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sabato 14 settembre 2019

La Germania è una brutta bestia

“L’Europa avvisa la Germania” è l’apertura solenne del “Corriere della sera”. Perbacco! È non è tutto: è il neo ministro Gualtieri (chi era costui?) che lancia l’avviso.
Si sottilizza il ruolo della Germania nell'entusiamo europeista dei neofiti giallorossi, grillini già pro Farage e ex-Pci antitutto, con contorno dei “giornali che pensano”. Mentre da Berlino e Francoforte si mitraglia Draghi, “draghula” coi denti avvelenati, un facsimile delle facce brutte d'antan. Con ingiunzioni di dimissioni. O di rivolta alla Bce. E messe in guardia a Lagarde, non è un gioco di parole, la successora 
La Germania è una brutta bestia. Non peggiore di altri in Europa, ma bisogna saperlo. La Germania post-Kohl, post-riunificazione. L’approccio giusto è quello tedesco: mercantilista, o ognuno per sé, attento ai suoi interessi. Col sorriso, certo.

Letture - 396

letterautore

Autore - È “storico e poeta, veridico e bugiardo”, Diderot, “I due amici di Bourbonne”.

Bergamo – Era il nome di un tessuto, legato alla città – come Genova per quello che poi è diventato jeans. Era un tessuto da tappezzeria, grossolano, di lana, filo o cotone, uniforme, a colori matti, senza figure

Brera – Protoleghista, teorico e filologo della Padania. Uno che quando litigò con Arpino e volle ingiuriarlo, lo chiamò “terrone riciclato”. E i “meridionali parassiti” tuonava nei comizi, candidato socialista, che li avrebbe “rispediti a casa”. Ma di Bossi non aveva buona opinione: era leghista classista.

Robert Capa – Un mito, all’improvviso, con la fortuna della fotografia, ben oltre l’indubbia capacità e la fortuna. Malgrado si sappia da qualche anno che si era inventata la foto che lo ha reso celebre, la morte del Miliziano in Spagna. Camilleri, “Come la penso”, favoleggia di un incontro fortuito, in solitario, nella campagna di Porto Empedocle, nell’autunno del 1943. Helena Janeczek, nel biopic “La ragazza con la Leica,” lo fa amante inarrivabile per Gerda Taro, la sua eroina. Due belli, ma lui più di lei. Che ne fu invece inizialmente socia. Col nome Robert Capa, da lei inventato, come ragione sociale, per vendere meglio gli scatti a Parigi e alle riviste americane – un nome che si pronunciava facile in francese, inglese e tedesco, e richiamava Frank Capra, allora in gran voga.     

Docufilm – Si moltiplicano come veicoli pubblicitari. Di persone, personaggi, attività, imprese. Giocando sulla forma artistica – vengono presentati ai festival, recensiti, proiettati anche – ma basta l’annuncio, non si vedono di fatto nei cinema. A opera di registi (soggettisti, sceneggiatori) sempre indipendenti. Vito Robbiani e Marco Alessi dirigono e producono per esempio quello di Mariam bin Laden, una signora che in Arabia Saudita sarebbe anche dentista, della nota famiglia di ipercostruttori (nonché di Osama e dell’11 settembre), eroina delle traversate in mare, che col ricavato delle sue imprese natatorie fonda un ospedale per profughi siriani in Giordania. Parte del programma saudita di accreditamento di un regime politico patrimoniale, della famiglia Saud, e fortemente islamico, nel senso più bigotto, come paese moderno, che coltiva la liberazione della donna.
Era la politica dello scià di Persia prima della “rivoluzione” di Khomeiny. Che per questo aveva voluto i migliori nomi occidentali, tra essi Moravia e un congruo numero di registi italiani, avvicinati e\o contrattati.

Nomi – Sono essenziali al narratore, allo scrittore di fantasia, dice Soldati, “Racconti del Maresciallo”, che il momento dei nomi sacralizza: “”Devono aiutare la fantasia dello scrittore molto prima e molto pù  di quella del lettore: devono in qualche modo echeggiare il suono di veri nomi ma, ma anche differenziarsene, quasi per lasciare lo scrittore più libero dalle sue stesse invenzioni, e quasi per garantirgli la vita autonoma e completa dei personaggi”..
Un mago dei nomi si può dire Camilleri. Specie nei racconti non di Montalbano. Le accolte per esempio dei tanti circoli di notabili di paese: basta il nome per farne personaggi.

Quasimodo. – “Un arabo che cantava da greco”, lo ricordò Gianni Brera, che gli era amico di cene prolungate. Ma Quasimodo non è “greco”, se non in traduzione – molte ne fece dal greco.

Piccolo Profeta – Era il soprannome di Melchiorre Grimm, l’editore a Parigi della “Correspondance littéraire”, il periodico manoscritto in una ventina di copie che propagò gli scritti degli Illuministi presso le corti europee, a pagamento. Gli derivava dalla contesa detta dei “Bouffons”, 1753 (poi prolungata nella “Querelle des deux Musiques”), sui meriti dell’opera francese e dell’opera italiana, nella quale Grimm si era schierato per l’opera italiana, trascinando con sé il “partito dei filosofi”, gli illuministi, Voltaire, Diderot, etc. Grimm aveva preso posizione con un opuscolo satirico intitolato “Le petit Prophète de Boehmischbrda”.

Soldati - Entusiasta della Spagna del Mundial, “un mese indimenticabile”, ci scrisse sopra tanto da farne un libro, “Ah, il Mundial!”. Contento anche della compagnia, i “colleghi” giornalisti, Brera fra i tanti. Ma Brera, nei taccuini-diario che annotava giornalmente (ora nell’archivio della Fondazione Mondadori) del Mundial si lamenta : “Confessa la malinconia e la pioggia di Vigo e l’insofferenza per le serate con Mario Solfati”, riferisce sul “Venerdì di Repubblica”. Angelo Carotenuto, che i taccuini ha potuto consultare.
Al Mundial si portava appresso un bidet portatile – particolare che gli altri inviati non rimarcano, forse per timore reverenziale con l’inviato del “Corriere della sera”. Lo ricorda Roberto Perrone presentando “Tutti i racconti del Maresciallo”: “Siccome non era certo di trovarlo sempre, in tutti gli alberghi spagnoli che avrebbe dovuto cambiare, se l’era portato da casa”.

Tribalismo – È ben letterario in Italia, seppure non esclusivista, non razzista – oggi si dice suprematista. Nell’uso costante, studiato, dei dialetti – Porta, Belli, ma anche Bandello, Berni, Basile, Meli, Giusti, e ogni altro. Di Manzoni, prima che di Gadda. Di D’Arrigo, di Consolo, dei narratori sardi, prima di Camilleri. Narratori e poeti attenti alle differenze, alle forme inoffensive di tribalismo - oggi si direbbe comunitarismo.

Vedove-i – La scomparsa del genere nella narrativa è così spiegata da Camilla Baresani su “Io Donna”, presentando il suo ultimo romanzo, “Gelosia”: “Un tempo la durata della vita era minore: le donne morivano di parto, gli uomini in guerra. Si ricominciavano nuove vite costretti dai fatti. Ora ci sono tante possibilità di incontro per entrambi i sessi, al lavoro e nella vita”.

