. Come il sempre giovanile Kierkegaard, il giovane Comparoni in arte D’Arzo amava le prefazioni. Qui racconta in prefazione la “generazione perduta” che va alla guerra, ripromettendosi di non parlarne. In caserma, in Croazia, in Libia, e in Libia a Alamein. Un racconto che basterebbe da solo a imporne la ripresa – non fosse che la buona letteratura, quindi anche DArzo, è cancellata da decenni.
Col generalissimo di Hitler va la resa, ai terribili “Australiani di Freiberg”: “All’epica nessuno pensò, e neanche ai libri. Credo proprio che non pensassimo a niente”. A cui succede “la frase magnifica” del “colonnello Lawrence d’Arabia”: la “morte in vita”. Nel campo di prigionia “per due anni quasi ai piedi dell’Himalaia, a Lahore, in mezzo ad altri 4200 ufficiali”. Poi la liberazione, tra i primi, e la scoperta, ancora con la divisa, dell’autunno a Roma: “Sempre bella, a settembre lo è due volte di più”. Perché “Roma non è Milano. È la città meno romana del mondo”.
Un narratore a molte corde, lascito sicuro del Novecento anche se lo ha vissuto poco. In questa raccolta c’è anche - “Una storia così” - una morte straordinaria, che cambia natura: è impotente. Una  “Elegia alla signora Nodier”, racconto non nodieriano (la signora è solo una vicina di campagna), che termina alla Nodier: il mondo bislacco della donna è “una storia vera”. La figura del “padre” fa risorgere nel racconto più lungo, quello del titolo: “I padri non dovrebbero mai piangere”, e il padre “è l’uomo più buono di tutti, al quale si è attaccati più di ogni altro… Si piglino dieci uomini, il più buono, il più forte, il più comprensivo, il più affettuoso ed altri sei: l’insieme di costoro dà il padre”.
Una prosa che rotola,  all’apparenza senza un centro – curiosamente analoga a quella del contemporaneo Fenoglio. Senza una storia o aneddoto da raccontare. Ma i suoi mondi restano vivi.
Silvio D’Arzo, L’uomo che camminava per le strade, Quodlibet, pp.193, € 12

giovedì 19 maggio 2016

Letture - 258

letterautore

Amicizia – Apre al futuro santo Agostino, che si ritrova a riflettere sotto il pero a Milano, le soddisfazioni più profonde. In questo senso: “Conversare e ridere in comune, scambiarsi favori,  leggere insieme libri ben scritti, essere insieme piacevoli e insieme seri, essere talvolta in disaccordo senza animosità, come si è con se stessi… Fare di queste manifestazioni e altre di questo genere, insorte dal cuore delle persone che amano e che si amano, espresse dal viso, dalla lingua, dagli occhi, da mille gesti attraenti, farne come gli alimenti di un focolare, in cui le anime fondono insieme, e di diverse non ne fanno che una”. 

Camilleri – È tutto colore. Una lettura che i film di Sironi accentuano, ma che è anche della sua verve linguistica e narrativa. Anche nelle prose storicizzabili, di persone e eventi: è il tipo “Tuttomio”, dell’aneddoto che si ricorda o celebra al circolo con gli amici. Ma su un’immagine della Sicilia attraente, molto. In controtendenza con la Sicilia abietta dei siciliani, e quindi tanto più apprezzabile.
Per una verve narrativa incontenibile. Deviata, s’indovina, poco aderente alla realtà, ma capace di verità più robuste, quelle che s’imprimono nella memoria del lettore.

Céline – Paranoico? È più che possibile: dopo il “Viaggio” vede complotti ovunque. Il successo non riuscì ad apprezzare, e quasi subito si disperse in recriminazioni, a partire dal mancato premio Goncourt. Si può essere infelici per un mancato Goncourt? No. Ma se si è infelici?
Col “Viaggio”, o più semplicemente “all’età” del “Viaggio”, e della successiva intrapresa di “Morte a credito”, pieno di acrimonie, un rovesciamento netto si produce rispetto al precedente Louis-Fedinand: un compagnone, in guerra, in Africa e a Londra, disinvolto medico di guerra, da reduce,  sposato Follet, beniamino della Rockefeller Foundation.

Mistico e cronista lo ricorda invece il diplomatico Paul Del Perugia – un altro nato a Hanoi, come Duras. In un suo “Céline”, che è il libro forse migliore sullo scrittore, pubblicato trent’anni fa e subito scomparso. Scrittore lo dice di “vedute interiori, inesorabilmente legate al Tempo e allo Spazio da lui vissuti”, di cui si voleva cronista incensurato come Joiville e Froissart, “in tutta modestia”.
Del Perugia tralascia di proposito l’antisemitismo: all’epoca i libelli antisemiti non si potevano nemmeno leggere. Limitandosi a dire che Céline riflette anche in questo il suo tempo. Ma sul rapporto intimo che Céline ebbe con la giovanissima Monika Irrgang postula in ampia trattazione un senso forte del tabù dell’incesto, di un rapporto padre-figlia. Monika era ebrea, conosciuta da Céline per tale.

U. Eco – Specialista si è voluto di quella che Sainte Beuve chiamava “letteratura industriale – Dumas, Sue. Con gli aggiornamenti televisivi.

Kant – Anche come filologo, oltre che come antropologo, non c’è male: si divertiva, è da presumere. In nota all’accurato saggio “La fine di tute le cose”, fa derivare parole fondamentali dello zoroastrismo, il bene, Ormuzd, e il male, Ahriman, dal tedesco. Da Godeman, “(termine che sembra essere racchiuso anche nel nome Darius Codomannus)” e da “arge Mann”, uomo malvagio. Codomannus è il soprannome di Dario III, il re di Persia sconfitto da Alessandro Magno.  
Non c’era ancora l’università anglo-germanica di Gottinga, con l’invenzione dell’arianesimo, o ario-germanesimo – cioè c’era già, ma ancora non si era imposta.

Lettura – Un impossessamento la vuole Robert Walser, per una lieve modifica semantica che introduce al verbo leggere, lesen: anlesen invece di lesen, un neologismo conia per introiettare l’operazione, assumere in proprio il testo, che si farebbe man mano che viene letto. Leggere dice naturalmente opera nobile e benemerita, mentre anlesen riconosce sospetto. Ma anche più libero, comportando parafrasi, desacralizzazione, e anche rapina. La lettura come prestito.