Viaggio – Mette a dura prove le amicizie, e anche le coppie, se a fini ludici, da turisti. Ma chissà “perché”, argomenta Soldati nei racconti del suo Maresciallo, “favorisce la confidenza, tra due amici e qualche volta persino tra due estranei. La solitudine forse; il sentirsi staccati e liberati dalle abitudini quotidiane; il pensiero che un giorno o l’altro lasceremo questa terra allo stesso modo che abbiamo lasciato, poche ore prima, il luogo di partenza qualunque esso sia e anche aborrito; un istintivo e involontario paragone del viaggio e della vita,  e il conseguente bisogno di non trattenere nessun segreto, come se i segreti, morendo con noi, potessero rendere più amara e più completa la nostra fine…”.  Il viaggio come una prova di morte, ordinaria, non traumatica.

Vino – In bottiglia etichettato non è più il vino che dichiara di essere, a giudizio perentorio di Mario Soldati, che se ne intendeva, già cinquant’anni fa, nei “Racconti del Maresciallo”, 1967: “Appena sopportabili, perfino in Piemonte, oggi, quasi tutti i vini in bottiglia etichettati”. È vero che il vino sfuso nei luoghi di produzione ha un altro sapore.
Nei “Nuovi racconti del M.”, 1984, Soldati spiega anche perché: il vino “nelle vasche di cemento? Refrigeratori, filtraggi, solfitaggi?”.

letterautore@antiit.eu

Vite klleggibili di qualitài

Gerda Taro, Robert Capa e altri belli ri-raccontati con sbuffi impressionistici, parecchio confusi. Da Buffalo, per moltiplicare l’effetto caleidoscopico, da Parigi, e da Roma. All’ennesima edizione, e premio Strega, ma illeggibile.
Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, pp. 335, ill. € 18

venerdì 13 settembre 2019

Il campionato dei buffi

La Juventus, il club di calcio più solido, chiuderà il 19 settembre il bilancio annuale al 30 giugno 2019 con un aumento del 50 per cento dei debiti in un anno, da 310 a 464 milioni. E con un patrimonio netto più che dimezzato, da 72 a 32 milioni, sempre in un anno. Un debito di poco inferiore ai ricavi operativi, al netto cioè delle plusvalenze (acquisto-cessione di calciatori), 500 milioni circa. In aumento di meno di un quarto rispetto ai 402 milioni dell’esercizio precedente. Ricavi che non permettono di pagare gli ingaggi, di una trentina di calciatori sopra o poco sotto, al loro di tasse e contributi, i dieci milioni l’anno – il club ha una trentina di calciatori, quasi tre squadre, di livello europeo, di cui sei-sette non saranno utilizzabili per la Champions League, alla quale se ne possono iscrivere solo 25.
Il solo Cristiano Ronaldo pesa sui ricavi della Juventus per 90 milioni l’anno. Di cui 28,75 come quota annua di ammortamento del costo di acquisto, 115 milioni, e 60 milioni l’esborso lordo per pagare un ingaggio netto annuo di 31 milioni. I campioni del calcio scelgono da un paio d’anni l’Italia perché vi si pagano gli ingaggi più alti – tolti un paio del campionato spagnolo, Messi e Neymar.
Buffi e eccedenze anche alla Roma. Che come la Juventus non ha potuto collocare altrove i calciatori non in rosa perché hanno ingaggi troppo alti per gli altri club europei. Del Milan si sa che non può operare sul mercato per gli eccessi debitori della passata stagione. Si vuole fare il campionato più bello del mondo, ma a debito.

A duello su Heidegger

Scomuniche tra filosofi. Non c’è invettiva che Sheehan risparmi a Emmanuel Fay, colpevole di avere ipotizzato un Heidegger filosofo integrale nazista. Per l’antisemitismo e non solo. Anzi, di più come analista e teorico dell’Essere e della istorialialità o storicità – l’“esistenzialismo”. Ma, dopo gli insulti, non c’è colpa che lo stesso Sheehan non addebiti a Heidegger. E siamo nel 2015, quando ancora solo due dei Quaderni Neri erano stati pubblicati.
Lo stesso Sheehan che di suo non è tenero neanche con l’edizione delle opere di Heidegger. Lamentando in dettaglio una cura editoriale disorganica e “parentale”già nel 1980, in un saggio sulla “New York Review of Books” del 4 dicembre, “Caveat Lector: the new Heidegger”, quando ancora solo una ventina di volumi dell’opera omnia, diretta ancora dallo stesso figlio-non figlio Hermann, erano apparsi. Un’edizione non critica, lamentava il filosofo americano, più che altro mirata al mercato. Come ultimamente si vede con la pubblicazione a sorpresa dei Quaderni Neri, i quaderni di appunti di Heidegger, più che altro mirati al succes de scandale. Come già con le lettere alla moglie, dai letti delle varie nobildonne con le quali celebrava le vacanze, anche di Natale. Un’edizione passata attraverso vari curatori, ma tutti più o meno occasionali.
Molto in effetti se ne può dire, di scarsa serietà. I tre volumi di lezioni su Nietzsche, si ricorderà, collazionati in italiano da Franco Volpi, hanno avuto in quattro anni tre curatori diversi. I Quaderni Neri vengono pubblicati senza nessun supporto, se non i riferimenti alla stessa opera omnia, nell’originale tedesco. “Note I” e “Note II non hanno datazione, nemeno approssimata del curatore, che vi accenna svogliato. “Note III” è datato 1946-47, ma si apre con un riferimento al quaderno successivo, “Note IV”. Più volte è questione della “Lettera sull’umanismo”, che però è del 1949 – è di prima, pubblicata da Beaufret in rivista nel 1946, e nel 1947 da Grassi-Szilasi in volume, rivista dallo stesso Heidegger, ma per Heidegger la sola è quella da lui stesso curate, in edizione a sé (Grassi-Szilasi la recavano in appendice alla riedizione del suo saggio su Platone e la verità), nel 1949.
Contro Faye, però, Sheehan sembra non avere dubbi: ha infangato Heidegger e tutta la filosofia. Solo che comincia col dire: “Quest’uomo, il più grande filosofo del Novecento, fu un imperturbabile antisemita. Fu anche un tenace sostenitore di Hitler e dei nazisti dal 1930 almeno fino al 1934, e un convinto fascista anche molto tempo dopo aver preso le distanze dal partito nazista. In particolare, i Quaderni Neri rivelano che Heidegger cercò di lavare e stirare il proprio antisemitismo attraverso la propria idiosincratica storia dell essere, la sua devolutiva narrazione sulla civiltà occidentale che si conclude con l’affermazione che la macchinazione, la terribile condizione del mondo attuale, sia ampiamente rappresentata dall’ebraismo mondiale”.
Non tutto Heidegger, continua a ragionare Sheehan, evidentemente è peste: “Il problema diventa allora come leggere la filosofia prodotta da Heidegger in più di sessant anni, dal 1912 al 1976. C’è qualcosa nei 102 volumi della sua Gesamtausgabe che non sia contaminato dall’antisemitismo o dal nazismo?” Sheehan vuole salvare “Essere e tempo”, che ha molto commentato, e molto insegnato, ogni paio d’anni, ai suoi corsi. Bene, ma non ha finito: “Osserviamo come Heidegger nei tardi anni Trenta abbia esplicitamente legato la sua precedente opzione per i nazisti alla sua teoria della storia: «Pensando in modo puramente metafisico (cioè in termini di storia dell essere), ho considerato il nazionalsocialismo negli anni dal 1930 al 1934 come la possibilità di transizione a un altro inizio, e questa è l’interpretazione che ne ho dato»”. Peggio ancora alla frase successiva: “Nello stesso senso Karl Löwith riferisce che Heidegger in una conversazione privata nel 1936 gli disse che la sua opzione per i nazisti era nata dalla sua dottrina della storicità (Geschichtlichkeit) formulata nel § 74 di «Essere e tempo». E nel 1947 Heidegger (parlando di sé in terza persona) affermò che egli aderiva esattamente a ciò che aveva scritto in «Essere e e tempo» quando nel 1933 aveva tentato di cogliere immediatamente un momento storico come una possibile occasione di una presa di coscienza complessiva dell’Occidente”.
Di che stiamo parlando, allora, Faye o non Faye? Che il nazismo, forse, non è morto. Non con Hitler, che forse non ne fu buona incarnazione?  
Il nazismo? Certo, absit iniuria verbis. Anche come movimento storico è liquidabile: fu solo vergogna - e poi non si autodistrusse? Ma Heidegger?

La sacralità forse non giova a Heidegger, un contemporaneo di cui tutto si sa, e più di tutto. Anche per opera sua: uno che si protestava montanaro e semplice, ma era un piccolo borghese in cerca d’avventura. Un traffichino. Un professore che si faceva le allieve. Un professore d’università.
In una lettera a Karl Löwith, uno dei primi allievi e quello che più apprezzava, il 19 agosto 1921, Heidegger scherza “non sono un filosofo”, a fronte di Nietzsche, Kierkegaard e Scheler. Per concludere serio di considerarsi “un Cristiano teo-logico!” E cioè, spiega, qualcuno che lavora filosoficamente su temi cristiani tipo l’epistola di san Paolo ai Tessalonicesi.
C’è molto da rivedere su Heidegger.
Thomas Sheehan, Emmanuel Faye: l’introduzione della frode nella filosofia, academia, pp. 34, free online 



giovedì 12 settembre 2019

L'11 settembre dell'Italia, o l'errore di Ciampi

Giorgio  La Malfa ricostruisce sul “Corriere della sera”, con Giovanni Farese, il “Settembre nero” della lira, nel 1992. O l’“11 Settembre” dell’Italia, non sanguinoso come quello che fa data in America, ma non meno funesto. Avendo avviato un venticinquennio, quasi un trentennio, di stagnazione economica, unico paese industrializzato – il Giappone ha sofferto una stagnazione ventennale ma è riuscito a venirne fuori.
La colpa fu della Germania, dicono in sostanza La Malfa e Farese. Il che è vero, ma per cose note. In sostanza una: la nessuna volontà della Bundesbank, molto germanica (rigida) in questo, di farsi coinvolgere in una stabilizzazione europea, il suo compito ritenendo limitato alla sola Germania, come se la Germania fosse un’isola, incontaminabile.
Il consiglio direttivo della Bundesbank a un certo punto decise di non sostenere più le monete europee sotto attacco da quattro mesi da parte della speculazione. Che si era scatenata dopo gli accordi di Maastruicht, prendendo gli obblighi dei trattati dell’euro come leve per scardinare il progetto di unione monetaria. A prova della decisione tedesca La Malfa e Farese portano la telefonata del presidente della Bundesbank Schlesinger al governatore della Banca d’Italia Ciampi, con l’annuncio della decisione, mentre Ciampi era in riunione a palazzo Chigi col presidente del consiglio Amato sui mezzi per arginare l’attacco speculativo. E la documentazione prodotta dallo storico dell’economia Harold James, di Princeton, nel 2012, “Making the European Momnetary Union”: la Bundesbank aveva notificato al cancelliere tedesco Schmidt la decisione, e Schmidt aveva dato ragione alla sua banca centrale, che si appellava agli statuti.
Ma il fatto centrale è un altro: l’attacco contro Maastricht fu sferrato perché i parametri erano chiaramente insostenibili per alcuni apesi, al primo posto l’Italia. Posto che l’Italia non aveva provveduto a consolidare (ridurre) il debito, come aveva fatto e stava facendo per esempio il Belgio, altro paese esposto sul fronte del debito pubblico, e non aveva il consolidamento in programma. E anche perché, per preparare l’adesione a Maastricht, la Banca d’Italia aveva nel corso del 1991 favorito un apprezzamento sostanzioso della lira nei confronti del marco – in teoria era più solida del marco. Una finzione insostenibile.  
È stato un duplice errore. Di Ciampi, e di Draghi, che negoziava l’euro. Entrambi puntati sull’adesione comunque a Maastrcht e all’euro, il cosiddetto “vincolo esterno” che avrebbe portato l’Italia, la politica italiana, sul sentiero virtuoso.
L’apprezzamento della lira a premio sul marco, che non era naturalmente sfuggito ai Soros della finanza, era stato rilevato anche giornalisticamente, sul settimanale “Il Mondo”, da Antonello Figà- Talamanca, per gli ottimi contatu che aveva nella stessa Banca d’Italia, con Fabrizio Saccomanni.
Sullo stesso settimanale Hans Tietmeyer, il cristiano-democratico e buon cattolico succeduto nel 1993 all’inflessibile socialdemocratico Schlesinger, consigliava due anni dopo l’Italia di optare per una pausa nella adesione alla moneta unica, sempre su “Il Mondo”, in un’estesa intervista con Stefano Eleuteri.
Inutilmente. L’errore di Ciampi governatore fu perpetuato successivamente da presidente del consiglio, e poi da Prodi nel 1996. Evitando ogni consolidamento del debito nell’attesa dell’entrata in vigore dell’euro, dieci anni dopo Maastricht. Un debito che, pur con i tassi bassi e bassissimi garantiti dall’euro, costa all’Italia ogni anno fra i 50 e i 60 miliardi. Di che svenare l’economia più solida. Dopo aver costretto a un perenne attivo di bilancio, attivo primario (al netto cioè degli interessi sul debito), ormai da veticinque anni. Quasi trenta: un lungo, lunghissimo, inverno dell’economia.
L’Italia è ancora viva per le energia profuse dalle sue imprese, ma quanto sudore e quanto sangue sprecati per un semplice errore di politica monetaria. Il consolidamento prima o poi va fatto, e allora perché non prima invece che dopo, cioè dopo aver speso (sprecato) centinaia e anzi migliaia di miliardi? Se un rubinetto perde in casa si ripara il prima possibile, e non dopo.   