Anna Magnani – “La più vesuviana” delle attrici. Così la “New York Review of Books” presenta la retrospettiva dei suoi 24 film, a partire dai telefoni bianchi – la foto manifesto è con coda di piume e ampio decolleté. A New York e non a Cinecittà, a cura della Film Society of Lincoln Center.

Scrivere - È liberare, annota Čechov nei “Quaderni” - “La vita è una marcia verso il carcere. La vera letteratura deve insegnare come fuggire, o promettere la libertà”. È anche liberarsi?

Sessualità – Fu tardi che la tentazione del diavolo - il peccato - assunse le forme soprattutto della sessualità. La condanna fu letteraria. Così come la difesa, che però fu minoritaria, anche se rappresentata da sant’Agostino, un’autorità già in vita. E stenta a riemergere - ora forse col papa di “Amoris Laetitia”.
La condanna fu opera di san Girolamo e sant’Ambrogio. Cui si accodarono altri autorevoli esegeti delle Scritture, in particolare san Gregorio di Nissa e san Giovanni Crisostomo. Questi Padri lessero la cacciata dal Paradiso Terrestre, la “Caduta”, come effetto del peccato sessuale. La lettura puramente angelica della natura dell’uomo stentò a imporsi: i cristiani pregiavano il voto di castità, com’era nella tradizione sacerdotale, più femminile che maschile in verità, e come Gesù l’aveva vissuta, ma non condannavano il rapporto sessuale. Dalla condanna del sesso discendeva paradossalmente la condanna del matrimonio, e della procreazione, che si dicevano estranei alla coppia originaria. Un’assurdità. Ma l’antisessualismo si impose presto come dottrina della chiesa, perlomeno in confessionale, e da allora inderogabilmente.
Sant’Agostino, che prima di convertirsi aveva convissuto e fatto figli con una concubina per tredici anni, provò a contrastare la sessuofobia ripetutamente. Come teologo nella voluminosa esegesi “La Genesi alla lettera”. Al libro 11, “La tentazione e la caduta dell’uomo”, ai §§ 42.58 e 42.59, sostiene in punta di dottrina che Eva non ha usato la seduzione sessuale per trascinare Adamo a mangiare il frutto proibito: lui l’ha mangiato con lei amicali benevolentia, per amicizia, così come soleva condividere con lei tutti i momenti e tutte le esperienze. Dopo aver risolto senza problemi il quesito perché maschio e femmina, perché il sesso, nel paradiso: perché accoppiandosi riempissero di figli il paradiso stesso. Una constatazione più che una spiegazione – la procreazione resta il fatto più misterioso della creazione.
Questo il testo della lettura biblica: “Interrogato da Dio, Adamo non rispose: «La donna che mi hai dato per compagna mi ha ingannato ed io ho mangiato», ma: «Essa mi ha dato del frutto dell’albero e io ho mangiato»; la donna al contrario dice: «Il serpente mi ha ingannata»….. Così pure fu il caso di Adamo. Dopo che sua moglie, essendo stata ingannata, ebbe mangiato del frutto e ne ebbe dato a lui perché ne mangiassero insieme, egli non volle contristarla, poiché pensava che senza il suo conforto ella potesse struggersi di dolore se si fosse sentita estraniata dal suo cuore e finisse per morire a causa di quella discordanza. Per la verità egli non fu sopraffatto dalla concupiscenza carnale che non aveva ancora provata, dato che la legge delle membra non si opponeva alla legge dello spirito, ma fu vittima d’una specie di benevolenza che è propria dell’amicizia, a causa della quale molto spesso accade che si offende Dio per evitare di rendersi nemico un amico. Che non avrebbe dovuto agire in quel modo lo dimostra il risultato, la giusta sentenza pronunciata da Dio”, la cacciata.
Nel mezzo, tra l’inganno di Eva e quello di Adamo, sant’Agostino a riprova introduce il caso di Salomone, “Anche Salomone pervertito dall’amore delle sue donne”. Adamo fu ingannato come Eva, ma in modo diverso. Al modo di Salomone, ma senza colpa: “Si può forse pensare che Salomone, un personaggio di così straordinaria sapienza, credesse a qualche vantaggio nell’adorazione degli idoli? Ma non ebbe la forza di resistere all’amore delle donne che lo trascinavano a questa empietà, e fece quel che sapeva non doversi fare per non contristare quelle ch’erano l’oggetto del suo amore mortifero, per le quali si struggeva e si pervertiva”. Adamo fece lo stesso, in senso solamente buono, con la sua compagna di vita Eva: per gentilezza, o condiscendenza, per rispetto della donna.

Sant’Agostino, malgrado la sua lunga esperienza in materia, nei tredici anni di convivenza con una concubina, continua a privilegiare la sessualità come maschile. La donna non è tentatrice. Nel “De bono conjugali”, invece, o della felicità nel matrimonio, l’esortazione vescovile che licenziava lo stesso anno che comincia a “La Genesi alla lettera”, 401, qualche passione gliela concedeva: subito dopo aver condannato il concubinaggio, assolve le spose che abbiano commesso “qualche eccesso con i loro mariti”.