Effetto Diderot

All’origine dell’“effetto Diderot”, questi “Rimpianti sopra la mia vecchia vestaglia” sono una lunga lettera a Caterina II  di Russia - un invio a pagamento, per giustificare la pensione di cui la zarina lo gratificava – estratta dal “salon”, la cronaca dell’esposizione che ogni due anni si teneva al Louvre sulla nuova produzione artistica, del 1767. In lode di Vernet, il pittore delle marine. Toglietemi pure tutto, dice e ripete Diderot, serio e faceto, ma non la marina di Vernet. Finita la lettura non resta nulla, eccetto appunto il cosiddetto “effetto” che ne ha derivato la psicologia sociale.
I “Rimpianti” sono qui assortiti da un lunghissimo panegirico del pittore, ottanta delle novanta pagine del libro, parte del “salon” successivo, del 1769: Vernet è pietra di paragone del bello. Su cui però Diderot non ha idee precise. Il bello è imitazione della natura. O, con con qualche ironia, una “creazione”: l’arte è rappresentazione o ri-creazione del mondo, la concorrenza che l’uomo fa a Dio, anche se con mezzi limitati. Ma di un bello che si direbbe brutto: è il disordine, il tenebroso, il terrore - il crimine è per questo aspetto migliore della virtù, ci emoziona di più, come il toro del bue.
Filosofo insomma anche qui per modo di dire: Diderot pensatore argomenta in forma di conversazione, alla maniera di Platone ma senza impegno, e anzi con distacco - ironia, ambiguità, sorriso. Con la scrittura vagante caratteristica, frammentata: incontri, associazioni di idee, mistificazioni, demistificazioni, molto spazio hanno anche i sogni, palesemente artefatti, e vcommenti a cascata, Un esercizio che si vorrebbe pedagogico del senso critico del lettore – ammesso che questi non si si smarrisca, se è partito dall’autorità dell’autore.
Nella prima, breve e più “classica”, conosciuta, memoria Diderot, 56 anni, si rappresenta nel suo studio, al quarto piano della rue Tarante, recente assertore della musica italiana contro quella francese, oltre che autore-editore della “Encyclopédie”. La seconda è una fuga dal Louvre, dove i “salons” si tenevano ad agosto. Diderot si racconta con Vernet al mare, in un castello tra le montagne in riva al mare. Che si vuole simbolico, ironicamente, autoironicamente, della “società illuminista” - dei “belli-e-buoni” del regno. Dove si discute sempre del bello.
I due scritti si rileggono come esemplari delle divagazioni che sono la letteratura di Diderot. A calco della natura, in evoluzione istante per istante, di forme, colori, ombre, tonalità. Un narrazione-discorso, metamorfica. Si parla di tutto: il gusto, il linguaggio, la fede, le leggi naturali e le leggi artificiali, la forza d’animo e la pusillanimità, la ragione e l’effusione, il “lusso” distruttore (qui contro il filone libertino, che il lusso invece vuole moltiplicatore di ricchezza), e contro il finalismo, un senso qualunque della vita. Non mancano la navigazione, le esecuzioni pubbliche – esemplari – e ogni altro pensiero che viene alla testa: la controversia tra gli Antichi e i Moderni, i sogni, l’apprendistato, la donna, giovane e vecchia, il desiderio, il dovere, l’amicizia, l’amore…
Due scritti che si vogliono “classici” ma di tonalità burlesca, al modo della trattazioni rinascimentali, all’italiana. In dialoghi immaginari, ora col solito abate, saggio e bigotto, ora qui anche con Melchiorre Grimm, l’editore che diffondeva Diderot e altri illuministi attraverso l’Europa, con la “Corrispondenza letteraria” che inviava, manoscritta, in ricco abbonamento a una ventina di principi illustri in Europa. Curiosi i molti riferimenti alla Bibbia, di uno scrittore che si proclamava ateo, forse ripresi dallo pseudo-Longino del trattato sul sublime, a cui Diderot si rifà, oppure dal collegio dei Gesuiti che aveva frequentato da ragazzo. 
Effetto Diderot è detto l’improvvisa obsolescenza degli oggetti d’uso, specie d’abbigliamento, a cui magari eravamo affezionatissimi, che quando compriamo qualcosa di nuovo ci cade dal cuore e vogliamo al più presto buttare. Quando madame Geofrin gli regala una sontuosa vestaglia scarlatta, Diderot non solo si disfa – si deve disfare – della vecchia vestaglia sua fedele ancella, ma scopre che ora è in animo a mano a mano di cambiare molti altri oggetti, cui pure era affenzionato fino a un momento prima del regalo – “Ero il padrone assoluto della mia vecchia vestaglia. E ora sono diventato lo schiavo della nuova”.
Una filosofia? Poi verrà Fromm, e sapremo che l’avere è essere, o viceversa. Ma forse solo da qualche tempo, da quando c’è il cosiddetto consumismo – da quando si fa il mercato, ormai da qualche millennio.
Diderot, Regrets sur ma vieille robe de chambre, suivi de la Promenade Vernet, Livre de Poche, pp. 96 € 2

mercoledì 11 settembre 2019

Problemi di base illuminati bis - 508

spock


“Sembrate buoni, ma guardatevi dall’esserlo” (Diderot?

“Non c’è azione che meriti la lode o il rimprovero; non c’è né vizio né virtù, niente che bisogni ricompensare o castigare” (Diderot)?

“L’incostanza è naturale” (Diderot)?

“Le azioni grandi e sublimi e i grandi crimini portano lo stesso carattere di energia” (Diderot)?

“La libertà è un pregiudizio” (Diderot)?

“Si scambia la volontà per libertà  – ma si può volere, da soli” (Diderot)? .

“Non vi dirò della libertà che una parola, è che l’ultima delle nostre azioni è l’effetto necessario di una causa unica: noi. Molto complicata, ma unica-Une” (Diderot)


spock@antiit.eu

L’Europa non dimentichi di essere europea

Una tesi semplice e una complessa – contestabile. Il “bisogno di nazione” Scruton spiega come un dovere più che un limite o una barriera. Con richiami incontestabili, a Kant e a Burke, e a T.S. Eliot. Un bisogno che non è nazionalismo - il britannico jingoismo che sembra riaffiorare con la Brexit. Le “chiamate alla Patria”, spiega beffardo, sono della Rivoluzione francese. Un dovere oggi si direbbe comunitario, verso noi stessi e verso gli altri. Verso gli europei in genere e verso l’Unione Europea. Che è minacciata anch’essa – il punto complesso – dalla burocrazia che si è data e alla quale si è consegnata.
Su questo secondo punto peraltro Scruton è tassativo: le burocrazie sono il nemico, la burocrazia europea è il nemico dell’Europa, e di ognuno in Europa, italiano o inglese o di qualsivoglia nazionalità. Essere se stessi, la propria storia, le proprie tradizioni (la lingua, gli usi) è l’unico modo di essere, e anche un dovere. Verso chi ci sta vicino, ci ha preceduto, e ci seguirà. Mentre “per definizione non ci può essere una democrazia transnazionale, e le leggi oggi imposte in Europa sono una caricatura della legge”. Peggio nel caso dell’Onu, “che dà credibilità ai tiranni e ai mafiosi – “nominò l’allora dittatore libico Gheddafi a capo della sua Commissione sui diritti umani”.
Scruton non si spiega il rifiuto di “essere” che serpeggia in Europa. Sotto forma di rifiuto dell’etnocentrismo, che però confluisce in una sorta di odio-di-sé, che chiama “oicofobia”, il ripudio della casa e del luogo natii. O anche “cultura del ripudio” – per la quale esisterebbe una “industria accademica”. Un atteggiamento intellettuale che trova sviluppato in Europa nel secondo dopoguerra, che porta a privilegiare memorie e esperienze altrui, e a vilificare le proprie.
In tempi di populismo inteso come nazionalismo, questo pamphlet del 2004 segnava un punto fermo: la nazione è una difesa e non un’aggressione. Sembrava. Perché poi Scruton, che è filosofo in cattedra ma anche romanziere, viticultore, cacciatore (per poter cacciare la volpe, proibito in Inghilterra, si è trasferito con la moglie negli Stati Uniti, in Virginia, “vecchia Inghilterra”) e polemista, si è posto in primo piano per la Brexit. Che non è una difesa ma una pretesa, al niente: si può essere aggrappati al niente.
Con una strana preveggenza a proposito della Turchia – dopo essersi dichiarato “turcofilo”. Si discuteva allora dell’entrata della Turchia nella Ue. Scruton la prospetta in chiave possibilista. Ma personalmente si dice contrario, perché col libero movimento delle persone altererebbe il mercato del lavoro. Il rigetto sarebbe però “un grande fallimento della Ue: un grande Paese che ne potrebbe fare parte viene rigettato, e potrebbe diventare un futuro nemico”.  

Roger Scruton, Il bisogno di nazione, Le Lettere, pp. 100 € 10

martedì 10 settembre 2019

Ombre - 478


“Ringrazio in particolare la stampa” dice Conte a Montecitorio al varo del suo governo 2. In effetti la stampa è molto filo-Conte. C’è un motivo?

Aveva fatto il discorso più lungo della storia repubblicana di presentazione di un nuovo governo alla Camera quindici mesi fa, ora lo allunga di un quarto, da 5.860 a 7.334 parole – “Start Magazine”. Ma niente di nuovo.

Una novità però questo il Conte nuovista l’ha stabilita: è stato candidato ed eletto in sede internazionale, prima che dal Parlamento, da Trump, Macron, Ursula von der Leyen (Merkel), e il papa argentino.

Si celebra a Bologna Daud Nassar, un agricoltore palestinese che ha fondato nel 1991 una Tenda della pace. Comune, Regione, Vescovo e Università. Ma Nassar è sotto assedio da trent’anni perché non vuole cedere i suoi terreni: i coloni israeliani gli hanno tagliato gli ulivi, il governo gli ha tolto la corrente e l’acqua. Che pace?

Sono esattamente 1.345 i giornalisti morti sui fronti di guerra dal 1992 a oggi. Censiti dal Committee to protect Journalists. Un numero enorme. Ma il Committee non dice che sono morti usi tutti nel mondo islamico, dalla Libia al Pakistan. Eccetto qualche decina in Messico, a opera dei cartelli della droga, e un paio in Russia, a opera del governi. Quasi tutti assassinati. Molti dopo esere stati tenuti a lungo prigionieri per contrattare riscatti non andati in porto (forniture militari per lo più).

Scrive bene Aboubakar Soumahoro, sociologo del lavoro e sindacalista di Base, sul “Sole 24 Ore”: “Nell’era della globalizzazione e del dumping sociale” non c’è Nord e Sud, non ci sono bianchi e neri, si lavora tutti poveramente, precari e\o a poco prezzo. Spiegando chiaro, come e perché, conciso, preciso, vero – unico neo quel nome alla francese, da (ex) colonizzato.
Il dumping sociale che nessuno vuole riconoscere, lasciandolo ai Trump: tutti globalisti, si vive di slogan.

L’Africa, con Soumahoro e senza,  c’è solo da conoscerla – strapparla al business dell’accoglienza, ong del mare per prime. Con l’Africa. non c’è nemmeno da salvarsi l’anima, ammesso che nell’accoglienza ci sia un barlume di buona coscienza, solo scoprirla.



Continua implacabile, quotidiana, assurdamente colpevolista, da parte di “la Repubblica” e il “Corriere della sera”, a due mesi dall’assassinio del maresciallo dei Carabinieri Cerciello d parte di due drogati, una campagna contro Cerciello e il suo collega Varriale. Con l’impegno delle Gtrandi Firme di nera – non sono andati nemmeno in vacanza per non perdere il colpo. Che gara è? Perché i giornali la ospitano?

Hillary Clinton va a Cernobbio e dice Savini “un politico divertente”. È una battuta ma viene imputata all’ex candidata che riuscì a perdere una sfida supervinta con uno sconosciuto grasso e vorace come Trump – non si perdona ai perdenti. Non si riflette che a Washington questa è l’Italia, “divertente” - abbaia ma non morde.

L’addetto stampa dell’ambasciata britannica a Roma deve scrivere al “Corriere della sera” per spiegare come e quanti italiani anglicizzati sono e rimarranno in Gran Bretagna malgrado la Brexit. Contro i soliti allarmi, rilanciati da Servegnini, commentatore a corto di argomenti.
L’addetto stampa britannico si chiama Pierluigi Puglia.

“ll risparmio dello spread servirà a tagliare le tasse”, grande titolo sul “Corriere della sera”. Assurdo: il “risparmio” dello spread, ammesso che ci sia, non arriverà a un miliardo, nel 2019-2020. Mentre il governo nelle prime 24 ore non ha fatto che annunciare nuove tasse. L’informazione come wishful thinking?

“Il primo scoglio, però”, si obietta il,”Corriere della sera”, “è trovare 23 miliardi per bloccare l’aumento del’Iva”. Già. E come si “trovano” i miliardi, scavando?

Mimo Cuticchio e Simonetta Agnello Hornby, chiacchierano di Palermo, su “La Lettura”, e di varia umanità. Cuticchio si professa per l’accoglienza, lui solo, generoso: “Io gente a mare non la lascerei mai”. Agnello Hornby, che è stata giudice a Londra, sa naturalmente che c’è un dovere internazionale del soccorso in mare, nel diritto della navigazione. Si limita a osservare: “Ma è mancata la collaborazione dell’Unione Europea, e poi c’è la grande fonte di guadagno dei centri di accoglienza”. La verità dell’accoglienza comincia a emerge, a fatica.

Agnello Hornby non ha molta esperienza dell’accoglienza ma ha capito: “Ne ho visitato uno  sconvolgente”, un centro d’accoglienza: “Una scuola abbandonata, senza pulizia, dove arrivava da mangiare nei sacchi”. Nessun giornalista italiano ne ha visitato uno? Si trovano a ogni angolo.

“Il ritiro da Kabul lascia l’Afghanistan ai terroristi”: dice la verità del fatto il generale Petraeus, un militare intellettuale che a 60 anni ha già comandato in Afghanistan, in Iraq, e alla Cia. Dice anche: “Trump non è un falco, è una colomba bellicosa”. Uno che fa bum con la bocca..

I Talebani che Trump va a incoronare non hanno avuto difficoltà sa dare ragione al generale. Hanno subito rapito e ucciso Abdel Samara Amiri, un hazara direttore della commissione Diritti Umani nel paese
,
“Per me è un onore che gli americani mi attacchino”, è la reazione istintiva alle critiche yanqui: il papa è ben argentino.