letterautore@antiit.eu

Čechov resiste ai čechoviani

Una silloge dell’epistolario per scuole di scrittura. Con due note introduttive e un’appendice (“Un medico all’inferno”) di Piero Brunello. Collaziona i due brevi manuali di minimun fax una dozzina d’anni fa: ”Senza trama e senza finale. 99 consigli di scrittura” e “Scarpe buone e un quaderno di appunti. Come fare un reportage”. Quest’ultimo montato con materiali preparatori dell’inchiesta che Čechov condusse a Sachalin, l’isola-penitenziario sul Pacifico, nel 1890, e un’antologia dal suo “L’isola di Sachalin”.
Un Čechov inevitabilmente ripetitivo, in questa funzione didascalica, svuotato. Gli estratti sono preceduti da fastidiose sintesi didattiche, specie nella seconda parte: “Leggere e riassumere”, “Cambiare aria”, ”Usare il tatto”, “Usare l’olfatto”… Di consigli di scrittura che sarebbero, per il curatore Piero Brunello, anche consigli di vita. Una silloge tuttavia non dozzinale, come sempre per Čechov, che sopravvive ai čechoviani: anche qui è tutti noi, misurato, inquieto, acuto, mite, arguto. “L’isola di Sachalin”.mantiene, malgrado la frantumazione, una sua dignità di racconto: un’isola dei morti, di deportati e ex deportati – sull’esempio dell’Australia che Čechov non cita, ma senza la fertilità del clima e del suolo. Il cui progetto è dovuto a un agronomo e filantropo di cui Čechov ha stima: Michail Semënovič Micul’ dice “uomo di grande forza morale, grande lavoratore nonché ottimista e idealista appassionato”. O del male effetto del bene, che a ben guardare è il filo rosso di Čechov.
Il suo mondo peraltro sembra stranamente quello di oggi. Della legge applicata a caso. Della burocrazia ottusa, malvagia per stupidità. Dell’abiezione senza rimorso. Specialmente contemporaneo il suo intellettuale: “C’è nella nostra diletta patria una grandissima povertà di fatti e una gran ricchezza di ragionamenti d’ogni specie”. L’intellettuale di Čechov è quello della sintesi che ne fa Nabokov: “È infelice quest’uomo, e rende infelici gli altri; non ama i propri fratelli, neanche le persone che gli sono più vicine, ma solo le più remote. La sorte di un negro in un paese lontano, di un coolie cinese, di un  operaio degli Urali, gli causa una fitta di sofferenza morale più acuta che non le disavventure del vicino o i guai della moglie”.

Di sé del resto Čechov scrive, al suo editore Suvorin: “Non abbiamo scopi né immediati né lontani,  nella nostra anima c’è il vuoto assoluto. Non abbiamo concezione politica, non crediamo nella rivoluzione,  non abbiamo un Dio, non temiamo i fantasmi e, quanto a me, non temo neppure la morte né la cecità”.
Anton Čechov, Né per fama, né per denaro, Beat, pp. 209 € 9

mercoledì 18 maggio 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (286)

Giuseppe Leuzzi

“Sud ribelle, Napoli ribelle, potere al popolo”. Così il N.H. Luigi De Magistris si appella ai napoletani per farsi confermare sindaco. Non lo confermeranno, ma Napoli fa sempre male al Sud.

Il magistrato figlio e nipote di magistrati De Magisrris, nomen omen, ha detto anche, rivolto al presidente del consiglio: “Vai a casa. Ti devi mettere paura, ti devi cagare sotto. Cagati sotto”. Questa sembra sincera, il nobiluomo è violento – ma ci sono napoletani miti?

Luigi Accattoli, vaticanista principe (“la Repubblica”, Corriere della sera”) non ama il papa argentino. E lo dice meridionale, che è la verità. Ma da ultimo, su “La Lettura”, perché, “come tutto l’emisfero meridionale piange volentieri  e invoca per tutti il «dono delle lacrinme»”. E aggiunge: “«Chi non sa piangere non è un buon cristiano»”. E dunque il Sud non è cristiano? Perché piange poco – è secco, anche in questo.
Però, il Sud valle di lacrime, questa mancava.

Mafia e antimafia
Due criminali in carcere, guardando la tv, si dicono che Delrio a Cutro, sei o sette anni fa, ha stretto la mano al capomafia Grande Aracri. I due sono intercettati, e questa parte dell’intercettazione è passata all’“Espresso”, che la pubblica. Lo stesso settimanale dice che la cosa non è possibile perché Grande Aracri all’epoca era in carcere. Allora, perché pubblica l’intercettazione? Per compiacere il giudice o il maresciallo di fiducia che gliel’ha data.

Non sappiamo perché si intercettassero i due, ma questo è il meno: c’è libertà d’intercettazione. Ma non è che uno dei due doveva dire quello che ha detto? Sbobinare le intercettazioni è un lavoraccio, molto stressante se non si va a colpo sicuro.

E se fosse stato vero che a Delrio, sindaco di Reggio Emilia invitato a Cutro, i suoi amici della parrocchietta gli hanno presentato Grande Aracri? Come si fa a sospettare Delrio di concorrenza esterna in associazione mafosa? A Cutro?

I coccodrilli di Sciola
Parigi 1961, o 1962. Non si può dire un’amicizia, non c’era frequentazione. Forse una sintonia. O una corrispondenza dell’anima, come usa dire, occasionale e insieme intima – del tipo: so chi ci sei ma non so chi sei. Per l’omonimia anche, col diminutivo per lui per la bassa statura. E la complicità d’obbligo a Parigi non per l‘italianità ma per l’età e una sorta di conterraneità meridionale, anche se di posti diversi e estranei, uniti insomma nell’“altra Italia”. Per l’orgoglio si vuole dire di due poveretti – obbligatoriamente poveretti, venendo dal Sud – che praticano il mondo, poliglotti e cosmopoliti, a loro agio ovunque. Di cui poi si è saputo vagamente, ma si riscopre scultore celebrato ora che è morto, Pinuccio Sciola.
Un coetaneo, quasi, compagno fortuito al Mabillon, una delle mense per studenti di Parigi, dove i cambogiani e altri giovani poco avventurati si vendevano il buono dietetico – molto apprezzato - per pochi franchi. Conversazioni a perdere, su percorsi diversi. E un’origine che per lui era una monomania. O un destino, più un progetto che una nostalgia: la Sardegna era la sua scoperta continua, la sua proposta. Terra incognita per molti anche in Italia, per Pinuccio era un continente pervasivo, unico orizzonte, benché in abito cosmopolita.
Un aneddoto modesto e anzi insignificante, se non per il senso dell’amicizia, che è una volta per tutte. Una bohème fuori tempo, tra uno “studioso” del “sole delle indipendenze” africane e uno scultore nato. Di cui un solo ricordo resta, un’uscita notturna, per la novità del drugstore che apriva agli Champs-Élysées anche di notte. Uscita memorabile per un “Banana Split” che alimentò un lungo ritorno a piedi nella notte fino al modesto alloggio in re de Baci, hotel des Quatres Nations, otto franchi a notte - o era già l'hotel de Baci, 12 franchi, stanza d'angolo, sul mercato.
Un aneddoto che però propone un fatto enorme: perché se ne erano perdute le tracce? Perché Sciola si celebra solo in morte? Perché era e si voleva sardo.
Perché Sciola non fu scultore a Milano, grande scultore, un artista in voga, nel mercato, nel tempo. E più in generale, perché essere nati in Sardegna, o altro luogo “meridionale”, quindi infetto, piuttosto che a New York, o anche nella leghista Milano.
Scola non voleva essere marginale o provinciale – non faceva il maledetto. All’epoca del Mabillon era già stato in Spagna per esperienze innovative. E sarà poi a Salisburgo, si legge, all’Accademia, tre anni, a scuola da Wotruba. I coccodrilli in morte dicono anche che ha raccolto occasionalmente a San Sperate mezza avanguardia europea. Era stato al Cuzco, a studiare le megasculture Inca. Progettava anche, realisticamente, una strada dell’Arte, dal Nord al Sud della sua isola. Di più, era entrato nella fisica dei suoni, delle vibrazioni della materia, in contatto con un Nobel francese. Un artista solido, si vede e se ne legge, e non un visionario, l’artistoide, l’illuso Entusiasta sempre, s’immagina come ai vent’anni, non un alieno. E radicato.
Ma si celebra solo in morte. A opera degli amici vip di Milano con seconda casa in Sardegna, con i quali è stato generoso. Senza esserne ricambiato, se ne sappiamo solo in morte, per sgravio di debito.