La famiglia fa bene all’azienda, non sempre

Il capitalismo familiare, creato cioè e gestito in famiglia, con qualche manager esterno ma senza capitali altrui, non perlomeno per quanto attiene al controllo dell’impresa, ha avuto e ha utili funzioni. Sotto tutti gli aspetti: della produttività, della crescita, e anche del volto umano del capitale.  
Colli, professore di Storia d’impresa alla Bocconi, è un cultore della materia. Questo intervento è un adattamento del saggio pubblicato nel 2002 a Cambridge, “The History of Family Business”, in copertina un Gianni Agnelli giovinetto col nonno di profilo di spalle, cappello alto e pipa. Ha poi recidivato, sempre a Cambridge, dodici anni dopo, con Paloma Fernàndez Pérez, con una raccolta sostanziosa di studi sull’argomento, “The Endurance of Family Businesses: A Global Overview”
L’arcaico famigliare del titolo sembra adombrare qualcosa di, magari stimabile, meritevole di nostalgia, ma vecchio e sorpassato. Mentre è più che mai attivo, spiega Colli, e anche stabile. Nell’impresa piccola e anche nella grande. In America e in Germania più che in Italia - dove è risentito, pro o contro, in quanto s’incarna nella famiglia Agnelli. Dell’Italia è però il vero capitale, l’iniziativa del piccolo e piccolissimo imprenditore che osa in proprio, per numero e qualità di iniziative.
Con un limite, però, che Colli non rileva. E meglio s’illustra con la foto di copertina dell’edizione angloamericana: la “famiglia” vuole remunerarsi, e questo può minare l’azienda.
Fiat ha prosperato con due manager esterni, col professor Valletta in guerra e dopo, e con Marchionne. Che hanno avuto mano libera perché l’azienda era in difficoltà gravi. Tra i due supermanager Gianni Agnelli, che gode di ammirazione unanime per altre doti personali, ma sul piano gestionale ha portato il gruppo in situazione fallimentare. Per dovere-volere soprattutto “fare il dividendo” ogni anno per la “famiglia”. Pochi o nulli gli investimenti nell’auto, soprattutto acquisti e cessioni, e fondi pubblici a vario titolo, con accumulo di plusvalenze per il dividendo. Con due soli nuovi modelli di auto in quarant’anni, “Panda” e “Uno” – poi “Punto”. A opera di un manager, Ghidella, licenziato per fare posto a Romiti, il manager pubblico-privato del “fare il bilancio”. Una Fiat attivissima nel mercato politico ma in perdita costante di posizioni in quello automobilistico. I segmenti E e D, i più profittevoli, dapprima, e poi a rischio anche quelli delle utilitarie.
Con due limiti, anzi. L’altro è che troppe aziende, anche brillantissime, cessano col fondatore, quando non cura una gestione che perpetui il suo brillante avvio. Borghi per esempio, Merloni, Laverda - la serie è innumerevole.
Andrea Colli, Capitalismo famigliare, Il Mulino, pp. 155 € 13

lunedì 9 settembre 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (402)

Giuseppe Leuzzi


“Comunque cambiamenti positivi ce ne sono stati anche a Palermo”, spiega Simonetta Agnello Hornby a Mimmo Cuticchio passeggiando per Palermo (di cui a “La Lettura” dell’8 settembre), “in Sicilia, soprattutto per quanto riguarda la condizione della donna, in certi casi anche rispetto all’Inghilterra, dove l’emancipazione è stata più lenta, più pigra”. Bisognerebbe portare i siciliani, gli italiani in genere, che (a parole) si autoflagellano, più spesso a Chiasso.

Si è decretato l’antiriciclaggio sul trasferimento di una somma pari a mille euro. Per far guadagnare qualche euro in più alle banche, ma non solo. Una giovane ne svela l’arbitrio in una lettera a “la Repubblica”. Avendo depositato in banca - depositato, non incassato - un assegno di 1.500 euro, regalo del nonno per i diciott’anni, la banca non ha eccepito. Salvo comunicare l’“anomalia” al Tesoro, che inflessibile pronto l’ha multata di 300 e rotti euro.
Non meraviglia. La droga, le mafie, il riciclaggio sono più spesso una copertura, per spillare qualche soldo e rendere amara la vita. Contro le mafie basterebbero i Carabinieri, se distolti dal traffico stradale.

Navigazione al Sud
Un posto di primo piano al Sud, in questo governo centro-meridionale che è il Conte 2, non rilevato da questo sito nella lettera semiseria “Il governo dei predestinati”, è del consigliere della ministra del Lavoro, il professore Domenico Parisi, “Mimmo” – che Aldo Grasso segnala in un gustoso “Padiglione Italia” domenica sul “Corriere della sera”. Professore nel Mississippi, lo stato più povero degli Usa. Dove ha inventato i navigator, per trovare lavoro ai disoccupati. Che non hanno alleviato la disoccupazione nel Mississippi.  Come ora in Italia, dove i navigator sono gli unici che hanno un posto – non tutti: in Campania De Luca si rifiuta di assumere precari, e sono una sessantina. Precari ma, dice il professore, benvenuti: “Potremmo stabilizzarli tutti. Sarebbe già un piano eccellente”.
Parisi esercita in Italia, richiamato da Di Maio quando era vice-capo del governo, alla presidenza dell’Anpal, Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro. Il tipico “ente inutile” della Prima Repubblica.
Le “politiche attive” Parisi ha condensato in una app, Mississippi Works. Che finora non ha prodotto un solo risultato. “L’app miracolosa era stata presentata all’Auditorium di Roma e sembrava di essere nel film «The Blues Brothers»”, scrive Grasso. L’incontro con Parisi era stato detto da Di Maio “un atto voluto da Dio”.
Di Maio è di Pomigliano d’Arco, Parisi di Ostuni. 
Parisi fu presentato da Di Maio all'Auditorium di Roma come “italo-pugliese”. Ma le gaffes non contano più ormai, al tempo della rete. Il problema è che il Sud non ha altre politiche né figure politiche se non ignoranti e imbonitrici. 

Sudismi\sadismi
“La nostra identità vera di noi italiani, noi cristiani, è quella della gente che in Calabria si è tuffata in mare per salvare dei naufraghi”. Lo dice al “Corriere della sera” in grande il neo cardinale Zuppi,  romano, vescovo di Bologna. In Calabria non si è saputo – le cronache in Calabria sono delle Procure antimafia, in nobile gara, non di assalto. Ma non solo in Calabria, non fosse stato per il cardinale.
Apre i tg e occupa le prime pagine invece la coppia di Cosenza che ha picchiato un bambino marocchino, di tre anni, perché si era avvicinato al carrozzino del loro bimbo. Una coppia ventenne di immaturi, che dopo il calcio è scappata, per sfuggire all’ira dei passanti. Una coppia di pensionati di Stato, mantenuti sotto copertura a Cosenza perché parenti di un pentito di camorra.
Di questo però non si dice, non a Rai 1 o al Tg 5 o 24, ma nemmeno tra le brevi dei giornali. Perché il pentito è sacro? No, perché il Sud o è violento o non è.

“La mafia è elegante e profumata”, così Letizia Battaglia a Venezia per presentare il film di cui è protagonista, “La mafia non è più quella di una volta” - che peraltro disapprova: “I figli dei mafiosi studiano in Svizzera. Hanno un vantaggio, riciclando il denaro di chi si droga. Sono diventati borghesi”. Contro il volere, certo, di Battaglia, nonché del regista, Marenco, come di ogni altro, ma sul principio che munus non olet, il denaro non puzza.
Questo è inevitabile, che i ladroni di oggi diventino i baroni di domani. Lo spiegano ampiamete l’America del secondo Ottocento, dei robber barrons, la Francia napoleonica, i vecchi cavalieri del Brandeburgo, che faranno grande la Prussia, gli strozzini che presiedevano alle fiere (mercati) del Due-Trecento, specialità italiana, lombarda, toscana, e saranno principi e condottieri. Per le mafie è diverso, perché sono un paradigma: tutto ciò che di male avviene in Sicilia – in Calabria, a Napoli - è mafia. Mentre non lo è – nei romanzi di Montalbano come nella realtà. 
Il viceversa è pure vero. Ha provato Battaglia a Milano? A Barcellona, a Amsterdam, con tutto il liberismo. Anche a Londra, per non dire New York?