Sicilia
Catarella, il poliziotto imbranato del “Commissario Montalbano”, se fosse stato nero sarebbe stato espunto subito dalla serie, nota Paola Mastrocola sul “Sole 24 Ore”. Vero, non sarebbe stato politicamente corretto, e anzi razzista, etc. Siciliano invece può essere, contro ogni verosimiglianza – un piantone così incapace è in spregio alla Polizia.

Chiude la villa-museo dei Piccolo a Capo d’Orlando, “la villa del Gattopardo” – i Piccolo erano i cugini di Tomasi. Chiude perché la Regione Sicilia di Crocetta non ha versato i contributi dovuti.

La villa-museo dei Piccolo poteva andare avanti. La Fondazione invece ha scelto di chiudere producendo un bilancio in rosso di 10 centesimi… Questo è molto siciliano, la pointe, la punta del dispetto. Segnalarsi per un gesto bravo. Come tagliarseli

Grande mostra della Sicilia , “Cultura e conquista”. Con 200 reperti, sculture, decorazioni di templi, chiese e palazzi, gioielli, coppe, mosaici, monte, elmi, tessuti, rostri. A Londra. Al British Museum, la sede più prestigiosa. Quattro mesi di apertura, rallegrati da corsi di cucina e degustazioni, concerti di musica tradizionale, conferenze. Niente Riina a Londra, ma una storia di almeno tre millenni, dai Fenici in poi. Ben custodita.

Fenomenale Agnese Ciula, madre in proprio di due figli, e da tre anni, da quanto è diventata assessore alle Attività sociali di Palermo, con Leoluca Orlando sindaco, si è fatta affidataria di 480 minorenni. Bambini e ragazzi dell’infernale diaspora transmediterranea, che così ha sottratto alla fuga e alla perdizione. Li iscrive a scuola, e ne autorizza le cure, compresa qualche interruzione di gravidanza, anche se non può certo seguirli uno per uno. Fenomenale e geniale: ci vuole poco a volte per evitare un disastro, un po’ di cervello.

La Sicilia non è un modello. Per prima e soprattutto non con se stessa – altro discorso vale per i siciliani nel continente, che si rispettano e sono generalmente rispettati. Ma i fondamentali sono ben vivi, come lo sono la sua natura e la sua storia.

A Palermo giovani e non giovani mafiosi sfregiano venerdì sera il locale di Natale Giunta, chef che non paga il racket: urinano sopra i dolci, altri ne tirano sui muri. Due sere dopo ritornano. Solo la polizia latita a Palermo. 


leuzzi@antiit.eu

Il matrimonio non è peccato

Il matrimonio è amicizia. Anche nel rapporto sessuale. Sembra un’anticipazione dell’esortazione di papa Francesco “Amoris laetitia”, che fonda il matrimonio sull’intesa anche corporale. Sant’Agostino si converte al celibato tardi, ai trentun’anni compiuti. Poi, per altri quarant’anni, vescovo in Africa, dovrà gestire molte situazioni amorose di chierici e monache. Ma senza sconfessare la pulsione erotica, che qui si limita a leggere e regolamentare con una lettura appropriata dei sacri testi. Reinterpretando la sua personale vicenda. Dai 18 ai quasi 32 anni ha intrattenuto una compagna di letto, se non di vita – dalla quale ha anche avuto un figlio. La compagna viene licenziata ancora prima della conversione quando la santa madre Monica di Agostino, funzionario imperiale - professore di retorica - a Milano, decide che il figlio deve convertirsi e anche sposarsi, con una ragazza giovane di buona famiglia ambrosiana, per fare carriera. Le cose andarono diversamente. La compagna di tredici anni se ne tornò a Cartagine, ma Agostino non si sposò. Si convertì scegliendo la vita da religioso. Senza però sconfessare l’impulso erotico. I sacri testi accordando all’evidenza della procreazione.
Ci vorranno molti secoli prima che il matrimonio venga riabilitato - ammesso che l’esortazione del papa Francesco faccia testo. In questa guida ai suoi fedeli sant’Agostino ribalta la condanna, anche se senza esito: la chiesa si è attestata sui padri, Girolamo, Ambrogio, Gregorio di Nissa, Giovanni Cristostomo, che leggono la caduta come una fuoriuscita dallo stato “angelico”: il matrimonio, e fin la procreazione, era estraneo al progetto originario. Assurdo. Sant’Agostino non lo dice ma è l’evidenza della sua argomentazione, fin dalle prime righe. Senza vis polemica, controversistica, come un dato di fatto. La venuta del Cristo e i sermoni sulla verginità non cambiano la storia: il matrimonio non è un’istituzione sorpassata né da condannar e.