La sindrome Rosarno
La notte del 14 agosto un gruppo di africani ubriachi e probabilmente drogati mena fendenti tra la folla a passeggio sul lungomare di San Ferdinando, accanendosi su una famiglia di una ventina di persone, tra cugini, nonni e nipotini, nella quale si è imbattuto per caso. Subito il vice-sindaco di San Ferdinando Luca Gaetano accusa i rosarnesi – San Ferdinando è l’ex frazione a mare di Rosarno – di avere praticato la caccia al nero. Cosa non vera, che gli è stata poi contestata dai feriti. Ma il fatto è che Rosarno non ha mai praticato o minacciato la caccia al nero.
Rosarno ha sempre votato a sinistra, il solo Comune in tutta la Calabria – eccetto a una sola elezione, per due anni. Ospita, ora trasferita in territorio di San Ferdinando, una tendopoli di africani, che si popola soprattutto d’inverno, per la raccolta degli agrumi. In condizioni non rispettabili, ma non peggiori di altre tendopoli in altri luoghi in Italia. 
La famosa manifestazione di africani che ha bollato Rosarno come capitale dello sfruttamento si fece perché nella tendopoli si erano sindacalizzati alcuni immigrati. Col sostegno e il patrocinio della Camera del lavoro di Rosarno, l’organizzazione locale della Cgil. Per la Befana del 2010, un anno abbondante prima della manifestazione di immigrati di Nardò, passata alla storia - e al cavalierato della Repubblica col suo organizzatore Yvan Sagnet, un camerunese ingegnere del Politecnico d Torino - nell'agosto 2011.  

Napoli
 “Solo nell’ultimo anno tentato furto e tentata rapina a mio fratello Roberto”, lamenta Giovanni De Giovanni, figlio primogenito del giallista Maurizio: “Un furto nella mia casa a Posiliipo. E due furti di ciclomotore a mio padre Maurizio, l’ultimo stamani, con devastazione di una saracinesca”. Il furto è sempre materia di Napoli, con destrezza e anche con violenza. Anche l’impunità.

La famiglia De Giovanni di Oslo si sarebbe incazzata, molto. Con effetti. Anche una di Milano, o di Torino.

Si gira per Napoli e dintorni, se in macchina, tra sorrisi intesi, dei portieri d’albergo, dei garagisti, degli addetti ai musei e ai siti archeologici, degli ambulanti con le bancarelle, dei ristoratori – gli stessi che provvedono a recintare con catene il parcheggio del loro esercizio. Intendono: sei un cretino, quando te la prendono? E hanno ragione. Ma come fanno a sapere?

Come fanno i ladri di Napoli a sapere che quella macchina è forestiera, di un forestiero, quindi da rubare assolutamente, impunemente? Dai portieri d’albergo, dai garagisti, dai guardiani delle Belle Arti, dai ristoratori, dagli ambulanti?
Ma quanti ladri ci saranno a Napoli?

A Santa Maria Capua Vetere la visita all’Anfiteatro Campano finisce presto, tanto evidenti sono i segni di eccitazione dei passeggiatori pomeridiani, dei ragazzi con cane, delle signore sedute all’ombra sulle panchine. Si è arrivati con la macchina. Parcheggiata per bene, ma pur sempre una macchina, di un forestiero.
C’è un marchio del forestiero a Napoli? Forse no, se Di Giovanni si lamenta, lui è ben napoletano. Ma del turista probabilmente sì.

Si può andare a Napoli per turismo solo in gruppo? Anche da soli, muovendosi in tassì - ma con pochi soldi in portafoglio, consiglia il portiere.
Un turismo in tassì forse non è male, qualcosa bisogna inventarsi contro il turismo di massa. Ma dappertutto a Napoli s’incontrano poi le folle.   

Si arriva a Salerno, da Sud e da Nord, nella provincia di Salerno, e tutto cambia, pulito, preciso, tranquillo. Da Positano a Sapri, con la Eboli famigerata, e col Cilento, e con la certosa rediviva di Padula.
Si dice Napoli e si intende un mondo. Mentre è Napoli, circoscritta, dai Campi Flegrei a Portici. L’Irpinia è un altro mondo. Il salernitano, regione estesissima, pure. O il casertano, cui Napoli suole addebitare i suoi dolori, terra civile di Lavoro – Benevento è un altro mondo, teutonico.  

Si dimentica che Napoli è una città che era metropoli, incontrollabile come tutte le metropoli, già nel Sei-Settecento, molto prima che le città italiane crescessero e si conformassero, Roma, Milano, e tale è rimasta anche ora che è in serie B. Sempre industre e abile, ingegnosa, rapida, multitasking, e piena di dannati. Ora  che nessuno più li confronta, se non si autodenunciano alle videocamere – i Carabinieri aggiornano le statistiche, i Procuratori della Repubblica s’illustrano a Milano e a Reggio Calabria.

Napoli è la più piccola delle grandi città italiane, appena 120 kmq – contro i 182 di Milano, che però è di fatto il doppio, essendo un vero territorio metropolitano, in conurbazione (strade, metro) con le cittadine-periferia, e Roma, 1.285 kmq. Ma è la più popolosa. E la più radicata. La meno esposta cioè alla misgenation, alle immigrazioni, che invece sono gran parte di Milano e Roma: nuove generazioni, alla ricerca di integrazione, invece che dissolutorie. La delittuosità, parte di essa, non deriverà dall’inbreeding?
Napoli di direbbe una metropoli chiusa, campanilistica.

Napoli stessa è compiacente, più che succube, con la delinquenza urbana - borsaioli, ladri, ladri d’auto, spacciatori, camorristi? Per esperienza si direbbe di sì. Ma deve essere anche vera la tradizione di Napoli nobilissima, inventata non può essere.

De Luca, il presidente della Regione Campania, non vuole i “navigatori” di De Maio. Forse per un puntiglio politico, che quindi cadrà col governo che il suo partito ha ora fatto con lo stesso Di Maio. Ma è di grande logica, che è perfidia: “Siamo contro lo sfruttamento del lavoro”, lamenta, “contro il precariato”. Ineccepibile: i “navigatori” di De Maio sono a contratto, breve.
L’effetto però è che i “navigatori” prendono lo stipendio, sia pure precario, senza dover “lavorare”. Non cè una logica nella logica?