Altrove - nel voluminoso “La lettura della Genesi”, che inizia nello stesso anno in cui invia questa istruzione “De bono conjugali”, 401, e termina nel 414 - sosterrà in punta di dottrina che Eva non ha usato la seduzione sessuale per trascinare Adamo a mangiare il frutto proibito: lui l’ha mangiato con lei amicali benevolentia, per amicizia, così come soleva condividere con lei tutti i momenti e tutte le esperienze. Dopo aver risolto senza problemi il quesito perché maschio e femmina, perché il sesso, nel paradiso: perché accoppiandosi riempissero di figli il paradiso stesso. Una constatazione più che una spiegazione – la procreazione resta il fatto più misterioso della creazione. Qui accetta la sessualità anche non legata alla procreazione: al § 16, dove condanna il concubinaggio, assolve le spose che abbiano commesso “qualche eccesso con i loro mariti”.
Sant’Agostino, Le bonheur conjugal, Rivages poche, pp. 121 € 7
La dignità del matrimonio, free online

martedì 17 maggio 2016

Secondi pensieri - 262

zeulig

Antisemitismo – È rischioso, naturalmente, per gli ebrei, ma è un veleno per chi lo esercita. Come il razzismo di James Baldwin, 1962: “Avvelena i bianchi mentre distrugge i neri”. È una deriva infetta.

In quanto materia del “complotto permanente” è l’esito di una deriva personale nei confronti della vita pubblica, della socievolezza. Una delle più agevoli, invitante, perché deviata su un canale minoritario e insieme consistente, per spessore storico e culturale, individuabile, pugnace, orgoglioso. Così è stato in qualche misura individuato in qualche ricerca (quella di Adorno), ma con non chiarezza in alcuni professanti di marca e sorprendenti. In Heidegger per esempio, in Pound, in Céline. Nei quali è netta espressione di un disadattamento. Non di un’inadeguatezza dietro la genialità, poiché interviene tardi, sui quarant’anni, e in una col riconoscimento delle loro qualità peculiari, e perfino di funzioni magisteriali. Di una posizione non confortevole di fronte al reale quotidiano. Sopravveniente per motivi nemmeno connessi a un torto, un’offesa, un’aspettativa delusa, un fatto comunque nuovo se non nocivo, anche “esterno” e non personale, politico, di opinione. Un’aggressività che deriva non dall’odio ma da un’insoddisfazione e un’incertezza. Impreviste forse e inattese, dato il personale successo.

Biografia  - Esprime oggi un bisogno di non essere – non di essere stato, poiché al momento in cui si comincia a parlare di sé questo non è più vero. Oppure: il non-essere (essere stato) come pietra dell’essere.  Derivato dal vezzo americano di dirsi, da artisti, manager, imprenditori, star, un cameriere, un taglialegna, un ferroviere, un garzone – un vezzo pubblicitario, che approdi al self-made man.  È lo standard dell’essere digitale – cameriere è la specialità forse più gettonata, sia pure transeunte. Esprime un bisogno di camuffarsi, col non essere. Ma alla sommatoria – tralasciando l’ipotesi di un volontario, innocuo, falso?

Deflazione – È della ricchezza, la povertà non si restringe e anzi si spende. Sembra un paradosso ma non lo è, è un dato di fatto: è la ricchezza sterile. Subentra quando l’accumulo, per cause esogene (panico, minacce) o endogene (incapacità, errori), è fine a se stessa: magari con le migliori intenzioni ( proteggersi), si danneggia.
Effetto del malgoverno anche, ma più di un calcolo errato, o di una psicosi. Di una inabilità sopravvenuta, come più in grande nelle alterne fortune imprenditoriali, con trend in crescita, anche solo per fortuna, e trend inesorabili al fallimento anche con la migliore applicazione, lo studio, la costanza – ma non senza colpa: la fortuna si merita comunque, non è cieca.

Dio – Nella traduzione greca della Bibbia è “lento all’ira”. Ma ci arriva: l’ira non è dunque un peccato capitale? Dio non è immune dal peccato? Bella ipotesi.

Il Male come “difetto di saggezza”. Lo ipotizza Kant (“La fine di tutte le cose”) come terza scelta, tra quella monista (tutti beati) e quella dualista (alcuni eletti altri dannati – i sommersi e i salvati). La ipotizza per escluderla, ma senza buoni motivi. Un creatore, dice, chiamandolo saggezza, che, “scontento della propria opera, non conosce altro mezzo per ovviare alle manchevolezze di ciò che ha fatto se non la distruzione”.

“L’impossibilità” kantiana “di una prova cosmologica dell’esistenza di Dio” viene intesa come l’impossibile prova della non esistenza di Dio. Ma Kant era un credente. E dunque probabilmente (argutamente , sottilmente come usava) pensava quello che diceva: Dio è una consolazione.

Disprezzo Regna sovrano – e dunque è promosso da vizio, legato al’ira, a virtù? Kant lo trova dominante in filosofia: “In ogni epoca, coloro che si autodefinivano saggi (o filosofi) si sono sbizzarriti  in similitudini negative, in parte disgustose, per rappresentare il nostro mondo”. Che dicono, nota divertito: 1) una locanda, 2) un carcere, 3) un manicomio, 4) una cloaca.

Dissimulare – È meglio che dire la verità, secondo lo scrittore Robert Walser. Non senza argomenti: “Le sincerità suscitano spesso dissimulazioni, mentre possiamo mostrarci sinceri in rapporto a delle simulazioni”. Per esempio con la civetteria: “La vera simpatia, spesso, ci gela, là dove la simpatia finta può toccarsi come qualcosa che ci riscalda. La civetteria mi sembra essere un fattore vitalizzante”.

Nietzsche – Mussolini, ancora repubblicano di Romagna, nel 1908 lo fa “latino”, in polemica col leader socialista Turati: “Nietzsche non ha mai dato una forma schematica alle sue meditazioni. Era troppo francese, troppo meridionale, troppo “mediterraneo”per “costringere” le speculazioni novatrici del suo pensiero nei quadri di una pesante trattazione scolastica”. È l’esordio del “famoso saggio” (Luciano Canfora) “La forza della filosofia”, pubblicato a novembre e dicembre del 1908 sulla rivista “Pensiero romagnolo”, del partito Repubblicano, e oggi molto letto online.

Morte – È la fine del tempo? Il tempo non finisce: la morte lo cristallizza - non lo cancella.
Si usa dirla un passaggio “dal tempo all’eternità”. Ma allora all’eternità come la nota Kant, di “un tempo che si protrae all’infinito” – “in tal caso l’uomo non uscirebbe mai dal tempo, si limiterebbe a passare ad un tempo a un altro tempo”.