C’è ancora molta industria manifatturiera in Campania, anche alla periferia di Napoli, malgrado lo smantellamento della siderurgia e delle attività collegate. A Pozzuoli, Pomigliamo d’Arco, Pratola Serra, Marcianise, Nola, con l’aerospazio e la difesa. Per le qualità che Sohn-Rethel ha indagato e spiegato: abilità e applicazione – senso anche dell’economia, del risparmio, in armonia con l’ideologia odierna del riuso, benché con criteri bizzarri. C’è anche molta ingegnosità di marketing. E molta qualità, specie per i consumi deperibili\rinnovabili: cibo, abbigliamento, arredamento. E nella paesaggistica – architettura, giardini – nel rispetto perfino della natura. Ci sono i ladri e c’è che crea e fa. Due mondi paralleli, l’uno non influenza l’altro.

leuzzi@antiit.eu

Come nacque Bukowski


Bukowski poeta underground, impiegato alle Poste, scommettitore quasi professionale agli ippodromi, bevitore incontinente, di un six-pack di birre a notte, grandi, più liquori di ogni tipo, scannatore anche incontinente, di conviventi e occasionali,  giovani e meno giovani, purché prosperose, ce lo racconta. Perché una mattina si sveglia e cambia vita: “Alla mattina era mattina e io ero ancora vivo.
Magari scrivo un romanzo, pensai.
E lo scrissi”.
Siam a Los Angeles. Ci sono stati i Watts Riots dei quartieri neri della città, finiti sotto coprifuoco, di barricate, fuochi, devastazioni, ruberie, decine di morti, e Chimaski-Bukowski niente. C’è stato l 1968, che in California fu il 1967, e lui niente. Il 12 marzo 1969 si dimette. Per un po’ non sa che fare, dopo “sette o otto feste selvage”, tra medici stregoni e bei figli dei fiori, dino al risveglio. Il romanzo è in libreria subito dopo, nel 1971.
 Questo primo Bukowski è già quello che diventerà, ma ancora in tono minore: un racconto di coppie, anche matrimoniali, e sbattimenti casuali, di sbronze, scommesse, multe a iosa, arresti perfino, per ubriachezza molesta, e soperchierie al lavoro, a Los Angeles, una disperazione la città dispersiva, da postino prima e poi da addetto allo smistamento. Un maledettismo da liceali, teen-ager. Che palle! penserà il lettore del Bukowski trasgressivo, ma è quello che il Bukowski vero ha fatto, per quindici anni, a due riprese, fino a che ne ebbe cinquanta. Scriveva poesie, in numero incalcolabile, e racconti, per le rivistine underground, per lo più al ciclostilo. Poi puntò al romanzo: questo.
Un’autobiografia senza fiocchi, pedestre - realista. Il suo alter ego, Hank Chivaski, fa quello che Bukowski ha fatto. Beve, ogni notte, scommette, e scopa, anche controvoglia – “Dio o chi per lui continua a creare donne, e le getta così per strada”.Si sposa con una bella ragazza texana, che liquida come riccastra – era una poetessa folk. Fa una figlia con una hippie pacifista, grigia e vecchia, di spirito, che se ne va con la figlia in una comune. Seppellisce con lacrime vere la compagna di letto “Betty”, scoppiata coi liquori forti. Fa il postino e l’addetto alla raccolta, poi l’addetto allo smistamento. Riceve in continuo ammonizioni scritte, sia il sovrintendente italian, o nero, o latino, o wasp. Ma si legge d’un fiato: non s’immaginerebbe  che la vita alle Poste sia così attraente.
Il maledettismo, il genere su cui Bukowski narratore ha puntato, è in America farfallone e mai disperato – già nei beatnick, a ripensarci, Ginsberg, Kerouac. Climaski-Bukowski è uno che alle corse vince sempre – non sempre, tre puntate su cinque, due, ma non ce lo fa pesare. Si diverte malgrado tutto, anche l’ulcera e il rischio di cirrosi, e diverte. Oppure si può mettere così: le letlere americane, ormai forti in ogni genere, erano deboli nel maladettismo, giusto un po’ di Henry Miller, atteggiato, gli hippies erano anche loro figli d mamma, malgrado le droghe e il pansessualismo, e Bukowski ha aperto la strada.
Charles Bukowski, Post Office, Tea, remainders, pp. € 3,75

domenica 8 settembre 2019

L’Europa soffre di male tedesco

Si parla di Europa ma è la Germania. Mattarella benedice il suo governo con un appello alla revisione del patto di stabilità e lo indirizza a Bruxelles: indirizzo sbagliato – e lo sa. L’Europa non è una federazione e nemmeno una confederazione. Non è nulla – la Commissione è di burocrati. L’Europa è un gruppo di buona volontà, che si è dato trattati vincolanti solo dove e come la Germania li ha voluti E li applica come la Germania dice.
Questa non è un’esagerazione, è la realtà. La Bce, uno degli organismi che la Germania ha voluto, in copia conforme della sua Bundesbank, le ha tentate tutte con Draghi per tirare l’Europa fuori dalla stagnazione, unica grande area economica mondiale che non riesce a emergere dopo il crac del 2007. Non c’è riuscito, e ora, atto finale del sua gestione, pensa all’“helicopter money”, a stampare carta moneta a gogò per banche, imprese e anche consumatori – “helicopter money” sono gli 80 euro di Renzi. Sperando in una scossa. Non si farà, perché Berlino ha già dato un no preventivo, ma non avrebbe successo. Non finché le politiche della Germania non cambiano. In Germania, per decisione autonoma. Come è di tutta la costruzione europea dopo la riunificazione della Germania, finita la paura dei “Russi a Berlino”.
Si vuole la Ue una costruzione autonoma. Non lo è, non più, da molto tempo ormai. Non è una federazione. Le federazioni sono stabili e funzionano, ma sono poche: Svizzera, Usa, Canada, Australia, e la la Repubblica Federale rinata a Bonn. L’Europa non è nemmeno una confederazione, una federazione con legami allentati – la Svizzera è confederazione all’anagrafe ma federazione di fatto. Non ha un aspetto istituzionale definito, non in qualche misura unitario.  Non lo definiva nemmeno la Costituzione, il progetto di Costituzione, cui pure avevano lavorato, a lungo, le menti migliori del continente – che poi la Francia ha subito bocciato. Ognuno dei 28 o 27 membri ha diritto di veto: cioè, l’Europa non esiste.
C’è, in teoria un asse di governo, tra Francia e Germania. Che però non si è mai visto all’opera. Di fatto governa la Germania: con maggioranze variabili, ma solo per generosità. Un solido blocco germanico garantisce comunque Berlino: Benelux, Scandinavia, Baltico, Austria, e l’ex Est Europa (Slovacchia, Slovenia, Croazia, Romania, Ungheria, Polonia, a tratti la Repubblica Ceca, e le propaggini che si vorrebbero inserire, Ucraina e Bosnia). L’ultimo tentativo di allentare il dominio tedesco sull’Est risale a De Michelis, figurarsi, a quasi trent’anni f a:
In questa gestione molto opaca della Germania di Merkel – non si sottolinea abbastanza che è la Germania di Merkel, la cancelliera bizzarramente gode in Italia di molto più prestigio che in patria, unanime o quasi (in generale la Germania gode di migliore considerazione in Italia che nella stessa Germania) - e anzi cieca, l’Europa è l’unica grande area economica in stagnazione, ormai da dodici anni. Gli italiani sono bombardati da notizie di crisi e ristagni in Cina e negli Usa, dove però le economie crescono di oltre il 6 e il 3 per cento l’anno, rispettivamente. Mentre l’Europa si trascina fra lo 0 e l’1 per cento – con la Germania talvolta al 2 e l’Italia a meno qualcosa. Un continente senza strategia, se non l’attendismo di Merkel, “troppo poco troppo tardi” - una che vivacchia si direbbe, oggi, “alla Conte”, ora con la destra ora con la sinistra. Senza mai un ripensamento, una strategia, un pensiero forte, un’idea qualsiasi. Eccetto l’esercizio del potere, stretto. Direttamente e attraverso i quisling dichiarati a Bruxelles, i Katainen, i Djisselbloem, gli spagnoli, gli orientali.