Sciatteria – È la parola chiave dei festival, ora di Cannes, che si penserebbero invece festivi, cl vestito buono. Un caso, forse una coincidenza, ma il concentrato è elevato di sciatteria all’inuagurazione del festiva: niente glamour, e neanche charme, non femminile e neanche intellettuale. Niente stile, niente bellezza, tutto trasandato e sporchetto, come di forfora, grassi, polvere, cattivi odori - è impossibile a distanza, ma si annusano, falsi certo, tutti anno sempre la doccia. Smoking fuori misura e non stirati, da robivecchi, camicie alla sans façon, cravattini con l’elastico, scarpe polverose, e dove non c’è il nero di rigore da anni, per esempio per le mises delle attrici, solo raffazzonature, sotto sguardi che nonché non fulminare dicono  “embé?, non sono abbastanza pagata per sedurvi”.
La sciatteria era una moda agli inizi, il genere americano informale, che imponeva colori lussureggianti, brache larghe e scarpe di plastica. Poi la plastica ha eretto a totem, che è tutta guadagno per i produttori, di nessun valore specifico, specie per le impossibili scarpe che stancano ai primi dieci passi, e ricambi continui, oltre che costosi. Ora c’è solo la sciatteria:impossibile figurarsi che attori, attrici, registi, operatori, produttori così slabbrati producano o creino una qualche emozione, giusto un prodotto da popcorn.

Silenzio – Parla, si sa. Anche quando è un rifiuto. Si dice silenzio la quiete. Ma propriamente è una risposta non data – un dialogo interrotto (oppure proseguito, appunto, col mutismo). Anche nel dialogo con la natura, nella contemplazione delle forme, le luci, i colori, gli odori.
Lo sdegno è silenzioso più che vocale. Il disprezzo pure. Anche l’amore.

Sovrasensibile – Siamo noi. Insieme con l’infinito e l’eternità. L’aldilà è un aldiqua. È un dato (concezione, realtà) mediato.

zeulig@antiit.eu

Il lager delle donne non era così bello

Un libro di fotografie, patrocinato dall’Aned, l’Associazione nazionale ex deportati, per i  settant’anni della Liberazione. Da parte di una figlia e nipote di deportate, i quanto antifasciste, poi sopravvissute. Membro dell’A ned, e del Comitato Internazionale di Ravensbrüuck, Laurenzi dà una testimonianza fotografica dei luoghi come sono oggi, con didascalie di memorialisti e contemporanei. Con quattro o cinque altri interventi, di maniera - di condanna. Ma il volume s’impone per le immagini, e queste sono forse un po’ malinconico, ma di lindura. Mentre un lager è un luogo orrendo. Non solo concettualmente, anche fisicamente.
Ravenbrück, il lager delle donne, è stata una struttura sordida, benché in terra tedesca – a differenza dell’altro grande campo di deportati politici in terra tedesca, Dachau, dove pure si moriva ma senza tormenti. C’era una fabbrica della Siemens, per sfruttare le deportate a costo zero, quasi. C’era la Scheisskolonne, la colonna o squadra della merda, che rimestava per ricavarne concime. C’erano gli esperimenti in corpore, con amputazioni e sieri letali. E c’era, è vero, molta umanità. Di chi ci è rimasto ma in qualche modo ne ha scritto, e di chi è riuscito a raccontarla. Lidia Beccaria Rolfi per prima, una ragazza staffetta partigiana che sopravisse al lager e nel 1978 trovò la forza di raccontarlo, con l’aiuto di Anna Maria Bruzzone. Alcune deportate, soprattutto le francesi, ci scherzano sopra. Germaine Tillon ci ha scritto sopra un dramma, su pezzetti di carte che riusciva a raccogliere nella spazatura, diosnendo di una matita, Der ver.., che le deportate recitarono. C’era nei regolamenti del lager di evitare di sedersi sulla tazza, bisognava farla in piedi – ma anche stando con i piedi sulla tazza si poteva essere puniti, le SS punivano chi volevano. Ravensbrück non era propriamente un campo di sterminio, ma la madre di Helga Schneider, volontaria SS, vi era impegnata con le cavie umane degli esperimenti disumani sui sulfamidici e la sterilizzazione: si sceglievano le donne giovani e ancora in forze, che venivano infettate o mutilate a vivo, e poi lasciate morire tra i dolori. 
Le immagini sono una sorpresa anche per chi ha conosciuto i luoghi. Che sono ameni, ma sono pure inquietanti. La pubblicazione segue purtroppo il vezzo della Repubblica Federale, che, a differenza della polonia, che tiene Auschwitz com’era, col filo spinato, la ruggine e lo squallore, ingentilisce i lager come monumenti da visitare, con aiuole e fiori, Dachau come Ravensbrück. Non una buona politica.
Così Astolfo ricorda Ravenbrück nel romanzo “La gioia del giorno”, 2008, ancora in edizione:

Ravensbrück fu lager gentile, sulle sabbie e sotto i pini del Meclemburgo, alla luce perlacea del Baltico, tra le dune sotto il lago di Fürstenberg, a un’ora da Berlino, a due da Lubecca, altro nome fatale, ci passerà l’autostrada da Amburgo. Ospitò Geneviève, Milena, Gretchen, Germaine, Charlotte, Douce Giroud, staffetta della Resistenza, lei che aveva sposato un cagoulard, milite volontario di Vichy, Lidia, Gertrud Luckner, le politiche Teresa Noce naturalmente, “rivoluzionaria professionale”, Hélène Langevin, Marie-Claude Vaillant Couturier, e altre donne di qualità. Valchirie ventenni vi si esercitavano a uccidere le eroine, dopo averle debilitate. Ma pochi al confronto, dei ventimila che transitarono nell’attiguo campo per maschi, poche diecine, si salvarono. Si uccideva col cianuro dello Zyklone B, coi gas di scarico dei motori, le iniezioni di cloroformio al cuore, il veleno nella zuppa, i sonniferi, i lanciafiamme, il mitra, pistole, di grosso e piccolo calibro, bracieri ardenti, bombe al fosforo, bastoni, cani, l’obbligo di stare in piedi, in camicia, al freddo, senza cibo. Centodiecimila donne vi sono passate, cinquantamila non ne sono uscite.
“Questo era un lager per bene, e fino all’estate del 1944 le famiglie furono avvisate dei decessi, tutti per incontestabile arresto cardiaco. Le detenute della Scheisskolonne, la squadra della merda, pestavano gli escrementi coi piedi, quindi li appallottolavano con le ceneri per ottenerne un concime. I neonati s’immergevano in secchi d’acqua, dove morivano in dieci-quindici minuti. Qualche neonato sopravvisse, chiuso negli stracci, una o due settimane. Fu qui che il dottor Gebhardt diventò professore, facendosi nominare da Hitler poche ore prima della fine capo della Croce Rossa, con la vivisezione di settantacinque ragazze polacche. Il dottore induceva la cancrena nelle cavie umane per dimostrare che Heydrich, che presto peraltro morirà colpito dalla Resistenza ceca, non avrebbe potuto evitarla dopo l’attentato. Assassinare per la scienza era primario impegno del nazismo: l’orario delle esecuzioni nelle ventuno carceri a esse adibite fu programmato d’ordine di Hitler sulle esigenze degli istituti di ricerca.
“Nel 1940 la Gestapo ci teneva cinquemila prigioniere: politiche, ebree, testimoni di Geova, zingare, criminali. Nel 1945, approssimandosi la sconfitta, le prigioniere erano quarantaseimila, comprese le soldatesse russe, stipate in trentadue baracche, più settemila uomini nel campo attiguo. Lavoravano per la Siemens, a ciclo continuo, su turni di dodici ore, le più fortunate. Erano donne in massima parte inesperte della vita politica o criminale: la disgrazia introiettavano, consumando rapidamente le difese dell’amor proprio, e intristivano nell’animosità verso chi stava loro più vicino, le altre compagne di sciagura, prima della rapida fine. Le criminali che nel 1942 furono trasferite a Auschwitz fecero invece le migliori kapos del campo di sterminio, “per resistenza, bassezza, trivialità e depravazione”, a giudizio di Höss, il comandante. Meglio rispondevano le prigioniere politiche, cui l’internamento, manifestazione di timore da parte del nemico, rafforzava con l’orgoglio la resistenza fisica.
“I russi liberarono Ravensbrück a fine aprile 1945, gli americani subentrarono dopo qualche settimana. Il campo ha stimolato molta creatività, dirà Denise Mac Adam. Ma è stato il luogo più persistente dell’irrealtà, le deportate non potevano parlarne, non c’era neppure sulla carta. A lungo fu ignorato pure dalla memoria ebraica. Per molti era millantato credito. E per le donne un disonore. Lidia Beccarla Rolfi non ricorda di avervi mai visto la luna, è sempre inverno nei lager, nebbioso, grigio. Ma il lago è minuscolo, e da Fürstenberg le mura si vedevano, le colonne di lavoro cinque per cinque, il fumo del forno crematorio a ciclo continuo, e si potevano anzi udire le urla delle kapò, le scudisciate. Molti del resto ci lavoravano, venendo in bicicletta o in barca dal paesino ordinato col campanile a guglia. La Croce Rossa entrava. E quando la guerra fu perduta Siemens pagò le deportate, alcune, quelle dei registri.
“Le internate che non erano buone per la fabbrica, e non erano in castigo nella Scheisskolonne, spalavano sabbia, in cerchio, da sinistra a destra, ognuna spalava il mucchio della vicina. Le segretarie, le dottoresse, le infermiere nascondevano a volte le prescelte per la liquidazione. Questo avveniva a danno di altre internate, i totali dovevano quadrare. Ma l’umanità soverchiava le teste di morto. Geneviève de Gaulle, una bella ragazza arrestata con le amiche al caffè a vent’anni, vi sopravvisse con le preghiere e l’amore per la Madonna. Germaine Tillion, che vi perse la madre, la scrittrice Émilie, uccisa col gas alla vigilia della liberazione, per essere stata denunciata da un abate collaborazionista, ne fece la parodia offenbachiana in “Il Verfügbahr agli Inferi”, ai margini di un’“Imitazione di Cristo” regalatagli dal cappellano, e su ritagli di carta recuperati dalla rete interna di resistenza, scrivendo dentro un cassone nelle lunghe operazioni di carico e scarico dei treni, protetta dalla squadra di lavoro. Il Verfügbahr, detenuto disponibile ai lavori esterni, è nel caso femmina, Nénette, e cerca un campo “con tutti i comfort, acqua, luce, gas, gas soprattutto”. È forte Germaine, allieva di Mauss e Massignon, che a Yacef Saadi e tutto l’Fln imporrà nel 1957 a Algeri il blocco degli attentati contro i civili, e tradita dai generali francesi si rifarà con de Gaulle, dal quale otterrà il perdono dei terroristi algerini, e ora dell’Oas.
“Margarete Buber Neumann era stata isolata dalle politiche per il suo comunismo. Dapprima dalle stesse internate comuniste, le quali la dichiararono traditrice per il motivo che diffondeva menzogne sulla Siberia, e di conseguenza da tutte le politiche, per l’ascendente che le comuniste avevano sulle altre. Eccetto che da Milena. Milena di Praga: così Milena Jesenskà le si presentò, giornalista, comunista, destinataria di tante lettere di Kafka, fra le più fantasiose lettere d’amore passate agli archivi. Milena chiese a Grete se era vero che i sovietici avevano consegnato a Hitler gli antinazisti rifugiati a Mosca, e le due donne divennero amiche. Per Milena Grete era una Madonnina di campagna, che ama la vita per trasporto naturale. Per Grete Milena era la tenerezza femminile unita a un’energia tipicamente mascolina. Milena, appena uscita dal liceo femminile Minerva a Praga, sedeva intrepida al caffè Arco, ritrovo dei letterati germanizzanti, baffuti, gnoccoloni, e presto se ne fuggirà sola a Vienna. Non femminile, il cappello portava da uomo, ma presto si sposerà. Grete e Milena progettavano a guerra finita un libro, “L’era dei campi di concentramento”, di Stalin e di Hitler. Ma Milena, il fuoco vivo di Kafka, morì prima.
Ambra Laurenzi, Ravensbrück, il lager delle donne, Punto Marte, ill., pp. 120 € 26 

lunedì 16 maggio 2016

Ombre - 316

Rossella Orlandi querela per conto dell’Agenzia delle Entrate “Striscia la notizia”. Che può ribattere sferzante: tanto pagheremo noi. Noi di Mediaset e\o noi contribuenti: “Loro fanno le cause. E chi paga gli avvocati? Sempre noi”. Ineccepibile.

Tanti delitti di lesa majestatis sono stati aboliti. Ma il privilegio di pubblico ufficiale no - basta un incontro ravvicinato con un vigile urbano per sentirne il tanfo. È il problema numero uno della burocrazia: la supponenza. Insieme col bieco sindacalismo del non fare.
Non il pubblico ufficiale di Hegel, sacerdote dello Stato. No, lo sbirro. Senza appunto senso del ridicolo.

“Striscia la notizia” può anche vantare il servizio pubblico. Di fare cioè quello che la Rai, pagata per questo, e molto, non fa. Si ricorda ancora anzi una pretessa della supponenza Rai, Loredana Lipperini, denunciare “Striscia” sul “New York Times”  come un sito berlusconiano di vallette. Dopodiché la Rai sfido “Striscia” con i pacchi. Una cosa così volgare, perfino fraudolenta, che nemmeno Berlusconi ci ha mai pensato.

Statali, le retribuzioni medie sono calate di 600 euro negli ultimi quattro anni, calcola “Il Messaggero”. “I comparti più penalizzati: scuola e forze armate. Buste paga in crescita invece per i magistrati”. La giustizia è uguale per tutti.

“La lettura” si promuove sul “Corriere della sera” con “L’atto di nascita dell’ontologia”. È tale la sete di sapienza? Immaginiamo la “New York Review of Books” che si promuove con l’ontologia, o il “New Yorker”. Poi dice che gli italiani non sanno leggere.

Verstappen, 18 anni, neo patentato, appena sbarcato alla Red Bull, alla sua prima gara batte le due Ferrari. Di due piloti superpagati, quindi bravi. “La macchina era troppo lenta”, si sono giustificati Vettel e Raikkonen. Ma non è una scusa.
Ha vinto una macchina che fino all’altro anno montava motori Ferrari e non vinceva niente. Quest’anno monta motori Renault, con piloti baby, per risparmiare, e vince.

Ma Marchionne è soddisfatto, che è anche il presidente della Ferrari. Corre per perdere? Una squadra così, dice, non l’ha mai avuta: “Questa squadra è irriconoscibile, in positivo, rispetto a quella delle passate stagioni”. Quando, però, ogni tanto vinceva.

Sarà per la Ferrari come per la Juventus: dentro Fiat non vince nulla. Fiat sa fare le macchinette, e niente più. Per mezzo secolo non ha avuto la media cilindrata, l’erede della Millecento – forse ora con la 500 L. E i marchi che ha comprato li ha sviliti - Lancia e Alfa riducendo a due adattamenti, della Punto e la Bravo. Perché mandare gli ingegneri Fiat, gente da caserma, a fare la Ferrari, o anche solo un’Alfa? È sempre la sindrome a Torino dell’unità d’Italia: conquistare con i bersaglieri.

Perché non dare alla Cassa Depositi e Prestiti lo statuto della Kfw tedesca?  Coraggio, si alleggerisce il debito di 3-400 miliardi, il debito pubblico. Invece no, i nuovi manager Cdp “presi dal mercato” fanno solo progetti faraonici di investimenti, pubblici – il “trucco” Kfw è di fare investimenti almeno a metà privati.

Si dice che i tedeschi sono cattivi, che non mettono i debiti di Kfw bel debito pubblico. Ma a volte sono solo più intelligenti. Un poco.

Carcerati i carcerabili, smerdati gli smerdabili, e i non, e dato il colpetto al governo, i giudici e gli inquirenti di Tempa Rossa sono tornati allo stato naturale, il letargo. Troppa fatica?

Niente condanne e niente assoluzioni a Potenza per il tanto gridato scandalo del petrolio. I lavoratori sono in cassa integrazione, e i carcerati chi se ne frega: “La legge è qualcosa di sordo e inesorabile”, come ai tempi di Tito Livio, “Ab Urbe condita”, Libro II, 1, 3.
A differenza di Livio, però, la legge potentina è equanime: lo storico romano la voleva infatti “qualcosa di sordo e inesorabile, migliore e più vantaggiosa per l’indigente che per il benestante”.

Davide Paolini non ama più il caffè. Difficlmente lo trova buono. Chiunque può attestarlo. Viaggiando, poi, si scopre che il miglior espresso si fa in Germania. Da macchine italiane ma scelte con criterio. Con miscele di buon gusto e non tanto per bruciare la lingua. Da operatori addestrati. In Italia no, non è possibile.
È come per la pizza, che chiunque la impasta, indigeribile.

Gara di solidarietà a destra all’improbabile Raggi: Salvini, Meloni, lo stesso Bertolaso la vorrebbero sindaco di Roma. Contro il candidato Pd, dicono, in realtà l’uno contro e a dispetto dell’altro. E questo è il problema di Roma, le candidature: da mercatino, o da manicomio.

“Denunciati cinque rom. I gioielli rubati in più case del centro a Roma scoperti nella villa di un clan rom vicino Bergamo. Ritrovati anche i 200 mila euro rubati al calciatore della Roma Rajan Naingolan. Cinque denunciati”. Niente arresti, niente sequestri: quelli solo per i politici, solo per loro c’è il pericolo di fuga, per i nomadi no.

Poliziotti, carabinieri e guardie carcerarie di Milano – abruzzesi, molisani e pugliesi in servizio a Milano – si candidano alle comunali di Carapelle Calvisio, in Abruzzo. Hanno tre liste: una trentina di candidature in realtà al riavvicinamento – sono quasi tutti del foggiano. Con un mese di ferie pagate per la campagna elettorale.
Anche nel vicino Castelvecchio Calvisio l’anno scorso si erano candidati poliziotti di Milano.

Ma Carapelle Calvisio e Castelvecchio Calvisio fanno l’uno 82 abitanti e l’altro 155. Stanno sul Gran Sasso a quote diverse, a 900 e a 1.100 m. di altezza, ma distano pochi km. Che senso hanno due Comuni? Oltre a fare le elezioni, per le quali ci vogliono per forza candidati di fuori – ci vogliono almeno due liste.

Alle comunali di Castelvecchio Calvisio l’anno scorso fu presentata una sola lista, quella dei poliziotti. E l’elezione fu per questo annullata.  A Carapelle, dove hanno il voto 67 residenti sugli 82,  se ne presentato sette, con 55 candidati.